DEC 18 1:49 PM
It’s now generally accepted that Trumpism will finally involve the kind of fiscal stimulus progressive economists have been pleading for ever since the financial crisis. After all, Republicans are deeply worried about budget deficits when a Democrat is in the White House, but suddenly become fiscal doves when in control. And there really is no question that the deficit will go up.
But will this actually amount to fiscal stimulus? Right now it looks as if Republicans are going to ram through their whole agenda, including an end to Obamacare, privatizing Medicare and block-granting Medicaid, sharp cuts to food stamps, and so on. These are spending cuts, which will reduce the disposable income of lower- and middle-class Americans even as tax cuts raise the income of the wealthy. Given the sharp distributional changes, looking just at the budget deficit may be a poor guide to the macroeconomic impact.
Given the extent to which things are in flux, I can’t put numbers on what’s likely to happen. But I was able to find matching analyses by the good folks at CBPP of tax and spending cuts in Paul Ryan’s 2014 budget, which may be a useful model of things to come.
If you leave out the magic asterisks — closing of unspecified tax loopholes — that budget was a deficit-hiker: $5.7 trillion in tax cuts over 10 years, versus $5 trillion in spending cuts. The spending cuts involved cuts in discretionary spending plus huge cuts in programs that serve the poor and middle class; the tax cuts were, of course, very targeted on high incomes.
The pluses and minuses here would have quite different effects on demand. Cutting taxes on high incomes probably has a low multiplier: the wealthy are unlikely to be cash-constrained, and will save a large part of their windfall. Cutting discretionary spending has a large multiplier, because it directly cuts government purchases of goods and services; cutting programs for the poor probably has a pretty high multiplier too, because it reduces the income of many people who are living more or less hand to mouth.
Taking all this into account, that old Ryan plan would almost surely have been contractionary, not expansionary.
Will Trumponomics be any different? It would matter if there really were a large infrastructure push, but that’s becoming ever less plausible. There will be big tax cuts at the top, but as I said, the push to dismantle the safety net definitely seems to be on. Put it all together, and it’s extremely doubtful whether we’re talking about net fiscal stimulus.
Now, you might think that someone will explain this to Trump, and that he’ll demand a more Keynesian plan. But I have two words for you: Larry Kudlow.
La politica della finanza pubblica sarà realmente espansiva?
Adesso è generalmente condiviso che il Trumpismo alla fine riguarderà quel genere di stimolo che gli economisti progressisti hanno implorato sin dalla crisi finanziaria. Dopo tutto, i repubblicani sono profondamente preoccupati dei deficit di bilancio quando un democratico è alla Casa Bianca, ma quando sono al potere diventano improvvisamente colombe. E in realtà non c’è dubbio che il deficit salirà.
Ma questo corrisponde effettivamente ad uno stimolo della finanza pubblica? In questo momento sembra che i repubblicani siano intenzionati a spingere su tutto il loro programma, inclusa la fine della legge sanitaria di Obama, la privatizzazione di Medicare e il finanziamento a fondo perduto di Medicaid [1], bruschi tagli agli aiuti alimentari, e via dicendo. Questi sono tagli di spesa, che ridurranno il reddito a disposizione per gli americani delle classi più povere e medie, anche se gli sgravi fiscali eleveranno il reddito dei ricchi. Dati i duri cambiamenti redistributivi, guardare solo al deficit di bilancio per l’impatto economico, può essere una guida modesta.
Data la misura nella quale le cose sono in divenire, non posso dare cifre probabili. Ma, grazie agli ottimi individui del CBPP [2], ho potuto comparare le analisi sulle tasse e sui tagli alla spesa nella proposta di bilancio per il 2014 di Paul Ryan, che può essere un modello utile su ciò che si prepara.
Se togliete i ‘magici asterischi’ [3] – la chiusura di non specificate elusioni fiscali – quel bilancio era un ‘escursionista’ del deficit: 5.700 miliardi di dollari di sgravi fiscali in dieci anni, contro 5.000 miliardi di dollari di tagli alle spese. I tagli alle spese riguardavano spese discrezionali in aggiunta a vasti tagli nei programmi utili ai poveri ed alle classi medie; gli sgravi fiscali, ovviamente, erano soprattutto mirati sui redditi alti.
Le aggiunte e le riduzioni in quel caso avrebbero avuto effetti abbastanza diversi sulla domanda. Tagliare le tasse sui redditi alti probabilmente ha un basso moltiplicatore; è improbabile che i ricchi abbiano limiti di contante, e risparmieranno una gran parte dei loro guadagni inattesi. Tagliare la spesa discrezionale ha un moltiplicatore elevato [4], giacché taglia direttamente acquisti statali di beni e servizi; anche tagliare i programmi per i poveri ha probabilmente un moltiplicatore abbastanza alto, perché riduce i redditi di molte persone che stanno vivendo più o meno alla giornata.
Mettendo tutto nel conto, quel vecchio programma di Ryan quasi sicuramente sarebbe stato restrittivo, non espansivo.
Sarà diversa la politica economica di Trump? Sarebbe importante se ci fosse realmente una ampia spinta sulle infrastrutture, ma sta diventando sempre meno plausibile. Ci saranno grandi sgravi fiscali al vertice ma, come ho detto, la spinta per smantellare le reti della sicurezza sociale pare ci sia con certezza. Mettete tutto assieme, ed è assolutamente dubbio che si stia ragionando di uno stimolo della finanza pubblica.
Ora, potreste ritenere che qualcuno spiegherà tutto questo a Trump, e che egli chiederà un piano più keynesiano. Nel qual caso ho due paroline per voi: Larry Kudlow [5].
[1] Finanziamento a fondo perduto significa, come è abbastanza noto, “un intervento finanziario caratterizzato dall’erogazione di un capitale del quale non si richiederà la restituzione. Ove accomunato, anche solo per i contesti di riferimento, ad interventi di finanziamento o di prestito (in genere ad interesse), si differenzia da questi poiché non solo il beneficiario non è tenuto alla corresponsione di interessi, ma può addirittura ritenere integralmente lo stesso capitale (fondo) erogatogli, che dunque l’erogante metterà a bilancio come perduto“. (Wikipedia)
WordReference–English Definition lo precisa come “Una concessione consolidata di fondi federali, originariamente allocata per programmi specifici, che un Governo Statale o locale può usare a sua discrezione per programmi come l’istruzione o lo sviluppo urbano”.
Sembra di capire che la proposta repubblicana per Medicaid, ovvero per il programma assistenziale sanitario per le persone indigenti, avrebbe il senso di trasformare un programma definitivo, con una struttura finanziaria precisa e reiterata nel tempo, in un contenitore di interventi straordinari dipendenti da determinazioni variabili nel tempo.
[2] Sta per Center on Budget and Policy Priorities (Centro per il Bilancio e le Priorità programmatiche).
[3] Nelle sue proposte di Bilancio, Ryan utilizzava abbondantemente il metodo del rinvio nella determinazione di miracolosi risparmi ad asterischi che non spiegavano niente.
[4] In questo caso in moltiplicatore negativo, ovviamente.
[5] Commentatore, personaggio televisivo ed analista economico della destra. Pare che sia in corso di nomina come Presidente del Consiglio dei Consulenti economici, un caso unico per quella carica, considerato che per la prima volta si tratterebbe di un Presidente sprovvisto di una laurea in Economia. La nomina viene considerata il segno di un ritorno in grande stile alla ‘politica economica dal lato dell’offerta’. (Atlantic)
dicembre 20, 2016
DEC 17 10:24 AM
Brad DeLong has an interesting meditation on markets and political demands — inspired by a note from Noah Smith — that offers food for thought. I wonder, however, if Brad’s discussion is too abstract; and I also wonder whether it fully recognizes the disconnect between what Trump voters think they want and reality. So, an entry of my own.
What Brad is getting at is the widespread belief by, well, almost everyone that they are entitled to — have earned — whatever good hand they have been dealt by the market economy. This is reflected in the more or less universal belief of the affluent that they deserve what they have; you could see this in the rage of rentiers at low interest rates, because it’s the Fed’s job to reward savers, right? In this terrible political year, the story was in part one of people in Appalachia angrily demanding a return of the good jobs they used to have mining coal — even though the world doesn’t want more coal given fracking, and it can get the coal it still wants from strip mines and mountaintop removal, which don’t employ many people.
And what Brad is saying, I think, is that what those longing for the return to coal want is those jobs they deserve, where they earn their money — not government handouts, no sir.
A fact-constrained candidate wouldn’t have been able to promise such people what they want; Trump, of course, had no problem.
But is that really all there is? Working-class Trump voters do, in fact, receive a lot of government handouts — they’re almost totally dependent on Social Security for retirement, Medicare for health care when old, are quite dependent on food stamps, and many have recently received coverage from Obamacare. Quite a few receive disability payments too. They don’t want those benefits to go away. But they managed to convince themselves (with a lot of help from Fox News etc) that they aren’t really beneficiaries of government programs, or that they’re not getting the “good welfare”, which only goes to Those People.
And you can really see this in the regional patterns. California is an affluent state, a heavy net contributor to the federal budget; it went 2-1 Clinton. West Virginia is poor and a huge net recipient of federal aid; it went 2 1/2-1 Trump.
I don’t think any kind of economic analysis can explain this. It has to be about culture and, as always, race.
Cosa vogliono gli elettori di Trump?
Brad DeLong pubblica una interessante riflessione sui mercati e sulle richieste della politica – ispirata da una nota di Noah Smith – che offre materia per il pensare. Ho l’impressione, tuttavia, che il discorso di Brad sia troppo astratto; e mi chiedo anche se esso riconosca pienamente il divario tra quello che gli elettori di Trump pensano di volere e la realtà. Dunque, un mio contributo.
Quello che Brad vuol ribadire è il convincimento generale da parte, diciamo pure, di quasi tutti di avere il diritto – di esserselo guadagnato – a ricevere qualsiasi buona opportunità dall’economia di mercato. Questo si riflette nel convincimento più o meno universale dei benestanti di meritare quello che hanno; in questo potreste scorgere la rabbia dei redditieri per i bassi tassi di interesse, giacché sarebbe compito della Fed premiare i risparmiatori, non è così? In quest’anno politicamente terribile, questa è stata in parte la storia della gente negli Appalachi, che chiede di riavere i buoni posti di lavoro a cui era abituata nelle miniere di carbone – anche se il mondo, con la fratturazione degli scisti, non vuole più carbone, e può avere il carbone che vuole ancora dalle miniere a cielo aperto e dalla rimozione delle cime delle montagne, che non occupano molte persone.
E quello che Brad sta dicendo, penso, è che quello che vogliono coloro che desiderano il ritorno al carbone sono quei posti di lavoro che meritano, dove guadagnano soldi, non l’elemosina dei Governi, nossignori.
Un candidato costretto a stare ai fatti non sarebbe stato capace di promettere a quelle persone quello che vogliono; Trump, ovviamente, non aveva problemi.
Ma è realmente tutto qua? Gli elettori di Trump della classe lavoratrice, di fatto, ricevono molta assistenza da parte del Governo – sono quasi totalmente dipendenti dalla Previdenza Sociale per le pensioni, da Medicare per l’assistenza sanitaria quando sono vecchi, sono abbastanza dipendenti dagli aiuti alimentari e molti hanno di recente ricevuto la copertura assistenziale dalla legge di Obama. Ma essi si sono sforzati di convincersi (con un bel po’ di aiuto da parte di Fox News e di altri) di non essere i reali beneficiari dei programmi del Governo, oppure di non essere loro coloro che ricevono la “assistenza buona”, che va soltanto a Quella Gente [1].
E nei modelli regionali si può, in effetti, vedere tutto questo. La California è uno Stato ricco, un contributore netto di peso al bilancio federale; ha votato per la Clinton 2 contro 1. Il West Virginia è povero e un ampio beneficiario netto dell’aiuto federale; ha votato 2 a 1 per Trump.
Io penso che nessuna analisi economica lo possa spiegare. Ha a che fare con la cultura e, come sempre, con la razza.
[1] Ovvero alle minoranze etniche, alla gente di colore.
dicembre 15, 2016
DEC 14 3:26 PM
So the Fed has raised rates. It was, I’d argue, a mistake, although not as severe a mistake as it would have been a year ago. Anyway, it seems like a good time to review where I think the economy stands, and what it means for monetary and fiscal policy.
At this point, the evidence does suggest that we’re close to full employment. It’s not so much the headline unemployment rate, which is questionable given low labor force participation. But wage growth has accelerated, and the quit rate is back more or less to pre-crisis levels, suggesting that workers feel pretty good about job prospects.
Does this mean that the case for easy monetary and fiscal policies is over? No, but it’s subtler now: it hinges mainly on the precautionary motive. Right now the economy looks OK, but things may change. Of course they could get better, but they could also get worse — and the costs of weakness are much greater than those of unexpected strength, because we won’t have a good policy response if it happens.
What I mean is that because interest rates are still near zero, a bout of economic weakness can’t be met with strong monetary expansion; and discretionary fiscal stimulus is politically hard, especially given who’ll be running things. This strongly suggests that you want to build up some momentum, get further away from a lee shore, pick your metaphor; that means letting the economy build strength, inflation rise modestly. So as I said, I believe the Fed made a mistake, and would welcome a modest (1 or 2 point? maybe more?) rise in budget deficits, especially if it involved infrastructure spending.
But what if we are about to get significant fiscal stimulus from Trump? Well, it won’t be well-targeted, in terms of either demand or supply; that infrastructure build looks ever less likely, so we’re talking high-end tax cuts with low multipliers and little supply-side payoff. Such a policy might vindicate the Fed’s rate hike, but it should still wait and see.
Meanwhile, Trump deficits won’t actually do much to boost growth, because rates will rise and there will be lots of crowding out. Also a strong dollar and bigger trade deficit, like Reagan’s morning after Morning in America.
So, the probable outlook is for not too great growth and deindustrialization. Not quite what people expect.
Note sulla situazione macroeconomica
Dunque la Fed ha alzato i tassi. Direi che è stato un errore, anche se non così grave come sarebbe stato un anno fa. In ogni modo, sembra il momento giusto per esaminare a che punto sta secondo me l’economia, e cosa comporta per la politica della finanza pubblica e monetaria.
A questo punto, le prove indicano che siamo vicini alla piena occupazione. Non si tratta tanto del tasso di disoccupazione complessivo, che è discutibile data la bassa partecipazione della forza lavoro. Ma la crescita dei salari si è accelerata [1], e il tasso delle uscite dal lavoro è tornato più o meno ai livelli precedenti la crisi, suggerendo che i lavoratori hanno percezioni abbastanza positive sulle prospettive dei posti di lavoro [2].
Questo significa che gli argomenti per politiche di finanza pubblica e monetarie permissive sono superati? No, ma sono divenuti più sottili: dipendono principalmente da ragioni cautelative. In questo momento sembra che l’economia vada bene, ma le cose potrebbero cambiare. Naturalmente, potrebbero cambiare in meglio, ma potrebbero anche peggiorare – ed i costi della debolezza sarebbero maggiori di quelli di una forza inaspettata, perché se accadesse non avremmo una adeguata risposta politica.
Quello che intendo è che poiché i tassi di interesse sono ancora vicini allo zero, un periodo di debolezza economica non potrebbe essere affrontato con una forte espansione monetaria; e uno stimolo della finanza pubblica discrezionale è politicamente arduo, in particolare considerato che gestirà la situazione. Questo indica fortemente che si vuole realizzare un qualche slancio, tenersi ulteriormente lontani da una costa sottovento, scegliete voi la metafora; il che comporta fare in modo che l’economia si irrobustisca e che l’inflazione cresca modestamente. Dunque, come ho detto, credo che la Fed abbia fatto un errore, e sarebbe benvenuto un modesto incremento nei deficit di bilancio (un punto o due? Forse di più?), in particolare se esso comportasse spesa pubblica per le infrastrutture.
Ma cosa accade se siamo prossimi ad ottenere uno stimolo significativo da parte di Trump? Ebbene, esso non sarebbe bene indirizzato, in termini sia di domanda che di offerta; quella costruzione di infrastrutture sembra sempre meno probabile, dunque stiamo parlando di sgravi fiscali per i più ricchi con bassi moltiplicatori e modesti vantaggi dal lato dell’offerta. Una tale politica potrebbe confermare la scelta del rialzo dei tassi della Fed, ma si doveva ancora stare a guardare.
Nel frattempo, i deficit di Trump in sostanza non faranno molto per incoraggiare la crescita, perché i tassi saliranno e ci saranno molte riduzioni di spazi per investimenti. Ci sarà anche un dollaro forte e un deficit commerciale più grande, come nel ‘mattino’ reaganiano dopo l’epoca del “Buongiorno America” [3].
Dunque, il risultato probabile è quello di una crescita non grande e di una deindustrializzazione. Non esattamente quello che la gente si aspetta.
[1] Nella connessione compare una Tabella che mostra i salari medi orari del settore privato, che erano poco sopra i 22 dollari nel 2009 e sono quasi 26 dollari adesso.
[2] Anche in questo caso non riesco, purtroppo, a scaricare la statistica dell’Ufficio del Lavoro degli Stati Uniti, che del resto si può vedere cliccando sul testo inglese. Essa mostra il totale delle uscite dai posti di lavoro nei settori non agricoli, dal 2000 al 2016. Quando le uscite (che non sono i licenziamenti, ma le uscite volontarie) sono basse, esse indicano il timore a lasciare il lavoro che si ha per quello che si potrebbe non trovare; quando sono più alte indicano maggiore ottimismo. La curva precipitò a seguito della Grande Recessione, ed oggi è tornata ai livelli dei primi anni 2000. Nel 2010 era ad un tasso dell’1,2, oggi è ad un tasso del 2,1.
[3] L’intera frase richiede alcune spiegazioni (e potrei aver fatto sbagli). Intanto il “crowding out” che in genere significa, o viene tradotto in economia, con “spiazzamento”. Vale a dire che i tassi che salgono comporterebbero limiti agli investimenti privati, che appunto ‘farebbero posto’ a maggiori rendite finanziarie.
In secondo luogo: la trasmissione radiofonica “(Buon) giorno America” segnò un ulteriore periodo di fortuna politica per Reagan, che la inventò e la realizzò con indubbio successo. Da lì venne anche la vittoria elettorale di Reagan nelle elezioni per il secondo mandato del 1984. La traduzione più esatta della trasmissione è: “È di nuovo giorno, America”, e lo slogan si riferiva al fatto che la gente era tornata al lavoro in modo massiccio, dopo il primo mandato presidenziale del Presidente repubblicano. Ma il giorno dell’America non fu esattamente la stessa cosa del ‘nuovo giorno’ di Reagan (questo, almeno, pare a me il senso).
dicembre 14, 2016
DEC 9 11:53 AM
Matthew Yglesias has an interesting post about the fast-food tycoon who has been nominated as Labor Secretary. Even aside from the fact that “when did you stop beating your wife?” would, in fact, be a valid question in this guy’s confirmation hearings, you might think that this nomination would be seen as a total betrayal of the working-class voters who went overwhelmingly Trump a month ago. He’s anti-worker, anti-higher wages, pro-immigration. Won’t there be a huge backlash?
What Yglesias suggests, however, is that his connection with fast food is itself a protection — because the white working class likes fast food, liberals don’t, and the former feels that this shows the latter’s contempt for regular people.
I suspect that there’s something to this, and that it’s part of a broader story. And I don’t know what to do with it.
What I see a lot, both in general political discourse and in my own inbox, is a tremendous sense of resentment against people like Hillary Clinton or, well, me, that isn’t about policy. It boils down, instead, to something along the lines of “You people think you’re better than us.” And it has a lot to do with the way people live.
If populism were simply about income inequality, someone like Trump should be deeply resented by the working class. He has gold toilets! But he gets a pass, partly — I think — because his tastes seem in line with those of non-college-educated whites. That is, he lives the way they imagine they would if they had a lot of money.
Compare that with affluent liberals — say, my neighbors on the Upper West Side. They aren’t nearly as rich as the plutocrats that will stuff the Trump cabinet. What’s more, they vote for things that will raise their taxes and cost of living, while improving the lives of the very people who disdain them. Objectively, they’re on white workers’ side.
But they don’t eat much fast food, because they believe it’s unhealthy and they’re watching their weight. They don’t watch much reality TV, and do listen to a lot of books on tape — or even read books the old-fashioned way. if they’re rich enough to have a second home, it’s a shabby-chic country place, not Mar-a-Lago.
So there is a sense in which there’s a bigger cultural gulf between affluent liberals and the white working class than there is between Trumpkins and the WWC. Do the liberals sneer at the Joe Sixpacks? Actually, I’ve never heard it — the people I hang out with do understand that living the way they do takes a lot more money and time than hard-pressed Americans have, and aren’t especially judgmental about lifestyles. But it’s easy to see how the sense that liberals look down on regular folks might arise, and be fanned by right-wing media.
The question is, what do you do? Again, objectively those liberals are very much on workers’ side, while the characters who play on this perceived disdain are set to betray the white working class on a massive scale. Is there no way to get this across other than eating lots of burgers with fries?
La maledizione del fast food
Matthew Yglesias pubblica un post interessante sul magnate dei fast-food che è stato nominato Segretario al Lavoro. Anche a prescindere dal fatto che la domanda “quando ha smesso di picchiare sua moglie?” [1] sarebbe, di fatto, una domanda appropriata nelle audizioni di conferma di questo personaggio, si potrebbe pensare che la sua nomina possa essere considerata come un tradimento completo degli elettori della classe lavoratrice che sono approdati in modo schiacciante a Trump lo scorso mese. È contro i lavoratori, contro salari più alti, favorevole all’immigrazione. Non ci dovrebbe essere una grande reazione negativa?
Tuttavia, quello che suggerisce Yglesias è che il suo collegamento con il fast-food è di per sé una protezione – perché alla classe lavoratrice bianca il fast-food piace, ai progressisti non piace, e la prima ha la sensazione che questo dimostri il disprezzo dei secondi per le persone normali.
Ho il sospetto che in questo ci sia qualcosa di vero, e che questo faccia parte di una storia più ampia. E non so come regolarmi con tutto ciò.
Quello di cui mi rendo molto conto, sia nel dibattito politico in generale che nella mia casella postale, è una tremenda sensazione di ostilità contro persone come Hillary Clinton oppure, devo aggiungere, come il sottoscritto, che non riguarda la politica. Essa si riduce, piuttosto, a qualcosa di simile a questa frase: “La gente come voi pensa di essere meglio di noi”. Ed ha molto a che fare con il modo in cui la gente vive.
Se il populismo riguardasse semplicemente la diseguaglianza nei redditi, individui come Trump dovrebbero risultare profondamente insopportabili per la classe lavoratrice. Ha i bagni d’oro! Ma viene approvato, in parte – penso – perché i suoi gusti sembrano in linea con la popolazione bianca che non ha una istruzione superiore. Ovvero, vive nel modo in cui essi si immaginano che vivrebbero se avessero un mucchio di soldi.
Confrontatelo con i liberal benestanti – ad esempio, con i miei vicini nella Upper West Side. Questi non sono neppure lontanamente ricchi come i plutocrati che riempiranno il gabinetto di Trump. Soprattutto, votano per cose che accrescerebbero le loro tasse e il loro costo della vita, mentre migliorerebbero le esistenze proprio delle persone che li disprezzano. Obiettivamente, sono dalla parte dei lavoratori bianchi.
Ma non mangiano molto fast-food, perché credono che non sia salutare e stanno attenti al loro peso. Non guardano molta reality TV [2] e ascoltano molti libri su videocassette – o addirittura leggono libri come andava di moda un tempo. Se sono abbastanza ricchi da avere una seconda casa, è in un luogo trasandato ma fine, non a Mar-a-Lago [3].
Dunque, c’è un senso per il quale il divario culturale tra liberal benestanti e la classe lavoratrice bianca è maggiore di quello che esiste tra individui alla Trump e la stessa classe lavoratrice bianca. I liberal ironizzano su Joe Sixpacks [4]? Veramente, non l’ho mai sentito dire – le persone che io frequento effettivamente comprendono che vivere nel loro modo richiede molto più denaro e tempo libero di quello che hanno gli americani con l’acqua alla gola, e non sono particolarmente moralisti sugli stili di vita. Ma è facile accorgersi in che modo possa crescere la sensazione che i liberal guardino dall’alto in basso la gente normale, e come sia fomentata dai media della destra.
La domanda è: cosa si fa? Lo ripeto, obiettivamente quei liberal sono del tutto dalla parte dei lavoratori, mentre i caratteri che giocano nella percezione di questo disprezzo hanno la natura di un tradimento su vasta scala della classe lavoratrice bianca. Non c’è altro modo di avere tutto questo, se non mangiando grandi quantità di hamburger e patatine fritte?
[1] Le carte del divorzio di Andy Puzder dalla prima moglie raccontano di violenze nei confronti di sua moglie, negli anni ’80.
[2] Ormai si traduce così; ma indica precisamente quel genere di spettacolo televisivo nel quale i protagonisti sono le persone comuni riprese nella loro vita quotidiana (secondo Cambridge Dictionary), oppure, oltre alle persone comuni, anche le celebrità (secondo The Free Dictionary).
[3] Si tratta precisamente di una località turistica di Palm Beach, in Florida. Ma in generale ha il senso di una località ‘LagoMare’, ovvero turistica nel senso più tradizionale.
[4] È il prototipo dell’americano un po’ tonto che beve molta birra a guarda molto baseball (secondo UrbanDictionary).
dicembre 14, 2016
Donald Trump won the electoral college at least in part by promising to bring coal jobs back to Appalachia and manufacturing jobs back to the Rust Belt. Neither promise can be honored – for the most part we’re talking about jobs lost, not to unfair foreign competition, but to technological change. But a funny thing happens when people like me try to point that out: we get enraged responses from economists who feel an affinity for the working people of the afflicted regions – responses that assume that trying to do the numbers must reflect contempt for regional cultures, or something.
So the other day I mused about the dilemmas of dealing with regional backlash, and noted that even lavishly funded attempts to shore up declining regions don’t seem to work very well. Here’s what I said:
[T]he track record of regional support policies in other countries, which spend far more on such things than we are likely to, is pretty poor. For example, massive aid to the former East Germany hasn’t prevented a large decline in population, much bigger than the population decline in Appalachia over the same period.
In response, I get a long, furious piece from Lyman Stone denouncing me:
Krugman and those who believe him want to believe that the fears of Appalachians (or Rust Belters, or what have you) are overblown, that life has not been so bad for them as it seems.
Wait; did I say that? I don’t think so. In fact, if I thought everything was OK in Appalachia, I wouldn’t have used it as a comparator for Eastern Germany. The point was precisely that Appalachia is a byword for regional decline, which makes it striking that East Germany, which has received the kind of aid Appalachia can only dream of, is suffering an even faster demographic decline.
And for what it’s worth, I’ve spent decades writing and talking about the problems of rising inequality and stagnant wages, so characterizing me as someone telling workers that their problems exist only in their heads is pretty strange.
Now, if we want to have a discussion of regional policies – an argument to the effect that my pessimism is unwarranted – fine. As someone who is generally a supporter of government activism, I’d actually like to be convinced that a judicious program of subsidies, relocating government departments, whatever, really can sustain communities whose traditional industry has eroded.
But what we get instead is an immediate attack on motives. Apparently even suggesting that the decline in some kinds of traditional employment can’t be reversed, and that sustaining regional economies can be hard, is a demonstration of elitist contempt for regular people. You might think that people like me are potential allies for those who want to help working families, wherever they are. But if we can’t say anything without facing the hair-trigger tempers of regional advocates, without being accused of insulting their culture, that pretty much forecloses useful discussion.
L’economia dell’autostima regionale
Donald Trump si è aggiudicato il collegio elettorale almeno in parte con la promessa di riportare negli Appalachi posti di lavoro nel carbone e di riportare posti di lavoro nel settore manifatturiero nella Rust Belt [1]. Entrambe le promesse non possono essere mantenute – soprattutto perché stiamo parlando di posti di lavoro persi non per la scorretta competizione di paesi esteri, ma per i mutamenti tecnologici. Eppure accade una cosa buffa quando persone come me cercano di mettere in evidenza quel punto: ci prendiamo risposte arrabbiate da economisti che sentono una affinità con i lavoratori delle regioni colpite – risposte che presuppongono che cercare di esporre i dati numerici rifletta un disprezzo per le culture regionali, o qualcosa del genere.
Così, l’altro giorno riflettevo sui dilemmi del misurarsi con le ripercussioni regionali, e notavo che persino i tentativi generosamente finanziati di sostenere le regioni in declino non sembrano funzionare granché bene. Ecco quello che affermavo:
“L’esperienza delle politiche di sostegno regionale in altri paesi, che spendono per tali oggetti molto di più di quello che è probabile si faccia noi, è molto modesta. Ad esempio, l’aiuto massiccio alla passata Germania dell’Est non ha impedito un ampio declino della popolazione, molto più ampio del declino della popolazione negli Appalachi nello stesso periodo.”
Per risposta, ho ricevuto un lungo articolo infuriato di denuncia di Lyman Stone:
“Krugman e coloro che gli danno retta vogliono credere che le paure degli Appalachiani (o degli abitanti della Rust Belt, o chi volete voi) siano esagerate, che per loro la vita non sia così cattiva come sembra.”
Un momento; io ho detto questo? Non è la mia opinione. Di fatto, se io pensassi che tutto va bene negli Appalachi, non avrei usato come riferimento la Germania dell’Est. Il punto era precisamente che gli Appalachi sono un sinonimo di declino regionale, il che rende impressionante che la Germania dell’Est, che ha ricevuto un genere di aiuto che gli Appalachi si possono sognare, stia soffrendo un declino demografico persino più rapido.
E per quello che vale, ho passato decenni scrivendo e parlando dei problemi della crescente diseguaglianza e dei salari stagnanti, cosicché dipingermi come qualcuno che racconta ai lavoratori che i loro problemi esistono soltanto nelle loro teste, è abbastanza strano.
Ora, se vogliamo avere una discussione sulle politiche regionali – un argomento secondo il quale il mio pessimismo sarebbe ingiustificato – va bene. Essendo in generale un sostenitore dell’attivismo del Governo, per la verità mi farebbe piacere essere convinto che un giudizioso programma di sussidi, di rilocalizzazione dei settori pubblici, o qualsiasi altra cosa, possa davvero sostenere le comunità le cui industrie tradizionali sono state erose.
Ma quello che invece si riceve sono attacchi sulle motivazioni. In apparenza anche il solo suggerire che il declino in alcuni settori dell’occupazione regionale non possa essere invertito, e che sostenere le economie regionali possa essere difficile, è la dimostrazione di un disprezzo elitario per le persone normali. Si potrebbe ritenere che individui come me siano potenziali alleati per coloro che vogliono aiutare le famiglie dei lavoratori, dovunque si trovino. Ma se non si può dire niente senza dover fronteggiare i caratterini irascibili dei sostenitori delle politiche regionali, senza essere accusati di insultare la loro cultura, il che impedisce praticamente un dibattito utile.
[1] Letteralmente la “Cintura della ruggine”, ovvero la grande area che comincia a New York e attraversa il settentrione passando per la Pennsylvania, la Virginia Occidentale, l’Ohio, l’Indiana e la parte più bassa della penisola del Michigan, per finire nella parte settentrionale dell’Illinois, in quella orientale dello Iowa e in quella sud orientale del Wisconsin. Ovvero, l’area che è stata caratterizzata maggiormente dai fenomeni della deindustrializzazione manifatturiera.
Tale ‘Cintura’ è ben visibile in questa cartina da Wikipedia, dove le aree con una perdita maggiore di posti di lavoro manifatturieri sono segnate dal color marrone (perdite superiori al 58%) e in rosso (perdite dal 46 al 53%); mentre le aree con maggiori guadagni sono segnate dai colori verde chiaro e verde (i dati sono relativi al periodo dal 1954 al 2002):
dicembre 7, 2016
DEC 5 10:05 AM
I see that Tim Duy is angry at me again. The occasion is rather odd: I produced a little paper on trade and jobs, which I explicitly labeled “wonkish”; the point of the paper was, as I said, to reconcile what seemed to be conflicting assessments of the impacts of trade on overall manufacturing employment.
But Duy is mad, because “dry statistics on trade aren’t working to counter Trump.” Um, that wasn’t the point of the exercise. This wasn’t a political manifesto, and never claimed to be. Nor was it a defense of conventional views on trade. It was about what the data say about a particular question. Are we not allowed to do such things in the age of Trump?
Actually, maybe not. Part of the whole Trump phenomenon involves white working class voters rallying around a candidate who promised to bring back the coal and industrial jobs of the past, and lashing out at anyone who refuses to make similar promises. Yet the promise was and is fraudulent. If trying to get the analysis right is elitist, we’re in very big trouble — and perhaps we are.
So what would a political manifesto aimed at winning over these voters look like? You could promise to make their lives better in ways that don’t involve bringing back the old plants and mines — which, you know, Obama did with health reform and Hillary would have done with family policies and more. But that apparently isn’t an acceptable answer.
Can we promise new, different jobs? Job creation under Obama has been pretty good, but it hasn’t offered blue-collar jobs in the same places where the old industrial jobs have eroded.
So maybe the answer is regional policies, to promote employment in declining regions? There is certainly a case in principle for doing this, since the costs of uprooting workers and families are larger than economists like to imagine. I would say, however, that the track record of regional support policies in other countries, which spend far more on such things than we are likely to, is pretty poor. For example, massive aid to the former East Germany hasn’t prevented a large decline in population, much bigger than the population decline in Appalachia over the same period.
And I have to admit to a strong suspicion that proposals for regional policies that aim to induce service industries to relocate to the Rust Belt would not be well received, would in fact be attacked as elitist. People want those manufacturing jobs back, not something different. And it’s snooty and disrespectful to say that this can’t be done, even though it’s the truth.
So I really don’t know the answer. But back to the starting point: when I analyze the effects of trade on manufacturing employment, the goal is to understand the effects of trade on manufacturing employment — not to win over voters. No, dry statistics aren’t good for political campaigns; but that’s no reason to ban statistics.
Il commercio, i fatti e la politica
Vedo che Tim Duy è nuovamente arrabbiato con me. L’occasione è abbastanza strana: ho elaborato un piccolo articolo su commercio e posti di lavoro, che ho esplicitamente contrassegnato come ‘per esperti’; l’argomento dell’articolo era, come ho detto, riconciliare quelle che sembravano tesi in contraddizione sugli impatti del commercio sulla complessiva occupazione manifatturiera.
Ma Duy è fuori di sé, perché le “aride statistiche sul commercio non stanno funzionando nel contrastare Trump”. Beh, non era lo scopo dell’esercizio. Esso non era un manifesto politico, né ha mai preteso di esserlo. Non era neppure una difesa dei punti di vista convenzionali sul commercio. Era relativo a quello che i dati dicono a proposito di una particolare questione. Non ci è consentito fare cose del genere nell’era di Trump?
In effetti, forse no. Una parte dell’intero fenomeno Trump coinvolge gli elettori bianchi della classe lavoratrice che solidarizzano con un candidato che ha promesso di riportare i posti di lavoro del carbone e dell’industria del passato, e ha attaccato chiunque si rifiutava di fare promesse simili. Tuttavia, la promessa era ed è ingannevole. Se rifiutarsi di far bene l’analisi è elitario, siamo in un bel guaio – e forse lo siamo.
Dunque, in cosa dovrebbe consistere un manifesto politico rivolto a convincere questi elettori? Si potrebbe promettere di migliorare le loro esistenze in modi che non comportino il ripristinare i vecchi stabilimenti e le vecchie miniere – la qual cosa, come sapete, Obama aveva fatto con la riforma sanitaria e Hillary avrebbe fatto con le politiche per le famiglie ed altro ancora. Ma questa non sembra sia una risposta accettabile.
Possiamo promettere nuovi e diversi posti di lavoro? La creazione di posti di lavoro con Obama è stata abbastanza buona, ma essa non ha offerto posti di lavoro industriali negli stessi posti nei quali i vecchi posti di lavoro industriali erano stati erosi.
Dunque, forse la risposta sono politiche regionali, per promuovere l’occupazione nelle regioni in declino? In via di principio ci sarebbero certamente argomenti per farlo, dal momento che i costi per sradicare i lavoratori e le loro famiglie sono certamente più ampi di quanto agli economisti piace immaginare. Tuttavia, osserverei che le esperienze delle politiche di sostegno regionale in altri paesi, che spendono per cose del genere assai di più di quello che sarebbe probabile nel nostro caso, sono abbastanza modeste. Ad esempio, un aiuto massiccio nella passata Germania dell’Est non ha impedito un ampio declino nella popolazione, molto più ampio del declino della popolazione negli Appalachi nello stesso periodo.
Inoltre, devo ammettere che ho un forte sospetto che proposte di politiche regionali che abbiano l’obbiettivo di trasferire attività di servizi nella Rust Belt [1], non sarebbero bene accolte, e sarebbero appunto attaccate come elitarie. Ed è altezzoso e privo di rispetto dire che questo non si può fare, anche se è la verità.
Dunque, io davvero non conosco la risposta. Ma tornando al punto di partenza: quando io analizzo gli effetti del commercio sull’occupazione manifatturiera, l’obbiettivo è comprendere gli effetti del commercio sull’occupazione manifatturiera – non convincere gli elettori. È vero, le aride statistiche non sono buone per le campagne elettorali politiche; ma questa non è una ragione per mettere al bando le statistiche.
[1] Letteralmente la “Cintura della ruggine”, ovvero la grande area che comincia a New York e attraversa il settentrione passando per la Pennsylvania, la Virginia Occidentale, l’Ohio, l’Indiana e la parte più bassa della penisola del Michigan, per finire nella parte settentrionale dell’Illinois, in quella orientale dello Iowa e in quella sud orientale del Wisconsin. Ovvero, l’area che è stata caratterizzata maggiormente dai fenomeni della deindustrializzazione manifatturiera.
Tale ‘Cintura’ è ben visibile in questa cartina da Wikipedia, dove le aree con una perdita maggiore di posti di lavoro manifatturieri sono segnate dal color marrone (perdite superiori al 58%) e in rosso (perdite dal 46 al 53%); mentre le aree con maggiori guadagni sono segnate dai colori verde chiaro e verde (i dati sono relativi al periodo dal 1954 al 2002):
dicembre 6, 2016
America used to be a nation where a lot of people worked in manufacturing. Today, we basically work in office parks and services. But people aren’t reconciled to the change; and 🍌 (I’m using that symbol for the man who will use the Oval Office to turn us into a banana republic) is promising to bring the jobs back by punishing companies who move jobs abroad.
Most economists will tell you that this is completely unrealistic. But in conversations with various fairly sophisticated people, I’ve realized that there’s a widespread impression of major disagreement within the field. The notion – fed, it has to be said, by some misleading statements by economists themselves – seems to be that new work on the impacts of trade refutes the notion that the decline of manufacturing is basically about productivity.
So I’ve been sitting down with recent work, and realized that there’s actually very little disagreement about either the facts or the counterfactuals – that is, what might have happened with different trade policies. What looks like disagreement is actually a difference in the questions being asked; once you take that into account, there’s more or less a consensus about the historical record.
Basically, it comes down to which of these two questions you’re trying to answer:
Start with a chart showing two versions of the decline of manufacturing:
The blue line, left scale, shows the manufacturing share of the total, which has been falling steadily since the 1950s. The red line, right scale, shows absolute employment, which was roughly stable from 1970 to 2000, because it was a smaller share of a larger total, but began a major decline thereafter.
So what’s the overall role of trade in all of this? Via EPI [http://www.epi.org/publication/manufacturing-job-loss-trade-not-productivity-is-the-culprit/], below is the manufacturing trade deficit as a share of GDP, around 3 percent in recent years, roughly twice what it was in the mid-1990s. That is a subtraction from the demand for U.S.-produced manufactured goods, although not all of it represents a subtraction from value-added – some of it comes out of service inputs instead. Absent that trade deficit, U.S. manufacturing would probably be about 2 percent of GDP higher, and the manufacturing share of employment would also be about 2 percentage points higher.
Or to put it another way, absent the trade deficit manufacturing would be maybe a fifth bigger than it is – which is actually what EPI estimates too (Exhibit D in the linked paper). That wouldn’t make much difference to the long-run downward trend, but looms larger relative to the absolute decline since 2000.
But what about the now-famous Autor-Dorn-Hanson paper on the “China shock”? http://www.ddorn.net/papers/Autor-Dorn-Hanson-ChinaShock.pdf It’s actually consistent with these numbers. Autor et al only estimate the effects of the, um, China shock, which they suggest led to the loss of 985,000 manufacturing jobs between 1999 and 2011. That’s less than a fifth of the absolute loss of manufacturing jobs over that period, and a quite small share of the long-term manufacturing decline.
I’m not saying that the effects were trivial: Autor and co-Autors show that the adverse effects on regional economies were large and long-lasting. But there’s no contradiction between that result and the general assertion that America’s shift away from manufacturing doesn’t have much to do with trade, and even less to do with trade policy.
Commercio e occupazione manifatturiera: nessuna reale divergenza, di Paul Krugman
L’America era abituata ad essere una nazione nella quale una grande quantità di persone lavoravano nel settore manifatturiero. Oggi, fondamentalmente lavoriamo nei complessi per uffici e nei servizi. Ma le persone non si sono adattate al cambiamento: e 🍌 (utilizzo il simbolo della banana per l’individuo che userà l’Ufficio Ovale per trasformarci in una Repubblica delle banane) sta promettendo di restituirci i posti di lavoro punendo le società che li spostano all’estero.
La maggioranza degli economisti vi dirà che ciò è completamente irrealistico. Ma in conversazioni con varie persone abbastanza sofisticate, ho compreso che c’è una impressione generale di un importante disaccordo all’interno della disciplina. Il concetto – alimentato, va detto, da alcuni fuorvianti pronunciamenti degli economisti stessi – sembra essere che nuove ricerche sugli impatti del commercio confutino l’idea che il declino del settore manifatturiero dipenda fondamentalmente dalla produttività.
Mi sono dunque confrontato con le recenti ricerche, e ho compreso che effettivamente ci sono poche divergenze sia sui fatti che sulle ipotesi basate su storie ipotetiche – vale a dire, cosa sarebbe potuto accadere con diverse politiche del commercio. Quella che sembra una divergenza è in realtà una differenza nelle domande che vengono avanzate; una volta che mettiate questo nel conto, c’è più o meno un consenso sugli andamenti storici.
Fondamentalmente, ciò deriva da quale tra queste due domande si sta cercando di rispondere:
1 – Quanta parte ha giocato il commercio nel declino nel lungo termine della quota del settore manifatturiero sul totale dell’occupazione, che è caduta da circa un quarto della forza lavoro nel 1970 al 9 per cento del 2015? La risposta è un po’, ma non molto.
2 – Quanta parte ha giocato il commercio nel declino assoluto della occupazione manifatturiera, calata di 5 milioni a partire dal 2000? In questo caso si tratta di una parte maggiore, fondamentalmente perché si sta confrontando lo stesso effetto con un denominatore molto più piccolo; persino così il commercio è meno della metà della storia, anche se non è affatto banale.
Cominciamo con una tabella che mostra le due versioni del declino manifatturiero:
La linea blu, misure sulla sinistra [1], mostra la quota manifatturiera sul totale dell’occupazione, che è venuta diminuendo regolarmente dagli anni ’50. La linea rossa, misure sulla destra, mostra l’occupazione in termini assoluti, che è rimasta grosso modo stabile dal 1970 al 2000, perché rappresentava una quota più piccola di un totale più ampio, ma conobbe in seguito un importante declino.
Quale è dunque in tutto questo il ruolo del commercio? Nella tabella in basso, fonte EPI [2] [http://www.epi.org/publication/manufacturing-job-loss-trade-not-productivity-is-the-culprit/] compare il deficit commerciale manifatturiero, circa il 3 per cento negli anni recenti, all’incirca il doppio di quello che era alla metà degli anni ’90. Si tratta di una sottrazione dalla domanda di beni manifatturieri prodotti negli Stati Uniti, sebbene non tutto di esso rappresenti una sottrazione dal valore aggiunto – una parte di esso deriva piuttosto dal contributo dei servizi. Senza quel deficit commerciale, il settore manifatturiero statunitense sarebbe probabilmente più alto di circa il 2 per cento del PIL, ed anche la quota di occupazione del settore manifatturiero sarebbe più alta di circa 2 punti percentuali.
Oppure, per dirla diversamente, senza il deficit commerciale il settore manifatturiero sarebbe forse più grande di un quinto di quello che è – che è effettivamente quello che anche l’EPI stima (reperto D nello studio in connessione). Ciò non farebbe molta differenza sulla tendenza al declino nel lungo periodo, ma in relazione al calo in cifre assolute a partire dal 2000 si profila più ampio.
Ma che dire dello studio oggi alla ribalta di Autor– Dorn–Hanson sullo ‘shock cinese’ [http://www.ddorn.net/papers/Autor-Dorn-Hanson-ChinaShock.pdf]? Per la verità, esso è coerente con questi numeri. Autor e gli altri effettivamente stimano soltanto gli effetti, appunto, dello shock cinese, che secondo le loro stime ha portato ad una perdita di 985 mila posti di lavoro tra il 1999 e il 2011. Questo è meno di un quinto della perdita in cifre assolute di posti di lavoro nel manifatturiero in quel periodo, ed una quota abbastanza piccola del declino manifatturiero nel lungo termine.
Non sto dicendo che gli effetti siano stati banali: Autor e gli altri autori mostrano che gli effetti negativi sulle economie regionali sono stati ampi e di lunga durata. Ma non c’è contraddizione tra quel risultato e il giudizio generale secondo il quale l’allontanamento dell’America dal manifatturiero non ha molto a che fare con il commercio, e meno ancora con la politica commerciale.
[1] A sinistra della tabella ci sono le misure relative all’occupazione totale nel settore manifatturiero, divise per l’occupazione totale, espresse entrambe in migliaia di persone (ovvero, gli organici totali nel settore non agricolo). A destra, valide per la linea rossa, ci sono le misure assolute nel settore manifatturiero.
[2] EPI sta per Economic Policy Institute, un centro di ricerca di orientamento liberal che dovrebbe avere qualche forma di collegamento con il mondo sindacale americano. Lo studio al quale ci di riferisce nella successiva connessione è a cura di Robert E. Scott.
dicembre 3, 2016
DEC 3 1:36 PM
I’m still mulling over the Carrier deal, which I suspect will be a template for the Trump years in general — again and again, we’ll see actions that are ridiculous in themselves, but add up to a very scary picture.
Start with the ridiculous nature of the whole thing: we’re talking, it now turns out, about 800 jobs in a nation with 145 million workers. Around 75,000 workers lose their jobs every working day. How does something that isn’t even rounding error in the overall jobs picture come to dominate a couple of news cycles?
Yet it did — with overwhelmingly positive coverage, at least on TV news. And that’s ominous in itself. It says that large parts of the news media, whose credulous Trump coverage and sniping at HRC helped bring us to where we are, will be even worse, even more poodle-like, now that this guy is in office.
Meanwhile, as Larry Summers says, the precedent — although tiny — is not good: it’s not just crony capitalism, it’s government as protection racket, where companies shape their strategies to appease politicians who will reward or punish based on how it affects their PR efforts and/or personal fortunes. That is, we’re looking at what may well be the beginning of a descent into banana republic governance.
This is, as Larry says, bad both for the economic and for freedom. And there’s every reason to expect many stories like this in the days ahead.
Quando il ridicolo è premonitore
Sto ancora rimuginando sull’accordo della Carrier [1], che sospetto sarà in generale un modello per gli anni di Trump – sempre di più assisteremo a iniziative che in sé sono ridicole, ma in un contesto preoccupante acquistano un senso.
Partiamo dalla natura ridicola dell’intera faccenda: stiamo parlando, si scopre adesso, di 800 posti di lavoro in una nazione con 145 milioni di lavoratori. Ogni giorno lavorativo circa 75.000 lavoratori perdono il loro posto. Come è possibile che qualcosa che non è neppure un errore di arrotondamento nel quadro generale dei posti di lavoro finisca col dominare un paio di cicli delle notizie?
Eppure è successo – con resoconti del tutto positivi, almeno sui notiziari televisivi. E quello è di per sé qualcosa di premonitore. Ci dice che una larga parte dei media dell’informazione, i cui creduloni resoconti su Trump e il cui prendere di mira la Clinton ci hanno portato al punto in cui siamo, saranno persino peggiori, persino più simili a cagnolini addomesticati, ora che questo individuo è in carica.
Nel frattempo, come dice Larry Summers, il precedente – per quanto minuscolo – non è buono: non si tratta solo di capitalismo clientelare, si tratta di una idea del Governo come un giro losco di protezioni, dove le società conformano le loro strategie a soddisfare uomini politici che le premieranno o puniranno a seconda di come ciò influenzerà i loro sforzi nelle pubbliche relazioni e/o le loro personali fortune. Vale a dire, stiamo assistendo a qualcosa che potrà ben essere l’inizio di una china verso uno stile di governo da repubblica delle banane.
Questo, come dice Larry, è negativo sia per l’economia che per la libertà. E nei giorni che verranno, ci sono tutte le ragioni per aspettarsi storie del genere.
[1] Si tratta di un accordo che Trump ha concluso – sia pure non essendo ancora in carica – con la Carrier United Technologies Corporation Building & Industrial Systems, una società con base in Connecticut che produce impianti di riscaldamento, ventilazione e aria condizionata. La società si sarebbe impegnata, per ingraziarsi il neo Presidente, a limitare o evitare la collocazione di alcune attività all’estero, con un vantaggio di qualche centinaio di posti di lavoro negli Stati Uniti.
novembre 19, 2016
NOV 18 11:08 AM
A lot of people in politics and the media are scrambling to normalize what just happened to us, saying that it will all be OK and we can work with Trump. No, it won’t, and no, we can’t. The next occupant of the White House will be a pathological liar with a loose grip on reality; he is already surrounding himself with racists, anti-Semites, and conspiracy theorists; his administration will be the most corrupt in America history.
How did this happen? There were multiple causes, but you just can’t ignore the reality that key institutions and their leaders utterly failed. Every news organization that decided, for the sake of ratings, to ignore policy and barely cover Trump scandals while obsessing over Clinton emails, every reporter who, for whatever reason — often sheer pettiness — played up Wikileaks nonsense and talked about how various Clinton stuff “raised questions” and “cast shadows” is complicit in this disaster. And then there’s the FBI: it’s quite reasonable to argue that James Comey, whether it was careerism, cowardice, or something worse, tipped the scales and may have doomed the world.
No, I’m not giving up hope. Maybe, just maybe, the sheer awfulness of what’s happening will sink in. Maybe the backlash will be big enough to constrain Trump from destroying democracy in the next few months, and/or sweep his gang from power in the next few years. But if that’s going to happen, enough people will have to be true patriots, which means taking a stand.
And anyone who doesn’t — who plays along and plays it safe — is betraying America, and mankind.
La tristezza e il peccato
C’è tanta gente nei media e nella politica che si arrampica sugli specchi per ridimensionare quello che ci è appena successo, dicendo che va tutto bene e che potremo lavorare con Trump. No, non sarà così, e no, non potremo. Il prossimo inquilino della Casa Bianca sarà un bugiardo patologico, con una aderenza approssimativa alla realtà; si sta già circondando di razzisti, di anti semiti e di teorici della cospirazione; la sua Amministrazione sarà la più corrotta nella storia degli Stati Uniti.
Come è accaduto? Ci sono state una varietà di cause, ma non si può proprio ignorare la realtà, ovvero che istituzioni fondamentali e coloro che le guidavano sono completamente fallite. Tutte le organizzazioni dei media che hanno deciso, nell’interesse degli indici di ascolto, di ignorare la politica e di dare appena notizia degli scandali di Trump mentre erano ossessionate dalle mail della Clinton, tutti i giornalisti che, per qualsiasi voglia ragione – spesso per mera meschinità – hanno enfatizzato le assurdità di WikiLeaks e parlato di come varie faccende della Clinton “sollevavano domande” o “proiettavano ombre”, sono complici di questo disastro. E poi c’è la FBI: non è affatto infondato sostenere che James Comey, che sia stato per carrierismo, per viltà o per qualcosa di peggio, abbia mosso l’ago della bilancia sino al punto da condannare il mondo intero.
E non sto rinunciando alla speranza. Forse, ma non ne sono sicuro, la semplice enormità di quello che sta accadendo sarà assimilata. Forse il contraccolpo sarà talmente grande da impedire a Trump di distruggere la democrazia nei prossimi mesi, e/o da spazzar via la sua banda nei prossimi anni. Ma se è questo che avverrà, un numero sufficiente di persone dovranno essere dei veri patrioti, il che significa esporsi.
E chiunque non lo faccia – chiunque faccia finta di niente e se ne stia al riparo da ogni rischio – tra tradendo l’America e il genere umano.
novembre 13, 2016
NOV 11 10:39 AM
As I said in today’s column, nobody who thought Trump would be a disaster should change his or her mind because he won the election. He will, in fact, be a disaster on every front. And I think he will eventually drag the Republican Party into the abyss along with his own reputation; the question is whether he drags the rest of the country, and the world, down with him.
But it’s important not to expect this to happen right away. There’s a temptation to predict immediate economic or foreign-policy collapse; I gave in to that temptation Tuesday night, but quickly realized that I was making the same mistake as the opponents of Brexit (which I got right). So I am retracting that call, right now. It’s at least possible that bigger budget deficits will, if anything, strengthen the economy briefly. More detail in Monday’s column, I suspect.
On other fronts, too, don’t expect immediate vindication. America has a vast stock of reputational capital, built up over generations; even Trump will take some time to squander it.
The true awfulness of Trump will become apparent over time. Bad things will happen, and he will be clueless about how to respond; if you want a parallel, think about how Katrina revealed the hollowness of the Bush administration, and multiply by a hundred. And his promises to bring back the good old days will eventually be revealed as the lies they are.
But it probably won’t happen in a year. So the effort to reclaim American decency is going to have to have staying power; we need to build the case, organize, create the framework. And, of course, never forget who is right.
It’s going to be a long time in the wilderness, and it’s going to be awful. If I sound calm and philosophical, I’m not — like everyone who cares, I’m frazzled, sleepless, depressed. But we need to be stalwart.
Il lungo tragitto
Come ho detto nell’articolo di oggi, nessuno che pensava che Trump sarebbe stato un disastro dovrebbe cambiare il suo punto di vista perché ha vinto le elezioni. Di fatto, sarà un disastro su molti fronti. E alla fine io penso che trascinerà il Partito Repubblicano in un abisso assieme alla sua reputazione personale; la questione e se ci trascinerà anche il resto del paese e del mondo.
Ma è importante non aspettarsi che questo accada subito. Esiste la tentazione si prevedere un immediato collasso nell’economia o nella politica estera; ho ceduto a questa tentazione martedì notte, ma ho rapidamente compreso che stavo facendo lo stesso errore degli oppositori della Brexit (dove invece avevo inteso le cose in modo giusto). Dunque ho rivisto subito quella posizione. È almeno possibile che deficit di bilancio più grandi, semmai, rafforzino l’economia per un breve periodo. Suppongo che nell’articolo di lunedì scriverò di più sull’argomento.
Anche su altri fronti, non c’è da aspettarsi immediate rivalse. L’America ha una grande riserva di capitale nella sua reputazione, costruita per generazioni; persino a Trump gli ci vorrà del tempo per sperperarla.
La natura effettivamente tremenda di Trump diventerà evidente col tempo. Ci saranno passaggi negativi, e lui non avrà il minimo indizio sulla risposta da dare; se cercate un parallelo, pensate a come l’uragano Katrina mise in evidenza il vuoto della Amministrazione Bush, e moltiplicatelo per cento. E le sue promesse di riportarci ai bei tempi andati, alla fine si riveleranno per le menzogne che sono.
Ma probabilmente non avverrà in un anno. Dunque, lo sforzo per rivendicare la dignità dell’America è destinato a dover disporre di fiato; abbiamo bisogno di costruire gli argomenti, di organizzare, di creare il modello. E, naturalmente, di non dimenticare mai chi ha ragione.
Sarà un lungo periodo in una landa desolata, e sarà tremendo. Posso apparire calmo e riflessivo, ma non lo sono – come chiunque si preoccupa, sono esausto, insonne, depresso. Ma abbiamo bisogno di essere fortemente convinti.
novembre 13, 2016
NOV 9 5:00 PM
Anyone who claims to be philosophical and detached after yesterday is either lying or has something very wrong with him (or her, but I doubt many women are in that camp.) It’s a disaster on multiple levels, and the damage will echo down the decades if not the generations. And like anyone on my side of this debate, I keep feeling waves of grief.
It’s natural, only human, to engage in recriminations, some of which are surely deserved. But while a post-mortem is going to be necessary, lashing out doesn’t seem helpful — or good for the lashers-out themselves.
Eventually those of us on the center-left will have to talk about political strategy. For now, however, I want to share some thoughts on how we should deal with this personally.
First of all, it’s always important to remember that elections determine who has the power, not who has the truth. The stunning upset doesn’t mean that the alt-right is correct to view nonwhites as inferior, that voodoo economics works, whatever. And you have to hold to the truth as best you see it, even if it suffers political defeat.
That said, does it make sense on a personal level to keep struggling after this kind of blow? Why not give up on trying to save the world, and just look out for yourself and those close to you? Quietism does have its appeal. Admission: I spent a lot of today listening to music, working out, reading a novel, basically taking a vacation in my head. You can’t help feeling tired and frustrated after this kind of setback.
But eventually one has to go back to standing for what you believe in. It’s going to be a much harder, longer road than I imagined, and maybe it ends in irreversible defeat, if nothing else from runaway climate change. But I couldn’t live with myself if I just gave up. And I hope others will feel the same.
E adesso? Pensieri personali
Chiunque, dopo ieri, sostenga di vedere le cose con filosofia e con distacco o sta mentendo o ha dentro di sé qualcosa di molto sbagliato (vale per gli uomini o per le donne, ma dubito che molte donne siano in questo campo). È un disastro a vari livelli, e il danno risuonerà per decenni se non per generazioni. E come tutti coloro che stanno dalla mia parte in questo confronto, continuo a provare ondate di dispiacere.
È naturale, semplicemente umano, impegnarsi in recriminazioni, alcune delle quali sono certamente meritate. Ma se una analisi retrospettiva sarà indispensabile, prendersela con gli altri non aiuterà – e non farà bene neanche a coloro che si lasceranno andare a quella reazione.
Alla fine quelli che tra noi si collocano nel centro sinistra, dovranno discutere di strategia politica. Per adesso, tuttavia, intendo condividere qualche opinione su come dovremmo misurarci con tutto questo sul piano personale.
Prima di tutto, è sempre importante ricordarsi che le elezioni determinano chi ha il potere, non chi ha la verità. La scioccante sconfitta non significa che la nuova destra abbia ragione a considerare i non bianchi come inferiori, o che l’economia voodoo, qualsiasi cosa significhi, funzioni. E si deve restare attaccati alla verità nel modo migliore in cui si riesce a capirla, anche se si patisce una sconfitta politica.
Ciò detto, ha senso a livello personale continuare a battersi, dopo una batosta di questo tipo? Perché non smetterla di cercare di salvare il mondo, e limitarsi a prendersi cura di sé stessi e di quelli che ci sono vicini? Il quietismo ha davvero un suo fascino. Lo ammetto: oggi ho speso molto tempo ad ascoltare musica, a tenermi in esercizio, a leggere un racconto, fondamentalmente a riposarmi il cervello. Non si può non sentirsi stanchi dopo una botta del genere.
Ma alla fine si deve tornare a battersi per ciò in cui si crede. Sarà una strada molto più difficile e più lunga di quello che avevo immaginato, e forse si concluderà con una sconfitta irreversibile, se non altro per un cambiamento climatico fuori controllo. Ma non potrei vivere con me stesso se mi dessi semplicemente per vinto. E spero che la stessa cosa la sentiranno gli altri.
novembre 13, 2016
NOVEMBER 9, 2016 9:42 AM
I tweeted this out earlier, but for blog readers here it is in this form.
Some morning-after thoughts: what hits me and other so hard isn’t just the immense damage Trump will surely do, to climate above all. There’s also a vast disillusionment that as of now I think of as the end of the romantic vision of America (which I still love).
What I mean is the notion of US history as a sort of novel in which there may be great tragedy, but there’s always a happy ending. That is, we tell a story in which at times of crisis we always find the leader — Lincoln, FDR — and the moral courage we need.
It’s a particular kind of American exceptionalism; other countries don’t tell that kind of story about themselves. But I, like others, believed it.
Now it doesn’t look very good, does it? But giving up is not an option. The world needs a decent, democratic America, or we’re all lost. And there’s still a lot of decency in the nation — it’s just not as dominant as I imagined. Time to rethink, for sure. But not to surrender.
La fine dell’idillio americano
Ho twittato questo scritto in precedenza, ma eccolo in questa forma per i lettori del blog.
Alcuni pensieri del giorno dopo: quello che colpisce me ed altri così duramente non è solo il danno immenso che Trump sicuramente farà, al clima anzitutto. C’è anche una grande disillusione per quello che ora penso sia la fine di una visione romantica dell’America (alla quale continuo ad esser legato).
Voglio dire l’idea della storia degli Stati Uniti come una sorta di racconto che può risolversi in una grande tragedia, nella quale però c’è sempre un lieto fine. Ovvero, noi raccontiamo una storia nelle quale nei tempi delle crisi troviamo sempre il leader – Lincoln, Franklin Delano Roosevelt – e il coraggio morale di cui abbiamo bisogno.
È una forma particolare dell’eccezionalismo americano; altri paesi non raccontano di sé stessi quel genere di storia. Ma io, come altri, ci credevo.
Adesso non sembra granché, non è così? Ma darsi per vinti non è un’opzione. Il mondo ha bisogno di una America decente e democratica, o siamo perduti tutti. E c’è ancora molta dignità in America – soltanto non è così dominante come pensavamo. Di certo, è il momento di ripensarci. Ma non di arrendersi.
novembre 3, 2016
OCT 31 10:32 AM
Binyamin Appelbaum has a nice piece about the stall in world trade growth, which I (and many others) have been tracking for a while. And I thought I’d write a bit more about this, if only to serve as a much-needed distraction from the election.
If there’s a problem with the Appelbaum piece, it is that on casual reading it might seem to suggest that slowing trade growth is (a) necessarily the result of protectionism and (b) necessarily a bad thing. Neither of these is right.
I found myself thinking about this some years ago, when teaching trade policy at the Woodrow Wilson School. I was very struck by a paper by Taylor et al on the interwar decline in trade, which argued that much of this decline reflected rising transport costs, not protectionism. But how could transport costs have gone up? Was there technological regress?
The answer, as the paper correctly pointed out, is that real transport costs will rise even if there is continuing technological progress, as long as that progress is slower than in the rest of the economy.
To clear that story up in my own mind, I wrote up a little toy model, contained in these class notes from sometime last decade (?). Pretty sure I wrote them before the global trade stagnation happened, but they’re a useful guide all the same.
As I see it, we had some big technological advances in transportation — containerization, probably better communication making it easier to break up the value chain; plus the great move of developing countries away from import substitution toward export orientation. (That’s a decline in tau and t in my toy model.) But this was a one-time event. Now that it’s behind us, no presumption that trade will grow faster than GDP. This need not represent a problem; it’s just the end of one technological era.
It is kind of ironic that globalization seems to be plateauing just as the political backlash mounts. But we’re not going to talk about the election.
Binyamin Appelbaum ha un bell’articolo sullo stallo della crescita del commercio mondiale, tema che io (e molti altri) stiamo seguendo da un po’. Ed ho pensato di scrivere qualcosa in più su questo, se non altro come distrazione dalle elezioni.
Se c’è un problema nell’articolo di Appelbaum, è che ad una lettura superficiale potrebbe sembrare che esso suggerisca che il rallentamento della crescita del commercio è: a) necessariamente il risultato del protezionismo; b) obbligatoriamente una cosa negativa. Nessuna di queste due cose è giusta.
Mi ritrovai a ragionare di questo alcuni anni orsono, quando insegnavo politica del commercio alla Woodrow Wilson School. Ero molto colpito da un saggio di Taylor ed altri sul declino del commercio tra le due Guerre, nel quale si sosteneva che buona parte di questi declino rifletteva la crescita dei costi di trasporto, non il protezionismo. Ma come potevano essere saliti i costi di trasporto? C’era stato un regresso tecnologico?
La risposta, come il saggio correttamente metteva in evidenza, è che il costo reale del trasporto sale anche se c’è un progresso tecnologico ininterrotto, finché quel progresso è più lento che nel resto dell’economia.
Per chiarire quella storia nella mia mente, elaborai quasi per gioco un piccolo modello, contenuto in questi appunti per una lezione che tenni in qualche occasione nel decennio passato (?). è abbastanza certo che li scrissi prima che avvenisse la stagnazione globale nel commercio, ma sono egualmente una guida utile.
Per come comprendo, abbiamo avuto alcuni grandi avanzamenti tecnologici nei trasporti – la containerizzazione, probabilmente una migliore comunicazione che rende più facile interrompere la catena del valore; inoltre la grande evoluzione dei paesi in via di sviluppo dalla sostituzione delle importazioni verso l’orientamento alle esportazioni. Ma si trattò di un evento singolo. Ora che è alle nostre spalle, non c’è alcun indizio che il commercio crescerà più rapidamente del PIL. Non è necessario considerarlo un problema: è solo la fine di un’epoca tecnologica.
È abbastanza comico che la globalizzazione pare sia entrata in una fase stazionaria proprio mentre crescono la reazioni politiche. Ma non abbiamo intenzione di parlare di elezioni.
[1] Sulla base degli appunti della lezione – alla quale Krugman fa riferimento successivamente come fonte di questo modello – provo, se non a interpretarlo o far finta di aver compreso precisamente, almeno a riportare il significato dei singoli segni e a tradurre la tabella.
Il titolo è: “Determinare il commercio come quota del PIL”. Si presuppongono due paesi simmetrici, ciascuno specializzato nella produzione di un categoria di beni. I beni entrano in modo simmetrico nel processo di utilizzazione: σ esprime l’elasticità di sostituzione tra i beni simili. Un fattore della produzione è il lavoro; α esprime le unità di lavoro necessarie a produrre un bene in ciascun paese; τ le unità di lavoro necessarie per trasportare quel bene all’altro paese. Entrambi i paesi hanno tariffe ad valorem – ovvero imposte messe a carico del bene sulla base del suo valore e non in quota fissa sulla base della sua quantità – espresse dal tasso t.
Dunque, si spiega nella lezione, la percentuale di importazioni rispetto al consumo del bene domestico sarà:
[(1+τ/α)(1+t)]-σ
La definizione del commercio come quota del PIL è espressa da questa formula:
ν = (1+τ/α) -(σ-1) (1+t)-σ
Quindi, la quota delle importazioni è:
ν/(1+ν)
Laddove, in condizioni di nessun costo di trasporto e di libero commercio, il risultato sarebbe ν=1/2 mentre più alte sono le tariffe o i dazi, più bassa è la quota delle importazioni.
Krugman conclude (oltre a varie tabelle statistiche illustrative) in questo modo: “I costi di trasporto reali τ/α scendono soltanto se il progresso tecnologico nel trasporto è più veloce di quello nel resto dell’economia”.
novembre 2, 2016
OCTOBER 28, 2016 12:02 PM
Both Ross Douthat and David Brooks have now weighed in on the state of conservative intellectuals; both deserve credit for taking a critical look at their team.
But — of course there’s a but — I’d argue that they and others on the right still have huge blind spots. In fact, these blind spots are so huge as to make the critiques all but useless as a basis for reform. For if you ignore the true, deep roots of the conservative intellectual implosion, you’re never going to make a real start on reconstruction.
What are these blind spots? First, belief in a golden age that never existed. Second, a simply weird refusal to acknowledge the huge role played by money and monetary incentives promoting bad ideas.
On the first point: We’re supposed to think back nostalgically to the era when serious conservative intellectuals like Irving Kristol tried to understand the world, rather than treating everything as a political exercise in which ideas were just there to help their team win.
But it was never like that. Don’t take my word for it; take the word of Irving Kristol himself, in his book “Neoconservatism: The Autobiography of an Idea.” Kristol explained his embrace of supply-side economics in the 1970s: “I was not certain of its economic merits but quickly saw its political possibilities.” This justified a “cavalier attitude toward the budget deficit and other monetary or financial problems”, because “political effectiveness was the priority, not the accounting deficiencies of government.”
In short, never mind whether it’s right, as long as it’s politically useful. When David complains that “conservative opinion-meisters began to value politics over everything else,” he’s describing something that happened well before Reagan.
But shouldn’t there have been some reality checks along the way, with politically convenient ideas falling out of favor because they didn’t work in practice? No — because being wrong in the right way has always been a financially secure activity. I see this very clearly in economics, where there are three kinds of economists: liberal professional economists, conservative professional economists, and professional conservative economist — the fourth box is more or less empty, because billionaires don’t lavishly support hacks on the left.
Again, how can you even begin to talk about conservative intellectuals without discussing the founding of Heritage in 1973, or the roughly contemporaneous weaponizing of AEI as a political entity? Heritage in particular is flamboyantly incompetent on economics — remember the claim that the Ryan plan would reduce unemployment to 2.8 percent, or the chief economist’s complete botch on state job growth? But no matter: the foundation has plenty of money, because it advocates huge tax cuts for the rich, and the demand for that never goes away.
Remember, too, that climate denial is essentially an industry, funded by interest groups with a stake in promoting bad science. And this means a market for conservative “intellectuals” who are basically anti-science.
The point is that the intellectual side of movement conservatism has been a corrupt enterprise for around four decades. In its early years it could draw on right-wing intellectuals who had some prior reputation outside political work, but it has relied on home-grown hacks for a long time. I don’t see any reason to believe that such an enterprise is about to reform itself: if just being wrong and losing an election were enough, this would have happened in the 1990s.
Intellettuali conservatori: la pista dei soldi
Sia Ross Douthat che David Brooks sono appena intervenuti sul tema della condizione degli intellettuali conservatori; meritano entrambi riconoscenza per le osservazioni fondamentali che forniscono ai loro colleghi.
Ma – naturalmente c’è un ma – direi che loro, assieme ad altre persone della destra, hanno ancora una visuale assai limitata [1]. Di fatto, questa visuale è così limitata la rendere quelle critiche del tutto inutili, come base di una riforma. Perché se si ignora la verità, le radici profonde della implosione dell’intellettuale conservatore, non si riuscirà mai a far ripartire nei fatti una ricostruzione.
Cos’è questa visuale limitata? In primo luogo, la fiducia in un’età aurea che non è mai esistita. In secondo luogo, il rifiuto di riconoscere la grande funzione giocata dal denaro e dagli incentivi monetari nel promuovere le idee cattive.
Sul primo punto: si pensava di poter ricordare con nostalgia l’epoca nella quale gli intellettuali conservatori come Irving Kristol si sforzavano di capire il mondo, piuttosto che trattare ogni cosa come una esercitazione politica nella quale le idee servono soltanto a far vincere la propria squadra.
Ma non è mai stato così. Non perché lo dico io; considerate le parole di Irving Kristol stesso, nel suo libro “Il neoconservatorismo: autobiografia di un’idea”. Kristol spiega il modo in cui abbracciò l’idea dell’economia dal lato dell’offerta negli anni ’70: “Io non ero certo dei suoi meriti economici, ma mi accorsi presto delle sue possibilità politiche”. Questo giustificava un “atteggiamento sprezzante verso i deficit di bilancio e gli altri problemi monetari o finanziari”, giacché “la priorità era l’efficacia politica, non le deficienze contabili del Governo”.
In breve, non contava se era giusto, finché era politicamente utile. Quando David[2] si lamenta che “i maggiori opinionisti conservatori hanno cominciato a considerare la politica sopra ogni altra cosa”, sta descrivendo qualcosa che accadde ben prima di Reagan.
Ma non avrebbe dovuto esserci lungo il percorso qualche riscontro nei fatti, per il quale le idee politicamente convenienti sarebbero cadute in disgrazia perché, in pratica, non funzionavano? No – perché aver torto in modi opportuni è sempre stata una attività finanziariamente sicura. Me ne accorgo molto chiaramente in economia, dove ci sono tre tipi di economisti: gli economisti professionisti progressisti, gli economisti professionisti conservatori e gli economisti conservatori di professione (il quarto raggruppamento è più o meno vuoto, perché i miliardari non sostengono profumatamente i pennivendoli di sinistra).
Ancora, come è possibile addirittura cominciare a parlare degli intellettuali conservatori senza discutere la fondazione di Heritage nel 1973, oppure la militarizzazione, all’incirca contemporanea, dell’American Enterprise Institute come entità politica? In particolare Heritage è clamorosamente incompetente in economia – si ricordi la pretesa secondo la quale il programma di Ryan avrebbe ridotto la disoccupazione al 2,8 per cento, oppure l’assoluto pasticcio del suo capo economista sulla crescita dei posti di lavoro al livello degli Stati. Ma non conta; la Fondazione Heritage ha abbondanza di soldi, perché sostiene grandi sgravi fiscali per i ricchi, e tale richiesta non perde mai di attualità.
Si ricordi anche che il negazionismo in materia di clima è in sostanza un settore economico, finanziato dalla convenienza di vari gruppi che hanno interesse a promuovere una scienza da due soldi. E questo significa un mercato per gli “intellettuali” conservatori, che sono fondamentalmente ostili alla scienza.
Il punto è che il settore intellettuale del movimento conservatore è stato una impresa corrotta per circa quattro decenni. Nei suoi primi anni esso poteva attingere a intellettuali di destra che avevano qualche precedente reputazione fuori dalla attività politica, ma da molto tempo esso di basa su scribacchini allevati in batteria. Non vedo una ragione per credere che una tale consorteria possa occuparsi di riformare sé stessa: se solo sbagliare e perdere una elezione fosse sufficiente, questo sarebbe potuto accadere negli anni ’90.
[1] “Blind spot” – letteralmente ‘punto cieco’ – è una piccola area dell’occhio, dove si innerva nel nervo ottico, insensibile alla luce. Può anche valere più genericamente per uno specchietto retrovisore, anche se del punto cieco non dovrebbe essere responsabile lo specchietto, ma sempre l’occhio.
[2] David Brooks, giornalista del New York Times di orientamento moderato, che è uno dei due soggetti con i quali questo post interloquisce.
ottobre 27, 2016
OCTOBER 22, 2016 11:35 AM
There was a time, not long ago, when deficit scolds were actively dangerous — when their huffing and puffing came quite close to stampeding Washington into really bad policies like raising the Medicare age (which wouldn’t even have saved money) and short-term fiscal austerity. At this point their influence doesn’t reach nearly that far. But they continue to play a malign role in our national discourse — because they divert and distract attention from much more deserving problems, depriving crucial issues of political oxygen.
You saw that in the debates: four, count them, four questions about debt from the CRFB, not one about climate change. And you see it again in today’s Times, with Pete Peterson (of course) and Paul Volcker (sigh) lecturing us about the usual stuff.
What’s so bad about this kind of deficit scolding? It’s deeply misleading on two levels: the problem it purports to lay out is far less clearly a major issue than the scolds claim, and the insistence that we need immediate action is just incoherent.
So, about that supposed debt crisis: right now we have a more or less stable ratio of debt to GDP, and no hint of a financing problem. So claims that we are facing something terrible rest on the presumption that the budget situation will worsen dramatically over time. How sure are we about that? Less than you may imagine.
Yes, the population is getting older, which means more spending on Medicare and Social Security. But it’s already 2016, which means that quite a few baby boomers are already drawing on those programs; by 2020 we’ll be about halfway through the demographic transition, and current estimates don’t suggest a big budget problem.
Why, then, do you see projections of a large debt increase? The answer lies not in a known factor — an aging population — but in assumed growth in health care costs and rising interest rates. And the truth is that we don’t know that these are going to happen. In fact, health costs have grown much more slowly since 2010 than previously projected, and interest rates have been much lower. As the chart above shows, taking these favorable surprises into account has already drastically reduced long-run debt projections. These days the long-run outlook looks vastly less scary than people used to imagine.
Still, it’s probably true that something will eventually have to be done to bring spending and revenues in line. But that brings me to the second point: why is this a crucial issue right now?
Are debt scolds demanding that we slash spending and raise taxes right away? Actually, no: the economy is still weak, interest rates still low (meaning that the Fed can’t offset fiscal tightening with easy money), and as a matter of macroeconomic prudence we should probably be running bigger, not smaller deficits in the medium term. So proposals to “deal with” the supposed debt problem always involve long-term cuts in benefits and (reluctantly) increases in taxes. That is, they don’t involve actual policy moves now, or for the next 5-10 years.
So why is it so important to take up the issue right now, with so much else on our plate?
Put it this way: yes, it’s possible that we may at some point in the future have to cut benefits. But deficit scolds talk as if they offer a way to avoid this fate, when in fact their solution to the prospect of future benefit cuts is … to cut future benefits.
If you try really hard, you can argue that locking in policies now for this future adjustment will make the transition smoother. But that is really a second-order issue, hardly deserving to take up a lot of our time. By putting the debt question aside, we are NOT in any material way making the future worse.
And that is a total contrast with climate change, where our failure to act means pouring vast quantities of greenhouse gases into the atmosphere, materially increasing the odds of catastrophe with every year we wait.
So my message to the deficit scolds is this: yes, we may face some hard choices a couple of decades from now. But we might not, and in any case there aren’t any choices that must be made now. Meanwhile, there are genuinely scary things happening as we speak, which we should be taking on but aren’t. And your fear-mongering is distracting us from these real problems. Therefore, I would respectfully request that you people just go away.
Debito, sviamento, distrazione
Ci fu un tempo, non molto lontano, quando le Cassandre del deficit [2] erano attive e pericolose – il loro fiato sul collo arrivò abbastanza vicino a creare un parapiglia a Washington, nella direzione di politiche davvero negative come elevare l’età dell’ingresso in Medicare (che non avrebbe neppure fatto risparmiare soldi) e una austerità della finanza pubblica nel breve termine. A questo punto la loro influenza non raggiunge neanche lontanamente tali livelli. Eppure continuano a giocare un ruolo malefico nel dibattito nazionale – perché dirottano e distraggono l’attenzione da problemi molto più meritevoli, togliendo ossigeno politico a tematiche cruciali.
L’avete visto nei dibattiti [3]: quattro domande, le ho contate, sul debito da parte del Comitato per un Bilancio Federale Responsabile (CRFB), nessuna sul cambiamento climatico. E lo vedete anche nel Times di oggi, con Pete Peterson (ovviamente) e (purtroppo) Paul Volcker che ci fanno la ramanzina sulle solite cose.
Cosa c’è di così negativo in questo genere di catastrofismo del deficit? Esso, per due aspetti, è profondamente fuorviante: il problema che esso si propone di esporre è un tema molto meno chiaramente importante di quanto quei censori pretendano, e l’insistenza secondo la quale avremmo bisogno di una iniziativa immediata è proprio incoerente.
Dunque, a proposito della presunta crisi del debito: in questo momento abbiamo un rapporto tra debito e PIL più o meno stabile, e non abbiamo cenni di problemi di finanziamento. Dunque, le pretese secondo le quali saremmo dinanzi a una situazione terribile si basano sulla presunzione che la condizione del bilancio peggiorerà in modo drammatico nel corso del tempo. Quanto è certo che avremo quel problema? Meno di quanto potete immaginare.
È vero, la popolazione sta invecchiando, il che comporta maggiore spesa per Medicare e per la Previdenza Sociale. Ma siamo già nel 2016, il che significa che un certo numero di “baby boomer” [4] sono già a carico di quei programmi; con il 2020 saremo già a metà del percorso della transizione demografica, e le stime attuali non indicano un grande problema di bilancio.
Perché, allora, si vedono previsioni di un grande aumento del debito? La risposta non sta in un fattore indiscutibile – una popolazione che invecchia – bensì in una crescita presunta dei costi della assistenza sanitaria e in tassi di interesse in aumento. E la verità è che non sappiamo se queste siano cose destinate ad accadere. Di fatto, i costi sanitari sono cresciuti, a partire dal 2010, molto più lentamente di quello che era stato previsto in precedenza, e i tassi di interesse sono rimasti molto più bassi. Come la tabella sopra dimostra, mettendo nel conto queste favorevoli sorprese si sono già drasticamente ridotte le previsioni sul debito a lungo termine. Al giorno d’oggi, la previsione a lungo termine appare enormemente meno terrificante di quanto la gente sia solita immaginare.
Eppure, è probabile che alla fine qualcosa si dovrà fare per mettere la spesa e le entrate in linea. Ma questo mi porta al secondo punto: perché questa sarebbe una questione fondamentale in questo momento?
Le Cassandre del debito stanno chiedendo che si taglino le spese e si aumentino le tasse sin da subito? A dir la verità, no: l’economia è ancora debole, i tassi di interesse sono ancora bassi (il che significa che la Fed non potrebbe bilanciare una restrizione della finanza pubblica con soldi facili) e dal punto di vista della prudenza macroeconomica dovremmo probabilmente, nel medio termine, gestire deficit di bilancio più grandi, non più piccoli. Dunque le proposte del “fare i conti” con il presunto problema del debito riguardano di norma tagli a lungo termine nei sussidi e (con una certa riluttanza) aumenti delle tasse. Ovvero, esse non riguardano effettive iniziative politiche in questo momento, o per i prossimi 5-10 anni.
Perché dunque è così importante porre quel tema in questo momento, con tante altre cose sul piatto?
Mettiamola in questo modo: sì, è possibile che dovremo in qualche momento del futuro dover tagliare i sussidi. Ma le Cassandre del deficit ne parlano come se offrissero un modo per evitare questo destino, mentre di fatto la loro soluzione alla prospettiva di tagli futuri ai sussidi è …. tagliare i futuri sussidi.
Se proprio fate uno sforzo, potete sostenere che fissando adesso politiche per questa correzione futura renderà la transizione più morbida. Ma si tratta davvero di un a questione di second’ordine, che difficilmente merita di impegnare una grande quantità del nostro tempo. Ma mettendo da parte la questione del debito, noi NON stiamo in alcun modo sostanziale rendendo peggiore il futuro.
E ciò è in totale contrasto con il cambiamento climatico, dove la nostra incapacità di agire comporta il riversare grandi quantità di gas serra nell’atmosfera, aumentando sostanzialmente le probabilità di una catastrofe, per ogni anno di inerzia.
Dunque, il mio messaggio alle Cassandre del deficit è il seguente: sì, potremo fronteggiare scelte difficili tra un paio di decenni. Ma potrebbe anche non succedere, e in ogni caso non c’è alcuna scelta che debba essere assunta oggi. Nel frattempo, ci sono cose effettivamente terribili che accadono nel mentre stiamo parlando, che dovremmo affrontare, ma non lo facciamo. E il vostro seminare paure ci distrae da questi problemi reali. Di conseguenza, vorrei rispettosamente chiedere che semplicemente vi facciate da parte.
[1] Il titolo della tabella è: “Il tasso del debito previsto per il 2046 è caduta di più della metà”. Il debito è espresso come percentuale del PIL.
CBPP è l’acronimo di “Center on Budget and Policy Priorities”, una agenzia di ricerche che, se non sbaglio, dovrebbe essere abbastanza indipendente. Le previsioni del CBPP indicavano una crescita del debito che, dalla metà del 2010, sarebbe salita, da circa il 50 per cento a oltre il 240 per cento del PIL nel 2046.
[2] Traduco in questo caso “scolds” con “Cassandre”, che mi pare più efficace di “brontoloni, criticoni etc.”, anche perché restituisce meglio l’idea di ‘allarmismo’ implicita in quelle tendenze politiche.
[3] I dibattiti televisivi tra i due candidati alla Presidenza.
[4] Cioè, di componenti della generazione della ‘esplosione’ demografica del dopoguerra, quando ci fu una impennata nelle nascite.
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