Blog di Krugman

Come è successo che la competizione si è fatta ravvicinata? (27 settembre 2016)

 

SEP 27 1:19 PM

How Did The Race Get Close?

 

Last night’s debate was an incredible blowout — yet both candidates were pretty much who we already knew they were. This was the Hillary Clinton of the Benghazi hearing confronting the Donald Trump we’ve seen at every stage of the campaign.

But this then raises a question: how did the race get so close? Why, on the eve of the debate, did polls show at best a narrow Clinton lead? What happened to the commanding lead Clinton held after the conventions?

You might say that Clinton ran a terrible campaign — but what, exactly, did she do? Trump may have learned to read from a TelePrompter, but was that such a big deal?

Well, my guess is that it was the Goring of Hillary: beginning in late August, with the AP report on the Clinton Foundation, the mainstream media went all in on “abnormalizing” Mrs. Clinton, a process that culminated with Matt Lauer, who fixated on emails while letting grotesque, known, Trump lies slide. Here’s a graphic, using the Upshot’s estimate of election probabilities (which is a useful summary of what the polls say):

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The thing is, it was all scurrilous. The AP, if it had been honest, had found no evidence of wrongdoing or undue influence; if meeting a Nobel Peace Prize winner who happened to be a personal friend was their prime example … But dinging the Clintons was what the cool kids were supposed to do, with normal rules not applying.

And this media onslaught pushed the race quite close on the eve of the first debate. It was feeling like 2000 all over again; and I think Jamelle Bouie got this exactly right:

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But it all went off script last night, partly because HRC did so well and DJT so badly — but also, I think, because pressure from progressives ensured that there was a lot of real-time fact-checking.

Whether it turns out to have been enough to turn the tide remains to be seen. But anyone in the media who participated in the razzing of Hillary Clinton should think about what we saw on that stage, and ask himself what the hell he thought he was doing.

 

Come è successo che la competizione si è fatta ravvicinata?

Il dibattito della notte scorsa è stata un’incredibile vittoria a mani basse – tuttavia entrambi i candidati erano praticamente gli stessi che già conoscevamo. Hillary Clinton era la stessa della audizione sui fatti di Bengasi, di fronte a un Donald Trump come lo abbiamo conosciuto in ogni momento della campagna elettorale.

Ma questo solleva una domanda: come è stato possibile che la competizione si sia fatta così ravvicinata? Perché, al momento del dibattito, i sondaggi mostravano al massimo un lieve vantaggio della Clinton? Cosa è successo al vantaggio imponente che la Clinton deteneva dopo le convenzioni?

Si potrebbe sostenere che la Clinton abbia gestito assai male la campagna elettorale – ma perché, esattamente, lo ha fatto? Trump può aver imparato a leggere da TelePrompter, ma è stata una faccenda così grossa?

Ebbene, la mia impressione è che è stato il trattamento simile a quello di Al Gore ricevuto da Hillary: a cominciare dalla fine di agosto, con il rapporto della Associated Press sulla Fondazione Clinton, la parte prevalente dei media si è ritrovata in una “anormalizzazione” della signora Clinton, un processo che h avuto il suo picco con Matt Lauer, che si era fissato sulle email nel mentre consentiva la grottesca, ben nota valanga di bugie di Trump. Ecco un grafico, utilizzando la stima di Upshot sulle probabilità di elezione (che è una sintesi utile di quello che dicono i sondaggi):

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Il punto è che è stato tutto osceno. La Associated Press, se fosse stata onesta, non avrebbe trovato alcuna prova di mala condotta o di influenza impropria; se incontrare un Premio Nobel che si dà il caso fosse anche un amico personale era il loro esempio più importante …. Ma picchiare sui Clinton era quello che si supponeva che i ragazzi per bene dovessero fare, non applicando le regole normali.

E questo attacco violento dei media ha ravvicinato abbastanza la competizione al momento del primo dibattito. Sembrava di respirare nuovamente l’aria del 2000; ed io penso che Jamelle Bouie lo ha espresso in modo del tutto giusto:

 

(nel Tweet della Bouie è scritto: “Si ha la sensazione che un certo numero di commentatori fossero delusi di non poter proclamare Trump vincitore”, e cita come esempio un giudizio di Greg Dworkin, secondo il quale i dibattiti non contano, la Clinton vincerà ma i dibattiti non influenzano i sondaggi)

 

Ma la notte scorsa è andato tutto storto, in parte perché la Clinton si è comportata così bene e Trump così male – ma anche, penso, perché la pressione dei progressisti ha assicurato che ci fosse un bel po’ di controllo di attinenza ai fatti in tempo reale.

Resta da vedere se sarà stato sufficiente per cambiare il corso degli eventi. Ma tutti quelli che hanno partecipato nei media a farsi beffe di Hillary Clinton dovrebbero riflettere a che cosa stavamo assistendo in quel momento, e chiedersi cosa diavolo pensavano di fare.

 

 

 

 

Trump sul commercio (dal blog di Krugman, 27 settembre 2016)

settembre 27, 2016

 

SEP 27 4:24 AM 

Trump On Trade

 

For the most part, at least as of now — mid-morning where I am, even if it’s the middle of the night back in America — the media consensus seems to be that Clinton won. This is a big deal: you know, just know, that they were primed to declare Trump the winner based on Clinton’s snooty insistence on facts, or maybe her “body language”. (Imagine what they would have said if she had engaged in Trump-like grimacing, pouting, and smirking, not to mention sniffling.) But he was so bad and she so good that they couldn’t.

Even so, it seems to be conventional wisdom that Trump did well in the first 15 minutes. And I guess he did if you are impressed by someone talking loudly and confidently about a subject he really doesn’t understand. But really: Trump on trade was ignorance all the way.

There were specifics: China is “devaluing” (not so — it was holding down the yuan five years ago, but these days it’s intervening to keep the yuan up, not down.) There was this, on Mexico:

Let me give you the example of Mexico. They have a VAT tax. We’re on a different system. When we sell into Mexico, there’s a tax. When they sell in — automatic, 16 percent, approximately. When they sell into us, there’s no tax. It’s a defective agreement. It’s been defective for a long time, many years, but the politicians haven’t done anything about it.

Gah. A VAT is basically a sales tax. It is levied on both domestic and imported goods, so that it doesn’t protect against imports — which is why it’s allowed under international trade rules, and not considered a protectionist trade policy. I get that Trump is not an economist — hoo boy, is he not an economist — but this is one of his signature issues, so you might have expected him to learn a few facts.

More broadly, Trump’s whole view on trade is that other people are taking advantage of us — that it’s all about dominance, and that we’re weak. And even if you think we’ve pushed globalization too far, even if you are worried about the effects of trade on income distribution, that’s just a foolish way to think about the problem.

So don’t score Trump as somehow winning on trade. Yes, he blustered more confidently on that subject than on anything else. But he was talking absolute garbage even there.

 

Trump sul commercio

Per la maggior parte, almeno al momento attuale – dove mi trovo siamo a metà del mattino, anche se in America siamo in mezzo alla notte – il consenso dei media sembra attribuisca la vittoria alla Clinton. Si tratta di una cosa importante: si sapeva con certezza che erano pronti a stabilire la vittoria di Trump basandosi sulla altezzosa insistenza della Clinton sui fatti, o magari sul suo “linguaggio del corpo” (si immagini cosa avrebbero detto se si fosse atteggiata con le smorfie, gli atteggiamenti imbronciati e i sorrisi beffardi alla Trump, per non dire dei suoi rumori nasali). Ma lui è andato talmente male, e lei talmente bene, che non hanno potuto.

Persino così, sembra che il giudizio comune sia che Trump è andato bene nei primi 15 minuti. E suppongo che l’abbia fatto, nella misura in cui si è impressionabili da qualcuno che parla a voce alta e in modo disinvolto su temi che realmente non conosce. Intendo proprio quello: in materia di commercio Trump ha mostrato una completa ignoranza.

Ci sono stati alcuni particolari: la Cina sta “svalutando” (non è così – essa lo stava facendo cinque anni orsono, di questi tempi sta intervenendo per sostenere lo Yuan, non per svalutarlo). Sul Messico, questo è quanto ha detto:

“Lasciatemi fare l’esempio del Messico, dove hanno l’IVA. Noi abbiamo un sistema diverso. Quando noi vendiamo in Messico, c’è una tassa. Quando vendono loro, un 16 per cento automatico, grosso modo. Quando vendono da noi, non ci sono tasse. È un accordo viziato. È stato così per un lungo tempo, per molti anni, ma i politici non hanno fatto niente.”

Guarda un po’! L’IVA è fondamentalmente una tassa sulle vendite. Viene riscossa sia sui beni nazionali che su quelli di importazione – e questa è la ragione per la quale è ammessa dalle regole commerciali internazionali, e non è considerata una politica commerciale protezionistica.  Capisco che Trump non sia un economista – diamine ragazzi, non è un economista! – ma questa tematica è un suo fiore all’occhiello, dunque vi sareste aspettati che imparasse qualche dato di fatto.

Più in generale, il complessivo punto di vista di Trump sul commercio è che gli altri si stanno avvantaggiando a nostro danno – tutto dipende da chi ha il predominio, e noi siamo deboli. E persino se pensate che abbiamo spinto troppo oltre la globalizzazione, persino se siete preoccupati sugli effetti del commercio nella distribuzione del reddito, questo è solo un modo sciocco per ragionare di quel problema.

Dunque, non attribuite a Trump un punteggio come se in qualche modo avesse prevalso sul tema del commercio. Ha detto spacconate su quel tema in modo più disinvolto che su qualsiasi altro. Ma anche in quel caso stava parlando assolutamente a vanvera.

 

 

 

 

 

La bugia della falsa equivalenza (26 settembre 2016)

settembre 27, 2016

 

SEPTEMBER 26, 2016 3:51 AM 

The Falsity of False Equivalence

 

If Donald Trump becomes president, the news media will bear a large share of the blame. I know some (many) journalists are busy denying responsibility, but this is absurd, and I think they know it. As Nick Kristof says, polls showing that the public considers Hillary Clinton, a minor fibber at most, less trustworthy than a pathological liar is prima facie evidence of massive media failure.

In fact, it’s telling that this debate is usually framed as one of false equivalence and whether it’s a problem. It’s a lot better to have this debate than a continuation of the unchecked media assault on Clinton. But it’s actually much worse than that. The media haven’t treated Clinton fibs as the equivalent of outright Trump lies; they have treated more or less innocuous Clintonisms as major scandals while whitewashing Trump. Put simply, until the past few days the media have had it in for Clinton; only now, at the last moment or possibly after the last moment has the enormity of the sin begun to sink in.

Think about the Matt Lauer debacle. That wasn’t a case of false equivalence; a rough summary of his performance would be “Emails, emails, emails; yes, Mr. Trump, whatever you say, Mr. Trump.” One candidate was repeatedly harassed over something trivial, the other allowed to slide on grotesque falsehoods.

Or as Jonathan Chait says, the problem hasn’t just been the normalization of Trump, it has been the abnormalization of Clinton. Consider the AP report on the Clinton Foundation. An honest report would have said, “The foundation arguably creates the possibility of self-dealing and undue influence, but we’ve looked hard and haven’t found much of anything.” Instead, the report played up meetings with a Nobel Peace Prize winner as being somehow scandalous.

And it’s still happening, if not quite so relentlessly. We’re still seeing reports about how something Clinton did “raises questions,” “casts shadows,” etc. – weasel words that allow reporters to write negative stories regardless of the facts.

I’ve compared this to what went down in the 2000 campaign; Nick compares it to what happened in the runup to the Iraq war. Pick your analogy. But let’s use Nick’s example: actually, the media didn’t do false equivalence in 2002. What they – alas, including this paper – actually did was to breathlessly hype the case for war, reporting as an inside scoop everything that Dick Cheney fed them, while freezing out critics and skeptics. The other side was out there; McClatchy found plenty of insiders willing to say that we were being sold a bill of goods. But the skeptics couldn’t get a word in edgewise. Effectively, the media were pro-war.

And this time they have effectively been pro-Trump – actually anti-Clinton, but it comes to the same thing. I doubt that reporters or even editors have thought of themselves as trying to elect Trump; many of them will be horrified if he wins. But they went all in on Clinton Rules, under which sneering at and razzing a Clinton is considered good for your career. It’s really more like high school than high journalism, but it may have horrendous consequences.

A lot depends on whether the same behavior continues for the final stretch. If the media report on the debates the way they did in 2000 – if substance is replaced by descriptions of Clinton’s facial expressions, her sighs, or how she “comes across,” while downplaying Trump’s raw lies, say hello to the Trump White House. And history will not forgive the people who made it possible.

 

La bugia della falsa equivalenza

 

Se Donald Trump diventerà Presidente, i media ne porteranno buona parte della responsabilità. So che (alcuni) giornalisti sono impegnati e negare tale responsabilità, ma è assurdo, e penso che lo sappiano. Come dice Nick Kristof, il fatto che i sondaggi mostrino che l’opinione pubblica considera Hillary Clinton, nel migliore dei casi, una contaballe, meno meritevole di fiducia di un bugiardo patologico, è sino a prova contraria la conferma di un massiccio fallimento dei media.

In sostanza, ci viene raccontato che questo dibattito viene normalmente schematizzato sul modello della falsa equivalenza, e se questo sia un problema. È molto meglio avere il confronto diretto [1] che una prosecuzione dell’assalto incontrollato dei media sulla Clinton. Ma per la verità le cose sono andate molto peggio. I media non hanno trattato le frottole della Clinton alla stessa stregua delle complete bugie di Trump; hanno trattato le più o meno innocue prestazioni clintoniane come importanti scandali, mentre occultavano Trump. Per dirla semplicemente, sino agli ultimi giorni i media sono stati ostili alla Clinton; solo adesso, all’ultimo momento, o forse dopo, l’enormità di quel pregiudizio ha cominciato ad essere compresa.

Si pensi alla débâcle di Matt Lauer. Quella non è stata un caso di falsa equivalenza; un semplice resoconto della sua prestazione sarebbe: “Email, email e ancora email; va bene signor Trump, qualsiasi cosa lei dica, signor Trump”. Un candidato è stato aggredito a ripetizione su qualcosa di banale, all’altro si consentiva di scivolare su falsità grottesche.

Oppure, come dice Jonathan Chait, il problema non è stato soltanto la ‘normalizzazione’ di Trump, è stato la ‘abnormalizzazione’ della Clinton. Si consideri il rapporto della Associated Press sulla Fondazione Clinton. Un resoconto onesto avrebbe dovuto dire: “La Fondazione probabilmente crea la possibilità di una impropria influenza a proprio vantaggio, ma abbiamo osservato attentamente e non abbiamo trovato granché”.

Invece, il rapporto ha messo in evidenza incontri con un vincitore di un Premio Nobel come se fossero qualcosa di scandaloso.

E sta ancora succedendo, seppure non in modo così incessante. Stiamo ancora leggendo resoconti su come qualcosa da parte della Clinton “sollevi domande”, “getti ombre” etc. – espressioni ambigue che consentono ai giornalisti di scrivere storie negative a prescindere dai fatti.

Ho confrontato tutto questo con quello che accadde nella campagna elettorale del 2000; Nick lo confronta con quello che avvenne nel periodo precedente alla guerra in Iraq. Ognuno scelga la analogia che crede. Ma fatemi usare l’esempio di Nick: effettivamente, i media nel 2002 non usarono la falsa equivalenza. Quello che essi fecero – ahimè incluso questo giornale [2] – effettivamente fu un incessante battage a favore della guerra, rendicontando come scoop per i beneinformati tutto quello che Dick Cheney passava loro, mentre si escludevano i critici e gli scettici. L’altro schieramento era messo ai margini; la McClatchy [3] trovò una gran quantità di beneinformati disposti a sostenere che stavamo facendo un affarone. Ma gli scettici non riuscirono a infilarci nemmeno una parola. In sostanza, i media erano a favore della guerra.

E questa volta essi sono stati sostanzialmente a favore di Trump – per la verità contro la Clinton, ma il punto è lo stesso. Dubito che i giornalisti o persino gli editori si siano immaginati come se cercassero di eleggere Trump; molti di loro troverebbero terribile se vincesse.  Ma hanno tutti aderito alle speciali ‘regole sui Clinton’, per le quali sogghignare e prendere in giro un Clinton è considerato positivo per la propria carriera. Più che alto giornalismo, in realtà, sono atteggiamenti da collegiali, ma possono avere conseguenze spaventose.

Molto dipenderà dal fatto che lo stesso comportamento prosegua nella fase finale. Se i resoconti dei media sui dibattiti saranno simili a quelli del 2000 –  se la sostanza verrà rimpiazzata dalle espressioni facciali della Clinton, dai suoi sospiri, da come ella “dà l’impressione di essere”, mentre si minimizzano le grezze bugie di Trump, si può dare il benvenuto a Trump alla Casa Bianca.

E la storia non perdonerà chi lo ha reso possibile.

 

 

[1] Suppongo che in questo caso il riferimento sia all’imminente confronto televisivo.

[2] Il New York Times, giacché il blog di Krugman è un prodotto di quel giornale.

[3] Dovrebbe trattarsi di una società dell’informazione, giornali ed internet.

 

 

 

 

La curiosa fiducia di ciarlatani ed eccentrici (22 settembre 2016)

settembre 25, 2016

 

SEP 22 7:27 AM

The Curious Confidence of Charlatans and Cranks

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Brad DeLong tells us about a letter being circulated by economists for Trump — although, as he notes, they don’t dare say that, and describe themselves only as critics of Clinton. Several things are notable about the letter, including the absence of many usually reliable Republican  economists. But they do have a Nobelist, Eugene Fama, at the top. And the substance of the letter — government bad! taxes and regulation bad! free markets rool like Reagan! — is pretty standard.

What’s curious is why, exactly, anyone should believe this story. In recent memory, GW Bush failed to deliver the promised Bush boom and eventually presided over disaster; the Obama economy has not been all one might have hoped, but as many have noted, the job growth of the past three years and the income growth that has finally emerged would have been hailed as triumphs if Mitt Romney were president. Taking the longer view, Clinton > Reagan and Obama > Bush, by almost any measure. Why doesn’t this reality seem to register?

One big answer, I think, lies in profound ignorance, in the insistence that history is what it was supposed to be, not what it was. Way back Mr. Fama was caught insisting that there was a great takeoff of global growth after 1980 due to financial deregulation. In fact, growth in advanced countries has been slower since 1980 than it was before, and it’s really, really hard to attribute Chinese growth under Deng Xiaoping to U.S. banking deregulation. But this is the right: legends that support the cause trump awkward facts.

And let’s be clear: this is a problem that won’t go away even if Trump goes down to defeat. People like Paul Ryan are barely more in touch with reality than @ilduce2016.

 

La curiosa fiducia di ciarlatani ed eccentrici

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Brad DeLong ci racconta di una lettera in circolazione da parte di economisti a favore di Trump – sebbene, come egli nota, essi non osino definirla in tal modo, e si descrivano solo come critici della Clinton. In quella lettera, alcune cose sono notevoli, compresa l’assenza di molti economisti repubblicani solitamente disponibili. Ma hanno in cima un premio Nobel, Eugene Fama. E la sostanza della lettera – il Governo è un male! Le tasse e i regolamenti sono un male! Al comando i liberi mercati come sotto Reagan! – è piuttosto consueta.

Quello che è curioso è precisamente perché si dovrebbe credere a questa storia. Nella memoria recente, GW Bush non mantenne la promessa di un boom e alla fine fu il Presidente di un disastro; l’economia con Obama non è stato quello che si poteva sperare, ma come molti hanno notato, la crescita dei posti di lavoro nei tre anni passati e la crescita del reddito che alla fine è emersa sarebbe stata salutata come un trionfo se Mitt Romney fosse stato Presidente. Considerando la prospettiva più lunga, Clinton andò meglio di Reagan ed Obama è andato meglio di Bush, da quasi tutti i punti di vista. Perché questo dato di fatto non appare meritevole di nota?

Penso che una parte importante della risposta risieda nell’ignoranza, nella insistenza secondo la quale la storia è stata quello che si supponeva fosse, non quella che è stata. In passato Fama venne sorpreso a ribadire che dopo gli anni ‘80 c’era stato un grande decollo della crescita globale, dovuto alla deregolamentazione finanziaria. Di fatto, la crescita nei paesi avanzati è stata più lenta a partire dagli anni ’80 rispetto a quello che era stata in precedenza, ed è davvero molto difficile attribuire la crescita cinese sotto Deng Xiaoping alla deregolamentazione del sistema bancario americano. Ma la destra è questo: le leggende a sostegno della propria causa surclassano i fatti sgradevoli.

E siamo chiari: questo è un problema che non sarà eliminato anche se Trump verrà sconfitto. Individui come Paul Ryan non sono più in sintonia con le cose reali di @ilduce2016 [1].

 

 

 

[1] Si tratta del nome di un account twitter che è stato inaugurato da alcuni giornalisti americani, inserendo varie frasi di Mussolini. Finché non è accaduto che un giorno Trump ne abbia usata una, quella secondo la quale sarebbe “meglio vivere un giorno da leoni, che cento da pecora”. Nel complesso, una cosa un po’ scema, se si considera che si tratta di una frase che per un secolo è stata usata da molti altri (ma forse non negli USA).

 

 

 

 

Perché i media sono obiettivamente a favore di Trump? (13 settembre 2016)

settembre 15, 2016

 

SEP 13 10:37 AM 

Why Are The Media Objectively Pro-Trump?

Because they are, at this point. It’s not even false equivalence: compare the amount of attention given to the Clinton Foundation despite absence of any evidence of wrongdoing, and attention given to Trump Foundation, which engaged in more or less open bribery — but barely made a dent in news coverage. Clinton was harassed endlessly over failure to give press conferences, even though she was doing lots of interviews; Trump violated decades of tradition by refusing to release his taxes, amid strong suspicion that he is hiding something; the press simply dropped the subject.

Brian Beutler argues that it’s about protecting the media’s own concerns, namely access. But I don’t think that works. It doesn’t explain why the Clinton emails were a never-ending story but the disappearance of millions of George W. Bush emails wasn’t, or for that matter Jeb Bush’s deletion of records; the revelation that Colin Powell did, indeed, offer HRC advice on how to have private email the way he did hasn’t even been reported by some major news organizations.

And I don’t see how the huffing and puffing about the foundation — which “raised questions”, but where the media were completely unwilling to accept the answers they found — fits into this at all.

No, it’s something special about Clinton Rules. I don’t really understand it. But it has the feeling of a high school clique bullying a nerdy classmate because it’s the cool thing to do.

And as I feared, it looks as if people who cried wolf about non-scandals are now engaged in an all-out effort to dig up or invent dirt to justify their previous Clinton hostility.

Hard to believe that such pettiness could have horrifying consequences. But I am very scared.

 

Perché i media sono obiettivamente a favore di Trump?

Perché è così, a questo punto. Non è neppure la falsa equivalenza: si confronti la quantità di attenzione data alla Fondazione Clinton nonostante l’assenza di ogni prova di malaffare, e l’attenzione data alla Fondazione Trump, che si è dedicata in una più o meno aperta attività di corruzione – ma che è appena stata scalfita dalla copertura dei media. La Clinton è stata aggredita in continuazione per non aver fatto conferenze stampa, pur avendo concesso una quantità di interviste; Trump ha violato una tradizione di decenni rifiutando di render note le sue tasse, con il forte sospetto che stia nascondendo qualcosa; la stampa ha soltanto fatto scivolare la questione.

Brian Beutler sostiene che si tratta di una forma di protezione degli interessi propri dei media, precisamente il loro diritto di accesso. Ma non penso che stia in piedi. Non mi spiego che le email della Clinton siano state una storia infinita ma la scomparsa di milioni di email di George W. Bush non lo sia stato, o per la stessa ragione la cancellazione delle documentazioni di Jeb Bush; la rivelazione che Colin Powell aveva, effettivamente, offerto a Hillary Clinton il consiglio di ricorrere ad una mail privata, come aveva fatto lui, non è stata neppure oggetto di resoconti su alcune principali organizzazioni dei notiziari.

E non vedo come tutto quell’ansimare sulla Fondazione – che “ha sollevato domande”, ma nel qual caso i media sono stati totalmente indisponibili ad accettare le risposte che hanno trovato – c’entri con tutto questo.

No, nelle regole particolari adottate con i Clinton c’è qualcosa di speciale. Non posso dire di comprenderlo. Ma sembra come la prepotenza di una combriccola in una scuola superiore nei confronti di un compagno di classe sgobbone, perché si è stabilito che è la cosa migliore da fare.

E, come temevo, sembra che le persone che hanno gridato al lupo sui non-scandali siano adesso impegnate in uno sforzo totale nel portare alla luce o inventare cose poco pulite per giustificare la loro precedente ostilità verso la Clinton.

È difficile credere che queste meschinità possano avere conseguenze terribili. Ma sono molto spaventato.

 

 

 

 

 

 

Tobin aveva ragione (assolutamente per esperti) (da blog di Krugman, 10 settembre 2016)

settembre 11, 2016

 

SEP 10 9:25 AM 

Tobin Was Right (Implicitly Wonkish)

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Right now, when not trying to do something about the political horror unfolding, I’m revising macro chapters and also preparing for several European speeches, including this one on macroeconomic lessons from recent experience. And I found myself returning to a theme I’ve touched on a few times over the years: it seems to me, all too often, that both economists and economic policymakers might actually have done a better job responding to the crisis if they has been using an old-fashioned theoretical toolkit, say what smart Keynesians believed circa 1970.

Lately I’ve found myself sort of putting a face on my hypothesis: I like to imagine how we would have responded if we were taking advice from a character I think of as “imaginary James Tobin.” And along the way I’ve found myself rereading some writings of actual James Tobin from the time; and it has been a revelation.

Let me focus in particular on Tobin’s 1972 presidential address to the American Economic Association, “Inflation and unemployment” (sorry, I don’t see an ungated version.) I remember how that address was seen among my fellow grad students a few later: it was seen as Tobin’s last stand, a desperate rearguard action in the debate with Milton Friedman over the natural rate hypothesis. And everyone knew that Friedman won that debate, vindicated by stagflation.

Except if you read Tobin again now, he’s the one who looks vindicated. He argues that the long-run Phillips curve probably isn’t vertical at low inflation, perhaps because of downward nominal wage rigidity combined with churn so that some labor markets are at that lower bound while others aren’t — exactly the framework Daly and Hobijn (who do cite Tobin) have applied recently. (Akerlof and Perry also made similar points in the 1990s.) And he offers an acute empirical observation to justify his position: the need to avoid

the empirically questionable implication of the usual natural rate hypothesis that unemployment rates only slightly higher than the critical rate will trigger ever-accelerating deflation. Phillips curves seem to be pretty flat at high rates of unemployment. During the great contraction of 1930-33, wage rates were slow to give way even in the face of massive unemployment and substantial deflation in consumer prices. Finally in 1932 and 1933 money wage rates fell more sharply, in response to prolonged unemployment, layoffs, shutdowns, and to threats and fears of more of the same.

Sure enough, the return of mass unemployment after 2008 didn’t produce much in the way of wage decline, except, finally, after years of Depression-level unemployment in Greece.

When talking about the things an earlier generation got more right than all too many modern macroeconomists, I usually focus on the demand side — on how IS-LM-type reasoning could and should have given people a pretty good read on monetary and fiscal policy. But on the aggregate supply side, too, the oldies were goodies.

 

 

 

 

Tobin aveva ragione (assolutamente per esperti)

In questo momento, non potendo far nulla sulla piega degli orribili avvenimenti politici in corso, sto rivisitando alcuni capitoli della macroeconomia e anche preparandomi per alcuni discorsi in Europa, incluso questo [1] sulle lezioni macroeconomiche che derivano dalla recente esperienza. E mi sono ritrovato a tornare su un tema che avevo toccato qualche volta nel corso degli anni: mi sembra, anche troppo di frequente, che sia gli economisti che le autorità economiche potrebbero effettivamente aver fatto un lavoro migliore nel rispondere alla crisi, se avessero usato una strumentazione teorica che un tempo andava di moda, ad esempio quello di cui i keynesiani intelligenti erano convinti ancora attorno al 1970.

Recentemente mi sono ritrovato come a dare un volto ad una mia ipotesi: mi piace immaginare come avremmo risposto se avessimo preso consigli da un personaggio al quale mi riferisco come ad un “immaginario James Tobin”. E lungo quel percorso mi sono ritrovato a rileggere alcuni scritti del vero James Tobin nel corso del tempo; ed è stata una rivelazione.

Consentitemi di concentrarmi in particolare sul discorso di indirizzo presidenziale alla Associazione Economica Americana di Tobin del 1972, “Inflazione e disoccupazione” (spiacente, non trovo una versione accessibile). Ricordo come quel discorso venne considerato poco tempo dopo dai miei compagni di corso: era letto come l’ultima presa di posizione di Tobin, una disperata azione di retroguardia nel dibattito con Milton Friedman sulla ipotesi del tasso naturale. E tutti consideravano che Friedman fosse uscito vincitore da quel dibattito, che fosse stato confermato dalla stagflazione.

Se però si legge nuovamente Tobin, è lui che appare confermato. Egli sostiene che la curva di Phillips nel lungo periodo probabilmente non è verticale, in condizioni di bassa inflazione, forse perché la rigidità dei salari verso il basso si unisce all’inconveniente per il quale alcuni mercati si collocano a quel limite più basso mentre altri no – esattamente il modello che Daly e Hobijn (che in effetti citano Tobin) hanno applicato di recente (anche Akerlof e Perry hanno avanzato argomenti simili negli anni ’90). Ed egli offre una acuta osservazione empirica per giustificare la sua posizione: il bisogno di evitare

“l’implicazione empiricamente discutibile della consueta ipotesi del tasso naturale, secondo la quale tassi di disoccupazione solo leggermente più alti del tasso critico innescherebbero una deflazione in continua accelerazione.  Le curve di Phillips sembrano abbastanza piatte di fronte ad alti tassi di disoccupazione. Durante la grande contrazione del 1930-33, i tassi salariali furono lenti a cedere persino a fronte della disoccupazione massiccia e alla sostanziale deflazione dei prezzi al consumo. Alla fine, nel 1932 e nel 1933 i tassi salariali monetari caddero più bruscamente, in risposta alla disoccupazione prolungata, ai licenziamenti, alle chiusure, ed alle minacce e alla paura per cose simili.”

Certamente, il ritorno della disoccupazione di massa dopo il 2008 non ha prodotto molto nel senso del declino salariale, eccetto, alla fine, in Grecia dopo anni di disoccupazione al livello di una Depressione.

Quando si parla delle cose che una generazione precedente di macroeconomisti aveva compreso più giustamente di anche troppi economisti moderni, io in generale mi concentro sul lato della domanda – e su come un ragionamento del tipo il modello IS-LM potrebbe e dovrebbe aver dato alle persone una lettura abbastanza buona in materia di politica monetaria e della finanza pubblica. Ma anche sul lato dell’offerta aggregata, i bei tempi andati erano migliori.

 

 

 

 

 

[1] Il link è con un convegno del prossimo 20 settembre a Ginevra.

 

 

 

 

Alla fine una pausa nella febbre? (9 settembre 2016)

settembre 11, 2016

 

SEP 9 1:02 PM 

Is The Fever Finally Breaking?

 

The last month has been a disgraceful time for the news media, with headline after headline, news report after news report on supposed Clinton scandals that were obvious nothingburgers — as the Washington Post, I’m happy to say, has now acknowledged. All of this created an “aura of scandal” around Clinton, even though, as Greg Sargent notes, voters couldn’t come up with specifics when pressed.

And meanwhile, a simply incredible record of downplaying Trump’s extremism and his many real scandals.

For what it’s worth, my guess is that this would have happened even if Clinton hadn’t had a private server. For one thing, it was always been an obviously — obviously! — trivial story, so the overwhelming media pile-on reflected a desire to go after Clinton, not something objective. And the way that the Clinton Foundation — which, you know, saves the lives of children — was spun as a negative shows that if it hadn’t been for the emails the gang would have found something else to pretend was a scandal.

The good news, I think, is that we may have reached some sort of turning point. Matt Lauer may have done us all a favor with his catastrophically bad performance. By devoting so much time to emails and rushing through Clinton on ISIS, on one side, while letting Trump’s Iraq lie slide by unchallenged, on the other, Lauer offered a demonstration of the prevailing double standard so graphic that it was hard to ignore. But it wasn’t just Lauer: I think the accumulation of really bad examples, of failing to cover the Bondi bribe, of making an unsuccessful request for passports — to rescue imprisoned journalists! — a supposed scandal, even some of the botched initial reaction to the Lauer debacle, may have finally reached a critical mass.

So maybe, just maybe, this is a turning point. I’m not saying that Clinton will or should be exempt from criticism. All she and the country need is journalism that describes things as they really are, that doesn’t pretend that her human fallibility is as bad or worse than Trump’s record of terrible behavior and promise of more.

On the other hand, maybe nothing has been learned. Maybe the first debate will be full of question about emails, while Trump is allowed to lie freely. If so, weep for America.

 

Alla fine una pausa nella febbre?

Il mese scorso è stato un periodo disgraziato per i media dell’informazione, con un titolo dietro l’altro, un resoconto dietro l’altro sui presunti scandali della Clinton che erano evidenti cose insensate – come, cono contento di dire, il Washington Post adesso ha riconosciuto. Tutto questo ha creato “un’aura di scandalo” attorno alla Clinton, anche se, come osserva Greg Sargent, gli elettori non potevano farsi venire in mente niente di preciso quando venivano interrogati a proposito.

E, nel frattempo, un record semplicemente incredibile di minimizzazioni sull’estremismo di Trump e sui suoi molti scandali veri.

Per quello che conta, la mia impressione è che questo sarebbe accaduto anche se la Clinton non avesse avuto un server personale. Da una parte, sono sempre stati racconti evidentemente – evidentemente! – banali, cosicché il loro soverchiante accumularsi sui media rifletteva un desiderio di scagliarsi sulla Clinton, non qualcosa di obbiettivo. E il modo in cui la Fondazione Clinton – che, come si sa, salva le vite dei bambini – è stata manipolata come un fatto negativo mostra che se non ci fossero state le email, la banda avrebbe trovato qualcosaltro su cui inventare un finto scandalo.

La buona notizia, è che forse abbiamo raggiunto un punto limite. Matt Lauer potrebbe aver fatto a tutti noi un favore con la sua prestazione catastroficamente negativa. Dedicando tanta parte del tempo alla faccenda delle email e sorvolando con la Clinton sull’ISIS, da una parte, e consentendo che la bugia di Trump sull’Iraq scivolasse via senza obiezioni, Lauer ha offerto una dimostrazione così lampante del doppio registro, che è stato difficile ignorarla. Ma non è stato solo Lauer: io penso che l’accumulo di esempi davvero inqualificabili, dei mancati resoconti sulla bustarella alla Bondi [1], del far diventare un presunto scandalo una richiesta che non ha avuto successo di passaporti – per salvare dei giornalisti imprigionati! -, persino alcune delle raffazzonate iniziali reazioni alla debacle di Lauer, può aver finalmente raggiunto una soglia critica.

Dunque forse, solo forse, questo è un punto di svolta. Non sto dicendo che la Clinton sarà o dovrebbe essere esente da critiche. Tutto quello di cui hanno bisogno lei ed il paese è un giornalismo che descriva cose che esistone nella realtà, che non pretenda che la sua umana fallibilità sia negativa o peggiore del record di terribili comportamenti Trump e del suo prometterne di ulteriori.

D’altra parte, può darsi che non si sia imparato niente. Forse il primo confronto televisivo sarà pieno di domande sulle email, mentre a Trump sarà consentito di mentire in libertà. Se fosse così, ci sarà da piangere sull’America.

 

 

[1] Pam Bondi, repubblicana, ha ricevuto una donazione di 25.000 dollari da parte di una società di Trump, pare nella sua campagna per diventare Procuratrice Generale delle Florida. In cambio, la Bondi aveva il potere di sospendere alcune indagini che riguardavano lo stesso Trump.

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Pensando alla Brexit, veloce e lenta (6 settembre 2016)

settembre 11, 2016

 

SEP 6 10:07 PM 

Thinking About Brexit, Fast and Slow

 

“The City’s smartest people are being forced to admit they were wrong about a ‘Brecession’” So says Business Insider, now that good UK PMI surveys have caused Credit Suisse and Morgan Stanley to back off their forecasts of a Brexit-induced recession.

But I wasn’t wrong. Yay me!

OK, seriously, at least for the moment it seems as if my skepticism about dire short-run forecasts, despite my agreement about the long run costs has been vindicated:

Economists have very good reasons to believe that Brexit will do bad things in the long run, but are strongly tempted to sex up their arguments by making very dubious claims about the short run. And the fact that so many respectable people are making these dubious claims makes them seem well-reasoned when they aren’t.

I could, of course, still turn out to be wrong. But let me say that what I’m really enjoying here — aside from the chance to claim that I was right — is, for once, having an argument with smart people who are trying to get it right. So much of my time these days is spent combatting sheer derp, that it’s almost like a vacation to debate propositions that aren’t self-evidently stupid.

 

Pensando alla Brexit, veloce e lenta

“Le persone più intelligenti della City sono costrette ad ammettere di aver avuto torto sulla recessione provocata dalla Brexit”. Dice questo Business Insider, ora che i sondaggi sul PMI [1] del Regno Unito hanno spinto Credit Suisse e Morgan Stanley a tornare indietro sulle loro previsioni di una recessione indotta dall Brexit.

Insomma, non avevo torto. Proprio contento!

In effetti, parlando sul serio, almeno per il momento sembra che il mio scetticismo sulle tremende previsioni nel breve termine sia stato confermato, nonostante che io sia d’accordo sui costi a lungo termine:

“Gli economisti hanno ottime ragioni per credere che la Brexit comporterà effetti negativi nel lungo periodo, ma sono fortemente tentati di esagerare i loro argomenti avanzando tesi molto dubbie sul breve periodo. E il fatto che tante persone rispettabili stiano avanzando queste tesi dubbie le fa sembrare ben riflettute, mentre non lo sono.” [2]

Probabilmente, potrebbe ancora venir fuori che avevo sbagliato. Ma lasciatemi dire che ciò di cui sono effettivamente contento in questo caso – a parte la possibilità di sostenere che avevo ragione – è, per una volta, avere un argomento nei confronti di persone intelligenti che cercano di indovinare la cosa giusta. Di questi tempi una parte così grande del mio tempo è spesa nel combattere la pura e semplice ottusità, che è quasi come una vacanza discutere concetti che non sono in sé stessi stupidi.

 

 

[1]  Il Purchasing Managers Index (PMI) è l’indice composito dell’attività manifatturiera di un Paese e riflette la capacità dell’acquisizione di beni e servizi.

[2] Da un post di Krugman, qua tradotto, del 30 giugno 2016.

 

 

 

 

Chris e i cattivi imitatori di Ricardo (per esperti) (dal blog di Krugman, 30 agosto 2016)

settembre 4, 2016

 

AUG 30 7:17 PM 

Chris and the Ricardianoids (Wonkish)

 

I’ve been trying to parse the Jackson Hole paper from Chris Sims, on fiscal dominance of monetary policy, and am having something of a hard time. Sims suggests that it’s really a simple issue, obscured by the complexities of formal models; but I fear that he’s inadvertently given us a demonstration that formal models can actually be helpful as a check on verbal arguments that seem plausible but don’t actually hold up. This is, by the way, a problem I’ve encountered a fair bit when trying to talk with advocates of helicopter money, which is kind of where Sims is going.

Just to be clear, I’m all for fiscal expansion under whatever excuse. I’m even reluctant to question arguments for helicopter money, lest my intellectual skepticism give ammunition to those still possessed by austerian instincts. But I do think I need to weigh in here regardless.

Here’s Sims on fiscal policy:

Fiscal expansion can replace ineffective monetary policy at the zero lower bound, but fiscal expansion is not the same thing as deficit finance. It requires deficits aimed at, and conditioned on, generating inflation. The deficits must be seen as fi- nanced by future inflation, not future taxes or spending cuts.

I think he’s saying that fiscal expansion works only if it leads to a rise in expected inflation. Or maybe not – the truth is that I’m not sure, which is one problem with too purely verbal an argument. But it’s certainly something I’ve heard from helicopter money types, who warn that something like Ricardian equivalence will undermine fiscal expansion unless it’s money-financed.

But this is a misunderstanding of Ricardian equivalence, on two levels. First, as I’ve tried repeatedly to explain, a TEMPORARY increase in government purchases of goods and services will NOT be offset by expectations of future taxes even if full Ricardian equivalence holds. The kind of argument people like Robert Lucas made sounded Ricardian, but wasn’t – it was Ricardianoid.

Second, less relevant to Sims but very relevant to other helicopter people, a deficit ultimately financed by inflation is just as much of a burden on households as one ultimately financed by ordinary taxes, because inflation is a kind of tax on money holders. From a Ricardian point of view, there’s no difference.

So I’m trying to figure out exactly what Sims is saying. What, ahem, is his model? The little liquidity-trap model I devised way back in 1998 is forward-looking, does implicitly incorporate the government budget constraint, but doesn’t tell anything like Sims’s story. What is he doing differently, exactly? I’m confused – and I hope it’s not because I’m stupid.

 

Chris e i cattivi imitatori di Ricardo (per esperti)

Stavo cercando di analizzare il saggio presentato a Jackson Hole di Chris Sims [1], sul predominio della finanza pubblica sulla politica monetaria, e mi trovo dinanzi a qualche difficoltà. Sims suggerisce che in realtà si tratta di una questione semplice, oscurata dalle complessità dei modelli formali; ma ho il timore che egli inavvertitamente ci dia la dimostrazione che i modelli formali possono effettivamente essere utili come una forma di controllo degli argomenti discorsivi che sembrano plausibili ma in effetti non reggono. Per inciso, questo è un problema che ho incontrato talvolta cercando di discutere con i sostenitori dei ‘soldi dall’elicottero’, che è il genere di concetto verso il quale Sims si sta orientando.

Solo per chiarezza, io sono a favore di una espansione della finanza pubblica, con qualsiasi giustificazione. Sono anche riluttante ad avanzare dubbi sugli argomenti a favore dei ‘soldi dall’elicottero’, nel timore che il mio scetticismo intellettuale fornisca munizioni a coloro che sono ancora posseduti da istinti filoausteri. Ma penso per davvero di aver bisogno di intervenire sul tema senza curarmene.

Ecco cosa dice Sims sulla politica della finanza pubblica:

“L’espansione della finanza pubblica può rimpiazzare una politica monetaria inefficace nelle condizioni del limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse), ma l’espansione della finanza pubblica non è la stessa cosa del finanziamento in deficit. Essa si riferisce a deficit rivolti a generare inflazione, e da ciò condizionati. I deficit devono essere concepiti come finanziati da inflazione futura, non da future tasse o tagli alla spesa.”

Penso che egli stia dicendo che l’espansione della finanza pubblica funziona soltanto se conduce ad una crescita dell’inflazione attesa. O forse no – la verità è che io non sono sicuro di quale sia il problema con una argomentazione troppo esclusivamente discorsiva. Ma si tratta di sicuro di qualcosa che ho sentito dire dai soggetti della posizione dei ‘soldi dall’elicottero’, che mettono in guardia che qualcosa del genere alla “equivalenza ricardiana” metterebbe a repentaglio l’espansione della finanza pubblica, a meno che essa non sia finanziata con creazione di moneta.

Si tratta però di un’incomprensione dell’equivalenza ricardiana, a due livelli. In primo luogo, come ho cercato ripetutamente di spiegare, un incremento TEMPORANEO negli acquisti di beni e servizi da parte del Governo NON sarebbe bilanciato dalla aspettativa di tasse future anche se l’equivalenza ricardiana tenesse pienamente. Il genere di argomento che persone come Robert Lucas hanno avanzato sembrava ricardiano – ma era una imitazione di Ricardo.

Il secondo luogo, meno rilevante nel caso di Sims ma molto rilevante per i soggetti dei ‘soldi dall’elicottero’, un deficit alla fine finanziato con l’inflazione è un peso per le famiglie nello stesso modo di un deficit alla fine finanziato con tasse ordinarie, perché l’inflazione è un genere di tassa sui possessori di denaro. Da un punto di vista ricardiano, non c’è alcuna differenza.

Sto dunque cercando di immaginarmi esattamente cosa Sims stia dicendo. Sono costretto a chiedermi quale sia il suo modello. Il piccolo modello della trappola di liquidità che ideai nel passato 1998 è un modello che guarda in avanti, che davvero incorpora implicitamente il limite del bilancio pubblico, ma non racconta niente di simile alla storia di Sims. Cosa sta facendo lui di diverso, esattamente? Sono confuso – e spero che non dipenda dal fatto che sono stupido.

 

 

[1] Christopher Albert Sims è un economista statunitense insignito del Premio Nobel per l’economia nel 2011.

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Sulla noncuranza della Fed (27 agosto 2016)

settembre 4, 2016

 

AUG 27 9:59 AM 

On Fed Complacency

 

Is the Fed really repeating its big mistake of the pre-crisis era, dismissing concerns about its ability to respond to recession? Jared Bernstein thinks so, and so do I.

As Jared notes, the current state of thinking seems to be reflected by a paper by David Reifschneider, which argues basically that by the time the next recession arrives, the Fed funds rate will have returned to a level that still leaves sufficient room to cut. This argument is made carefully and systematically; but as Jared says, if the argument is wrong in any of several plausible ways — say, if the natural rate of interest is now much lower than it was in the past — this could be very wrong.

And I can’t help but recall a 1999 paper by Reifschneider and John Williams about inflation targets and the risk of hitting the zero lower bound. They concluded that a 2 percent target should be enough to make this a minor concern — the zero bound would probably be binding only 5 percent of the time, and ZLB episodes would last on average only 4 quarters:

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In fact, we have just gone through an 8-year — 32 quarter — ZLB episode, which accounts for more a quarter of the time that has passed since the beginning of the Great Moderation. Basically, that optimistic take was off by an order of magnitude. Shouldn’t that miss give the Fed pause now?

 

Sulla noncuranza della Fed

La Fed sta ripetendo il grande errore dell’epoca precedente alla crisi, non prendendo in considerazione le preoccupazioni sulla sua capacità di rispondere alla recessione? È il pensiero di Jared Bernstein, ed anche il mio.

Come Jared osserva, in questo momento la riflessione sembra riflettersi in uno studio di David Reifschneider, che sostiene che in fondo i tassi di finanziamento della Fed sono tornati ad un livello che lascia ancora un spazio sufficiente per tagli. Questo argomento viene avanzato in modo scrupoloso e sistematico; ma, come afferma Jared, se l’argomento è sbagliato in uno qualsiasi dei suoi vari plausibili passaggi – diciamo, ad esempio, se il tasso naturale di interesse fosse oggi molto più basso di quanto era nel passato – questo potrebbe essere molto sbagliato.

Ed io non posso fare a meno di ricordare uno studio del 1999 di Reifschneider e John Williams sugli obbiettivi di inflazione e sul rischio di raggiungere il limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse). Gli autori concludevano che un obbiettivo del 2 per cento doveva essere sufficiente per renderla una preoccupazione secondaria – il limite inferiore dello zero sarebbe stato vincolante solo per il 5 per cento del periodo, e gli episodi del limite inferiore dello zero sarebbero durati in media soltanto 4 trimestri:

Tabella 1: distribuzione dei tassi di finanziamento federale con la regola Taylor

Obbiettivo di inflazione

0      1      2      3      4

 

Percentuale del tempo con tassi di

finanziamento vincolati allo zero.                  14      9      5      1     <1

Durata media dei periodi dei tassi di

finanziamento vincolati allo zero                     6      5          3      2

Correzione della tendenza costante

verso l’obbiettivo di inflazione                          7      3      1      0      0

 

Di fatto, siamo appena passati da un episodio di Limite Inferiore dello Zero della durata di 8 anni – 32 trimestri – che realizza più di un quarto del tempo passato dagli inizi della Grande Moderazione [1]. Fondamentalmente, quella posizione ottimistica era sbagliata di un ordine di grandezza. Quella incomprensione non dovrebbe adesso consentire una pausa alla Fed?

 

[1] Ovvero dagli anni ’80.

 

 

 

 

L’effetto di trascinamento tedesco (dal blog di Krugman, 26 agosto 2016)

agosto 31, 2016

 

AUG 26 6:44 PM 

Germany’s Drag

 

I want to follow up a bit on Brad Setser’s post about the German fiscal surplus.

Here’s my point: at the moment, what we’re seeing in elite circles is a very belated but still welcome realization that monetary policy badly needs an assist from fiscal expansion. If structuring this one-two as helicopter money makes people feel better, fine; but the combined fiscal-monetary push is what matters.

But there are a couple of huge obstacles to carrying this project out. One is the US Republican Party, which is already getting ready to pursue scorched-earth obstruction to a Clinton presidency. But the other is the German problem: Germany’s obsession with fiscal probity, grounded in the fact that when it comes to macroeconomics Germany lives in a different intellectual universe from anyone else. And circumstances have given that German obsession much greater impact than bad ideas usually have.

Think about the nature of Europe’s problem. It’s actually twofold, or maybe two-and-a-half fold.

First, the euro area in aggregate suffers from at least the early stages of secular stagnation, which it’s entering with an inflation rate that is half the ECB target and even further below where the target should be. Breaking out of this lowflation problem really needs a fiscal boost.

Second, relative prices and labor costs are still misaligned within Europe, with southern Europe still needing internal devaluation that would be much easier if Germany were booming and experiencing higher inflation.

Second and a half, still a banking problem that surely requires further injections of public funds.

But Germany wants to run surpluses and wants everyone else to run surpluses. Germany’s tight fiscal policy directly contributes to weakness of overall European demand, and its deficit hawkery is an important reason why other European countries that have low borrowing costs are still pursuing austerity.

On top of that, German fiscal tightness means that the boom-and-inflation that should be helping internal devaluation in the south — which would, by the way, be the counterpart of the boom-and-inflation in the south from 2000 to 2007, which brought Germany out of its late-90s doldrums — isn’t happening. And this forces continued austerity in southern Europe.

Finally, as I understand it, it’s basically Germany demanding bail-in of private creditors on bank rescues, largely to block further government borrowing, which is sometimes a good idea but right now is perpetuating the simmering banking crisis.

So Germany’s fiscal obsession has a sort of multiplier effect on Europe, and indirectly on the world, that is disproportionate even to Germany’s economic size. And this makes me wonder whether all the sea-change in elite opinion that we’ve seen will do much good, since the government that most needs to change its policies isn’t listening.

 

L’effetto di trascinamento tedesco

Voglio proseguire un po’ sul post di Brad Setser a proposito dell’avanzo della finanza pubblica in Germania.

Ecco la mia opinione: al momento, quello che stiamo osservando nei circoli delle classi dirigenti è una comprensione molto tardiva, seppur benvenuta, che la politica monetaria ha seriamente bisogno di assistenza tramite l’espansione della finanza pubblica. Se esprimere questi due colpi in sequenza con l’espressione ‘soldi dall’elicottero’ fa sentir meglio, va bene; ma quello che conta è la spinta combinata della finanza pubblica e monetaria.

Ma ci sono un paio di grandi ostacoli nel portare a termine questo progetto. Il primo è il Partito Repubblicano negli Stati Uniti, che è già pronto a proseguire un ostruzionismo da terra bruciata nei confronti di una Presidenza Clinton. Ma l’altro è il problema tedesco: l’ossessione della Germania per la probità della finanza pubblica, basata sul fatto che quando si passa alla macroeconomia la Germania vive, rispetto a tutti gli altri, in un diverso universo intellettuale. E le circostanze hanno fornito all’ossessione tedesca un impatto molto più grande di quello che le cattive idee hanno normalmente.

Si pensi alla natura del problema dell’Europa. È effettivamente un problema duplice, o forse sono due problemi e mezzo.

Il primo, l’area euro nel suo complesso soffre almeno dalle prime fasi della stagnazione secolare, che si sta manifestando con un tasso di inflazione che è la metà dell’obbiettivo della BCE, e persino più in basso rispetto a dove quell’obbiettivo dovrebbe essere collocato. Per interrompere questo problema della bassa inflazione c’è realmente bisogno di una spinta della finanza pubblica.

Il secondo, i prezzi relativi ed i costi del lavoro sono ancora disallineati all’interno dell’Europa, con l’Europa meridionale che ha ancora bisogno di svalutazione interna, il che sarebbe molto più semplice se la Germania fosse in espansione e stesse sperimentando una inflazione più elevata.

L’ultimo mezzo problema è ancora quello bancario, che certamente richiede iniezioni ulteriori di fondi pubblici.

Ma la Germania vuole gestire surplus e vuole che tutti gli altri gestiscano surplus. La politica di restrizione della finanza pubblica della Germania contribuisce direttamente alla debolezza della domanda complessiva europea, e le sue posizioni estreme in materia di deficit sono una importante ragione per la quale gli altri paesi europei che hanno bassi costi di indebitamento stanno ancora proseguendo con l’austerità.

In cima a tutto ciò, la restrizione della finanza pubblica tedesca comporta che l’espansione e l’inflazione che dovrebbero aiutare le svalutazioni interne nel Sud, non stanno realizzandosi  (la qualcosa, per inciso, sarebbe omologa alla espansione e all’inflazione nel Sud dal 2000 al 2007, che portò la Germania fuori dalle sue condizioni depresse). E questo costringe ad una perdurante austerità nell’Europa meridionale.

Infine, per quanto comprendo, è fondamentalmente la richiesta della Germania degli interventi interni dei creditori privati nei salvataggi bancari, in gran parte allo scopo di impedire ulteriori indebitamenti degli Stati, che – pur essendo talora una buona idea – in questo momento sta perpetuando la crisi bancaria a fuoco lento.

Dunque, l’ossessione della finanza pubblica della Germania ha una sorta di effetto di moltiplicatore sull’Europa, e indirettamente sul mondo, che è sproporzionato persino alle dimensioni economiche della Germania. E questo mi fa dubitare che tutta quella trasformazione nell’opinione delle classi dirigenti cui stiamo assistendo porterà a qualcosa di buono, dal momento che il Governo che ha massimamente bisogno di cambiare le sue politiche non sta ascoltando.

 

 

 

 

 

La follia della prudenza, versione FMI (23 agosto 2016)

agosto 31, 2016

AUG 23 1:45 PM

The Folly of Prudence, IMF Edition

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This, from Brad Setser, is infuriating. He notes that even now the IMF is advocating fiscal contraction almost everywhere — the euro area, Japan, China — and fiscal expansion almost nowhere.

Setser puts this in terms of the IMF violating its own dictum that current-account surplus countries should be expanding, which is true. But I’d put it in a broader context: we’re in a world where secular stagnation looks like a very real risk, where inflation is below-target everywhere despite unprecedented monetary expansion. Everything about recent experience suggests that the world desperately needs fiscal expansion to boost demand and expand the supply of safe assets, that our sole reliance on central banks isn’t working.

Even if the ultimate solution may involve higher inflation targets and the always-invoked structural reform, nothing is likely to work without a major helping push from fiscal policy. This diagnosis has, finally, been making some headway in the wider discourse; it’s not just what a few of us Keynesians have been saying. Yet the IMF, in the name of prudence, is still — still! — pushing for fiscal austerity.

We’ve been living with low-rate, depression economics for 8 years now — and key players are still acting as if they’ve learned nothing.

La follia della prudenza, versione FMI

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[1]

Questo articolo, da parte di Brad Setser, fa infuriare. Egli nota che persino adesso il FMI è a favore della contrazione della finanza pubblica quasi dappertutto – l’area euro, il Giappone, la Cina – e della espansione della finanza pubblica quasi da nessuna parte.

Seltser pone la quastione nei termini di una violazione da parte del FMI del suo proprio principio secondo il quale i paesi con il conto corrente in avanzo dovrebbero essere in espansione, il che è vero. Ma io lo metto in un altro contesto: noi siamo in un mondo nel quale la stagnazione secolare sembra davvero un rischio reale, dove l’inflazione è quasi dappertutto al di sotto dell’obbiettivo nonostante una espansione monetaria senza precedenti. Tutto della esperienza recente suggerisce che il mondo ha un disperato bisogno di espansione della finanza pubblica per incoraggiare la domanda e ampliare l’offerta di asset sicuri, che il nostro solo affidarci alle banche centrali non funziona.

Persino se la soluzione definitiva riguardasse obbiettivi più elevati di inflazione e le sempre invocate riforme strutturali, è probabile che niente funzioni senza un importante aiuto della spinta della finanza pubblica. Alla fine, questa diagnosi viene realizzando qualche progresso nel dibattito più generale; non è soltanto quello che alcuni keynesiani come noi stavano sostenendo. Tuttavia, il FMI, in nome della prudenza, sta ancora – ancora! – spingendo per l’austerità delle finanze pubbliche.

Da otto anni a questa parte stiamo vivendo in un’economia con bassi tassi e con la depressione – ed i protagonisti principali stanno ancora comportandosi come se non avessero imparato niente.

 

 

[1] La tabella, come esemplificazione del ragionamento più complessivo del post, mostra come in Europa la politica della espansione monetaria di Draghi fondamentalmente non produca effetti significativi. La linea blu indica l’andamento dell’inflazione sostanziale – ovvero al netto dei prezzi volatili dell’energi e di alcune materie prime – mentre la linea gialla mostra l’andamento dei tassi di interesse a breve termine. Come si vede, l’espansione monetaria non ha neppure contenuto sensibilmente il regresso.

 

 

 

 

Cosa fa la gente semplice? (22 agosto 2016)

agosto 31, 2016

 

AUG 22 12:39 PM 

What Do The Simple Folk Do?

 

Brad DeLong writes about pundits like Niall Ferguson who fantasize about a vast class of regular people — Real Americans — who practice traditional values, don’t eat fancy food, and vote for good, family-values Republicans who promise war. I’m surprised that he doesn’t mention Andrew Sullivan after 9/11:

The middle part of the country – the great red zone that voted for Bush – is clearly ready for war. The decadent left in its enclaves on the coasts is not dead -and may well mount a fifth column.

As Brad is, I think, suggesting, this whole line is both wrong and disreputable on several levels. For one thing, these Real Americans are in fact a quite small minority, smaller, in fact, than the nonwhite population. For another, the idea that non-college-educated whites are — or ever were! — a repository of traditional values and virtues is silly. Some are, some aren’t; they’re people, with all the variety you see among people of any class or ethnic group.

But most of all, this kind of punditry, while ostensibly praising the Real America, is in fact marked by deep condescension. One pats the simple folk on the head, praising their lack of exposure to quinoa or Thai food — both of which can be found in food courts all across the country. Sorry, but there are no country bumpkins in modern America. Most of us, in all walks of life, have a pretty good sense of the full range of things our culture offers, even if too many can’t afford to participate in some of it. You might even say that the only segment of our society that seems truly unaware of how others live is a certain segment of the commentariat, blinded by its simultaneous romanticization of and contempt for working-class white America.

 

Cosa fa la gente semplice?

Brad DeLong scrive sui commentatori come Niall Ferguson che fantasticano su una vasta categoria di persone normali – gli Americani Veri – che praticano i valori tradizionali, non mangiano cibi stravaganti, e votano in modo giusto i repubblicani dei valori della famiglia che promettono guerre. Sono sorpreso che egli non faccia cenno a Andew Sullivan dopo l’11 settembre:

“La metà del paese – la grande area repubblicana che ha votato per Bush – è chiaramente pronta per la guerra. La sinistra decadente nelle sue enclave sulle coste non è morta – e può ben allestire una quinta colonna.”

Come, suppongo, Brad sta suggerendo, questo intero ragionamento è sbagliato ed anche riprovevole a parecchi livelli. Da una parte, questi Americani Veri sono una minoranza abbastanza piccola, più piccola, di fatto, della popolazione non bianca. Da un’altra parte, l’idea che i bianchi non usciti dalle Università siano – o siano mai stati – un deposito di valori e di virtù tradizionali, è sciocca. Alcuni lo sono, altri no; sono persone, con tutta la varietà che potete osservare tra le persone di ogni classe e di ogni gruppo entico.

Ma soprattutto, questo genere di commenti, mentre in apparenza sono un elogio dell’America Vera, di fatto sono segnate da una boria profonda. Si dà una pacca in testa alla gente semplice, elogiando il loro essere immuni dal quinoa o dal cibo Thai – che possono entrambi essere trovati nelle aree di ristorazione in tutto il paese. Mi dispiace, ma nell’America moderna non ci sono i semplciotti di paese. La maggioranza di noi, di tutte le estrazioni sociali, ha una coscienza abbastanza precisa dell’intera gamma di cose che la nostra cultura offre, anche se in troppi non possono permettersi di accedere ad alcune di esse. Si potrebbe persino affermare che l’unico segmento della nostra società che sembra effettivamente inconsapevole di come gli altri vivano è un certo settore di commentatori, accecato dalla sua contemporanea idea romanzesca e dal suo disprezzo per l’America della classe lavoratrice bianca.

 

 

 

 

 

L’economia a un punto fermo (dal blog di Krugman, 20 agosto 2016)

agosto 31, 2016

 

The Gridlock Economy

 AUGUST 20, 2016 11:08 AM 

 

Duncan Weldon has a good think-piece on the peculiar circumstances that have brought negative interest rates to much of the advanced world. As he points out, it’s not just weak investment demand, with a strong whiff of secular stagnation; it’s also the choice of major economies to offer a response that

has been increasingly reliant on monetary policy to accelerate it with fiscal policy acting as brake (or at best staying neutral). This (and most of this post) applies especially in the Europe and to a lesser extent in the US.

He then points to what he considers a puzzle: given that very low interest rates hurt affluent (but not super-rich) older people, who tend to wield outsized political clout, why does this policy mix persist?

I agree that it’s a very good question, but not, I think, all that puzzling.

First of all, Weldon is presuming that older voters understand something about macroeconomic policies and what they do. No doubt there are some such people; but we know from polling that the general public is always and everywhere afraid of budget deficits and addicted to the household analogy. Furthermore, my impression — from watching CNBC now and then, looking at pop-up ads on web sites, overhearing conversations in barber shops, and other scientific methods — is that older people who do pay attention to economic debates are far more likely to say “Hyperinflation is coming! Ron Paul says so!” than they are to say, “I wish the government would increase the supply of safe assets.”

There’s also the role of Very Serious People, for whom deficit posturing is a signifier of identity; a posture that works in part because the public always thinks of deficits as a Bad Thing.

But beyond these cynical takes, it’s surely relevant that the two big advanced economies — the US and the eurozone — both have fiscal policy paralyzed by political gridlock, leaving the central banks as the only game in town.

In the U.S., it’s House Republicans who block spending on anything except weapons; they won’t even allocate funds for Zika! In Europe, nothing fiscal can happen without action by Germany, which is both self-satisfied with its situation and living in its own intellectual universe.

It’s true that the UK has some room for maneuver, yet under Cameron/Osborne it went all in for austerity, at least in rhetoric. On the other hand, that may be seen as a political maneuver to discredit the previous government by accusing it of profligacy, and may change quite a lot now that the disastrous duo are out and Theresa May is in.

Japan is, I think, an interesting case, because whatever else it may suffer from, it hasn’t faced US or EZ-type gridlock. It’s not as clean a case as I would like — Abe allowed himself to be talked by the Serious People into fiscal tightening early on, putting the whole burden on Kuroda. But if you look at the longer-term story since the 1990s, Japan actually has had a combination of deficit spending and relatively cautious monetary policy — more or less what Weldon thinks the political economy should be causing everywhere.

The problem now is that while advocates of more fiscal push seem to be winning the intellectual battle, the institutional arrangements that produce macro gridlock are likely to persist. It would take a yuuuge Democratic wave to break the gridlock here, and I have no idea what will unlock Europe.

 

L’economia a un punto fermo

Duncan Weldon ha un buon articolo di riflessione sulle circostanze peculiari che hanno portato tassi di interesse negativi a gran parte del mondo avanzato. Come egli sottolinea, non si tratta solo di una domanda per investimenti debole, con un forte sentore di stagnazione secolare; è anche la scelta delle economie più importanti di offrire una risposta che:

“si è basata sempre di più sulla politica monetaria per accelerare, utilizzando la politica della finanza pubblica come un freno (o nel migliore dei casi mantenendola neutrale). Questo (e gran parte di questo post) vale soprattutto per l’Europa, e in minore misura per gli Stati Uniti.”

Egli poi indica quello che considera un enigma: dato che i tassi di interesse molto bassi colpiscono le persone più anziane benestanti (ma non i ricchissimi), che tendono ad esercitare una smisurata influenza politica, come mai persiste questa miscela politica?

Sono d’accordo che è un’ottima domanda, ma non penso che sia un tale mistero.

Prima di tutto, Weldon presume che gli elettori più anziani capiscano qualcosa delle politiche macroeconomiche e di quello che provocano. È indubbio che ci siano alcune persone del genere; ma sappiamo dai sondaggi che l’opinione pubblica in generale è sempre e dappertutto impaurita dai deficit dei bilanci e dipendente dall’analogia con le famiglie. Inoltre, la mia impressione – che deriva dal guardare ogni tanto la CNBC, dal dare un’occhiata alle inserzioni sui siti web, dall’origliare le conversazioni dal barbiere e da altri metodi scientifici – è che le persone anziane che prestano attenzione ai dibattiti economici è molto più probabile che dicano “Sta arrivando l’iperinflazione! Lo dice Ron Paul!”, piuttosto che dire “Vorrei che il Governo aumentasse l’offerta di asset sicuri.”

Inoltre c’è il ruolo delle Persone Molto Serie, per le quali l’atteggiamento sul deficit è un indicatore di identità; un atteggiamento che funziona in parte perché l’opinione pubblica considera i deficit come il Male.

Ma oltre queste posizioni senza scrupoli, è certo rilevante che le due grandi economie avanzate – gli Stati Uniti e l’eurozona – abbiano entrambe una politica della finanza pubblica paralizzata dal punto di stallo della politica, lasciando le banche centrali da sole a svolgere una funzione.

Negli Stati Uniti, sono i repubblicani della Camera dei Rappresentanti che bloccano le spese su tutto, ad eccezione degli armamenti; non intendono consentire neppure gli stanziamenti dei fondi per l’epidemia della zanzara Zika! In Europa, non può accadere niente in materia di finanza pubblica senza l’iniziativa della Germania, che è pienamente appagata da questa situazione e vive nell’universo intellettuale suo proprio.

È vero che il Regno Unito ha qualche spazio di manovra, tuttavia con Cameron/Osborne esso, almeno nella retorica, si è interamente consegnato all’austerità. D’altra parte, quella può essere considerata come una manovra politica per screditare il precedente Governo accusandolo di sprechi, e potrebbe cambiare un bel po’ adesso che il duo disastroso [1] è uscito di scena ed è in carica Theresa May.

Il Giappone, penso, è un caso interessante, giacché per quante altre ragioni di sofferenza abbia, non si è trovato dinanzi ad un punto di stallo come gli Stati Uniti e l’Eurozona. Non è un caso così chiaro come mi sarebbe piaciuto – Abe si è adattato a interloquire con le Persone Molto Serie su una precoce restrizione della finanza pubblica, caricando l’intero peso su Kuroda [2].   Ma se guardate, a partire dagli anni ’90, alla storia a più lungo termine, il Giappone effettivamente ha avuto una combinazione di spesa in deficit e di politica monetaria relativamente cauta – più o meno ciò che Weldon pensa dovrebbe avvenire dappertutto per effetto della politica economica.

Il problema adesso è che mentre i sostenitori di una spinta maggiore della finanza pubblica sembra che stiano vincendo la battaglia intellettuale, gli equilibri istituzionali che producono il punto di stallo della macroeconomia è probabile persistano. Qua ci vorrebbe una grande ondata democratica, per interrompere quel punto di stallo, mentre non ho idea di cosa sbloccherà l’Europa.

 

 

[1] Cameron ed Osborne.

[2] Haruhiko Kuroda è l’attuale Governatore della Banca del Giappone.

 

 

 

 

Apprendimenti lenti (dal blog di Krugman, 19 agosto 2016)

agosto 30, 2016

 

Slow Learners

 AUGUST 19, 2016 1:11 PM 

 

Larry Summers has a very nice essay that takes off from a new paper by John Williams at the San Francisco Fed, which is noteworthy because Williams is the highest-placed Fed official yet to suggest that maybe the inflation target should be higher. It’s not a new argument – see, for example, my paper for the ECB in 2014, but seeing it come from a senior official is news.

Yet as Larry says, the paper is still weak and tentative even on monetary policy, to an extent that’s hard to understand:

I am disappointed therefore that Williams is so tentative in his recommendations on monetary policy.  I do understand the pressures on those in office to adhere to norms of prudence in what they say.  But it has been years since the Fed and the markets have been aligned on the future path of rates or since the Fed’s forecasts of future rates have been even close to right.

Furthermore, there’s basically no break with orthodoxy on fiscal policy, despite the evident importance of the liquidity trap, evidence that multipliers are fairly large, and basically zero real borrowing costs.

Yet Williams is at the cutting edge of policy rethinking at the Fed. And in general mainstream thinking about macroeconomic policy has changed remarkably little, remarkably slowly.

You might say that it is always thus. But, you know, it isn’t.

I fairly often find myself comparing the intellectual response to the financial crisis and its aftermath with the response to the emergence of stagflation in the 1970s. I say the 70s, but really stagflation emerged as an issue in 1974, after the first oil shock, and pretty much ended with the Volcker double-dip recession of 1979-82 – a recession whose end implication was that monetary policy continued to work in a fairly Keynesian way. So it was well under a decade of experience; yet it utterly transformed how everyone talked about macroeconomics.

Then came the 2008 crisis. As I’ve written many times, events since that crisis have played out pretty much the way someone who knew their Hicksian IS-LM would have predicted – but that should have been shocking to the many people, both in policy circles and in the economics profession, who dismissed that kind of economics as worthless, proved false, whatever. And the sheer persistence both of depressed economies and of low inflation/interest rates should by now have led to a big rethinking. Depression economics redux has now gone on as long as stagflation did.

Yet rethinking has been glacial at best. People who warned about the coming inflation in 2009 are warning about the coming inflation in 2016. Orthodox fears of budget deficits still dominate a lot of discourse. And the Fed still clings to an inflation target originally devised in the belief that the kind of thing that has happened to our economy would never happen.

I’m not entirely sure why learning has been so slow this time. Part of it, I suspect, is that the anti-Keynesian backlash of the 1970s had a lot of political power, and behind the scenes a lot of money, behind it – which influenced even academics, whether they realized it or not. And these days that same power and money is deployed against any rethinking.

Whatever the explanation, however, it’s taking a painfully long time for serious policy discussion to arrive at a point that should have been obvious years ago.

 

Apprendimenti lenti

Larry Summers pubblica un intervento molto bello che prende spunto da un nuovo articolo di John Williams della Fed di San Francisco, che è degno di nota giacché Williams è il dirigente della Fed in più alto grado che suggerisce che forse l’obbiettivo di inflazione dovrebbe essere superiore. Non si tratta di una novità – si veda, ad esempio, il mio saggio per la BCE del 2014, ma vederlo esprimere da un dirigente di alto livello è una novità.

Tuttavia, come dice Larry, l’articolo è ancora debole ed esitante anche sulla politica monetaria, in una misura che è difficile comprendere:

“Di conseguenza io sono deluso che Williams sia così esitante nelle sue raccomandazioni sulla politica monetaria. Capisco le pressioni per coloro che sono in carica a restare ederenti a norme di prudenza in quello che dicono. Ma sono passati anni da quando la Fed ed i mercati si sono allineati sulla futura traiettoria dei tassi o da quando le previsioni della Fed sui futuri tassi sono state persino vicine al giusto.”

Inoltre, fondamentalmente non c’è alcuna rottura con l’ortodossia in materia di politica della finanza pubblica, nonostante l’evidente rilievo della trappola di liquidità e le prove che i moltiplicatori sono piuttosto ampi e i costi reali dell’indebitamento sono sostanzialmente a zero.

Tuttavia Williams si collaca all’avanguardia del ripensamento politico della Fed. E in generale il pensiero prevalente sulla politica macroeconomica è mutato in modo considerevolmente modesto e considerevolmente lento.

Si potrebbe dire che è sempre stato così. Eppure, si deve sapere che non è vero.

Mi ritrovo abbastanza di frequente a paragonare la risposta intellettuale alla crisi finanziaria ed alle sue conseguenze con la risposta alla emergenza della stagflazione negli anni ’70. Dico gli anni ’70, ma in realtà la stagflazione emerse come problema nel 1974, dopo il primo shock petrolifero, e praticamente ebbe fine con la recessione a due punte di Volcker del 1979-1982 – una recessione la cui implicazione conclusiva fu che la politica monetaria continuò a funzionare con modalità abbastanza keynesiane. Si trattò dunque di una esperienza ben inferiore ad un decennio; tuttavia essa modificò completamente il modo in cui ciascuno parlava di macroeconomia.

Poi venne la crisi del 2008. Come ho scritto molte volte, a partire da quella crisi gli eventi si sono svolti in pratica nel modo in cui coloro che conoscevano la lezione hicksiana del modello IS-LM potevano prevedere –  eppure tutto ciò avrebbe dovuto risultare impressionante per molta gente, sia nei circoli della politica che nella disciplina economica, per coloro che avevano liquidato quel genere di economia come priva di valore o manifestamente falsa che dir si voglia. E la pura e semplice persistenza sia di economie depresse che di bassa inflazione e di bassi tassi di interesse, dovrebbe a questo punto aver portato ad un grande ripensamento. Il ritorno dell’economia della depressione a questo punto è andato avanti quanto fece la stagflazione.

Il ripensamento, tuttavia, nel migliore dei casi è stato gelido. Le persone che mettevano in guardia sulla inflazione in arrivo nel 2009 stanno mettendo in guardia sull’inflazione in arrivo nel 2016. I timori ortodossi sui deficit di bilancio stanno ancora dominando gran parte del dibattito. E la Fed ancora si aggrappa ad un obbiettivo di inflazione all’origine concepito nel convincimento che il genere di cosa accaduta alla nostra economia non sarebbe mai successa.

Non sono completamente certo delle ragioni per le quali l’apprendimento stavolta sia stato così lento. In parte ho il sospetto che la reazione anti keynesiana degli anni ’70 avesse una grande componente di potere politico, e dietro le quinte avesse alle spalle una grande quantità di soldi – il che ha influenzato, ne siano consapevoli o meno, persino gli ambienti accademici. E di questi tempi lo stesso potere e lo stesso denaro è schierato contro ogni ripensamento.

Qualsiasi sia la spiegazione, tuttavia, sta trascorrendo un tempo dolorosamente lungo per arrivare ad un punto che avrebbe dovuto essere evidente anni orsono.

 

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