Blog di Krugman

Note sulla Brexit e sulla sterlina (dal blog di Krugman, 11 ottobre 2016)

 

Notes on Brexit and the Pound

 OCTOBER 11, 2016 8:35

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The much-hyped severe Brexit recession does not, so far, seem to be materializing – which really shouldn’t be that much of a surprise, because as I warned, the actual economic case for such a recession was surprisingly weak. (Ouch! I just pulled a muscle while patting myself on the back!) But we are seeing a large drop in the pound, which has steepened as it becomes likely that this will indeed be a very hard Brexit. How should we think about this?

Originally, stories about a pound plunge were tied to that recession prediction: domestic investment demand would collapse, leading to sustained very low interest rates, hence capital flight. But the demand collapse doesn’t seem to be happening. So what is the story?

For now, at least, I’m coming at it from the trade side – especially trade in financial services. It seems to me that one way to think about this is in terms of the “home market effect,” an old story in trade but one that only got formalized in 1980.

Here’s an informal version: imagine a good or service subject to large economies of scale in production, sufficient that if it’s consumed in two countries, you want to produce it in only one, and export to the other, even if there are costs of shipping it. Where will this production be located? Other things equal, you would choose the larger market, so as to minimize total shipping costs. Other things may not, of course, be equal, but this market-size effect will always be a factor, depending on how high those shipping costs are.

In one of the models I laid out in that old paper, the way this worked out was not that all production left the smaller economy, but rather that the smaller economy paid lower wages and therefore made up in competitiveness what it lacked in market access. In effect, it used a weaker currency to make up for its smaller market.

In Britain’s case, I’d suggest that we think of financial services as the industry in question. Such services are subject to both internal and external economies of scale, which tends to concentrate them in a handful of huge financial centers around the world, one of which is, of course, the City of London. But now we face the prospect of seriously increased transaction costs between Britain and the rest of Europe, which creates an incentive to move those services away from the smaller economy (Britain) and into the larger (Europe). Britain therefore needs a weaker currency to offset this adverse impact.

Does this make Britain poorer? Yes. It’s not just the efficiency effect of barriers to trade, there’s also a terms-of-trade effect as the real exchange rate depreciates.

But it’s important to be aware that not everyone in Britain is equally affected. Pre-Brexit, Britain was obviously experiencing a version of the so-called Dutch disease. In its traditional form, this referred to the way natural resource exports crowd out manufacturing by keeping the currency strong. In the UK case, the City’s financial exports play the same role. So their weakening helps British manufacturing – and, maybe, the incomes of people who live far from the City and still depend directly or indirectly on manufacturing for their incomes. It’s not completely incidental that these were the parts of England (not Scotland!) that voted for Brexit.

Is there a policy moral here? Basically it is that a weaker pound shouldn’t be viewed as an additional cost from Brexit, it’s just part of the adjustment. And it would be a big mistake to prop up the pound: old notions of an equilibrium exchange rate no longer apply.

 

Note sulla Brexit e sulla sterlina

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La molto strombazzata grave recessione della Brexit, sinora, non sembra materializzarsi – la qual cosa non dovrebbe essere una gran sorpresa, giacché, come avevo messo in guardia, gli effettivi argomenti economici a favore di una recessione erano sorprendentemente deboli (Ahia! Mi si è appena stirato un muscolo nel darmi una pacca sulla spalla!). Ma stiamo assistendo ad una ampia caduta della sterlina, che è in discesa come se diventasse probabile che la Brexit sia destinata ad avere effetti molto seri. Cosa ne dovremmo pensare?

All’origine, i racconti su un crollo della sterlina erano collegati a quella previsione di recessione: la domanda di investimenti interni sarebbe collassata, portando a prolungati tassi di interesse molto bassi, dal che una fuga di capitali. Ma non sembra in atto alcun collasso della domanda. Di che storia si tratta, dunque?

Almeno per adesso, il mio approccio alla questione è dal lato del commercio – in particolare degli scambi nei servizi finanziari. Mi sembra che un modo per ragionarne sia nei termini dell’ “effetto del mercato interno”, una vecchia tesi in materia di commercio, che però venne formalizzata soltanto nel 1980 [1].

Ecco una versione semplificata: si immagini un bene o un servizio soggetto a larghe economie di scala nella produzione, tali che se esso viene consumato in due paesi, si preferisce produrlo in uno soltanto, ed esportarlo nell’altro, pur essendoci i costi della spedizione. Dove sarà collocata questa produzione? A parità degli altri fattori, si sceglierà il mercato più ampio, in modo da minimizzare i costi di spedizione complessivi. Naturalmente, gli altri fattori possono non essere uguali, ma questo effetto delle dimensioni di un mercato sarà sempre un fattore, dipendente da quanto i costi di spedizione sono elevati.

In uno di questi modelli che predisposi in quel vecchio articolo, il modo in cui tutto questo funzionava non era che tutta la produzione lasciava l’economia più piccola, ma piuttosto che l’economia più piccola pagava salari più bassi e di conseguenza metteva assieme quanto a competitività quello di cui difettava nell’accesso al mercato. In sostanza, utilizzava una valuta più debole per compensare il suo mercato più debole.

Nel caso dell’Inghilterra, direi che possiamo pensare ai servizi finanziari come all’industria in questione. Tali servizi sono soggetti ad economie di scala sia interne che esterne, la qual cosa tende a concentrarle in una manciata di grandi centri finanziari sparsi nel mondo, uno dei quali, ovviamente, è la City di Londra. Ma adesso ci troviamo di fronte alla prospettiva di costi di transazione tra l’Inghilterra e il resto dell’Europa in seria crescita, la qual cosa crea un incentivo a spostare ad allontanare questi servizi dall’economia più piccola (Regno Unito), verso quella più grande (Europa). Di conseguenza l’Inghilterra ha bisogno di una valuta più debole per bilanciare questo impatto negativo.

Questo rende l’Inghilterra più povera? Sì. Non si tratta solo dell’effetto dell’efficacia delle barriere commerciali, c’è anche l’effetto dei termini di scambio quando il tasso di cambio reale si svaluta.

Ma è importante essere consapevoli che non tutto in Inghilterra ne viene influenzato nello stesso modo. Prima della Brexit, l’Inghilterra stava evidentemente facendo i conti con una versione della cosiddetta ‘malattia olandese’ [2]. Nella sua forma tradizionale, questo si riferiva al modo in cui l’esportazione di risorse naturali spiazza il settore manifatturiero tenendo forte la valuta. Nel caso del Regno Unito, le esportazioni finanziarie della City giocano lo stesso ruolo. In tal modo il loro indebolimento aiuta il settore manifatturiero britannico – e forse i redditi delle persone che vivono lontane dalla City e dipendono ancora, direttamente o indirettamente, dal settore manifatturiero per i loro redditi. Non è del tutto accidentale che queste siano state le parti dell’Inghilterra (non la Scozia!) che hanno votato a favore della Brexit.

C’è una morale politica in questo? Fondamentalmente essa è che una sterlina più debole non dovrebbe essere considerata come un costo aggiuntivo derivante dalla Brexit, essa è solo una parte della correzione. E sarebbe un grande errore sostenere la sterlina: i vecchi concetti del tasso di cambio in equilibrio non si applicano più.

 

 

[1] Nel 1980 venne pubblicato un articolo dello stesso Krugman, secondo il quale l’ “effetto del mercato interno” deriva da modelli sui ‘rendimenti di scala’ e sui costi di trasporto. Quando è più economico per un’industria operare in un singolo paese, a causa dei rendimenti di scala, essa sceglierà come base quel paese nel quale la maggioranza dei suoi prodotti sono consumati, allo scopo di minimizzare i costi di trasporto. La tesi sull’ “effetto del mercato interno” comporta una connessione tra le dimensioni di un mercato e le esportazioni che non era considerata nei modelli basati unicamente sul vantaggio comparativo di ricardiana memoria. (Wikipedia)

[2] Il termine ‘malattia olandese’ indica in economia quel fenomeno per il quale la forza di un settore economico – ad esempio collegato con le risorse naturali – indebolisce altri settori, come il manifatturiero o l’agricolo, per effetto di un rafforzamento della valuta. La connessione nel testo inglese è con un interessante articolo di Ambrose Evans-Pritchard su The Telegraph che mostra, attraverso una intervista all’economista Ashoka Mody, come il settore bancario inglese avesse prodotto un effetto di rafforzamento della sterlina negli anni passati, con gravi conseguenze per il settore manifatturiero britannico.

 

 

 

 

Il Re della falsa equivalenza (dal blog di Krugman, 4 ottobre 2016)

ottobre 13, 2016

 

OCT 4 3:06

The King of False Equivalence

So, now we’re supposed to feel sorry for Paul Ryan?

For years, Ryan has cultivated a reputation on both sides of the aisle as a paragon of decency, earnestness, and principle; that rare creature of D.C. who seems genuinely guided by good faith. To many in Washington — including no small number of reporters — Ryan’s support for Trump is not merely a political miscalculation, but a craven betrayal.

Ugh. Ryan is not, repeat not, a serious, honest man of principle who has tainted his brand by supporting Donald Trump. He has been an obvious fraud all along, at least to anyone who can do budget arithmetic. His budget proposals invariably contain three elements:

  1. Huge tax cuts for the wealthy.
    2. Savage cuts in aid to the poor.
    3.Mystery meat– claims that he will raise trillions by closing unspecified tax loopholes and save trillions cutting unspecified discretionary spending.

Taking (1) and (2) together — that is, looking at the policies he actually specifies — his proposals have always increased the deficit, while transferring income from the have-nots to the haves. Only by invoking (3), which involves nothing but unsupported and implausible assertion, does he get to claim to reduce the deficit.

Yet he poses as an icon of fiscal probity. That is, he is, in his own way, every bit as much a fraud as The Donald.

So how has he been able to get away with this? The main answer is that he has been a huge beneficiary of false balance. The media narrative requires that there be serious, principled policy wonks on both sides of the aisle; Ryan has become the designated symbol of that supposed equivalence, even though actual budget experts have torn his proposals to shreds on repeated occasions.

And my guess is that the media will quickly forgive him for the Trump episode too. They need him for their bothsidesism. After all, it’s not as if there are any genuine honest policy wonks left in the party that nominated Donald Trump.

 

Il Re della falsa equivalenza

Dunque, adesso dovremmo essere dispiaciuti per Paul Ryan?

Per anni Ryan ha coltivato considerazione su entrambi gli schieramenti politici come un esempio di moralità, serietà e buoni principi; quella rara creatura della Capitale che sembra genuinamente guidata dalla buona fede. Per molti in Washington – incluso un numero non piccolo di giornalisti – il sostegno di Ryan a Trump non è stato un mero errore politico, ma un vile tradimento.

Per l’ennesima volta, Ryan non è, ridiciamolo, un serio ed onesto uomo di principi che ha macchiato il suo stile sostenendo Donald Trump. È stato sin dall’inizio un evidente inganno, almeno per coloro che si intendono della matematica dei bilanci. Le sue proposte di bilancio contengono inesorabilmente tre elementi:

1 – Grandi sgravi fiscali per i ricchi;

2 – tagli selvaggi alla assistenza verso i poveri;

3 – paccottiglia di dubbia provenienza – la pretesa che avrebbe riscosso migliaia di miliardi eliminando scappatoie fiscali non specificate e che avrebbe risparmiato migliaia di miliardi tagliando spese discrezionali non specificate.

Mettete insieme il numero 1 e 2 – vale a dire fatte attenzione alle politiche che egli indica nello specifico – e le sue proposte avrebbero in ogni caso incrementato il deficit, con trasferimenti di reddito da i non abbienti ai benestanti. Solo facendo ricorso al 3, che non riguarda altro se non una asserzione prova di sostegno e non plausibile, egli arriva a sostenere di ridurre il deficit.

Tuttavia, si atteggia a icona della onesta gestione della finanza pubblica. Ovvero, è, a suo modo, altrettanto ingannevole de ‘Il Donald’.

Dunque, come è stato capace di scrollarsi tutto questo di dosso? La risposta principale è che è stato un grande beneficiario del falso equilibrismo. Il racconto dei media richiede che ci siano in entrambi gli schieramenti politici esperti di politica seri e di principi; Ryan è diventato il simbolo designato di quella presunta equivalenza, anche se in ripetute occasioni i veri esperti di bilanci hanno fatto a brandelli le sue proposte.

E la mia impressione è che i media lo perdoneranno rapidamente anche per l’episodio di Trump. Hanno bisogno di lui per il loro equilibrismo. Dopo tutto, non è che ci siano rimasti, nel Partito che ha candidato Trump, altri genuini onesti esperti di politica.

 

 

 

 

 

Una teoria generale dell’austerità? (29 settembre 2016)

ottobre 2, 2016

SEP 29 3:19 AM

 

A General Theory Of Austerity?

 

Simon Wren-Lewis has an excellent new paper trying to explain the widespread resort to austerity in the face of a liquidity trap, which is exactly the moment when such policies do the most harm. His bottom line is that

austerity was the result of right-wing opportunism, exploiting instinctive popular concern about rising government debt in order to reduce the size of the state.

I think this is right; but I would emphasize more than he does the extent to which both the general public and Very Serious People always assume that reducing deficits is the responsible thing to do. We have some polling from the 1930s, showing a strong balanced-budget bias even then:

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I think Simon would say that this is consistent with his view that large deficits grease the rails for deficit phobia, since FDR’s administration did run up deficits and debt that were unprecedented for peacetime. But has there ever been a time when the public favored bigger deficits?

Meanwhile, as someone who was in the trenches during the US austerity fights, I was struck by how readily mainstream figures who weren’t especially right-wing in general got sucked into the notion that debt reduction was THE central issue. Ezra Klein documented this phenomenon with respect to Bowles-Simpson:

For reasons I’ve never quite understood, the rules of reportorial neutrality don’t apply when it comes to the deficit. On this one issue, reporters are permitted to openly cheer a particular set of highly controversial policy solutions. At Tuesday’s Playbook breakfast, for instance, Mike Allen, as a straightforward and fair a reporter as you’ll find, asked Simpson and Bowles whether they believed Obama would do “the right thing” on entitlements — with “the right thing” clearly meaning “cut entitlements.”

Meanwhile, as Brad Setser points out, the IMF — whose research department has done heroic work puncturing austerity theories and supporting a broadly Keynesian view of macroeconomics — is, in practice, pushing for fiscal contraction almost everywhere.

Again, this doesn’t exactly contradict Simon’s argument, but maybe suggests that there is a bit more to it.

 

Una teoria generale dell’austerità?

Simon Wren-Lewis pubblica un nuovo eccellente articolo con il quale cerca di spiegare il generalizzato ricorso all’austerità a fronte di una trappola di liquidità, che è esattamente il momento nel quale tali politiche fanno il massimo danno. La sua conclusione è che:

“l’austerità è stata il risultato dell’opportunismo della destra, che ha sfruttato l’istintiva preoccupazione popolare sull’aumento del debito pubblico per ridurre le funzioni dell’amministrazione pubblica.”

Penso che questo sia giusto; ma darei più rilievo di quanto lui fa alla misura nella quale sia l’opinione pubblica in generale che le Persone Molto Serie partono sempre dall’assunto che ridurre i deficit sia la cosa giusta da fare. Abbiamo dei sondaggi degli anni Trenta che dimostrano, anche allora, un forte pregiudizio per i bilanci in pareggio:

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[1]

Penso che Simon direbbe che questo è coerente con il suo punto di vista secondo il quale ampi deficit lubrificano le rotaie della fobia del deficit, considerato che l’Amministrazione di Franklin Delano Roosevelt gestiva deficit e debiti senza precedenti in tempi di pace. Ma c’è mai stato un periodo nel quale l’opinione pubblica è mai stata a favore di deficit più grandi?

Allo stesso tempo, come uno che era in trincea durante le battaglie sull’austerità negli Stati Uniti, io rimasi colpito da come personaggi di primo piano che non erano particolarmente di destra si bevvero il concetto che la riduzione del debito era il tema centrale. Ezra Klein, in relazione a Bowles-Simpson, documentò questo fenomeno:

“Pe ragioni che non ho mai completamente compreso, quando si arriva al deficit le regole della neutralità nei resoconti non si applicano. Su questo solo tema, ai giornalisti viene concesso di fare il tifo per un particolare complesso di soluzioni politiche altamente controverse. Ad esempio, durante la Colazione di Playbook del martedì, Mike Allen, un giornalista diretto e chiaro come potrete constatare, chiese a Simpson e Bowles se credevano che Obama avrebbe fatto la ‘cosa giusta’ sulla legislazione sociale – dove ‘la cosa giusta’ chiaramene significava ‘tagliare i diritti sociali’.”

Allo stesso tempo, come sottolinea Brad Setser, il FMI – il cui Dipartimento di ricerca ha fatto un lavoro eroico nel mettere in crisi le teorie dell’austerità e nel sostenere un punto di vista generalmente keynesiano sulla macroeconomia – sta, in pratica, spingendo per una contrazione della spesa pubblica quasi dappertutto.

Ancora: questo non contraddice esattamente l’argomento di Simon, ma forse indica che sotto c’è qualcosa di più.   

 

[1] La tabella mostra il risultato di un sondaggio del 1936, nel quale si rispondeva alla domanda sulla necessità di avere bilanci in pareggio. Più del doppio delle risposte affermavano che fosse necessario.

 

 

 

 

L’IVA dei deprecabili (28 settembre 2016)

settembre 29, 2016

SEP 28 3:27 AM

 

VAT of Deplorables

 

I’ve been writing about Donald Trump’s claim that Mexico’s value-added tax is an unfair trade policy, which is just really bad economics. Here’s Joel Slemrod explaining that a VAT has the same effects as a sales tax. Now, nobody thinks that sales taxes are an unfair trade practice. New York has fairly high sales taxes; Delaware has no such tax. Does anyone think that this gives New York an unfair advantage in interstate competition?

But it turns out that Trump wasn’t saying ignorant things off the top of his head: he was saying ignorant things fed to him by his incompetent economic advisers. Here’s the campaign white paper on economics. The VAT discussion is on pages 12-13 — and it’s utterly uninformed.

And it’s not the worst thing: there’s lots of terrible stuff in the white paper, at every level.

Should we be reassured that Trump wasn’t actually winging it here, just taking really bad advice? Not at all. This says that if he somehow becomes president, and decides to take the job seriously, it won’t help — because his judgment in advisers, his notion of who constitutes an expert, is as bad as his judgment on the fly.

 

L’IVA dei deprecabili

Ho scritto sulla pretesa di Donald Trump secondo la quale la tassa sul valore aggiunto del Messico sarebbe una politica commerciale scorretta, che è solo una sciocchezza dal punto di vista economico. Nella connessione Joel Slemrod spiega che l’IVA ha gli stessi effetti di una tassa sulle vendite. Ora, nessuno pensa che le tasse sulle vendite siano una pratica commerciale ingiusta. New York ha tasse sulle vendite abbastanza alte: il Delaware non ha tali tasse. C’è qualcuno che pensa che questo dia a New York un vantaggio ingiusto nella competizione interstatale?

Ma adesso si scopre che le cose inconsapevoli che Trump ha detto non erano farina del suo sacco: egli le stava dicendo perché gli erano state raccontate dai suoi incompetenti consiglieri economici. Ecco in connessione il libero bianco sull’economia della sua campagna elettorale. L’IVA viene trattata alle pagine 12 e 13 – in modo del tutto disinformato.

E non si tratta della cosa peggiore: in quel libro bianco c’è una quantità di cose terribili, sotto ogni punto di vista.

Dovremmo essere rassicurati dal fatto che Trump effettivamente non stava improvvisando, ma solo prendendo per buoni pessimi consigli? Niente affatto. Questo ci dice che se egli in qualche modo diventerà Presidente, e deciderà di prendere il suo lavoro sul serio, servirà a poco – perché il suo giudizio sui consiglieri, la sua idea di chi nominare esperto, è altrettanto cattiva dei suoi giudizi su due piedi.

 

 

 

 

Come è successo che la competizione si è fatta ravvicinata? (27 settembre 2016)

settembre 28, 2016

 

SEP 27 1:19 PM

How Did The Race Get Close?

 

Last night’s debate was an incredible blowout — yet both candidates were pretty much who we already knew they were. This was the Hillary Clinton of the Benghazi hearing confronting the Donald Trump we’ve seen at every stage of the campaign.

But this then raises a question: how did the race get so close? Why, on the eve of the debate, did polls show at best a narrow Clinton lead? What happened to the commanding lead Clinton held after the conventions?

You might say that Clinton ran a terrible campaign — but what, exactly, did she do? Trump may have learned to read from a TelePrompter, but was that such a big deal?

Well, my guess is that it was the Goring of Hillary: beginning in late August, with the AP report on the Clinton Foundation, the mainstream media went all in on “abnormalizing” Mrs. Clinton, a process that culminated with Matt Lauer, who fixated on emails while letting grotesque, known, Trump lies slide. Here’s a graphic, using the Upshot’s estimate of election probabilities (which is a useful summary of what the polls say):

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The thing is, it was all scurrilous. The AP, if it had been honest, had found no evidence of wrongdoing or undue influence; if meeting a Nobel Peace Prize winner who happened to be a personal friend was their prime example … But dinging the Clintons was what the cool kids were supposed to do, with normal rules not applying.

And this media onslaught pushed the race quite close on the eve of the first debate. It was feeling like 2000 all over again; and I think Jamelle Bouie got this exactly right:

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But it all went off script last night, partly because HRC did so well and DJT so badly — but also, I think, because pressure from progressives ensured that there was a lot of real-time fact-checking.

Whether it turns out to have been enough to turn the tide remains to be seen. But anyone in the media who participated in the razzing of Hillary Clinton should think about what we saw on that stage, and ask himself what the hell he thought he was doing.

 

Come è successo che la competizione si è fatta ravvicinata?

Il dibattito della notte scorsa è stata un’incredibile vittoria a mani basse – tuttavia entrambi i candidati erano praticamente gli stessi che già conoscevamo. Hillary Clinton era la stessa della audizione sui fatti di Bengasi, di fronte a un Donald Trump come lo abbiamo conosciuto in ogni momento della campagna elettorale.

Ma questo solleva una domanda: come è stato possibile che la competizione si sia fatta così ravvicinata? Perché, al momento del dibattito, i sondaggi mostravano al massimo un lieve vantaggio della Clinton? Cosa è successo al vantaggio imponente che la Clinton deteneva dopo le convenzioni?

Si potrebbe sostenere che la Clinton abbia gestito assai male la campagna elettorale – ma perché, esattamente, lo ha fatto? Trump può aver imparato a leggere da TelePrompter, ma è stata una faccenda così grossa?

Ebbene, la mia impressione è che è stato il trattamento simile a quello di Al Gore ricevuto da Hillary: a cominciare dalla fine di agosto, con il rapporto della Associated Press sulla Fondazione Clinton, la parte prevalente dei media si è ritrovata in una “anormalizzazione” della signora Clinton, un processo che h avuto il suo picco con Matt Lauer, che si era fissato sulle email nel mentre consentiva la grottesca, ben nota valanga di bugie di Trump. Ecco un grafico, utilizzando la stima di Upshot sulle probabilità di elezione (che è una sintesi utile di quello che dicono i sondaggi):

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Il punto è che è stato tutto osceno. La Associated Press, se fosse stata onesta, non avrebbe trovato alcuna prova di mala condotta o di influenza impropria; se incontrare un Premio Nobel che si dà il caso fosse anche un amico personale era il loro esempio più importante …. Ma picchiare sui Clinton era quello che si supponeva che i ragazzi per bene dovessero fare, non applicando le regole normali.

E questo attacco violento dei media ha ravvicinato abbastanza la competizione al momento del primo dibattito. Sembrava di respirare nuovamente l’aria del 2000; ed io penso che Jamelle Bouie lo ha espresso in modo del tutto giusto:

 

(nel Tweet della Bouie è scritto: “Si ha la sensazione che un certo numero di commentatori fossero delusi di non poter proclamare Trump vincitore”, e cita come esempio un giudizio di Greg Dworkin, secondo il quale i dibattiti non contano, la Clinton vincerà ma i dibattiti non influenzano i sondaggi)

 

Ma la notte scorsa è andato tutto storto, in parte perché la Clinton si è comportata così bene e Trump così male – ma anche, penso, perché la pressione dei progressisti ha assicurato che ci fosse un bel po’ di controllo di attinenza ai fatti in tempo reale.

Resta da vedere se sarà stato sufficiente per cambiare il corso degli eventi. Ma tutti quelli che hanno partecipato nei media a farsi beffe di Hillary Clinton dovrebbero riflettere a che cosa stavamo assistendo in quel momento, e chiedersi cosa diavolo pensavano di fare.

 

 

 

 

Trump sul commercio (dal blog di Krugman, 27 settembre 2016)

settembre 27, 2016

 

SEP 27 4:24 AM 

Trump On Trade

 

For the most part, at least as of now — mid-morning where I am, even if it’s the middle of the night back in America — the media consensus seems to be that Clinton won. This is a big deal: you know, just know, that they were primed to declare Trump the winner based on Clinton’s snooty insistence on facts, or maybe her “body language”. (Imagine what they would have said if she had engaged in Trump-like grimacing, pouting, and smirking, not to mention sniffling.) But he was so bad and she so good that they couldn’t.

Even so, it seems to be conventional wisdom that Trump did well in the first 15 minutes. And I guess he did if you are impressed by someone talking loudly and confidently about a subject he really doesn’t understand. But really: Trump on trade was ignorance all the way.

There were specifics: China is “devaluing” (not so — it was holding down the yuan five years ago, but these days it’s intervening to keep the yuan up, not down.) There was this, on Mexico:

Let me give you the example of Mexico. They have a VAT tax. We’re on a different system. When we sell into Mexico, there’s a tax. When they sell in — automatic, 16 percent, approximately. When they sell into us, there’s no tax. It’s a defective agreement. It’s been defective for a long time, many years, but the politicians haven’t done anything about it.

Gah. A VAT is basically a sales tax. It is levied on both domestic and imported goods, so that it doesn’t protect against imports — which is why it’s allowed under international trade rules, and not considered a protectionist trade policy. I get that Trump is not an economist — hoo boy, is he not an economist — but this is one of his signature issues, so you might have expected him to learn a few facts.

More broadly, Trump’s whole view on trade is that other people are taking advantage of us — that it’s all about dominance, and that we’re weak. And even if you think we’ve pushed globalization too far, even if you are worried about the effects of trade on income distribution, that’s just a foolish way to think about the problem.

So don’t score Trump as somehow winning on trade. Yes, he blustered more confidently on that subject than on anything else. But he was talking absolute garbage even there.

 

Trump sul commercio

Per la maggior parte, almeno al momento attuale – dove mi trovo siamo a metà del mattino, anche se in America siamo in mezzo alla notte – il consenso dei media sembra attribuisca la vittoria alla Clinton. Si tratta di una cosa importante: si sapeva con certezza che erano pronti a stabilire la vittoria di Trump basandosi sulla altezzosa insistenza della Clinton sui fatti, o magari sul suo “linguaggio del corpo” (si immagini cosa avrebbero detto se si fosse atteggiata con le smorfie, gli atteggiamenti imbronciati e i sorrisi beffardi alla Trump, per non dire dei suoi rumori nasali). Ma lui è andato talmente male, e lei talmente bene, che non hanno potuto.

Persino così, sembra che il giudizio comune sia che Trump è andato bene nei primi 15 minuti. E suppongo che l’abbia fatto, nella misura in cui si è impressionabili da qualcuno che parla a voce alta e in modo disinvolto su temi che realmente non conosce. Intendo proprio quello: in materia di commercio Trump ha mostrato una completa ignoranza.

Ci sono stati alcuni particolari: la Cina sta “svalutando” (non è così – essa lo stava facendo cinque anni orsono, di questi tempi sta intervenendo per sostenere lo Yuan, non per svalutarlo). Sul Messico, questo è quanto ha detto:

“Lasciatemi fare l’esempio del Messico, dove hanno l’IVA. Noi abbiamo un sistema diverso. Quando noi vendiamo in Messico, c’è una tassa. Quando vendono loro, un 16 per cento automatico, grosso modo. Quando vendono da noi, non ci sono tasse. È un accordo viziato. È stato così per un lungo tempo, per molti anni, ma i politici non hanno fatto niente.”

Guarda un po’! L’IVA è fondamentalmente una tassa sulle vendite. Viene riscossa sia sui beni nazionali che su quelli di importazione – e questa è la ragione per la quale è ammessa dalle regole commerciali internazionali, e non è considerata una politica commerciale protezionistica.  Capisco che Trump non sia un economista – diamine ragazzi, non è un economista! – ma questa tematica è un suo fiore all’occhiello, dunque vi sareste aspettati che imparasse qualche dato di fatto.

Più in generale, il complessivo punto di vista di Trump sul commercio è che gli altri si stanno avvantaggiando a nostro danno – tutto dipende da chi ha il predominio, e noi siamo deboli. E persino se pensate che abbiamo spinto troppo oltre la globalizzazione, persino se siete preoccupati sugli effetti del commercio nella distribuzione del reddito, questo è solo un modo sciocco per ragionare di quel problema.

Dunque, non attribuite a Trump un punteggio come se in qualche modo avesse prevalso sul tema del commercio. Ha detto spacconate su quel tema in modo più disinvolto che su qualsiasi altro. Ma anche in quel caso stava parlando assolutamente a vanvera.

 

 

 

 

 

La bugia della falsa equivalenza (26 settembre 2016)

settembre 27, 2016

 

SEPTEMBER 26, 2016 3:51 AM 

The Falsity of False Equivalence

 

If Donald Trump becomes president, the news media will bear a large share of the blame. I know some (many) journalists are busy denying responsibility, but this is absurd, and I think they know it. As Nick Kristof says, polls showing that the public considers Hillary Clinton, a minor fibber at most, less trustworthy than a pathological liar is prima facie evidence of massive media failure.

In fact, it’s telling that this debate is usually framed as one of false equivalence and whether it’s a problem. It’s a lot better to have this debate than a continuation of the unchecked media assault on Clinton. But it’s actually much worse than that. The media haven’t treated Clinton fibs as the equivalent of outright Trump lies; they have treated more or less innocuous Clintonisms as major scandals while whitewashing Trump. Put simply, until the past few days the media have had it in for Clinton; only now, at the last moment or possibly after the last moment has the enormity of the sin begun to sink in.

Think about the Matt Lauer debacle. That wasn’t a case of false equivalence; a rough summary of his performance would be “Emails, emails, emails; yes, Mr. Trump, whatever you say, Mr. Trump.” One candidate was repeatedly harassed over something trivial, the other allowed to slide on grotesque falsehoods.

Or as Jonathan Chait says, the problem hasn’t just been the normalization of Trump, it has been the abnormalization of Clinton. Consider the AP report on the Clinton Foundation. An honest report would have said, “The foundation arguably creates the possibility of self-dealing and undue influence, but we’ve looked hard and haven’t found much of anything.” Instead, the report played up meetings with a Nobel Peace Prize winner as being somehow scandalous.

And it’s still happening, if not quite so relentlessly. We’re still seeing reports about how something Clinton did “raises questions,” “casts shadows,” etc. – weasel words that allow reporters to write negative stories regardless of the facts.

I’ve compared this to what went down in the 2000 campaign; Nick compares it to what happened in the runup to the Iraq war. Pick your analogy. But let’s use Nick’s example: actually, the media didn’t do false equivalence in 2002. What they – alas, including this paper – actually did was to breathlessly hype the case for war, reporting as an inside scoop everything that Dick Cheney fed them, while freezing out critics and skeptics. The other side was out there; McClatchy found plenty of insiders willing to say that we were being sold a bill of goods. But the skeptics couldn’t get a word in edgewise. Effectively, the media were pro-war.

And this time they have effectively been pro-Trump – actually anti-Clinton, but it comes to the same thing. I doubt that reporters or even editors have thought of themselves as trying to elect Trump; many of them will be horrified if he wins. But they went all in on Clinton Rules, under which sneering at and razzing a Clinton is considered good for your career. It’s really more like high school than high journalism, but it may have horrendous consequences.

A lot depends on whether the same behavior continues for the final stretch. If the media report on the debates the way they did in 2000 – if substance is replaced by descriptions of Clinton’s facial expressions, her sighs, or how she “comes across,” while downplaying Trump’s raw lies, say hello to the Trump White House. And history will not forgive the people who made it possible.

 

La bugia della falsa equivalenza

 

Se Donald Trump diventerà Presidente, i media ne porteranno buona parte della responsabilità. So che (alcuni) giornalisti sono impegnati e negare tale responsabilità, ma è assurdo, e penso che lo sappiano. Come dice Nick Kristof, il fatto che i sondaggi mostrino che l’opinione pubblica considera Hillary Clinton, nel migliore dei casi, una contaballe, meno meritevole di fiducia di un bugiardo patologico, è sino a prova contraria la conferma di un massiccio fallimento dei media.

In sostanza, ci viene raccontato che questo dibattito viene normalmente schematizzato sul modello della falsa equivalenza, e se questo sia un problema. È molto meglio avere il confronto diretto [1] che una prosecuzione dell’assalto incontrollato dei media sulla Clinton. Ma per la verità le cose sono andate molto peggio. I media non hanno trattato le frottole della Clinton alla stessa stregua delle complete bugie di Trump; hanno trattato le più o meno innocue prestazioni clintoniane come importanti scandali, mentre occultavano Trump. Per dirla semplicemente, sino agli ultimi giorni i media sono stati ostili alla Clinton; solo adesso, all’ultimo momento, o forse dopo, l’enormità di quel pregiudizio ha cominciato ad essere compresa.

Si pensi alla débâcle di Matt Lauer. Quella non è stata un caso di falsa equivalenza; un semplice resoconto della sua prestazione sarebbe: “Email, email e ancora email; va bene signor Trump, qualsiasi cosa lei dica, signor Trump”. Un candidato è stato aggredito a ripetizione su qualcosa di banale, all’altro si consentiva di scivolare su falsità grottesche.

Oppure, come dice Jonathan Chait, il problema non è stato soltanto la ‘normalizzazione’ di Trump, è stato la ‘abnormalizzazione’ della Clinton. Si consideri il rapporto della Associated Press sulla Fondazione Clinton. Un resoconto onesto avrebbe dovuto dire: “La Fondazione probabilmente crea la possibilità di una impropria influenza a proprio vantaggio, ma abbiamo osservato attentamente e non abbiamo trovato granché”.

Invece, il rapporto ha messo in evidenza incontri con un vincitore di un Premio Nobel come se fossero qualcosa di scandaloso.

E sta ancora succedendo, seppure non in modo così incessante. Stiamo ancora leggendo resoconti su come qualcosa da parte della Clinton “sollevi domande”, “getti ombre” etc. – espressioni ambigue che consentono ai giornalisti di scrivere storie negative a prescindere dai fatti.

Ho confrontato tutto questo con quello che accadde nella campagna elettorale del 2000; Nick lo confronta con quello che avvenne nel periodo precedente alla guerra in Iraq. Ognuno scelga la analogia che crede. Ma fatemi usare l’esempio di Nick: effettivamente, i media nel 2002 non usarono la falsa equivalenza. Quello che essi fecero – ahimè incluso questo giornale [2] – effettivamente fu un incessante battage a favore della guerra, rendicontando come scoop per i beneinformati tutto quello che Dick Cheney passava loro, mentre si escludevano i critici e gli scettici. L’altro schieramento era messo ai margini; la McClatchy [3] trovò una gran quantità di beneinformati disposti a sostenere che stavamo facendo un affarone. Ma gli scettici non riuscirono a infilarci nemmeno una parola. In sostanza, i media erano a favore della guerra.

E questa volta essi sono stati sostanzialmente a favore di Trump – per la verità contro la Clinton, ma il punto è lo stesso. Dubito che i giornalisti o persino gli editori si siano immaginati come se cercassero di eleggere Trump; molti di loro troverebbero terribile se vincesse.  Ma hanno tutti aderito alle speciali ‘regole sui Clinton’, per le quali sogghignare e prendere in giro un Clinton è considerato positivo per la propria carriera. Più che alto giornalismo, in realtà, sono atteggiamenti da collegiali, ma possono avere conseguenze spaventose.

Molto dipenderà dal fatto che lo stesso comportamento prosegua nella fase finale. Se i resoconti dei media sui dibattiti saranno simili a quelli del 2000 –  se la sostanza verrà rimpiazzata dalle espressioni facciali della Clinton, dai suoi sospiri, da come ella “dà l’impressione di essere”, mentre si minimizzano le grezze bugie di Trump, si può dare il benvenuto a Trump alla Casa Bianca.

E la storia non perdonerà chi lo ha reso possibile.

 

 

[1] Suppongo che in questo caso il riferimento sia all’imminente confronto televisivo.

[2] Il New York Times, giacché il blog di Krugman è un prodotto di quel giornale.

[3] Dovrebbe trattarsi di una società dell’informazione, giornali ed internet.

 

 

 

 

La curiosa fiducia di ciarlatani ed eccentrici (22 settembre 2016)

settembre 25, 2016

 

SEP 22 7:27 AM

The Curious Confidence of Charlatans and Cranks

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Brad DeLong tells us about a letter being circulated by economists for Trump — although, as he notes, they don’t dare say that, and describe themselves only as critics of Clinton. Several things are notable about the letter, including the absence of many usually reliable Republican  economists. But they do have a Nobelist, Eugene Fama, at the top. And the substance of the letter — government bad! taxes and regulation bad! free markets rool like Reagan! — is pretty standard.

What’s curious is why, exactly, anyone should believe this story. In recent memory, GW Bush failed to deliver the promised Bush boom and eventually presided over disaster; the Obama economy has not been all one might have hoped, but as many have noted, the job growth of the past three years and the income growth that has finally emerged would have been hailed as triumphs if Mitt Romney were president. Taking the longer view, Clinton > Reagan and Obama > Bush, by almost any measure. Why doesn’t this reality seem to register?

One big answer, I think, lies in profound ignorance, in the insistence that history is what it was supposed to be, not what it was. Way back Mr. Fama was caught insisting that there was a great takeoff of global growth after 1980 due to financial deregulation. In fact, growth in advanced countries has been slower since 1980 than it was before, and it’s really, really hard to attribute Chinese growth under Deng Xiaoping to U.S. banking deregulation. But this is the right: legends that support the cause trump awkward facts.

And let’s be clear: this is a problem that won’t go away even if Trump goes down to defeat. People like Paul Ryan are barely more in touch with reality than @ilduce2016.

 

La curiosa fiducia di ciarlatani ed eccentrici

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Brad DeLong ci racconta di una lettera in circolazione da parte di economisti a favore di Trump – sebbene, come egli nota, essi non osino definirla in tal modo, e si descrivano solo come critici della Clinton. In quella lettera, alcune cose sono notevoli, compresa l’assenza di molti economisti repubblicani solitamente disponibili. Ma hanno in cima un premio Nobel, Eugene Fama. E la sostanza della lettera – il Governo è un male! Le tasse e i regolamenti sono un male! Al comando i liberi mercati come sotto Reagan! – è piuttosto consueta.

Quello che è curioso è precisamente perché si dovrebbe credere a questa storia. Nella memoria recente, GW Bush non mantenne la promessa di un boom e alla fine fu il Presidente di un disastro; l’economia con Obama non è stato quello che si poteva sperare, ma come molti hanno notato, la crescita dei posti di lavoro nei tre anni passati e la crescita del reddito che alla fine è emersa sarebbe stata salutata come un trionfo se Mitt Romney fosse stato Presidente. Considerando la prospettiva più lunga, Clinton andò meglio di Reagan ed Obama è andato meglio di Bush, da quasi tutti i punti di vista. Perché questo dato di fatto non appare meritevole di nota?

Penso che una parte importante della risposta risieda nell’ignoranza, nella insistenza secondo la quale la storia è stata quello che si supponeva fosse, non quella che è stata. In passato Fama venne sorpreso a ribadire che dopo gli anni ‘80 c’era stato un grande decollo della crescita globale, dovuto alla deregolamentazione finanziaria. Di fatto, la crescita nei paesi avanzati è stata più lenta a partire dagli anni ’80 rispetto a quello che era stata in precedenza, ed è davvero molto difficile attribuire la crescita cinese sotto Deng Xiaoping alla deregolamentazione del sistema bancario americano. Ma la destra è questo: le leggende a sostegno della propria causa surclassano i fatti sgradevoli.

E siamo chiari: questo è un problema che non sarà eliminato anche se Trump verrà sconfitto. Individui come Paul Ryan non sono più in sintonia con le cose reali di @ilduce2016 [1].

 

 

 

[1] Si tratta del nome di un account twitter che è stato inaugurato da alcuni giornalisti americani, inserendo varie frasi di Mussolini. Finché non è accaduto che un giorno Trump ne abbia usata una, quella secondo la quale sarebbe “meglio vivere un giorno da leoni, che cento da pecora”. Nel complesso, una cosa un po’ scema, se si considera che si tratta di una frase che per un secolo è stata usata da molti altri (ma forse non negli USA).

 

 

 

 

Perché i media sono obiettivamente a favore di Trump? (13 settembre 2016)

settembre 15, 2016

 

SEP 13 10:37 AM 

Why Are The Media Objectively Pro-Trump?

Because they are, at this point. It’s not even false equivalence: compare the amount of attention given to the Clinton Foundation despite absence of any evidence of wrongdoing, and attention given to Trump Foundation, which engaged in more or less open bribery — but barely made a dent in news coverage. Clinton was harassed endlessly over failure to give press conferences, even though she was doing lots of interviews; Trump violated decades of tradition by refusing to release his taxes, amid strong suspicion that he is hiding something; the press simply dropped the subject.

Brian Beutler argues that it’s about protecting the media’s own concerns, namely access. But I don’t think that works. It doesn’t explain why the Clinton emails were a never-ending story but the disappearance of millions of George W. Bush emails wasn’t, or for that matter Jeb Bush’s deletion of records; the revelation that Colin Powell did, indeed, offer HRC advice on how to have private email the way he did hasn’t even been reported by some major news organizations.

And I don’t see how the huffing and puffing about the foundation — which “raised questions”, but where the media were completely unwilling to accept the answers they found — fits into this at all.

No, it’s something special about Clinton Rules. I don’t really understand it. But it has the feeling of a high school clique bullying a nerdy classmate because it’s the cool thing to do.

And as I feared, it looks as if people who cried wolf about non-scandals are now engaged in an all-out effort to dig up or invent dirt to justify their previous Clinton hostility.

Hard to believe that such pettiness could have horrifying consequences. But I am very scared.

 

Perché i media sono obiettivamente a favore di Trump?

Perché è così, a questo punto. Non è neppure la falsa equivalenza: si confronti la quantità di attenzione data alla Fondazione Clinton nonostante l’assenza di ogni prova di malaffare, e l’attenzione data alla Fondazione Trump, che si è dedicata in una più o meno aperta attività di corruzione – ma che è appena stata scalfita dalla copertura dei media. La Clinton è stata aggredita in continuazione per non aver fatto conferenze stampa, pur avendo concesso una quantità di interviste; Trump ha violato una tradizione di decenni rifiutando di render note le sue tasse, con il forte sospetto che stia nascondendo qualcosa; la stampa ha soltanto fatto scivolare la questione.

Brian Beutler sostiene che si tratta di una forma di protezione degli interessi propri dei media, precisamente il loro diritto di accesso. Ma non penso che stia in piedi. Non mi spiego che le email della Clinton siano state una storia infinita ma la scomparsa di milioni di email di George W. Bush non lo sia stato, o per la stessa ragione la cancellazione delle documentazioni di Jeb Bush; la rivelazione che Colin Powell aveva, effettivamente, offerto a Hillary Clinton il consiglio di ricorrere ad una mail privata, come aveva fatto lui, non è stata neppure oggetto di resoconti su alcune principali organizzazioni dei notiziari.

E non vedo come tutto quell’ansimare sulla Fondazione – che “ha sollevato domande”, ma nel qual caso i media sono stati totalmente indisponibili ad accettare le risposte che hanno trovato – c’entri con tutto questo.

No, nelle regole particolari adottate con i Clinton c’è qualcosa di speciale. Non posso dire di comprenderlo. Ma sembra come la prepotenza di una combriccola in una scuola superiore nei confronti di un compagno di classe sgobbone, perché si è stabilito che è la cosa migliore da fare.

E, come temevo, sembra che le persone che hanno gridato al lupo sui non-scandali siano adesso impegnate in uno sforzo totale nel portare alla luce o inventare cose poco pulite per giustificare la loro precedente ostilità verso la Clinton.

È difficile credere che queste meschinità possano avere conseguenze terribili. Ma sono molto spaventato.

 

 

 

 

 

 

Tobin aveva ragione (assolutamente per esperti) (da blog di Krugman, 10 settembre 2016)

settembre 11, 2016

 

SEP 10 9:25 AM 

Tobin Was Right (Implicitly Wonkish)

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Right now, when not trying to do something about the political horror unfolding, I’m revising macro chapters and also preparing for several European speeches, including this one on macroeconomic lessons from recent experience. And I found myself returning to a theme I’ve touched on a few times over the years: it seems to me, all too often, that both economists and economic policymakers might actually have done a better job responding to the crisis if they has been using an old-fashioned theoretical toolkit, say what smart Keynesians believed circa 1970.

Lately I’ve found myself sort of putting a face on my hypothesis: I like to imagine how we would have responded if we were taking advice from a character I think of as “imaginary James Tobin.” And along the way I’ve found myself rereading some writings of actual James Tobin from the time; and it has been a revelation.

Let me focus in particular on Tobin’s 1972 presidential address to the American Economic Association, “Inflation and unemployment” (sorry, I don’t see an ungated version.) I remember how that address was seen among my fellow grad students a few later: it was seen as Tobin’s last stand, a desperate rearguard action in the debate with Milton Friedman over the natural rate hypothesis. And everyone knew that Friedman won that debate, vindicated by stagflation.

Except if you read Tobin again now, he’s the one who looks vindicated. He argues that the long-run Phillips curve probably isn’t vertical at low inflation, perhaps because of downward nominal wage rigidity combined with churn so that some labor markets are at that lower bound while others aren’t — exactly the framework Daly and Hobijn (who do cite Tobin) have applied recently. (Akerlof and Perry also made similar points in the 1990s.) And he offers an acute empirical observation to justify his position: the need to avoid

the empirically questionable implication of the usual natural rate hypothesis that unemployment rates only slightly higher than the critical rate will trigger ever-accelerating deflation. Phillips curves seem to be pretty flat at high rates of unemployment. During the great contraction of 1930-33, wage rates were slow to give way even in the face of massive unemployment and substantial deflation in consumer prices. Finally in 1932 and 1933 money wage rates fell more sharply, in response to prolonged unemployment, layoffs, shutdowns, and to threats and fears of more of the same.

Sure enough, the return of mass unemployment after 2008 didn’t produce much in the way of wage decline, except, finally, after years of Depression-level unemployment in Greece.

When talking about the things an earlier generation got more right than all too many modern macroeconomists, I usually focus on the demand side — on how IS-LM-type reasoning could and should have given people a pretty good read on monetary and fiscal policy. But on the aggregate supply side, too, the oldies were goodies.

 

 

 

 

Tobin aveva ragione (assolutamente per esperti)

In questo momento, non potendo far nulla sulla piega degli orribili avvenimenti politici in corso, sto rivisitando alcuni capitoli della macroeconomia e anche preparandomi per alcuni discorsi in Europa, incluso questo [1] sulle lezioni macroeconomiche che derivano dalla recente esperienza. E mi sono ritrovato a tornare su un tema che avevo toccato qualche volta nel corso degli anni: mi sembra, anche troppo di frequente, che sia gli economisti che le autorità economiche potrebbero effettivamente aver fatto un lavoro migliore nel rispondere alla crisi, se avessero usato una strumentazione teorica che un tempo andava di moda, ad esempio quello di cui i keynesiani intelligenti erano convinti ancora attorno al 1970.

Recentemente mi sono ritrovato come a dare un volto ad una mia ipotesi: mi piace immaginare come avremmo risposto se avessimo preso consigli da un personaggio al quale mi riferisco come ad un “immaginario James Tobin”. E lungo quel percorso mi sono ritrovato a rileggere alcuni scritti del vero James Tobin nel corso del tempo; ed è stata una rivelazione.

Consentitemi di concentrarmi in particolare sul discorso di indirizzo presidenziale alla Associazione Economica Americana di Tobin del 1972, “Inflazione e disoccupazione” (spiacente, non trovo una versione accessibile). Ricordo come quel discorso venne considerato poco tempo dopo dai miei compagni di corso: era letto come l’ultima presa di posizione di Tobin, una disperata azione di retroguardia nel dibattito con Milton Friedman sulla ipotesi del tasso naturale. E tutti consideravano che Friedman fosse uscito vincitore da quel dibattito, che fosse stato confermato dalla stagflazione.

Se però si legge nuovamente Tobin, è lui che appare confermato. Egli sostiene che la curva di Phillips nel lungo periodo probabilmente non è verticale, in condizioni di bassa inflazione, forse perché la rigidità dei salari verso il basso si unisce all’inconveniente per il quale alcuni mercati si collocano a quel limite più basso mentre altri no – esattamente il modello che Daly e Hobijn (che in effetti citano Tobin) hanno applicato di recente (anche Akerlof e Perry hanno avanzato argomenti simili negli anni ’90). Ed egli offre una acuta osservazione empirica per giustificare la sua posizione: il bisogno di evitare

“l’implicazione empiricamente discutibile della consueta ipotesi del tasso naturale, secondo la quale tassi di disoccupazione solo leggermente più alti del tasso critico innescherebbero una deflazione in continua accelerazione.  Le curve di Phillips sembrano abbastanza piatte di fronte ad alti tassi di disoccupazione. Durante la grande contrazione del 1930-33, i tassi salariali furono lenti a cedere persino a fronte della disoccupazione massiccia e alla sostanziale deflazione dei prezzi al consumo. Alla fine, nel 1932 e nel 1933 i tassi salariali monetari caddero più bruscamente, in risposta alla disoccupazione prolungata, ai licenziamenti, alle chiusure, ed alle minacce e alla paura per cose simili.”

Certamente, il ritorno della disoccupazione di massa dopo il 2008 non ha prodotto molto nel senso del declino salariale, eccetto, alla fine, in Grecia dopo anni di disoccupazione al livello di una Depressione.

Quando si parla delle cose che una generazione precedente di macroeconomisti aveva compreso più giustamente di anche troppi economisti moderni, io in generale mi concentro sul lato della domanda – e su come un ragionamento del tipo il modello IS-LM potrebbe e dovrebbe aver dato alle persone una lettura abbastanza buona in materia di politica monetaria e della finanza pubblica. Ma anche sul lato dell’offerta aggregata, i bei tempi andati erano migliori.

 

 

 

 

 

[1] Il link è con un convegno del prossimo 20 settembre a Ginevra.

 

 

 

 

Alla fine una pausa nella febbre? (9 settembre 2016)

settembre 11, 2016

 

SEP 9 1:02 PM 

Is The Fever Finally Breaking?

 

The last month has been a disgraceful time for the news media, with headline after headline, news report after news report on supposed Clinton scandals that were obvious nothingburgers — as the Washington Post, I’m happy to say, has now acknowledged. All of this created an “aura of scandal” around Clinton, even though, as Greg Sargent notes, voters couldn’t come up with specifics when pressed.

And meanwhile, a simply incredible record of downplaying Trump’s extremism and his many real scandals.

For what it’s worth, my guess is that this would have happened even if Clinton hadn’t had a private server. For one thing, it was always been an obviously — obviously! — trivial story, so the overwhelming media pile-on reflected a desire to go after Clinton, not something objective. And the way that the Clinton Foundation — which, you know, saves the lives of children — was spun as a negative shows that if it hadn’t been for the emails the gang would have found something else to pretend was a scandal.

The good news, I think, is that we may have reached some sort of turning point. Matt Lauer may have done us all a favor with his catastrophically bad performance. By devoting so much time to emails and rushing through Clinton on ISIS, on one side, while letting Trump’s Iraq lie slide by unchallenged, on the other, Lauer offered a demonstration of the prevailing double standard so graphic that it was hard to ignore. But it wasn’t just Lauer: I think the accumulation of really bad examples, of failing to cover the Bondi bribe, of making an unsuccessful request for passports — to rescue imprisoned journalists! — a supposed scandal, even some of the botched initial reaction to the Lauer debacle, may have finally reached a critical mass.

So maybe, just maybe, this is a turning point. I’m not saying that Clinton will or should be exempt from criticism. All she and the country need is journalism that describes things as they really are, that doesn’t pretend that her human fallibility is as bad or worse than Trump’s record of terrible behavior and promise of more.

On the other hand, maybe nothing has been learned. Maybe the first debate will be full of question about emails, while Trump is allowed to lie freely. If so, weep for America.

 

Alla fine una pausa nella febbre?

Il mese scorso è stato un periodo disgraziato per i media dell’informazione, con un titolo dietro l’altro, un resoconto dietro l’altro sui presunti scandali della Clinton che erano evidenti cose insensate – come, cono contento di dire, il Washington Post adesso ha riconosciuto. Tutto questo ha creato “un’aura di scandalo” attorno alla Clinton, anche se, come osserva Greg Sargent, gli elettori non potevano farsi venire in mente niente di preciso quando venivano interrogati a proposito.

E, nel frattempo, un record semplicemente incredibile di minimizzazioni sull’estremismo di Trump e sui suoi molti scandali veri.

Per quello che conta, la mia impressione è che questo sarebbe accaduto anche se la Clinton non avesse avuto un server personale. Da una parte, sono sempre stati racconti evidentemente – evidentemente! – banali, cosicché il loro soverchiante accumularsi sui media rifletteva un desiderio di scagliarsi sulla Clinton, non qualcosa di obbiettivo. E il modo in cui la Fondazione Clinton – che, come si sa, salva le vite dei bambini – è stata manipolata come un fatto negativo mostra che se non ci fossero state le email, la banda avrebbe trovato qualcosaltro su cui inventare un finto scandalo.

La buona notizia, è che forse abbiamo raggiunto un punto limite. Matt Lauer potrebbe aver fatto a tutti noi un favore con la sua prestazione catastroficamente negativa. Dedicando tanta parte del tempo alla faccenda delle email e sorvolando con la Clinton sull’ISIS, da una parte, e consentendo che la bugia di Trump sull’Iraq scivolasse via senza obiezioni, Lauer ha offerto una dimostrazione così lampante del doppio registro, che è stato difficile ignorarla. Ma non è stato solo Lauer: io penso che l’accumulo di esempi davvero inqualificabili, dei mancati resoconti sulla bustarella alla Bondi [1], del far diventare un presunto scandalo una richiesta che non ha avuto successo di passaporti – per salvare dei giornalisti imprigionati! -, persino alcune delle raffazzonate iniziali reazioni alla debacle di Lauer, può aver finalmente raggiunto una soglia critica.

Dunque forse, solo forse, questo è un punto di svolta. Non sto dicendo che la Clinton sarà o dovrebbe essere esente da critiche. Tutto quello di cui hanno bisogno lei ed il paese è un giornalismo che descriva cose che esistone nella realtà, che non pretenda che la sua umana fallibilità sia negativa o peggiore del record di terribili comportamenti Trump e del suo prometterne di ulteriori.

D’altra parte, può darsi che non si sia imparato niente. Forse il primo confronto televisivo sarà pieno di domande sulle email, mentre a Trump sarà consentito di mentire in libertà. Se fosse così, ci sarà da piangere sull’America.

 

 

[1] Pam Bondi, repubblicana, ha ricevuto una donazione di 25.000 dollari da parte di una società di Trump, pare nella sua campagna per diventare Procuratrice Generale delle Florida. In cambio, la Bondi aveva il potere di sospendere alcune indagini che riguardavano lo stesso Trump.

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Pensando alla Brexit, veloce e lenta (6 settembre 2016)

settembre 11, 2016

 

SEP 6 10:07 PM 

Thinking About Brexit, Fast and Slow

 

“The City’s smartest people are being forced to admit they were wrong about a ‘Brecession’” So says Business Insider, now that good UK PMI surveys have caused Credit Suisse and Morgan Stanley to back off their forecasts of a Brexit-induced recession.

But I wasn’t wrong. Yay me!

OK, seriously, at least for the moment it seems as if my skepticism about dire short-run forecasts, despite my agreement about the long run costs has been vindicated:

Economists have very good reasons to believe that Brexit will do bad things in the long run, but are strongly tempted to sex up their arguments by making very dubious claims about the short run. And the fact that so many respectable people are making these dubious claims makes them seem well-reasoned when they aren’t.

I could, of course, still turn out to be wrong. But let me say that what I’m really enjoying here — aside from the chance to claim that I was right — is, for once, having an argument with smart people who are trying to get it right. So much of my time these days is spent combatting sheer derp, that it’s almost like a vacation to debate propositions that aren’t self-evidently stupid.

 

Pensando alla Brexit, veloce e lenta

“Le persone più intelligenti della City sono costrette ad ammettere di aver avuto torto sulla recessione provocata dalla Brexit”. Dice questo Business Insider, ora che i sondaggi sul PMI [1] del Regno Unito hanno spinto Credit Suisse e Morgan Stanley a tornare indietro sulle loro previsioni di una recessione indotta dall Brexit.

Insomma, non avevo torto. Proprio contento!

In effetti, parlando sul serio, almeno per il momento sembra che il mio scetticismo sulle tremende previsioni nel breve termine sia stato confermato, nonostante che io sia d’accordo sui costi a lungo termine:

“Gli economisti hanno ottime ragioni per credere che la Brexit comporterà effetti negativi nel lungo periodo, ma sono fortemente tentati di esagerare i loro argomenti avanzando tesi molto dubbie sul breve periodo. E il fatto che tante persone rispettabili stiano avanzando queste tesi dubbie le fa sembrare ben riflettute, mentre non lo sono.” [2]

Probabilmente, potrebbe ancora venir fuori che avevo sbagliato. Ma lasciatemi dire che ciò di cui sono effettivamente contento in questo caso – a parte la possibilità di sostenere che avevo ragione – è, per una volta, avere un argomento nei confronti di persone intelligenti che cercano di indovinare la cosa giusta. Di questi tempi una parte così grande del mio tempo è spesa nel combattere la pura e semplice ottusità, che è quasi come una vacanza discutere concetti che non sono in sé stessi stupidi.

 

 

[1]  Il Purchasing Managers Index (PMI) è l’indice composito dell’attività manifatturiera di un Paese e riflette la capacità dell’acquisizione di beni e servizi.

[2] Da un post di Krugman, qua tradotto, del 30 giugno 2016.

 

 

 

 

Chris e i cattivi imitatori di Ricardo (per esperti) (dal blog di Krugman, 30 agosto 2016)

settembre 4, 2016

 

AUG 30 7:17 PM 

Chris and the Ricardianoids (Wonkish)

 

I’ve been trying to parse the Jackson Hole paper from Chris Sims, on fiscal dominance of monetary policy, and am having something of a hard time. Sims suggests that it’s really a simple issue, obscured by the complexities of formal models; but I fear that he’s inadvertently given us a demonstration that formal models can actually be helpful as a check on verbal arguments that seem plausible but don’t actually hold up. This is, by the way, a problem I’ve encountered a fair bit when trying to talk with advocates of helicopter money, which is kind of where Sims is going.

Just to be clear, I’m all for fiscal expansion under whatever excuse. I’m even reluctant to question arguments for helicopter money, lest my intellectual skepticism give ammunition to those still possessed by austerian instincts. But I do think I need to weigh in here regardless.

Here’s Sims on fiscal policy:

Fiscal expansion can replace ineffective monetary policy at the zero lower bound, but fiscal expansion is not the same thing as deficit finance. It requires deficits aimed at, and conditioned on, generating inflation. The deficits must be seen as fi- nanced by future inflation, not future taxes or spending cuts.

I think he’s saying that fiscal expansion works only if it leads to a rise in expected inflation. Or maybe not – the truth is that I’m not sure, which is one problem with too purely verbal an argument. But it’s certainly something I’ve heard from helicopter money types, who warn that something like Ricardian equivalence will undermine fiscal expansion unless it’s money-financed.

But this is a misunderstanding of Ricardian equivalence, on two levels. First, as I’ve tried repeatedly to explain, a TEMPORARY increase in government purchases of goods and services will NOT be offset by expectations of future taxes even if full Ricardian equivalence holds. The kind of argument people like Robert Lucas made sounded Ricardian, but wasn’t – it was Ricardianoid.

Second, less relevant to Sims but very relevant to other helicopter people, a deficit ultimately financed by inflation is just as much of a burden on households as one ultimately financed by ordinary taxes, because inflation is a kind of tax on money holders. From a Ricardian point of view, there’s no difference.

So I’m trying to figure out exactly what Sims is saying. What, ahem, is his model? The little liquidity-trap model I devised way back in 1998 is forward-looking, does implicitly incorporate the government budget constraint, but doesn’t tell anything like Sims’s story. What is he doing differently, exactly? I’m confused – and I hope it’s not because I’m stupid.

 

Chris e i cattivi imitatori di Ricardo (per esperti)

Stavo cercando di analizzare il saggio presentato a Jackson Hole di Chris Sims [1], sul predominio della finanza pubblica sulla politica monetaria, e mi trovo dinanzi a qualche difficoltà. Sims suggerisce che in realtà si tratta di una questione semplice, oscurata dalle complessità dei modelli formali; ma ho il timore che egli inavvertitamente ci dia la dimostrazione che i modelli formali possono effettivamente essere utili come una forma di controllo degli argomenti discorsivi che sembrano plausibili ma in effetti non reggono. Per inciso, questo è un problema che ho incontrato talvolta cercando di discutere con i sostenitori dei ‘soldi dall’elicottero’, che è il genere di concetto verso il quale Sims si sta orientando.

Solo per chiarezza, io sono a favore di una espansione della finanza pubblica, con qualsiasi giustificazione. Sono anche riluttante ad avanzare dubbi sugli argomenti a favore dei ‘soldi dall’elicottero’, nel timore che il mio scetticismo intellettuale fornisca munizioni a coloro che sono ancora posseduti da istinti filoausteri. Ma penso per davvero di aver bisogno di intervenire sul tema senza curarmene.

Ecco cosa dice Sims sulla politica della finanza pubblica:

“L’espansione della finanza pubblica può rimpiazzare una politica monetaria inefficace nelle condizioni del limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse), ma l’espansione della finanza pubblica non è la stessa cosa del finanziamento in deficit. Essa si riferisce a deficit rivolti a generare inflazione, e da ciò condizionati. I deficit devono essere concepiti come finanziati da inflazione futura, non da future tasse o tagli alla spesa.”

Penso che egli stia dicendo che l’espansione della finanza pubblica funziona soltanto se conduce ad una crescita dell’inflazione attesa. O forse no – la verità è che io non sono sicuro di quale sia il problema con una argomentazione troppo esclusivamente discorsiva. Ma si tratta di sicuro di qualcosa che ho sentito dire dai soggetti della posizione dei ‘soldi dall’elicottero’, che mettono in guardia che qualcosa del genere alla “equivalenza ricardiana” metterebbe a repentaglio l’espansione della finanza pubblica, a meno che essa non sia finanziata con creazione di moneta.

Si tratta però di un’incomprensione dell’equivalenza ricardiana, a due livelli. In primo luogo, come ho cercato ripetutamente di spiegare, un incremento TEMPORANEO negli acquisti di beni e servizi da parte del Governo NON sarebbe bilanciato dalla aspettativa di tasse future anche se l’equivalenza ricardiana tenesse pienamente. Il genere di argomento che persone come Robert Lucas hanno avanzato sembrava ricardiano – ma era una imitazione di Ricardo.

Il secondo luogo, meno rilevante nel caso di Sims ma molto rilevante per i soggetti dei ‘soldi dall’elicottero’, un deficit alla fine finanziato con l’inflazione è un peso per le famiglie nello stesso modo di un deficit alla fine finanziato con tasse ordinarie, perché l’inflazione è un genere di tassa sui possessori di denaro. Da un punto di vista ricardiano, non c’è alcuna differenza.

Sto dunque cercando di immaginarmi esattamente cosa Sims stia dicendo. Sono costretto a chiedermi quale sia il suo modello. Il piccolo modello della trappola di liquidità che ideai nel passato 1998 è un modello che guarda in avanti, che davvero incorpora implicitamente il limite del bilancio pubblico, ma non racconta niente di simile alla storia di Sims. Cosa sta facendo lui di diverso, esattamente? Sono confuso – e spero che non dipenda dal fatto che sono stupido.

 

 

[1] Christopher Albert Sims è un economista statunitense insignito del Premio Nobel per l’economia nel 2011.

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Sulla noncuranza della Fed (27 agosto 2016)

settembre 4, 2016

 

AUG 27 9:59 AM 

On Fed Complacency

 

Is the Fed really repeating its big mistake of the pre-crisis era, dismissing concerns about its ability to respond to recession? Jared Bernstein thinks so, and so do I.

As Jared notes, the current state of thinking seems to be reflected by a paper by David Reifschneider, which argues basically that by the time the next recession arrives, the Fed funds rate will have returned to a level that still leaves sufficient room to cut. This argument is made carefully and systematically; but as Jared says, if the argument is wrong in any of several plausible ways — say, if the natural rate of interest is now much lower than it was in the past — this could be very wrong.

And I can’t help but recall a 1999 paper by Reifschneider and John Williams about inflation targets and the risk of hitting the zero lower bound. They concluded that a 2 percent target should be enough to make this a minor concern — the zero bound would probably be binding only 5 percent of the time, and ZLB episodes would last on average only 4 quarters:

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In fact, we have just gone through an 8-year — 32 quarter — ZLB episode, which accounts for more a quarter of the time that has passed since the beginning of the Great Moderation. Basically, that optimistic take was off by an order of magnitude. Shouldn’t that miss give the Fed pause now?

 

Sulla noncuranza della Fed

La Fed sta ripetendo il grande errore dell’epoca precedente alla crisi, non prendendo in considerazione le preoccupazioni sulla sua capacità di rispondere alla recessione? È il pensiero di Jared Bernstein, ed anche il mio.

Come Jared osserva, in questo momento la riflessione sembra riflettersi in uno studio di David Reifschneider, che sostiene che in fondo i tassi di finanziamento della Fed sono tornati ad un livello che lascia ancora un spazio sufficiente per tagli. Questo argomento viene avanzato in modo scrupoloso e sistematico; ma, come afferma Jared, se l’argomento è sbagliato in uno qualsiasi dei suoi vari plausibili passaggi – diciamo, ad esempio, se il tasso naturale di interesse fosse oggi molto più basso di quanto era nel passato – questo potrebbe essere molto sbagliato.

Ed io non posso fare a meno di ricordare uno studio del 1999 di Reifschneider e John Williams sugli obbiettivi di inflazione e sul rischio di raggiungere il limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse). Gli autori concludevano che un obbiettivo del 2 per cento doveva essere sufficiente per renderla una preoccupazione secondaria – il limite inferiore dello zero sarebbe stato vincolante solo per il 5 per cento del periodo, e gli episodi del limite inferiore dello zero sarebbero durati in media soltanto 4 trimestri:

Tabella 1: distribuzione dei tassi di finanziamento federale con la regola Taylor

Obbiettivo di inflazione

0      1      2      3      4

 

Percentuale del tempo con tassi di

finanziamento vincolati allo zero.                  14      9      5      1     <1

Durata media dei periodi dei tassi di

finanziamento vincolati allo zero                     6      5          3      2

Correzione della tendenza costante

verso l’obbiettivo di inflazione                          7      3      1      0      0

 

Di fatto, siamo appena passati da un episodio di Limite Inferiore dello Zero della durata di 8 anni – 32 trimestri – che realizza più di un quarto del tempo passato dagli inizi della Grande Moderazione [1]. Fondamentalmente, quella posizione ottimistica era sbagliata di un ordine di grandezza. Quella incomprensione non dovrebbe adesso consentire una pausa alla Fed?

 

[1] Ovvero dagli anni ’80.

 

 

 

 

L’effetto di trascinamento tedesco (dal blog di Krugman, 26 agosto 2016)

agosto 31, 2016

 

AUG 26 6:44 PM 

Germany’s Drag

 

I want to follow up a bit on Brad Setser’s post about the German fiscal surplus.

Here’s my point: at the moment, what we’re seeing in elite circles is a very belated but still welcome realization that monetary policy badly needs an assist from fiscal expansion. If structuring this one-two as helicopter money makes people feel better, fine; but the combined fiscal-monetary push is what matters.

But there are a couple of huge obstacles to carrying this project out. One is the US Republican Party, which is already getting ready to pursue scorched-earth obstruction to a Clinton presidency. But the other is the German problem: Germany’s obsession with fiscal probity, grounded in the fact that when it comes to macroeconomics Germany lives in a different intellectual universe from anyone else. And circumstances have given that German obsession much greater impact than bad ideas usually have.

Think about the nature of Europe’s problem. It’s actually twofold, or maybe two-and-a-half fold.

First, the euro area in aggregate suffers from at least the early stages of secular stagnation, which it’s entering with an inflation rate that is half the ECB target and even further below where the target should be. Breaking out of this lowflation problem really needs a fiscal boost.

Second, relative prices and labor costs are still misaligned within Europe, with southern Europe still needing internal devaluation that would be much easier if Germany were booming and experiencing higher inflation.

Second and a half, still a banking problem that surely requires further injections of public funds.

But Germany wants to run surpluses and wants everyone else to run surpluses. Germany’s tight fiscal policy directly contributes to weakness of overall European demand, and its deficit hawkery is an important reason why other European countries that have low borrowing costs are still pursuing austerity.

On top of that, German fiscal tightness means that the boom-and-inflation that should be helping internal devaluation in the south — which would, by the way, be the counterpart of the boom-and-inflation in the south from 2000 to 2007, which brought Germany out of its late-90s doldrums — isn’t happening. And this forces continued austerity in southern Europe.

Finally, as I understand it, it’s basically Germany demanding bail-in of private creditors on bank rescues, largely to block further government borrowing, which is sometimes a good idea but right now is perpetuating the simmering banking crisis.

So Germany’s fiscal obsession has a sort of multiplier effect on Europe, and indirectly on the world, that is disproportionate even to Germany’s economic size. And this makes me wonder whether all the sea-change in elite opinion that we’ve seen will do much good, since the government that most needs to change its policies isn’t listening.

 

L’effetto di trascinamento tedesco

Voglio proseguire un po’ sul post di Brad Setser a proposito dell’avanzo della finanza pubblica in Germania.

Ecco la mia opinione: al momento, quello che stiamo osservando nei circoli delle classi dirigenti è una comprensione molto tardiva, seppur benvenuta, che la politica monetaria ha seriamente bisogno di assistenza tramite l’espansione della finanza pubblica. Se esprimere questi due colpi in sequenza con l’espressione ‘soldi dall’elicottero’ fa sentir meglio, va bene; ma quello che conta è la spinta combinata della finanza pubblica e monetaria.

Ma ci sono un paio di grandi ostacoli nel portare a termine questo progetto. Il primo è il Partito Repubblicano negli Stati Uniti, che è già pronto a proseguire un ostruzionismo da terra bruciata nei confronti di una Presidenza Clinton. Ma l’altro è il problema tedesco: l’ossessione della Germania per la probità della finanza pubblica, basata sul fatto che quando si passa alla macroeconomia la Germania vive, rispetto a tutti gli altri, in un diverso universo intellettuale. E le circostanze hanno fornito all’ossessione tedesca un impatto molto più grande di quello che le cattive idee hanno normalmente.

Si pensi alla natura del problema dell’Europa. È effettivamente un problema duplice, o forse sono due problemi e mezzo.

Il primo, l’area euro nel suo complesso soffre almeno dalle prime fasi della stagnazione secolare, che si sta manifestando con un tasso di inflazione che è la metà dell’obbiettivo della BCE, e persino più in basso rispetto a dove quell’obbiettivo dovrebbe essere collocato. Per interrompere questo problema della bassa inflazione c’è realmente bisogno di una spinta della finanza pubblica.

Il secondo, i prezzi relativi ed i costi del lavoro sono ancora disallineati all’interno dell’Europa, con l’Europa meridionale che ha ancora bisogno di svalutazione interna, il che sarebbe molto più semplice se la Germania fosse in espansione e stesse sperimentando una inflazione più elevata.

L’ultimo mezzo problema è ancora quello bancario, che certamente richiede iniezioni ulteriori di fondi pubblici.

Ma la Germania vuole gestire surplus e vuole che tutti gli altri gestiscano surplus. La politica di restrizione della finanza pubblica della Germania contribuisce direttamente alla debolezza della domanda complessiva europea, e le sue posizioni estreme in materia di deficit sono una importante ragione per la quale gli altri paesi europei che hanno bassi costi di indebitamento stanno ancora proseguendo con l’austerità.

In cima a tutto ciò, la restrizione della finanza pubblica tedesca comporta che l’espansione e l’inflazione che dovrebbero aiutare le svalutazioni interne nel Sud, non stanno realizzandosi  (la qualcosa, per inciso, sarebbe omologa alla espansione e all’inflazione nel Sud dal 2000 al 2007, che portò la Germania fuori dalle sue condizioni depresse). E questo costringe ad una perdurante austerità nell’Europa meridionale.

Infine, per quanto comprendo, è fondamentalmente la richiesta della Germania degli interventi interni dei creditori privati nei salvataggi bancari, in gran parte allo scopo di impedire ulteriori indebitamenti degli Stati, che – pur essendo talora una buona idea – in questo momento sta perpetuando la crisi bancaria a fuoco lento.

Dunque, l’ossessione della finanza pubblica della Germania ha una sorta di effetto di moltiplicatore sull’Europa, e indirettamente sul mondo, che è sproporzionato persino alle dimensioni economiche della Germania. E questo mi fa dubitare che tutta quella trasformazione nell’opinione delle classi dirigenti cui stiamo assistendo porterà a qualcosa di buono, dal momento che il Governo che ha massimamente bisogno di cambiare le sue politiche non sta ascoltando.

 

 

 

 

 

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