Blog di Krugman

La politica economica di Abe e l’unica freccia (dal blog di Krugman, 15 agosto 2016)

 

AUG 15 7:22

Abenomics and the Single Arrow

 

Some disappointing numbers on Japanese GDP, and the usual suspects are out there denouncing Abenomics and calling for structural reform, the universal elixir. And the evidence that structural reform is the answer is …

What I believe to be the real lesson of Abenomics so far is the limits of monetary policy. There were supposed to be three arrows — monetary policy, fiscal expansion, and, yes, structural reform. But really only the monetary arrow was fired. Here’s the IMF estimate of the structural primary balance, a rough measure of the demand effect of fiscal policy (with bigger deficits meaning more stimulus):

zz 190

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Overall, fiscal policy in Japan has actually gotten tighter, not looser, since Abenomics began, mainly thanks to the consumption tax hike; other measures didn’t offset this much.

So all the weight rested on unconventional monetary policy, which did succeed in depressing the yen and pushing up stocks, but hasn’t been enough to generate a convincing boom or rise in inflation.

And that appears to not be enough, just as the ECB’s actions haven’t been enough without fiscal support. Never mind the third arrow: what we need is the second.

 

La politica economica di Abe e l’unica freccia

Alcuni dati deludenti sul PIL giapponese e i soliti noti tornano allo scoperto nel denunciare la politica economica di Abe e nel pronunciarsi per le riforme strutturali, l’elisir universale. E la prova che le riforme strutturali sono la risposta è …. [1]

La reale lezione della politica economica di Abe, io credo che sino a questo punto siano i limiti della politica monetaria. Si erano ipotizzate tre frecce [2] – la politica monetaria, l’espansione della finanza pubblica e, sì, le riforme strutturali. Ma è stata lanciata soltanto la freccia monetaria. Ecco la stima del FMI del bilancio strutturale primario, una misurazione grossolana dell’effetto della politica della finanza pubblica sulla domanda (con i deifcit maggiori che signoficano maggiori misure di sostegno):

zz 190

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Soprattutto, dal momento in cui la politica di Abe è iniziata, la politica della finanza pubblica + diventata più ristretta, non più ampia, principalmente grazie all’aumento della tassa sui consumi; le altre misure non hanno compensato poi molto.

Dunque, tutto il peso si è basato su una politica monetaria non convenzionale, che ha avuto successo nel deprimere lo yen e nello spingere in alto i valori azionari, ma non è stat sufficiente a generare una espansione convincente o a far salire l’inflazione.

Ed è ciò che appare insufficiente, nello stesso modo in cui le iniziative della Banca Centrale Europea non sono state sufficienti, senza il sostegno della finanza pubblica. La terza freccia non è importante: quello di cui abbiamo bisogno è la seconda.

 

[1] Ovvero, la prova non viene mai spiegata.

[2] Le ‘frecce’ erano il termine che era stato varie volte usato da Shinzo Abe stesso.

 

 

 

 

Bugie, bugiardi che mentono e Donald Trump (dal blog di Krugman, 15 agosto 2016)

agosto 30, 2016

 

AUG 15 4:26 PM

Lies, Lying Liars, and Donald Trump

 

So, there’s a new conservative take on who’s to blame for Donald Trump — and the answer, it turns out, is liberal commentators, and me in particular. Yep, by denouncing the dishonesty of people like Mitt Romney, I was crying wolf, so that voters paid no attention to warnings about Trump.

Actually, even if you leave aside the substance, this is bizarre. Do you really think that the fraction of the Republican primary electorate that selected Trump cares what New York Times columnists, me in particular, have to say — that they would have been warned off if only I had been nicer to establishment Republicans? That doesn’t even rise to the level of a joke.

But anyway, let’s talk about what I said about Romney. (By the way, I don’t think I referred to him as a “charlatan” — I used that word to refer to supply-side economists, because that’s what Greg Mankiw, who was advising his campaign, called them.) Here’s a key passage:

Every one of the Romney campaign’s major themes, from the attacks on President Obama for going around the world apologizing for America (he didn’t), to the insistence that Romneycare and Obamacare are very different (they’re virtually identical), to the claim that Mr. Obama has lost millions of jobs (which is only true if you count the first few months of his administration, before any of his policies had taken effect), is either an outright falsehood or deeply deceptive. Why the nonstop mendacity?

Is there anything wrong with that passage? The “apology tour” thing was a constant refrain, even though Politifact declared it pants on fire. So were the Romneycare not Obamacare and job loss things, which were equally false. So what is the assertion here? That I should not have called Romney out on lies, because that would undermine my authority when a much bigger liar came along?

How about a different hypothesis: the foundations for Trumpism were laid in part by conservatives who made dishonesty about policy a routine part of Republican politics, and also both-sides-do-it journalists who enabled that culture of lying. This left the Republican establishment helpless in the fact of someone who lied as much in a day as they did in a week, because they couldn’t credibly make the case that policy dishonesty was disqualifying.

Actually, I don’t fully believe in this hypothesis either; mainly, Trumpism is the GOP’s id triumphing over its weak superego, which was probably destined to happen regardless. But it’s a lot more plausible than blaming little old me.

 

Bugie, bugiardi che mentono e Donald Trump

C’è dunque una nuova posizione dei conservatori su chi incolpare per Donald Trump – e viene fuori che la risposta sono i commentatori progressisti, e il sottoscritto in particolare. Per la miseria, denunciando la disonestà di persone come Mitt Romney, ho creato allarmismo, cosicché gli elettori non hanno prestato attenzione agli ammonimenti su Trump.

In effetti, anche se lasciate da parte la sostanza, è una cosa bizzarra. Davvero si ritiene che la parte dell’elettorato repubblicano delle primarie che ha scelto Trump si curi di quello che hanno da dire gli articolisti del New York Times, e il sottoscritto in particolare – al punto che sarebbero stati dissuasi soltanto se fossi stato più gentile con il gruppo dirigente repubblicano? È un ragionamento che non sembra neppure uno scherzo.

Ma, in ogni modo, parliamo di quello che ho detto su Romney (per inciso, non penso di essermi riferito a lui come ad un “ciarlatano” – ho usato quel termine per riferirmi agli economisti ‘dal lato dell’offerta’, giacché in quel modo li aveva chiamati George Mankiw, che in quella campagna era suo consigliere). Ecco un passaggio chiave:

“Tutti i temi principali della campagna di Romney, dagli attacchi al Presidente Obama per essere andato in giro per il mondo a scusarsi per conto dell’America (cosa che non ha fatto), alla insistenza secondo la quale la riforma sanitaria di Romney e quella di Obama sarebbero diversissime (sono virtualmente identiche [1]), alla pretesa secondo la quale Obama avrebbe perso milioni di posti di lavoro (che è vero soltanto se si mettono nel conto i primissimi mesi della sua Amministrazione, prima che ognuna delle sue politiche entrasse in funzione), sono o apertamente false, oppure profondamente strumentali. Perché questa menzogna senza limiti?”

C’è qualcosa di sbagliato in questo passaggio? Il “tour delle scuse” è stato un ritornello costante, anche se Politifact [2] aveva dichiarato che si trattava di menzogne assolute [3]. Altrettanto erano falsi gli argomenti sulle differenze tra i due modelli di riforma sanitaria e sulla perdita di posti di lavoro. Dunque, cosa si pretende di affermare in questo caso? Che io non avrei dovuto chieder conto a Romney per quelle bugie, giacché avrei messo a repentaglio la mia autorità quando fosse comparsa una bugia più grande?

Che ne direste di una ipotesi diversa: che i fondamenti per il trumpismo sono in parte stati gettati dai conservatori che hanno reso la disonestà nella politica un aspetto consueto della politica repubblicana, ed anche dai giornalisti per i quali ‘sono tutti uguali’, che in tal modo rendono possibile la cultura della menzogna? È questo che ha lasciato disarmato il gruppo dirigente repubblicano dinanzi al fenomeno di qualcuno che in un giorno solo ha detto altrettante bugie di quelle che loro dicevano in una settimana, giacchè essi non hanno potuto credibilmente usare l’argomento secondo il quale la disonestà è qualcosa che squalifica.

Per la verità, io non credo neanche interamente in questa seconda ipotesi; principalmente perché il Trumpismo costituisce l’Es del Partito Repubblicano che trionfa sul loro debole Superego, il che probabilmente era destinato ad accadere a prescindere. Ma ciò è molto più plausibile che dar la colpa ad un vecchietto come me.

 

 

[1] Si ricorderà che questo argomento venne molto ripetuto da Krugman nel corso delle presidenziali del 2012. Egli si riferiva al fatto che nello Stato governato da Romney era stata approvata una riforma sanitaria secondo un modello che sarebbe poi risultato assai simile a quello della riforma di Obama. Ma a Romney quella somiglianza, nella campagna elettorale, provocava solo imbarazzo, perché la riforma obamiana era al centro degli attacchi repubblicani.

[2] Una agenzia informativa che basa la propria attività su una costante analisi di corrispondenza alla realtà delle affermazioni degli uomini politici. Per effetto della sua sistematicità ed indipendenza è assai autorevole.

[3] L’espressione (“Liar, liar, pants on fire”) è una specie di ritornello di fanciulli, che letteralmente significa “Bugiardo, bugiardo, ti vanno a fuoco i pantaloni!”. Noi potremmo dire “Ti si allunga il naso!”.

 

 

 

 

Lo stato della macroeconomia è triste (per esperti) (dal blog di Krugman, 12 agosto 2016)

agosto 15, 2016

 

The State of Macro Is Sad (Wonkish)

AUGUST 12, 2016 10:09 AM 

 

Olivier Blanchard has a characteristically informed, lucid essay on the role of DSGE models in macroeconomics, in which he accurately describes the problems with these models but – again characteristically – tries to make peace with both sides, calling for reform of this dominant paradigm rather than tossing the whole thing. I understand his motivations. But what strikes me is just how sad a portrait he offers of the state of macroeconomic theory.

Here’s how I would approach the issue: by asking how we know that a modeling approach is truly useful. The answer, I’d suggest, is that we look for surprising successful predictions. General relativity got its big boost when light did, in fact, bend as predicted. The theory of a natural rate of unemployment got a big boost when the Phillips curve turned into clockwise spirals, as predicted, during the stagflation of the 1970s.

So has there been anything like that in recent years? Yes: economists who knew and still took seriously good old-fashioned Hicksian IS-LM type analysis made some strong predictions after the financial crisis that were very much at odds with what lay commentators, and quite a few economists, were saying. They – OK, we – declared that with interest rates near zero massive increases in the monetary base would not cause high inflation, that large budget deficits would not drive interest rates up or crowd out private investment, and that fiscal multipliers would be positive, in fact more than one, and would be considerably larger than estimates based on non-liquidity-trap episodes suggested.

And all of that came to pass. Those of us who knew our Hicks, directly or indirectly, seem to have had a real advantage over those who didn’t.

Can you say anything comparable about DSGE? Were there any interesting predictions from DSGE models that were validated by events? If there were, I’m not aware of it.

Yet even while failing to offer any measurable gains in insight, DSGE had the effect of crowding out the stuff that actually did work. Olivier writes:

I have found, for example, that I could often, as a discussant, summarize the findings of a DSGE paper in a simple graph. I had learned something from the formal model, but I was able (and allowed as the discussant) to present the basic insight more simply than the author of the paper. The DSGE and the ad hoc models were complements, not substitutes.

Um, no – he notes that he was allowed to present the basic insight more simply only because he was the discussant, but that the author of the paper wasn’t allowed to do the same thing. That’s DSGE substituting for, in fact, preventing the ad hoc approach. And most macro papers aren’t published along with insightful discussions by Olivier Blanchard! There is a real loss and cost here.

So what is the gain from this style of modeling? Olivier offers some awfully weak tea:

DSGE models can fulfill an important need in macroeconomics, that of offering a core structure around which to build and organize discussions.

Really? That’s the point of a paradigm that has taken over the field? It sounds, by the way, exactly like the defenses I heard of academic Marxism when I was young: never mind whether it’s right, it provides a framework.

Now, I don’t know how to reform all of this. There is a huge amount of sunk intellectual capital in this modeling approach. But at the very least we should admit to ourselves how very sad the whole story has become.

 

Lo stato della macroeconomia è triste (per esperti)

Olivier Blanchard presenta uno studio, come al solito ricco e lucido, sul ruolo dei modelli DSGE [1] in macroeconomia, nel quale descrive accuratamente i problemi con questi modelli ma – altrettanto come al solito – cerca di metter pace tra entrambi gli schieramenti, pronunciandosi per una riforma di questo paradigma principale, piuttosto che rivoltare tutta l’impostazione. Ne comprendo i motivi. Ma quello che mi colpisce è quanto sia triste il ritratto che egli offre delle condizioni della teoria macroeconomica.

Ecco come avrei affrontato l’intera questione: chiedendomi come facciamo a sapere che un approccio basato su modelli sia effettivamente utile. Direi che la risposta consiste nell’osservare le previsioni che hanno un successo sorprendente. La relatività generale ottenne la sua grande spinta, di fatto, quando la luce si incurvò come previsto. La teoria del tasso naturale della disoccupazione ottenne la sua grande spinta quando la curva di Phillips, come previsto, si trasformò in spirali in senso antiorario, durante la stagflazione degli anni ’70.

C’è stato dunque qualcosa di simile, negli anni recenti? Sì: gli economisti che conoscevano e avevano preso sul serio la buona, tradizionale analisi del genere del modello hicksiano IS-LM hanno fatto alcune solide previsioni che erano agli antipodi di quello che i commmentatori inesperti, e un buon numero di economisti, venivano affermando. Costoro – diciamo pure noi – affermavano che, con tassi di interesse prossimi allo zero, gli incrementi massicci nella base monetaria non avrebbero provocato elevata inflazione, che ampi deficit di bilancio non avrebbero spinto in alto i tassi di interesse o tolto spazio all’investimento privato, e che i moltiplicatori della spesa pubblica sarebbero stati positivi, di fatto superiori alla unità, e sarebbero stati considerevolmente più ampi di quello che suggerivano alcune stime basate su episodi di situazioni diverse dalla trappola di liquidità.

Ed è quello che è successo. Coloro tra noi che conoscevano, direttamente o indirettamente, la lezione di Hicks, sembrano avere avuto un reale vantaggio su quelli che non la conoscevano.

Si può dire qualcosa di paragonabile per i modelli DSGE? Dove ci sono state previsioni interessanti sulla base di modelli DSGE che sono state convalidate dagli eventi? Se ci sono state, non me ne sono accorto.

Tuttavia, persino quando non riesce a fornire alcun apprezzabile vantaggio nella intuizione, il DSGE ha avuto l’effetto di togliere spazio alle cose che effettivamente funzionavano. Scrive Olivier:

“Ho scoperto, ad esempio, che spesso ero nelle condizioni, nel partecipare ad un dibattito, di sintetizzare le scoperte di uno studio DSGE in un semplice grafico. Avevo appreso qualcosa dal modello formale, ma ero stato capace (e avevo concesso, come presentatore del dibattito) di presentare di presentare l’intuizione principale in modo più semplice dell’autore dello studio. Il DSGE ed i modelli ‘ad hoc’ erano complementari, non alternativi.”

In realtà non è così. Egli osserva che aveva consentito di presentare l’intuizione di base più semplicemente soltanto perché era nelle vesti di presentatore del dibattito, ma che all’autore del dibattito non era stato consentito di fare la stessa cosa. Vale a dire che di fatto sostituire il DSGE è come impedire un approccio ‘ad hoc’. E gran parte degli studi macroeconomici non vengono pubblicati assieme a presentazioni intelligenti da parte di Olivier Blanchard! In questo caso si determina una perdita ed un costo reale.

Dunque, quale è il vantaggio di questo genere di modelli? Olivier offre una specie di tè leggero imbevibile:

“I modelli DSGE possono soddisfare un importante bisogno della macroeconomia, relativo a fornire una struttura di base attorno alla quale costruire ed organizzazione i dibattiti”.

Davvero? È questo l’aspetto di paradigma che è subentrato nella disciplina? Mi ricorda, per inciso, esattamente le difese che sentivo proporre sul marxismo accademico, quando ero giovane: non conta se è giusto, esso fornisce uno schema.

Ora, io non so come tutto questo si possa riformare. In questo approccio di modellazione c’è una gran quantità di capitale intellettuale che è sprofondato. Ma in ultima analisi dovremmo riconoscere tra di noi quanto sia diventata triste tutta la storia.

 

 

[1] Il termine DSGE – “Dynamic stochastic general equilibrium” – indica un settore della teoria applicata dell’equilibrio generale, con una certa influenza nella macroeconomia contemporanea. La metodologia dello DSGE tenta di spiegare I fenomeni economici aggregati – come la crescita economica, i cicli economici, gli effetti delle politiche monetarie e della finanza pubblica – sulla base di modelli macroeconomici derivati da principi microeconomici. Tra gli altri, Woodford e Tovar. Aggiungo, anche se mi rendo conto della probabile grossolanità, che tale approccio dovrebbe essersi affermato in una certa misura in conseguenza e come risposta all’isolamento della teoria keynesiana, quando – negli anni della stagflazione – essa non pareva nelle condizioni di fornire spiegazioni adeguate. Ammettere la necessità di un fondamento microeconomico alla macroeconomia era una specie di prezzo che andava pagato a quello stallo temporaneo. E comportava un forte ricorso a metodiche molto complicate, ed un certo disprezzo nei confronti delle ‘intuizioni’ keynesiane. Krugman varie volte ha insistito sui costi intellettuali di questa operazione, soprattutto nel contesto di una economia che, con la crisi del 2008, è tornata ad essere meglio interpretabile sulla base degli schemi keynesiani (e in particolare hicksiani – vedi le sue note qua tradotte sul modello IS-LM di Hicks).

 

 

 

 

L’uomo della ‘capigliatura’ va incontro agli eredi (dal blog di Krugman, 10 agosto 2016)

agosto 14, 2016

 

AUG 10 3:01 PM 

Hair Meets Heirs

 

It’s sort of being put into the background by little stuff like death threats against Hillary Clinton, but I’m still kind of fascinated by how “populist” Donald Trump came out for elimination of the estate tax, which hits only a tiny number of yuuge estates. Of course, he probably doesn’t know that. Still, it was clearly a sop to the GOP establishment, which considers tax-free inheritance the “linchpin of the conservative movement.”

That tells you a lot about said movement. The thing about the estate tax is that it’s really, really hard to make the case that it’s all about incentives and trickle-down benefits. And conservatives basically don’t even try. Instead, they’ve made estate tax repeal an issue of “fairness” — people, they say, shouldn’t have to pay tax all over again when they die, and think of all the family farms and businesses broken put to pay the tax.

Now, this argument is in fact deeply misleading and almost always dishonest. For one thing, lots of people get taxed twice — once when you earn income, again when you pay sales tax, etc.. And much of the wealth passed on to heirs represents income — unrealized capital gains — that has never been taxed before. Oh, and the very wealthy, the people who now pay the bulk of the estate tax, often pay lower overall tax rates than people further down the scale; see Romney, Mitt.

There’s more: we’re supposed to feel bad about those broken-up family farms — but back in 2001, when the American Farm Bureau Foundation was asked to provide examples, it couldn’t find even one. Small business tales are also very hard if not impossible to find, and that was back when the minimum threshold was a lot lower than it is now. Basically, we’re supposed to feel sorry for unicorns.

But in that case, how does this story still exert power? Money in politics, for sure; decades of lavishly funded propaganda, too. But what Graetz and Shapiro, linked above, emphasize is that some of the blame rests on centrists and mild liberals, too: they never made the moral case for estate taxation. Even now, it’s hard to think of many politicians willing to be anywhere near as forthright as Teddy Roosevelt was about the dangers to democracy posed by vast inherited wealth.

The question is whether the Trump phenomenon will reopen that door. I understand and sympathize with the Clinton campaign’s decision to emphasize how uniquely bad Trump is; their task is, first and foremost, to keep his short fingers off the button. But a big win would, perhaps, create room for a more robust enunciation of progressive values, on this and many other subjects.

 

L’uomo della ‘capigliatura’ va incontro agli eredi [1]

Piccole cose come le minacce di morte contro Hillary Clinton lo rendono un po’ irrilevante, ma sono ancora come affascinato da come il “populista” Donald Trump se ne sia uscito a favore della eliminazione della tassa di successione, che colpisce soltanto un numero minuscolo di grandi proprietà immobiliari. Naturalmente, probabilmente lui non lo sa. Eppure, è stato chiaramente un bel contentino per il gruppo dirigente del Partito Repubblicano, che considera l’abolizione della tassa di successione “il fulcro del movimento conservatore”.

Il che vi dice molto sul suddetto movimento. Il punto sulla tassa di successione è che è davvero molto, molto difficile difendere l’argomento che dipenda tutto dagli effetti di incentivazione e dai benefici che si trasferiscono verso il basso della scala sociale. E i conservatori neanche ci provano. Hanno piuttosto fatto della abrogazione della tassa di successione una tema di “equità” [2] – la gente, dicono, non dovrebbe dover tornare a pagare le tasse dall’inizio una volta che muore, e pensare a tutte le abitazioni e gli affari di famiglia messi in rovina per pagare le tasse.

Ora, questo argomento è nei fatti profondamente fuorviante e abbastanza spesso disonesto. Da una parte, molte persone vengono tassate due volte – una volta quando guadagnano un reddito, e poi quando pagano le tasse sulle vendite etc. E molta della ricchezza trasmessa agli eredi rappresenta un reddito – profitti di capitale non realizzati – che non è mai stato tassato in precedenza. Inoltre, nel caso dei ricchissimi, le persone che adesso pagano il grosso della tassa di successione, essi spesso pagano aliquote fiscali complessive minori delle persone che sono più in basso nella scala sociale; si veda il caso di Mitt Romney.

C’è di più: si pensa che dovremmo essere dispiaciuti per quelle aziende agricole di famiglia che si disgregano – ma quando nel passato 2001 la l’Ufficio della Fondazione Americana delle Aziende Agricole venne richiesto di fornire qualche esempio, non ne poté trovare neanche uno. I racconti di piccole imprese sono anch’essi molto difficili da trovare, ammesso che esistano, e questo accadeva nel passato, quando la soglia minima era molto più bassa di quanto non sia adesso [3]. In sostenza, un po’ come se dovessimo essere dispiaciuti per gli unicorni.

Ma allora, come è possibile che questa storia sia ancora efficace? Di certo, si tratta di soldi per la politica; in aggiunta a decenni di propaganda profumatamente finanziata. Ma quello su cui insistono Graetz e Shapito, nella connessione precedente, è che un po’ di responsabilità riguarda i centristi ed anche i liberal moderati: essi non hanno mai avanzato un argomento morale nel caso della tassa di successione. Persino adesso, è difficile pensare che molti uomini politici siano disponibili ad essere altrettanto espliciti, quanto lo fu Teddy Roosevelt sui pericoli che le ricchezze ereditate costituiscono per la democrazia.

La domanda è se il fenomeno Trump riaprirà quella porta. Io capisco e sono solidale con la decisione della campagna elettorale della Clinton di insistere unicamente su quanto Trump sia pericoloso; il loro obbiettivo è, prima di tutto e soprattutto, di tenerlo lontano dalla stanza dei bottoni. Ma una grande vittoria, forse, creerebbe spazio per una affermazione più robusta dei valori progressisti, su questo e su molti altri temi.

 

 

[1] Suppongo che con “hair” si intenda riferirsi alla elaborata capigliatura del candidato repubblicano, che ha una assonanza con “heirs” (“eredi”).

[2] La connessione nel testo inglese è con uno studio di Michael J. Graetz e Ian Shapiro, pubblicato dalla Princeton University Press.

[3] Si intende la soglia di valore degli immobili oltre la quale si pagano le tasse, che negli Stati Uniti è molto elevata.

 

 

 

 

La macroeconomia nebulosa (dal blog di Krugman, 9 agosto 2016)

agosto 11, 2016

 

Murky Macroeconomics

AUGUST 9, 2016 11:18 AM 

 

With the result of the presidential election looking relatively clear — I know, chickens not hatched and all that, but, you know, polls have actually been fairly accurate — I’m thinking more about economics. And I realized something not too flattering about myself: I’m feeling nostalgic for 2011 or so.

Why? It was, of course, a terrible time for much of the world, and especially for anyone without a job. But for someone like me, an economist with secure personal finances, it was a time of wonderful intellectual clarity. Liquidity-trap macroeconomics — which I didn’t invent, but did play a role in bringing back into the mainstream — had become the story of the day. And the basic message of the models — that everything changes when you hit the zero lower bound — was being overwhelmingly confirmed by experience.

The thing is, it was all beautifully hard-edged: a crisp boundary at zero, a sharp change in the impact of monetary and fiscal policy when you hit that boundary. And the predictions we made came out consistently right.

But now things have gotten a bit, well, murky.

The zero lower bound is not, it turns out, quite as hard a boundary as we thought. True, there are limits — I’d be surprised if any central bank is willing to go much if at all below minus one percent — but it turns out to be a sort of a fuzzy no-man’s-land rather than a line that cannot be crossed.

More important, probably, is the fact that two of the major advanced economies — the US and, believe it or not, Japan — are arguably quite close to full employment. We don’t know how close, because we don’t know how much pent-up labor supply is still waiting on the sidelines. But you can no longer argue that supply limits are no longer relevant.

Correspondingly, you can also no longer argue with confidence that there can be no crowding out, because the Fed won’t raise rates. You can argue that it shouldn’t — and I would — but we are maybe, possibly, on our way out of the liquidity trap.

So we’re not in the simple, depressed-economy world of 2011 anymore. But here’s the thing: we’re not in what we used to call a normal macroeconomic situation either. Maybe we’re close to full employment, but maybe not, and that’s with near-zero interest rates; also, it’s all too easy to imagine adverse shocks in the near future, and not at all clear how the Fed could or would respond. We are, if you like, half-out of the liquidity trap, with one foot on dry land — but the other foot is still hanging over the edge, and it wouldn’t take much to topple us right back in.

What I would argue is that in this murky, fragile situation we should be conducting policy largely as if we were still in the trap — because we badly need to get both feet firmly on dry land with some distance between us and the quicksand. (And if I’m mixing metaphors — am I? — never mind. Throw the jackboot into the melting pot!) But it’s not the crystalline case we used to be able to make.

Still, we need to deal with this murky situation right, which means embracing the uncertainty as part of the argument. Make murkiness great again!

 

La macroeconomia nebulosa

Con i risultati delle elezioni presidenziali che appaiono relativamente chiari – lo so, i pulcini non sono ancora usciti dall’uovo e tutto il resto, ma, sapete, i sondaggi sono stati fatti abbastanza accuratamente [1] – sto pensando di più all’economia. Ed ho capito una cosa che non è troppo lunsinghiera per me: ho nostalgia per il 2011, o qualcosa di simile.

Perché? Fu, ovviamente, un periodo terribile per gan parte del mondo, e specialmente per chiunque non avesse un lavoro. Ma per gente come me, un economista con finanze personali certe, fu un periodo di meravigliosa chiarezza intellettuale. L’economia della trappola di liquidità – che non ho inventato io, ma per la quale ho avuto un ruolo nel ricondurla all’interno del pensiero economico – era diventata il racconto del giorno. E il messaggio di base dei modelli – secondo il quale tutto cambia quando si tocca il limite inferiore dello zero – riceveva conferme schiaccianti dall’esperienza.

Il punto è che era tutto stupendamente ben definito: un confine netto attorno allo zero, un brusco cambiamento nell’impatto della politica monetaria e della finanza pubblica quando si raggiunge quel confine. E le previsioni che facevamo si rivelavano costantemente giuste.

Ma adesso le cose sono diventate un po’, diciamolo, nebulose.

Si scopre che il limite inferiore (dello zero) non è un confine così netto come avevamo pensato. È vero, ci sono dei limiti – sarei sorpreso se qualsiasi banca centrale fosse disponibile ad andare molto al di sotto del meno uno per cento, o che fosse affatto disponibile anche per quel limite – ma si scopre di essere in una specie di terra di nessuno piuttosto che dinanzi ad una linea che non può essere otrepassata.

Probabilmente ancora più importante è il fatto che due delle importanti economie avanzate – gli Stati Uniti e, che ci crediate o meno, il Giappone – sono verosimilmente abbastanza vicine alla piena occupazione. Non sappiamo quanto vicine, perché non sappiamo quanta offerta repressa [2] di lavoro è ancora in attesa nelle retrovie. Ma non si può più sostenere che i limiti dell’offerta non siano più rilevanti.

Di conseguenza, non si può neanche più sostenere con tranquillità che non ci possa essere sottrazione di spazio per gli investimenti privati, perché la Fed non aumenterà i tassi. Si può sostenere che non dovrebbe farlo – è quello che faccio io – ma forse, probabilmente, siamo sulla strada di una uscita dalla trappola di liquidità.

Dunque non siamo più nel mondo semplice e caratterizzato da un’economia depressa del 2011. Ma qua è il punto: non siamo neppure in quella che eravamo soliti definire come una situazione macroeconomica normale. Forse siamo vicini alla piena occupazione, ma forse no, ed è caratterizzata da tassi di interesse vicini allo zero; inoltre, è anche troppo facile immaginare traumi negativi nel futuro prossimo, e non è affatto chiaro come la Fed potrebbe o vorrebbe rispondere. Siamo, se preferite, mezzo fuori la trappola di liquidità, con un piede sulla terra ferma – ma l’altro piede è ancora in sospeso sul bordo, e non ci vorrebbe molto per farci ricrollare indietro in un attimo.

Ciò che io direi è che in questa nebulosa e fragile situazione dovremmo in gran parte sviluppare una politica come se ancora fossimo in una trappola – perché abbiamo assolutamente bisogno di avere entrambi i piedi sulla terra ferma, con qualche distanza tra noi e le sabbie mobili (e se sto confondendo le metafore – forse lo sto facendo – non è importante. Provate a piantare gli stivali nella fanghiglia!). Non è comunque quella situazione cristallina che eravamo soliti esser capaci di determinare.

Eppure, abbiamo bisogno di misurarci con questa situazione nebulosa nel modo giusto, il che significa far nostra l’incertezza come parte del ragionamento. Facciamo diventare di nuovo grande la nebulosità! [3]

 

 

[1] La connessione è con un rapporto del New York Times di questi giorni, che fornisce un argomentatissimo sondaggio sulle previsioni elettorali, con un risultato complessivo dell’86 per centio a favore della Clinton.

[2] Suppongo, nel senso di ‘non libera’, perché desiderosa di una piena occupazione che non trova, essendo disponibili solo posti di lavoro a tampo parziale o non qualificati. Ed anche nel senso di non attivamente impegnata nella ricerca di un posto – e dunque non censita come occupata – perché scoraggiata.

[3] È evidente l’ispirazione ironica del trumpiano “Facciamo diventare di nuovo grande l’America!”.

 

 

 

 

Politica macroeconomica prudenziale (dal blog di Krugman, 7 agosto 2016)

agosto 9, 2016

 

Prudential Macro Policy

AUGUST 7, 2016 5:33 PM 

 

A few years ago, it was easy to say what U.S. monetary and fiscal policy should be doing. The economy was still obviously depressed, so the indicated demand policy was pedal to the metal all the way – no need to worry about inflation, no reason to believe that deficit spending would cause any crowding out (in fact it would almost surely crowd in private investment, because such investment depends on demand.)

It’s true that the right kept warning about a debased dollar, while the Very Serious People were obsessed with debt and deficits, so that in practice we didn’t do the obvious. But it was obvious.

Now, however, we’re arguably not too far from full employment. No inflation problem is visible yet, but it’s not crazy to suggest that inflation might go above the Fed’s target in the not-too-distant future. So has the macro case for strongly stimulative policy gone away?

We’ve had an extensive discussion of this question when it comes to monetary policy, in which uncertainty plays the central role. Maybe we’re at or close to full employment, and will continue in that direction; but maybe not, either because there’s more slack than we think or because adverse shocks will send the economy down again. This means that there’s a risk of getting it wrong in either direction – not raising rates soon enough to head off some rise in inflation, on one side, versus raising them too soon on the other.

And the decisive argument, it seems to me and others – although not, alas, to the Fed – is that these risks are asymmetric. Waiting too long risks embarrassment and some cost of wringing out the extra inflation, but moving too soon risks long-term stagnation. Wait until you see the whites of inflation’s eyes! (I coined that phrase, by the way.)

But what about fiscal policy? I found myself trying to clarify my thoughts here in aid of tomorrow’s column. And while I’m sure I’m not the first to say this, a similar argument applies. Think in particular about infrastructure investment, which takes a long time to get going.

Suppose we were to launch a program of deficit-financed public investment now, which would play out over the next few years. The truth is that we don’t know what the macro environment would be when the spending took place. We might be more or less at full employment, which means that the spending would cause higher interest rates and crowd out some private investment. But we also might be in a depressed state, either because of a slump in some part of domestic demand or because we’re importing secular stagnation from abroad, in which case fiscal stimulus would be just what the doctor ordered.

The point is that these are, again, asymmetric risks. A little crowding out wouldn’t kill us, given how badly we need infrastructure investment. On the other hand, if we do slide back into a liquidity trap we would be badly hurt by not having the public investment we could have had, helping to prop up demand as well as serving other purposes.

Or to put it another way, given where we are in the macro situation public investment, in addition to its usual benefits, would provide valuable insurance against the all too possible return of the zero lower bound. It’s not quite as slam-dunk a case as it was in, say, 2013, but it’s still very strong. It’s still time to borrow and spend.

 

Politica macroeconomica prudenziale

Pochi anni fa, era facile dire quale politica monetaria e di finanza pubblica si sarebbe dovuto fare. L’economia era ancora evidentemente depressa, dunque l’appropriata politica della domanda era spingere in ogni modo a fondo l’acceleratore – senza bisogno di preoccuparsi dell’inflazione, senza alcuna ragione per credere che la spesa in deficit provocasse un qualche spiazzamento [1] (di fatto avrebbe quasi certamente  dato spazio all’investimento privato, dato che tale investimento dipende dalla domanda).

È vero che la destra continuava a preoccuparsi su una riduzione del valore del dollaro, mentre le Persone Molto Serie erano ossessionate dal debito e dai deficit, cosicché in pratica non si fece quello che era ovvio. Eppure era ovvio.

Oggi, tuttavia, probabilmente non siamo molto lontani dalla piena occupazione. Non è ancora visibile alcun problema di inflazione, ma non è folle suggerire che l’inflazione potrebbe, in un futuro non troppo distante, superare l’obbiettivo della Fed. Dunque, è scomparso l’argomento macroeconomico per una politica di forte stimolazione?

Abbiamo avuto un vasto dibattito su questa domanda nel caso della politica monetaria, nella quale l’incertezza gioca il ruolo centrale. Può darsi che si sia in una condizione di piena occupazione, o almeno vicini, e che si prosegua in quella direzione; ma può darsi di no, sia perché abbiamo una fiacchezza maggiore di quella che riteniamo, sia perché traumi negativi potrebbero nuovamente spingere l’economia verso il basso. Questo significa che c’è il rischio di fare la cosa sbagliata in entrambi i modi – non elevando i tassi abbastanza velocemente da sbarrare la strada a qualche crescita dell’inflazione, oppure elevandoli troppo rapidamente.

E l’argomento decisivo, sembra a me e ad altri – seppure, ahimè, non alla Fed – è che questi rischi sono asimmetrici. Attendere troppo a lungo rischia l’imbarazzo e qualche costo di dover dare una stretta ad una inflazione supplementare, ma muoversi troppo presto rischia una stagnazione a lungo termine. Aspettate, finché non vedete l’inflazione nelle palle degli occhi (una frase, per inciso, che ho coniato io stesso) [2].

Ma cosa dire della poltica della finanza pubblica [3]? Mi sono trovato a cercar di chiarire i miei pensieri a questo proposito a sostegno del mio articolo di oggi [4]. E se sono certo di non essere il primo a sostenere una cosa come questa, si può usare un argomento simile. Si pensi in particolare all’investimento in infrastrutture, che richiede tempi lunghi per essere avviato.

Supponiamo di stare lanciando in questo momento un programma di investimenti pubblici finanziato in deficit, che produrrebbe effetti nel corso dei prossimi anni. La verità è che non sappiamo quale sarebbe il contesto macroeconomico, una volta che la spesa entrasse in funzione. Potremmo essere più o meno in condizioni di piena occupazione, il che significa che la spesa provocherebbe tassi di interesse più elevati che ridurrebbero lo spazio a qualche investimento privato. Ma potremmo anche essere in una condizione depressa, sia a causa di un calo in qualche settore della domanda interna, che a causa di una importazione dall’estero della stagnazione secolare, nel qual caso lo stimolo della finanza pubblica sarebbe la ricetta più appropriata.

Il punto è che questi sono, ancora una volta, rischi asimmetrici. Un piccolo ‘spiazzamento’ non ci ammazzerebbe, dato il bisogno così grave che abbiamo di investimenti in infrastrutture. D’altra parte, se riscivoliamo in una trappola di liquidità potremmo essere seriamente danneggiati dal non avere l’investimento pubblico che avremmo potuto avere, che avrebbe aiutato a sostenere la domanda così come sarebbe servito agli altri scopi.

Oppure, per dirla altrimenti, dato il punto a cui siamo nella situazione macroeconomica, l’investimento pubblico, in aggiunta ai suoi benefici consueti, fornirebbe una apprezzabile assicurazione contro l’anche troppo possibile ritorno al limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse). Non è un argomento risolutivo [5] come era, ad esempio, nel 2013, ma è ancora molto forte. È ancora tempo di indebitarsi e di spendere.

 

 

[1] Si intende: dell’investimento privato. “Crowd out” si traduce spesso con “spiazzare”, in questo contesto; del resto significa “togliere spazio”.

[2] In lingua inglese l’espressione è “guardare il bianco degli occhi”; ovvero loro intendono osservare la ‘sclera’ – la parte posteriore del bulbo oculare – mentre noi intendiamo osservare le pupille. Krugman non l’ha inventata, ma sostiene di averla applicata per primo all’economia.

[3] A proposito della traduzione – laboriosa ma secondo me giusta – di “fiscal” con “della finanza pubblica”, vedi alle Note sulla Traduzione.

[4] Il riferimento è all’articolo “Tempo di indebitarsi”, New York Times 8 agosto 2016, qua tradotto.

[5] “Slum-dunk” significa, con termine sportivo, “schiacciata”.

 

 

 

 

Saremo vittime della paura? (22 luglio 2016)

luglio 24, 2016

 

JUL 22 10:53 AM 

Will Fear Strike Out?

If you want to feel good about the state of America, you could do a lot worse than what I did this morning: take a run in Riverside Park. There are people of all ages, and, yes, all races exercising, strolling hand in hand, playing with their dogs, kicking soccer balls and throwing Frisbees. There are a few homeless people, but the overall atmosphere is friendly – New Yorkers tend to be rushed, but they’re not nasty – and, well, nice.

Yes, the Upper West Side is affluent. But still, I’ve seen New York over the decades, and it has never been as pleasant, as safe in feel, as it is now. And this is the big bad city!

The point is that lived experience confirms what the statistics say: crime hasn’t been lower, society hasn’t been safer, in generations. Which, of course, leads us to the Trump gambit from last night. Can he raise 1968-type fears in a country that looks, feels, and is nothing like it was back then?

I wish I were sure that he can’t. A lot of Republican-leaning voters apparently believe that the economy is terrible in the teeth of their own experience – that the pretty good job market they see is a local aberration. And “crime” may not really mean “crime” – it may just be code for “brown people.”

My guess is that it won’t work, if only because the Democratic coalition is fundamentally bigger than the Republican coalition, and Trump will be an excellent get-out-the-vote motivator. But a little certainty would be very welcome.

 

Saremo vittime della paura?

Se volete avere buone sensazioni sullo stato dell’America, ci sono cose assai peggiori di quella che ho fatto questa mattina: una passeggiata in Riverside Park.  Ci sono persone di tutte le età, che si esercitano per davvero in tutti i modi, andando a passeggio mano nella mano, giocando con i loro cani, dando calci ai palloni e lanciando frisbee. Ci sono alcune persone sfrattate, ma l’atmosfera generale è cordiale – i newyorchesi tendono ad essere frettolosi, ma non sono cattivi – ed è, insomma, gradevole.

È vero, l’Upper West Side è un luogo di benestanti. Eppure, ho visto New York nel corso di decenni, non è mai stata così piacevole, così in apparenza sicura, come è adesso. E questa è la grande città malefica!

Il punto è che l’esperienza vissuta conferma quello che dicono le statistiche: da generazioni la criminalità non è stata più bassa e la società non è stata altrettanto sicura. La qualcosa, naturalmente, ci porta alla mossa iniziale di Trump dell’altra notte. Può egli evocare paure del genere di quelle del 1968 in un paese che sembra, si percepisce ed è del tutto diverso da come era allora?

Vorrei essere sicuro che non può farlo. Molti degli elettori di tendenze repubblicane in apparenza credono che l’economia sia in condizioni terribili a dispetto della loro stessa esperienza – che il mercato del lavoro relativamente buono che constatano sia una forma di anomalia locale. E il “crimine” in realtà può non significare “crimine” – può essere semplicemente un modo di dire per significare “gente di colore”.

La mia impressione è che non funzionerà, non fosse altro perché la coalizione democratica è fondamentalmente molto più grande di quella repubblicana, e Trump sarà un eccellente motivo per portare la gente a votare. Ma un po’ di certezza sarebbe per davvero benvenuta.

 

 

 

 

Il peccato originale del Partito Repubblicano (dal blog di Krugman, 18 luglio 2016)

luglio 19, 2016

 

JUL 18 2:38 PM

The GOP’s Original Sin

Norm Ornstein has a piece in Vox laying out, once again, his (and Mann’s) thesis that the GOP went off the rails, becoming a radical party with little regard for truth, a long time ago. He’s right, of course; I’ve been saying much the same thing since the early 2000s, notably in the introduction to my book The Great Unraveling.

My reward, by the way, was to be labeled “shrill”; and at the risk — actually not the risk, the certainty — of sounding whiny, I’m still generally treated as having overstepped the boundaries even though everything I said back then is now becoming more or less conventional wisdom. I guess I was a premature anti-GOPist. In fact, can’t help noticing something about this graf from Norm himself:

We came to our blunt conclusions from perches inside the belly of the beast, observing, analyzing, and interacting with the top political figures in Congress and the executive branch since 1969. Other scholars and journalists, including Jonathan Chait, James Fallows, Jacob Hacker, and Paul Pierson had paved the way with observations and analyses similar to ours.

OK, whining over. What I want to talk about is when, exactly, the GOP went over the edge. Obviously it didn’t happen all at once. But I think the real watershed came in 1980-81, when supply-side economics became the party’s official doctrine.

I’m not sure, even now, whether people who aren’t involved in economic policy discussion understand that supply-side wasn’t a doctrine like monetarism or even real business cycles — ideas I may think are wrong, but which had and to some extent still have significant support from professionals in the field. Supply-side economics never had any evidence behind it; it never had any support in academic research; it barely even had any support among economic researchers and forecasters in the business world. It was and remains crank economics pure and simple, with nothing going for it except political convenience.

Yet 35 years ago the GOP was already willing to embrace this doctrine because it was politically convenient, and could be used to justify tax cuts for the rich, which have always been the priority.

And given this, why should anyone be surprised at all the reality denial and trashing of any kind of evidence that followed? You say economics is a pseudo-science? Fine. First they came for the economists; then they came for the climate scientists and the evolutionary biologists.

Now comes Trump, and the likes of George Will, climate denier, complain that he isn’t serious. Well, what did you think was going to happen?

 

Il peccato originale del Partito Repubblicano

Norm Ornstein ha un articolo su Vox nel quale espone ancora una volta la sua tesi (e quella di Mann) secondo la quale il Partito Repubblicano è uscito dai binari, diventando un partito radicale con poco riguardo per la verità, molto tempo fa. Ha ragione, naturalmente; vengo dicendo la stessa cosa dagli inizi degli anni 2000, in particolare nella introduzione del mio libro “The Great Unraveling” [1].

La mia ricompensa, per inciso, fu di essere etichettato come “fastidioso”; e a rischio di apparire lamentoso – per la verità non il rischio, la certezza –  sono ancora in generale trattato come se fossi andato oltre i limiti, anche se ogni cosa che dissi allora sta ora diventando più o meno un punto di vista convenzionale. Suppongo di essere stato un republicanista prematuro. Di fatto, può non posso fare a meno di osservare questo passo dallo stesso articolo di Norm:

“Siamo arrivati alle nostre brusche conclusioni dopo esserci installati nella tana del lupo, osservando, analizzando e interagendo con i principali personaggi poliitci del Congresso e i dirigenti del ramo esecutivo a partire dal 1969. Altri studiosi e giornalisti, come Jonathan Chait, James Fallaws, Jacob Hacker e Paul Pierson hanno preparato la strada con osservazioni e analisi simili alle nostre”.

Va bene, andiamo oltre le lamentele. Quello di cui viglio ragionare è quando, esattamente, il Partito Repubblicano ha superato questo limite. Naturalmente, non accadde tutto a un tratto. Ma io credo che il vero spartiacque fu nel 1980-1981, quando l’economia dal lato dell’offerta divenne la dottrina ufficiale del Partito [2].

Non sono sicuro, persino a questo punto, se le persone che non sono coinvolte nel dibattito di politica economica capiscano che l’economia dal lato dell’offerta non fu una dottrina come il monetarismo o anche come i cicli reali dell’economia – idee che possono essere sbagliate, ma che hanno avuto e in qualche misura hanno un sostegno significativo tra i professionisti della disciplina. L’economia dal lato dell’offerta non ha mai avuto alcuna prova alle sue spalle; non ha mai avuto alcun sostegno nella ricerca accademica: ha appena avuto un qualche sostegno tra i ricercatori economici e i previsori del mondo delle imprese. È stata e rimane una pura e semplice economia da ciarlatani, con niente che la incoraggiava se non la convenienza politica.

Tuttavia, 35 anni orsono il Partito Repubblicano era già disponibili ad abbracciare questa dottrina perché era politicamente conveniente, e poteva essere usata per giustificare gli sgravi fiscali verso i ricchi, che sono sempre stati la priorità.

Dato questo, perché chiunque dovrebbe affatto sorprendersi del negazionismo della realtà e del rigetto di ogni genere di prova che ne è seguito? Si dice che l’economia è una pseudoscienza. Bene. Anzitutto accadde agli economisti; poi accadde agli scienziati del clima e ai biologi dell’evoluzionismo.

Ora arriva Trump, e i soggetti come Geroge Will, un negazionista del riscaldamento climatico, si lamentano che non è serio. Ebbene, cosa vi aspettavate che accadesse?

 

 

[1] In italiano tradotto da Laterza con il titolo “La deriva americana”.

[2] Il 1981 è l’anno in cui Ronald Reagan diventa per la prima volta Presidente degli Stati Uniti (otterrà un secondo mandato e durerà in carica sino al 1989). Nonostante che talora la “economia dal lato dell’offerta” venga presentata per le sue originarie connessioni con i teorici della scuola ‘austriaca’, e con studiosi come Schumpeter, negli anni ’80 essa coincide con la prima aperta formulazione dell’idea che l’unica politica economica efficace sia quella degli sgravi fiscali sui più ricchi. In un certo senso, l’idea abbastanza antica che gli unici fattori che contano nella evoluzione economica siano quelli ‘reali’ (tecnologie, demografia, grandi sconvolgimenti etc.), viene confezionata in un nuovo modo radicalmente semplicistico: l’unica politica economica utile è favorire i redditi ed i profitti delle classi abbienti, unico orizzonte reale dell’economia.

 

 

 

 

 

Commercio e posti di lavoro: una nota (dal blog di Krugman, 3 luglio 2016)

luglio 7, 2016

Trade and Jobs: A Note

JULY 3, 2016 4:12

 

Given Trump’s economic policy speech – well, “policy” speech – it seems time to brush up on trade and jobs, an issue I used to write a lot about. The big story in the academia/policy space lately has been the work of Autor et al, who in two papers have estimated large losses from Chinese import penetration. I basically agree with this conclusion, at least when we’re talking about manufacturing employment. But I’m troubled by some conceptual issues, which I think are important for interpreting the results.

Maybe the best way to explain all of this is to start by talking about how I would do this – in fact, the way I’ve been doing it on the backs of various envelopes over the years. I would begin by posing a counterfactual: what would U.S. employment look like if we had pursued policies such as Trump tariffs that prevented the large trade deficits in manufacturing we actually have?

I’d start by arguing that a balanced expansion of imports and imports would have, to a first approximation, no effect on manufacturing value added, and an effect on employment only to the extent that import-competing industry is more labor-intensive than exports. Leave that on one side. Then what matters is the manufacturing trade deficit, which according to the WTO was approximately $600 billion in 2014.

How much manufacturing did that deficit displace? It doesn’t all come out of manufacturing value added, because a fair bit of a dollar spent on manufactured goods eventually shows up in purchases of non-manufactured imports. I need to do this more carefully (on deadline right now), but a rough number would be 60 percent for manufactured content; so we’re talking about $360 billion.

Then, employment: value added per worker in manufacturing is approximately $175,000. So this should translate into a bit over 2 million jobs.

OK, what about the effect on overall employment? In general, you can’t answer that with a similar computation, because it all depends on offsetting policies. If monetary and fiscal policy are used to achieve a target level of employment – as they generally were prior to the 2008 crisis – then a first cut at the impact on overall employment is zero. That is, trade deficits meant 2 million fewer manufacturing jobs and 2 million more in the service sector.

Since 2008, of course, we’ve been in a liquidity trap, with the Fed either unable or unwilling to hit its targets and fiscal policy paralyzed by ideology, so trade deficits are in practice a major drag on overall employment. But this is a bit different from the usual “trade costs jobs” argument.

So, how big a deal is displacement of 2 million manufacturing jobs? Not trivial, to say the least. But if you want to place it in the context of deindustrialization: we’re talking about 1.5 percent of the work force. So absent the trade deficit – that is, again, imagining some policy that prevents deficits from emerging – we would have roughly 11.5 percent of the work force in manufacturing, rather than the actual 10. Compare this with the realities of the past: more than 20 percent in manufacturing in the late 1970s, more than 25 percent in the 1960s.

OK, now for Autor and various co-authors, who do something very different: a bottom-up approach. They start with an empirical analysis, using cross-section data, of the impact of the China shock on employment, wages, and so on at the regional level – which is perfectly fine, and in fact beautiful work.

But what they do next is to apply the implied coefficient from this analysis to the aggregate effects of the China shock. And that’s much more dubious – especially when, in the second paper, they purport to estimate the effects on overall employment. In general, you can’t do that: applying estimates of partial regional effects to the overall aggregate exposes you to huge possible fallacies of composition.

And in this case the crucial issue is monetary and fiscal response. Up through 2007 we basically had a Fed which raised rates whenever it thought the economy was overheating; in the absence of the China shock it would have raised rates sooner and faster, so you just can’t use the results of the cross-section regression – which doesn’t reflect monetary policy, which was the same for everyone – to predict how things would have turned out.

Now, it so happens that my alternative procedure yields results for manufacturing alone that aren’t too much out of line with those papers. But this should be seen as jobs shifted out of manufacturing to other sectors, not total job loss, at least pre-crisis.

 

Commercio e posti di lavoro: una nota

Visto il discorso di politica economica di Trump – o meglio il discorso di “politica” tra virgolette – sembra il momento di dare una ripassata al tema del commercio e dei posti di lavoro, sul quale argomento un tempo scrivevo molto. Negli ambienti accademici e della politica il grande fatto recente è stato il lavoro di Autor ed altri [1], che in due saggi hanno stimato ampie perdite per effetto della penetrazione delle importazioni dalla Cina. Fondamentalmente concordo con questa conclusione, almeno se si sta parlando di occupazione manifatturiera. Sono però dubbioso su qualche tematica concettuale, che penso sia importante per interpretare i risultati.

Forse il modo migliore per spiegare tutto questo è partire col parlare di come io avrei fatto questa analisi – che in sostanza è il modo in cui lo sono venuto facendo nel corso degli anni con i miei calcoli improvvisati. Io avrei cominciato col chiedermi cosa sarebbe accaduto se la storia fosse andata diversamente: cosa sarebbe l’occupazione negli Stati Uniti se avessimo perseguito politiche come le tariffe di Trump, che avessero impedito gli ampi defici commerciali nel manifatturiero che abbiamo attualmente?

Io sarei partito sostenendo che una equilibrata espansione delle esportazioni e delle importazioni [2] non avrebbe avuto, ad una prima approssimazione, alcun effetto sul valore aggiunto del manifatturiero, ed un effetto sull’occupazione soltanto nella misura in cui l’industria che compete sulle importazioni ha maggiore intensità di lavoro di quella delle esportazioni. Lasciamo questo aspetto da una parte. Poi, quello che conta è il deficit commerciale del manifatturiero, che secondo il WTO è stato approssimativamente di 600 miliardi di dollari nel 2014. Quanti posti di lavoro il settore manifatturiero ha messo in mobilità di quel deficit? Esso non viene tutto dal valore aggiunto del settore manifatturiero, perché un bel po’ di ogni dollaro speso su beni manifatturieri si manifesta in acquisti di importazioni non manifatturiere. Devo fare questo calcolo in modo più scrupoloso (che adesso sto terminando), ma un numero approssimativo sarebbe il 60 per cento del contenuto manifatturiero; dunque stiamo parlando di circa 360 miliardi di dollari.

Poi, l’occupazione: il valore aggiunto per lavoratore nel settore manifatturiero è approssimativamente di 175.000 dollari. Dunque, questo si dovrebbe tradurre in un dato un po’ superiore a 2 milioni di posti di lavoro. Se è così, che dire dell’effetto sull’occupazione complessiva? In generale, non si può rispondere altrimenti che con un calcolo simile, perché tutto dipende da un bilanciamento delle politiche. Se la politica monetaria e della finanza pubblica sono usate per ottenere un certo livello di occupazione – come in generale era prima della crisi del 2008 – allora una prima osservazione sull’impatto sull’occupazione complessiva è pari a zero. Ovvero, i deficit commerciali comportano due milioni di posti di lavoro manifatturieri in meno e due milioni di posti di lavoro in più nei servizi.

A partire dal 2008, ovviamente, siamo stati in una trappola di liquidità, con la Fed sia impossibilitata che non desiderosa di raggiungere i suoi obbiettivi e la politica della finanza pubblica paralizzata dall’ideologia, cosicchè i deficit commerciali hanno costituito una detrazione importante sull’occupazione complessiva. Ma questo è un po’ diverso dal consueto argomento dei “costi in posti di lavoro derivati dal commercio”. Dunque, quanto è stata grande la messa in mobilità di due milioni di posti di lavoro dal settore manifatturiero? Per dire il minimo, non è stata banale. Ma se volete collocare quel dato nel contesto della deindustralizzazione: stiamo parlando di circa l’1,5 per cento della forza lavoro. Dunque, in assenza di deficit commerciale – vale a dire, di nuovo, immaginando una qualche politica che inpedisca che i deficit emergano – avremmo avuto grosso modo l’11,5 per cento della forza lavoro nel settore manifatturiero, piuttosto dell’attuale 10 per cento. Confrontiamo questo con le realtà del passato: più del 20 per cento nel manifatturiero sulla fine degli anni ’70, più del 25 per cento negli anni ’60.

Veniamo adesso ad Autor e ai vari coautori, che seguono un procedimento assai diverso: un approccio dal basso in alto. Essi partono da una analisi empirica, utilizzando dati da vari spaccati, sull’impatto dello shock cinese sull’occupazione, i salari e tutto il resto ai livelli regionali – il che va benissimo, e di fatto funziona nel migliore dei modi. Ma quello che fanno successivamente è applicare in coefficiente implicito in questa analisi sugli effetti aggregati dello shock cinese. E ciò è molto più dubbio – in particolare quando, nel secondo studio, essi si propongono di stimare gli effetti sull’occupazione complessiva. In generale, è una cosa che non si può fare: applicare le stime di effetti regionali parziali all’aggregato complessivo espone a grandi errori possibili di composizione.

E in questo caso la questione cruciale è la risposta monetaria e della politica della finanza pubblica. Sino al 2007, fondamentalmente, abbiamo avuto la Fed che ha innalzato i tassi qualsiasi cosa pensasse del surriscaldamento dell’economia; in assenza dello shock cinese essa avrebbe innalzato i tassi più presto e più velocemente, dunque non si possono usare i risultati di una regressione trasversale – che non riflette la politica monetaria, che era la stessa per tutti – per stabilire come le cose sarebbero risultate. Ora, si dà il caso che la mia procedure alternativa produca risultati per il solo settore manifatturiero che non sono troppo dissimili da quelli di questi studi. Ma questo dovrebbe essere considerato come uno spostamento di posti di lavoro dal settore manifatturiero ad altri settori, non come una perdita totale di posti di lavoro, almeno prima della crisi.

 

 

[1] Uno studio, pubblicato il 18 dicembre del 2015, a cura di Daron Acemoglu, del Massachusetts Institute of Technology e del National Bureau of Economic Research; di David Autor, Massachusetts dell’Institute of Technology e del National Bureau of Economic Research; di David Dorn, della Università of Zurich and del Centre for Economic Policy Research;  Gordon H. Hanson, della Università della California, San Diego, e del National Bureau of Economic Research; di Brendan Price, del Massachusetts Institute of Technology

[2] Correggo quello che mi pare un errore nel testo inglese, che ripete due volte “importazioni”.

 

 

 

 

La macroeconomia della Brexit: ragionamenti interessati? (dal blog di Krugman, 30 giugno 2016)

luglio 1, 2016

 

The Macroeconomics of Brexit: Motivated Reasoning?

JUNE 30, 2016 5:04 PM

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I’m still on vacation, but had some time to catch up today, and felt an urge to scratch an itch I’ve been feeling. You see, much of the discussion of Brexit and its impacts bothers me. I believe that Brexit is a tragic development, which will do substantial long-run economic harm. But what we’re hearing overwhelmingly from economists is the claim that it will also have severe short-run adverse impacts. And that claim seems dubious.

Or maybe more to the point, it’s a claim that doesn’t follow in any clear way from standard macroeconomics – but it’s being presented as if it does. And I worry that what we’re seeing is a case of motivated reasoning, which could end up damaging economists’ credibility.

OK, let’s start at the beginning. Brexit will almost certainly have an adverse effect on British trade; even if the UK ends up with a Norway-type agreement with the EU, the loss of guaranteed access to the EU market will affect firms’ decisions about investments, and inhibit trade flows.

This reduction in trade relative to what would otherwise happen will, in turn, make the British economy less productive and poorer than it would otherwise have been. It takes fairly heroic assumptions to make this into a specific number, but 2-3 percent lower income in perpetuity seems plausible.

So far, so good, or rather so bad: this is standard economics, basically Ricardo with a dash of new trade theory.

But what about warnings that Brexit will precipitate a British recession, or at least a drastic slowdown in the short run? Where are those coming from?

The trade arguments are about the economy’s supply side: less trade means lower productivity and hence lower productive capacity. But the kind of recession we’re talking about here is a demand-side phenomenon – a slump brought on by inadequate spending. And why, exactly, is that supposed to happen?

As best I can tell, the case for a UK recession or at least slowdown rests on two not entirely distinct propositions: the idea that uncertainty will deter investment and possibly consumption, and the idea that an increase in perceived risks will worsen financial conditions. Let’s take these on in turn.

On the first: Brexit certainly does increase uncertainty – but is this necessarily bad for investment? That’s not at all clear from the theoretical literature: firms might actually invest more in the face of uncertainty, in effect to cover their bases. So why is the proposition that uncertainty will deter investment so readily accepted in this case? In part, I suspect that it’s a kind of word game. When business people talk about “increased uncertainty,” they generally aren’t talking about mean-preserving spreads – they’re talking about an increased probability that bad things will happen. And maybe that’s what people writing about increased uncertainty in the wake of Brexit mean, too.

But in that case we’re saying that bad things will happen because firms will perceive an increased probability of bad things happening. That’s either circular reasoning, assuming one’s conclusion, or both.

I’d also note that any major policy change creates uncertainty, because nobody knows how it will work out. So why don’t we hear recession warnings when countries are contemplating major trade liberalization, or privatization schemes, or labor market reforms? The “uncertainty depresses investment” argument seems to be rolled out selectively, only deployed against policies economists dislike for other reasons.

Meanwhile, what about the argument that Brexit will worsen financial conditions, increasing risk spreads? Well, this seems to me to be another circular argument – it’s claiming that bad things will happen because investors will expect bad things to happen.

In other words, the arguments for big short-run damage from Brexit look quite weak. An economist who tried to make similar arguments for or against most policies would face a lot of criticism. But in this case we have a near-consensus accepting these weak arguments. Why?

Well, there is a historical tendency on the part of economists to loosen their intellectual standards whenever trade issues come up – a sort of sense that sloppy thinking in the defense of free trade is no vice. Claims that Smoot-Hawley caused the Great Depression have been pretty thoroughly refuted, but keep being made. Claims that trade liberalization is a great job creator are similarly widespread even though they aren’t grounded in any standard model. As I’vewritten before, some attacks on Trumponomics – which is really terrible – nonetheless cut intellectual corners, making strange new assumptions on the fly (e.g., tariffs will reduce spending on imports, but none of that spending will be diverted to domestic production.)

My suspicion is that the same thing is happening here. Economists have very good reasons to believe that Brexit will do bad things in the long run, but are strongly tempted to sex up their arguments by making very dubious claims about the short run. And the fact that so many respectable people are making these dubious claims makes them seem well-reasoned when they aren’t.

Unfortunately, that sort of thing, aside from being inherently a bad practice, can all too easily backfire. Indeed, the rebound in British stocks, which are now above pre-Brexit levels, is already causing some backlash against conventional economists and their Chicken Little warnings.

Sorry, people, sloppy thinking is always a vice, no matter what cause it’s used for.

 

La macroeconomia della Brexit: ragionamenti interessati?

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Sono ancora in vacanza. Ma oggi ho avuto un po’ di tempo per mettermi in pari e ho sentito il bisogno di soddisfare un desiderio che avevo da un po’. Il punto è che gran parte del dibattito sulla Brexit e sulle sue conseguenze mi infastidisce. Credo che la Brexit sia un evento tragico, che provocherà un danno di lungo periodo sostanziale. Ma quello che stiamo ascoltando, in modo assordante, dagli economisti è che avremo anche gravi impatti negativi di breve periodo. E quell’argomento sembra dubbio.

O, forse più precisamente, è un argomento che non si riferisce in modo per niente chiaro ad una macroeconomia convenzionale – ma viene presentato come se lo facesse. Ed io sono preoccupato che ciò a cui stiamo assistendo sia un caso di ragionamento ‘interessato’, che finirebbe col danneggiare la credibilità degli economisti.

Consentitemi, dunque, di partire dall’inizio. La Brexit avrà quasi certamente un effetto negativo sul commercio inglese; persino se il Regno Unito finisse con l’accordarsi con l’UE sul tipo dell’accordo fatto con la Norvegia, la perdita dell’accesso garantito al mercato dell’UE influenzerà le decisioni delle imprese sugli investimenti e ostacolerà i flussi commerciali.

Questa riduzione nel commercio in rapporto a ciò che altrimenti sarebbe accaduto, a sua volta, renderà l’economia britannica meno produttiva e più povera di quello che sarebbe stata. Ci vuole una immaginazione abbastanza eroica per ridurre tutto questo ad un numero preciso, ma un reddito più basso del 2-3 per cento in permanenza sembra plausibile.

Fin qui tutto bene, o meglio tutto male: questa è l’economia standard, fondamentalmente Ricardo con un pizzico di nuova teoria del commercio.

Ma cosa dire degli ammonimenti secondo i quali la Brexit precipiterà nel breve periodo il Regno Unito in una recessione, o almeno in un drastico rallentamento? Da dove vengono?

Gli argomenti sul commercio riguardano il lato dell’offerta dell’economia: minore commercio comporta minore produttività e di conseguenza minore capacità produttiva. Ma il genere di recessione della quale si sta qua parlando è un fenomeno dal lato della domanda – una crisi provocata da una spesa inadeguata. E perché, esattamente, si suppone che accada?

Il massimo che posso dire è che l’argomento di una recessione o almeno di un rallentamento nel Regno Unito si fonda su due proposizioni non completamente distinte: l’idea che l’incertezza scoraggi l’investimento e probabilmente il consumo, e l’idea che un aumento nei rischi percepiti peggiori le condizioni finanziarie. Esaminiamole una ad una.

Sulla prima: certamente la Brexit rafforza l’incertezza – ma questo è necessariamente negativo per gli investimenti? Dal punto di vista della letteratura teorica, questo non è affatto chiaro: le imprese potrebbero per la verità investire maggiormente a fronte dell’incertezza, in sostanza per proteggere le loro basi. Dunque, perché il questo caso il concetto che l’incertezza scoraggerà gli investimenti viene così prontamente accettato? In parte, ho il sospetto che si tratti di una specie di gioco di parole. Quando gli impresari parlano di “incertezza accesciuta” generalmente non si riferiscono a “divaricazioni nella salvaguardia di un valore atteso” [2]  – si riferiscono ad una probabilità accresciuta che accadano cose negative. E forse è quello che intendono anche le persone che stanno scrivendo sulla accresciuta incertezza in conseguenza della Brexit.

Ma in questo caso stiamo dicendo che accadranno cose negative perché le imprese percepiscono una accresciuta probabilità che accadano cose negative. Vale a dire, l’uno e l’altro sono ragionamenti circolari, che assumono la conclusione di uno o di entrambi.

Osserverei che anche qualsiasi importante mutamento politico crea incertezza, perchè nessuno sa come funzionerà. Perché dunque non sentiamo ammonimenti sulla recessione quando i paesi prendono in considerazione importanti liberalizzazioni commerciali, o programmi di privatizzazione, o riforme del marcato del lavoro? L’argomento della “incertezza che deprime gli investimenti” sembra si presenti selettivamente, che venga messo in campo contro politiche che gli economisti non gradiscono per altre ragioni.

Nel frattempo, che dire dell’argomento secondo il quale la Brexit peggiorerà le condizioni finanziarie, accrescendo le estensioni dei rischi? Ebbene, questo mi sembra un altro argomento circolare – si sostiene che accadranno cose negative perché gli investitori si aspetteranno che accadano cose negative.

In altre parole, gli argomenti per un danno a breve termine a seguito della Brexit appaiono piuttosto deboli. Un economista che avesse cercato di usare argomenti simili a favore o contro la maggior parte delle politiche avrebbe incontrato molte critiche. Ma in questo caso a questi argomenti sono accolti con un quasi-consenso. Perché?

Ebbene, da parte degli economisti c’è una tendenza storica ad attenuare i loro criteri intellettuali ogni qual volta emergono i temi del commercio – una specie di sensazione per la quale un ragionamento approssimativo in difesa del libero commercio non sia un peccato. Gli argomenti secondo i quali la legge Smoot-Hawley [3] provocò la Grande Depressione sono stati confutati in modo abbastanza definitivo, ma continuano ad essere sostenuti. Le tesi secondo le quali la liberalizzazione commerciale è una grande fattore di creazione di posti di lavoro sono in modo simile generalizzati, anche se non sono fondati in alcun modello standard. Come ho scritto in passato, alcuni attacchi alle ricette economiche di Trump – che sono davvero terribili – nondimeno attraversano gli schieramenti intellettuali, mettendo in circolazione nuovi strani assunti in quattro e quattr’otto (ad esempio, le tariffe ridurrebbero la spesa sulle importazioni, ma niente di quella spesa sarebbe dirottata verso la produzione interna).

Il mio sospetto è che la stessa cosa stia accadendo in questo caso. Gli economisti hanno ottime ragioni per credere che la Brexit provocherà effetti negativi nel lungo periodo, ma sono tentati di rafforzare i loro argomenti avanzando pretese assai dubbie sul breve periodo. E il fatto che molte persone rispettabili stiano avanzando gli stessi dubbi argomenti li fa sembrare ben riflettuti, quando non lo sono.

Sfortunatamente, una cosa del genere, oltre ad essere intrinsecamente una pratica negativa, può anche troppo facilmente ritorcersi contro. Infatti, il recupero nei titoli azionari britannici, che adesso sono sopra i livelli precdenti alla Brexit, sta già provocando qualche contraccolpo ad economisti convenzionali ed alle loro un po’ isteriche messe in guardia [4].

Spiacente, gente, ma i ragionamenti approssimativi sono sempre un vizio, a prescindere dalla causa per la quale sono utilizzati.

 

 

[1] La tabella mostra l’andamento del mercato azionario britannico, che come si vede è positivo. Un riferimento a questo dato compare verso la fine del post.

[2] “In statistica e nella scienza delle probabilità “mean-prserving spread” è un mutamento da una distribuzione delle probabilità di un contesto A a quelle di un contesto B, derivante da una estensione-divaricazione di alcune componenti caratteristiche dei due contesti, mentre il ‘valore atteso’ (“mean”) resta immutato. Quindi mi pare che letteralmente si potrebbe tradurre con: “variazioni-estensioni nella salvaguardia di un valore atteso”.  Il che, almeno per me, non aiuta moltissimo nella comprensione.

[3] La legislazione approvata il 7 giugno del 1930 su proposta del Senatore Reed Smoot e del membro della Camera dei Rappresentanti Willis C. Hawley, che portò a livelli record le tariffe sui beni importati oltre i 20.000 dollari.

[4] “Chicken Little” è una espressione che deriva da una favola, nella quale alcuni pulcini si sono convinti della imminente caduta del cielo. Lasciamo perdere la favola, e assumiamo che in pratica è un aggettivo che indica preoccupazioni del tutto esagerate e non credibili.

 

 

 

 

Contro l’eurotimidezza (dal blog di Krugman, 26 giugno 2016)

giugno 29, 2016

 

JUN 26 10:17 AM 

Against Eurotimidity

 

I’m on vacation, but want to take a minute to react to this new “consensus” piece on shoring up the eurozone from Voxeu. The authors really are the best and brightest, economists who have been superb guides to the crisis and in some cases have made material contributions to solving or at least dealing with it. So I’d really like to say nice things.

Unfortunately, I share Brad DeLong’s reaction: is this really all they can offer? I understand that in the effort to reach consensus one must trim back the more intellectually daring and politically difficult parts of what an individual economist might propose. But in this case the search for consensus seems to have leached out practically all the substance. I’m not even sure what, in any significant sense, they’re proposing that the eurozone do differently.

I mean, they’re calling for liquidity support in times of crisis, and I think debt relief if necessary. But that’s sort of how Europe is already trying to muddle through. They don’t call for fiscal integration; they don’t even call for a euro-wide system of deposit insurance. I’m really not sure what they are proposing, beyond neatening up the organization chart.

They allude to the possibility of secular stagnation, which some of us consider a clear argument for fiscal stimulus and higher inflation targets. But all they suggest is … structural reform, the universal elixir of elites.

The only really new thing I thought I saw was the declaration that

the level of expenditure – rather than the deficit – is the main problem

coupled with a call for expenditure rules. But where is that coming from? There is no correlation between economic performance in the euro crisis and the level of government spending as a share of GDP — Austria has a big government, Ireland and Spain small ones by European standards. And absent some clear evidence that big G was the problem, why declare that national sovereignty on the size of the public sector must be reduced?

Put it this way: from a macro perspective, Europe is a depressed economy with inflation well below a reasonable target, desperately in need of more demand, with this aggregate problem exacerbated by the problems of adjustment within a single currency. And here we have a manifesto calling for smaller government and structural reform. The authors of the manifesto aren’t neoliberal ideologues. So what happened?

 

Contro l’eurotimidezza

Sono in vacanza, ma voglio dedicare un minuto per reagire a questo nuovo articolo di ‘consenso’ da parte di Vox.eu su come ‘puntellare’ l’Europa. Gli autori sono davvero i migliori e i più brillanti, economisti che hanno aiutato in modo superbo alla comprensione della crisi e in qualche caso hanno elaborato contributi concreti per risolverla o almeno per misurarsi con essa. Dunque, sarei lieto di poter dire cose gentili.

Sfortunatamente, condivido la reazione di Brad DeLong: è tutto qua quello che possono offrire? Io capisco che nello sforzo di raggiungere il consenso uno debba spuntare le parti intellettualmente più ardite e politicamente più difficili di quello che un singolo economista proporrebbe. Ma in questo caso la ricerca del consenso sembra aver prosciugato praticamente tutta la sostanza. Non sono neanche sicuro che essi stiano proponendo, in un senso che abbia un qualche significato, che l’eurozona operi diversamente.

Voglio dire, si stanno pronunciando per un sostegno di liquidità in tempi di crisi, e io penso che l’attenuazione del debito sia necessaria. Ma quella è il genere di cosa sulla quale l’Europa sta già cercando di cavarsela alla meno peggio. Essi non si pronunciano a favore di una integrazione delle finanze pubbliche; nemmeno si pronunciano a favore di un sistema di garanzie sui depositi di dimensione europea. Davvero non sono certo di cosa stiano proponendo, oltre una rimessa in ordine degli assetti attuali.

Alludono alla possibilità della stagnazione secolare, che alcuni di noi considerano un argomento evidente a favore di misure di sostegno della finanza pubblica e di obbiettivi più elevati di inflazione. Ma tutto quello che suggeriscono è … una riforma strutturale, l’elisir universale delle classi dirigenti.

L’unica cosa realmente nuova che ho visto è stata la dichiarazione secondo la quale:

“il principale problema è il livello della spesa, piuttosto che il deficit”

abbinata ad un pronunciamnento a favore di regole di spesa. Ma tutto questo da dove deriva? Non c’è correlazione tra le prestazioni economiche nella crisi dell’euro ed il livello della spesa pubblica come percentuale del PIL – secondo gli standard europei, l’Austria ha funzioni di governo molto estese, l’Irlanda e la Spagna le hanno modeste. E in assenza di qualche chiara testimonianza che il problema sia stato il cosiddetto Grande Governo, perché affermare che deve essere ridotta la sovranità nazionale sul versante del settore pubblico?

Mettiamola così: da una prospettiva macroeconomica, l’Europa è una economia depressa con una inflazione molto a di sotto di un obbiettivo ragionevole, disperatamente bisognosa di domanda aggiuntiva, con tale problema esacerbato dalle questioni di aggiustamento all’interno di una valuta unica. E qua abbiamo un manifesto a favore di una riduzione delle funzioni pubbliche e di una riforma strutturale. Gli autori del mainifesto non sono ideologi neoliberisti. Cosa è successo, dunque?

 

 

 

 

 

 

Il mattino dopo la Brexit (dal blog di Krugman, 24 giugno 2016)

giugno 24, 2016

 

Brexit: The Morning After

JUNE 24, 2016 10:21 AM

 

Well, that was pretty awesome – and I mean that in the worst way. A number of people deserve vast condemnation here, from David Cameron, who may go down in history as the man who risked wrecking Europe and his own nation for the sake of a momentary political advantage, to the seriously evil editors of Britain’s tabloids, who fed the public a steady diet of lies.

That said, I’m finding myself less horrified by Brexit than one might have expected – in fact, less than I myself expected. The economic consequences will be bad, but not, I’d argue, as bad as many are claiming. The political consequences might be much more dire; but many of the bad things I fear would probably have happened even if Remain had won.

Start with the economics.

Yes, Brexit will make Britain poorer. It’s hard to put a number on the trade effects of leaving the EU, but it will be substantial. True, normal WTO tariffs (the tariffs members of the World Trade Organization, like Britain, the US, and the EU levy on each others’ exports) are low and other traditional restraints on trade relatively mild. But everything we’ve seen in both Europe and North America suggests that the assurance of market access has a big effect in encouraging long-term investments aimed at selling across borders; revoking that assurance will, over time, erode trade even if there isn’t any kind of trade war. And Britain will become less productive as a result.

But right now all the talk is about financial repercussions – plunging markets, recession in Britain and maybe around the world, and so on. I still don’t see it.

It’s true that the pound has fallen by a lot compared with normal daily fluctuations. But for those of us who cut our teeth on emerging-market crises, the fall isn’t that big – in fact, it’s not that big compared with British historical episodes. The pound fell by a third during the 70s crisis; it fell by a quarter during Britain’s exit from the Exchange Rate Mechanism in 1992; it’s down about 8 percent as I write this.

Here, from Bloomberg, is the pound-euro rate over the past 5 years. This is not a world-class shock:

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Furthermore, Britain is a nation that borrows in its own currency, not subject to a classic balance-sheet crisis due to currency devaluation – that is, it’s not like Argentina, where the fall in the peso wreaked havoc with firms and consumers who had borrowed in dollars. If you were worried that fears about Brexit would cause capital flight and drive up interest rates, well, no sign of that – if anything the opposite. Here, again from Bloomberg, is the interest rate on British 10-year bonds over the past five years:

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Now, it’s true that world stock markets are down; so are interest rates around the world, presumably reflecting fears of economic weakness that will force central banks to keep monetary policy very loose. Why these fears?

One answer is that uncertainty might depress investment. We don’t know how the process of Brexit plays out, and I could see CEOs choosing to delay spending until matter clarify.

A bigger issue might be fears of very bad political consequences, both in Europe and within the UK. Which brings me to the politics.

It seems clear that the European project – the whole effort to promote peace and growing political union through economic integration – is in deep, deep trouble. Brexit is probably just the beginning, as populist/separatist/xenophobic movements gain influence across the continent. Add to this the underlying weakness of the European economy, which is a prime candidate for “secular stagnation” – persistent low-grade depression driven by things like demographic decline that deters investment. Lots of people are now very pessimistic about Europe’s future, and I share their worries.

But those worries wouldn’t have gone away even if Remain had won. The big mistakes were the adoption of the euro without careful thought about how a single currency would work without a unified government; the disastrous framing of the euro crisis as a morality play brought on by irresponsible southerners; the establishment of free labor mobility among culturally diverse countries with very different income levels, without careful thought about how that would work. Brexit is mainly a symptom of those problems, and the loss of official credibility that came with them. (That credibility loss is why the euro disaster played a role in Brexit even though Britain itself had the good sense to stay out.)

At the European level, in other words, I would argue that Brexit just brings to a head an abscess that would have burst fairly soon in any case.

Where I think there has been real additional damage done, damage that wouldn’t have happened but for Cameron’s policy malfeasance, is within the UK itself. I am of course not an expert here, but it looks all too likely that the vote will both empower the worst elements in British political life and lead to the breakup of the UK itself. Prime Minister Boris looks a lot more likely than President Donald; but he may find himself Prime Minister of England – full stop.

So calm down about the short-run macroeconomics; grieve for Europe, but you should have been doing that already; worry about Britain.

 

Il mattino dopo la Brexit

Ebbene, è stato in qualche modo imponente – voglio dire nel senso peggiore. In questo caso un certo numero di persone meritano una piena condanna, da David Cameron, che andrà alla storia come l’uomo che ha rischiato di distruggere l’Europa e la sua stessa nazione nell’interesse di un vantaggio politico momentaneo, agli editori davvero malefici dei giornali popolari britannici, che hanno comminato al proprio pubblico una dieta costante di menzogne.

Ciò detto, mi ritrovo meno terrorizzato dalla Brexit di quanto non ci si sarebbe aspettati – di fatto, meno di quanto mi aspettavo io stesso. Le conseguenze economiche saranno negative, ma, direi, non così cattive come molti stanno sostenendo. Le conseguenze politiche potrebbero essere molto più terribili; ma molte delle cose negative che temo, probabilmente sarebbero accadute anche se avesse prevalso il restare nell’UE.

Partiamo dall’economia.

Sì, la Brexit renderà l’Inghilterra più povera. È difficile esprimere con un numero gli effetti commerciali dell’abbandono dell’UE, ma saranno sostanziali. È vero, le normali tariffe della WTO (le tariffe che i membri della Organizzazione Mondiale del Commercio come l’Inghilterra, gli Stati Uniti e l’Unione Europea riscuotono sulle reciproche esportazioni) sono basse ed altre tradizionali limitazioni sono relativamente leggere. Ma tutto quello che osserviamo sia in Europa che nel Nord America indica che la garanzia dell’accesso ai mercati ha un grande effetto di incoraggiamento negli investimenti a lungo termine rivolti alle vendite all’estero; revocare quella garanzia, nel corso del tempo, provocherà una erosione ai commerci, persino in assenza di ogni genere di guerra commerciale. E, di conseguenza, l’Inghilterra diventerà meno produttiva.

Ma in questo momento c’è un gran parlare sulle ripercussioni finanziarie – crollo dei mercati, recessione in Inghilterra e forse in tutto il mondo, e così via. Tutte cose che ancora non vedo.

È vero che la sterlina è molto caduta, a confronto con le normali fluttuazioni giornaliere. Ma per coloro tra noi che affilano i loro denti sulle crisi dei mercati emergenti, la caduta non è così grande – di fatto, non è così grande se confrontata con gli episodi storici del Regno Unito. La sterlina cadde di un terzo del suo valore durante la crisi degli anni ’70; cadde di un quarto al momento dell’uscita dell’Inghilterra dal Meccanismo di Tasso di Cambio nel 1992; mentre scrivo è caduta dell’8 per cento.

Ecco, da Bloomberg, il rapprto sterlina – euro negli ultimi cinque anni. Non si tratta di uno shock di prim’ordine:

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Inoltre, l’Inghilterra è una nazione che si indebita nella sua propria valuta, non soggetta alla classica crisi degli equilibri patrimoniali dovuta alla svalutazione della moneta – cioè, non è come l’Argentina, dove la caduta del peso ha gettato nello scompiglio imprese e consumatori che si erano indebitati in dollari. Se eravate preoccupati che le paure per la Brexit provocassero fughe di capitali e spingessero in alto i tassi di interesse, ebbene, non c’è alcun segno di ciò – semmai l’opposto. Ecco, ancora da Bloomberg, il tasso di interesse sui bond britannici decennali nel corso dei cinque anni passati:

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Ora, è vero che i mercati azionari mondiali sono in basso; come lo sono i tassi di interesse in tutto il mondo, probabilmente riflettendo i timori per una debolezza economica che costringerà le banche centrali a tenere molto sciolta la politica monetaria. Perché questi timori?

Una risposta è che l’incertezza potrebbe deprimere gli investimenti. Non sappiamo come gli sviluppi della Brexit influiranno, e posso immaginare che i dirigenti delle società scelgano di rinviare le spese sinché la faccenda non si chiarisce.

Un tema più grande potrebbero essere i timori per conseguenze politiche molto negative, sia in Europa che all’interno del Regno Unito. La quaclosa mi conduce alla politica.

Sembra chiaro che il progetto europeo – lo sforzo complessivo per promuovere la pace e una crescente unione politica attraverso l’integrazione economica – è in profondissime difficoltà. La Brexit è probabilmente solo l’inizio, dato che movimenti populisti/separatisti/xenofobi acquistano influenza in tutto il continente. Si aggiunga a questo la sottostante debolezza dell’economia europea, che è la massima candidata alla “stagnazione secolare” – una persistente leggera depressione guidata da fenomeni come il declino demografico, che scoraggiano gli investimenti. Molte persone sono oggi del tutto pessimiste sul futuro dell’Europa, e io condivido le loro preoccupazioni.

Ma quelle preoccupazioni non sarebbero scomparse se avesse vinto la permanenza nell’UE. I grandi errori sono stati l’adozione dell’euro senza una riflessione scrupolosa su come avrebbe funzionato una moneta unica senza un governo unificato; la disastrosa rappresentazione della crisi dell’euro alla stregua di un racconto moraleggiante sulla irresponsabilità dei paesi meridionali; l’aver stabilito una libera mobilità del lavoro tra paesi culturalmente diversi con livelli di reddito molto differenti, senza alcuna attenta riflessione su come tutto ciò avrebbe funzionato. La Brexit è soltanto un sintomo di quei problemi e della perdita della credibilità degli organi dirigenti che si è accompagnata ad essi (quella perdita di credibilità è la ragione per la quale il disastro dell’euro ha giocato un ruolo in Inghilterra, anche se essa ha avuto per suo conto il buon senso di starsene fuori).

In altre parole, io sosterrei che a livello europeo la Brexit ha semplicemente portato a maturazione un ascesso che sarebbe scoppiato abbastanza rapidamente in ogni caso.

Dove io penso che ci sia stato un reale danno aggiuntivo, danno che non ci sarebbe stato se non per l’inetta politica di Cameron, è all’interno dell’Inghilterra stessa. In questo caso, ovviamento, non sono un esperto, ma sembra anche troppo probabile che il voto rafforzerà i peggiori elementi della politica britannica e porterà anche ad una disgregazione dello stesso Regno Unito. Un primo Ministro Boris sembra molto più probaile che un Presidente Trump; ma egli si ritroverà Primo Ministro della sola Inghilterra [1] – fine della storia.

Dunque, stiamo calmi sulla macroeconomia nel breve periodo; addoloriamoci per l’Europa, ma si dovrebbe averlo già fatto; preoccupiamoci per il Regno Unito.

 

 

 

[1] Ovvero, senza la Scozia, senza l’Irlanda del Nord (per la quale si chiede oggi l’unificazione con l’Irlanda) e magari senza il Galles, dove pure la Brexit ha prevalso. Faccio notare che in una occasione scrissi a margine una nota sull’uso scorretto delle varie denominazioni del sistema insulare del Regno Unito. Chiamare il paese intero Inghilterra – come ho fatto in questa traduzione – non è corretto, dato che l’Inghilterra è solo una parte di un’isola che comprende anche Scozia e Galles. L’unico modo sarebbe chiamarla sempre Regno Unito, superando ogni idiosincrasia per l’eccesso di riferimenti monarchici; in quel caso si intenderebbe ricomprendere anche l’Irlanda del Nord.

 

 

 

 

 

 

 

 

“Troppo lungo, non l’ho letto” e la macroeconomia moderna (per esperti) (dal blog di Krugman)

giugno 22, 2016

 

Tl;dr and Modern Macroeconomics (Wonkish)

JUNE 20, 2016 2:18 PM

 

Dear spell-correct: no, I do not mean “monkish.”

A short break from textbook revision, with macroeconomics and how to teach it still on my mind. So let me return to an old topic, the continuing usefulness of Hicksian IS-LM economics, in a somewhat different context.

When the Great Recession struck, there was a sharp division in economic commentary between those who had learned and appreciated the old Hicksian framework and those who hadn’t and/or didn’t. For that framework made some important predictions — namely, it said that things would be different at the zero lower bound. Increases in the monetary base — even huge increases — would not be inflationary. Budget deficits would not drive up interest rates. And fiscal multipliers would be much larger than they are in normal times, when fiscal expansion or contraction is offset by monetary policy.

Those were deeply controversial predictions at the time, but they were overwhelmingly vindicated by experience — dead-enders are reduced to arguing that Hicksians just happened to be right for the wrong reasons.

But here’s the thing: doing anything like HIcksian analysis in public is still very much frowned on within the economics profession. It’s ad hoc, not microfounded, sloppy about intertemporal relationships. DSGE models with sticky prices are OK; publishing IS-LMish stuff, even in a policy forum, remains hard and in general is possible only for old guys with enough professional capital to get away with it.

So how much is lost as a result? What set me off was reading Eggertsson et al (EMSS) on contagious secular stagnation. It’s serious work, and I agree with the main conclusions; I am also a big admirer of all of the economists involved, particularly Gauti, who was investigating the weird economics of the liquidity trap long before it was cool.

And yet … it’s really tough going, epitomizing too long; didn’t read to the nth degree. In part I guess I’m just an aging economist with much less tolerance for algebraic grinding than I used to have. You also want to bear in mind the old principle that the optimal level of technical difficulty in papers is always precisely the level of your own papers. But still.

What do we get out of the rigor — the overlapping-generations setup, the explicit modeling of borrowing constraints, and so on? Suppose you came at this issue in an old-fashioned way, using Mundell-Fleming — the open-economy version of IS-LM. You would boil it down (as Olivier Blanchard has suggested in an email) to a Metzler diagram, with the exchange rate (price of foreign currency) on the horizontal axis and interest rates on the vertical:

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The idea here is that a depreciation of Home’s currency causes economic expansion in Home, which Home’s central bank leans against, hence the upward slope; meanwhile, it causes contraction in Foreign, which Foreign’s central bank also leans against, hence downward slope. But both face a potential zero lower bound, hence the flat sections.

With perfect capital mobility and static expectations, interest rates must be equalized, so equilibrium is where the two lines cross. And it’s now obvious that an adverse shock in Foreign, suggested by the blue arrows, will push interest rates down in both countries. If the shock is enough to drive Foreign to the ZLB, it will do the same to Home, as transmitted through the exchange rate. In other words, Europe can export its secular stagnation to us via a weak euro and a strong dollar.

Now, you get a few additional insights from the EMSS paper, such as the role of credit constraints in inducing stagnation and the rule of limits on capital mobility in limiting its spread. But the cost in terms of complexity and cumbersomeness is huge.

And this cumbersomeness may even lead to loss of insight. The paper relies, necessarily, on the analysis of steady states. Yet I would argue that the transmission of the liquidity trap depends crucially on how permanent the shock is perceived to be — which is an insight you lose by assuming a steady state.

But, some readers may say, haven’t I myself used this kind of framework, both in my original liquidity trap analysis and in work with Gauti on deleveraging? Yes indeed — and while part of the reason was to get through the anti-Hicks barrier, in each case I believed that dotting those i’s and crossing those t’s yielded some valuable insights. In fact, I didn’t believe in the liquidity trap until I saw it pop up in a New Keynesian model, and doing the deleveraging math really helped clarify my thinking there too.

So I don’t have any general opposition to the more elaborate modeling approach. What worries me is the effective prohibition on simple, ad hoc models that sometimes yield most of the insight — in the case of contagious secular stagnation, I’d put the ratio well above 90 percent — in a form that is much more useful for real-world policy discussion.

Or then again, maybe it’s just my vintage. Also, you kids get off my lawn.

 

“Troppo lungo, non l’ho letto” [1] e la  macroeconomia moderna (per esperti) 

 Per favore, pronunciate correttamente: no, non intendo “per monaci” [2].

Una breve pausa dalla revisione del libro di testo, con la macroeconomia e il come insegnarla che ancora mi frullano per la testa. Dunque, consentitemi di ritornare ad una vecchia questione, la permanente utilità dell’economia del modello hicksiano IS-LM, in un contesto alquanto differente.

Quando la Grande Recessione colpì, ci fu una chiara divisione tra i commentatori economici, tra coloro che avevano imparato ed apprezzavano il vecchio modello hicksiano e coloro che non avevano fatto o facevano né l’una cosa né l’altra. Perché quello schema avanzava alcune importanti previsioni – in particolare, esso diceva che le cose sarebbero state diverse al livello inferiore dello zero (dei tassi di interesse). Gli incrementi nella base monetaria – anche ampi incrementi – non sarebbero stati inflazionistici. I deficit di bilancio non avrebbero alzato i tassi di interesse. E i moltiplicatori della finanza pubblica sarebbero stati molto più ampi che non in tempi normali, quando l’espansione o la contrazione della finanza pubblica sono compensate dalla politica monetaria.

A quel tempo, erano previsioni profondamente controverse, ma sono state risarcite in modo schiacciante dall’esperienza – chi non aveva altre vie di uscita, si è ridotto a sostenere che era soltanto accaduto che gli hicksiani avessero ragione per le ragioni sbagliate.

Ma il punto è qua: fare in pubblico qualcosa che assomigli ad una analisi hicksiana, ancora non è visto di buon occhio nella disciplina economica. È un metodo ad hoc, senza fondamenti microeconomici, approssimativo dal punto di vista delle relazioni intertemporali. I modelli dell’Equilibrio Generale Dinamico Stocastico (DSGE) [3] con i prezzi ‘vischiosi’ vanno bene: pubblicare roba del tipo IS-LM, persino in un dibattito politico, resta azzardato e in generale è possibile solo per individui un po’ anziani, che abbiano sufficiente capitale professionale per farla franca.

Dunque, come conseguenza quanto si è perso? Quello che mi ha provocato è stata la lettura del lavoro di Eggertsson ed altri [4] sulla contagiosa stagnazione secolare. È un lavoro serio, ed io condivido le principali conclusioni; sono anche un ammiratore di tutti gli economisti coinvolti, in particolare di Gauti (Eggertsson), che aveva analizzato la bizzarra economia della trappola di liquidità molto prima che diventasse così apprezzata.

E tuttavia … è davvero difficile sviscerarlo troppo a lungo; non l’ho letto per intero. In parte suppongo dipenda solo dal fatto che sono un economista che invecchia, con molta minore tolleranza nel macinare l’algebra di quella che avevo un tempo. Si può anche tenere a mente il vecchio principio secondo il quale il livello ottimale delle difficoltà tecniche negli studi è precisamente il livello dei vostri studi medesimi. Eppure ….

Che cosa ci sfugge dal punto di vista del rigore – lo schema delle generazioni che si accavallano, il modello specifico dei condizionamenti nel debito, e così via?  Supponiamo di arrivare a questo tema secondo una modalità tradizionale, utilizzando il modello Mundell-Fleming – la versione del modello IS-LM in una economia aperta. Lo si potrebbe restringere (come ha suggerito in una mail Olivier Blanchard) ad un diagramma di Metzler, con il tasso di cambio (il prezzo delle valute straniere) sull’asse orizzontale e i tassi di interesse su quello verticale:

zz 160

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In questo caso, l’idea è che una svalutazione della valuta nazionale provochi una espansione interna [5], a cui la Banca centrale di quella nazione si appoggerà, di qua l’inclinazione verso l’alto; nel frattempo, essa provoca una contrazione nel paese straniero, con la sua banca centrale che anch’essa si sosterrà, dalla qualcosa una inclinazione verso il basso. Ma entrambe si trovano di fronte ad un limite inferiore di zero potenziale, quindi gli spaccati piatti.

Con una perfetta mobilità dei capitali e aspettative statiche, i tassi di interesse devono essere pareggiati, cosicché l’equilibrio è dove le due linee si incrociano. Ed ora è evidente che uno shock negativo nel paese straniero, suggerito dalle frecce blu, spingerà i tassi di interesse verso il basso in entrambi i paesi. Se lo shock è sufficiente a portare il paese straniero al limite inferiore dello zero, esso provocherà lo stesso effetto all’interno dell’altro paese, trasmettendolo attraverso il tasso di cambio. In altre parole, l’Europa può esportare a noi la sua stagnazione secolare, attraverso un euro debole e un dollaro forte.

Aggiungete adesso poche intuizioni aggiuntive che vengono dallo studio di Eggertsson ed altri, come il ruolo dei condizionamenti del credito nell’indurre la stagnazione e la regola dei limiti nella mobilità del capitale nella limitazione della sua espansione. Ma il costo in termini di complessità e di difficoltà è elevato.

E questa difficoltà può anche condurre ad una perdita di intuizione. Lo studio si basa, necessariamente, sulla analisi delle condizioni stabili. Tuttavia, io penserei che la trasmissione della trappola di liquidità dipenda fondamentalmente da quanto lo shock viene precepito come permanente – che è una intuzione che si perde assumendo una condizione stabile.

Eppure, qualche lettore può obiettare che anch’io ho usato questo genere di schema, sia nella mia analisi originaria sulla trappola di liquidità che nel mio lavoro con Gauti nella riduzione del rapporto di indebitamento. In effetti è così – e mentre una parte delle ragioni fu quella di superare la barriera contro Kicks, in ogni caso io ritenevo che mettere tutti i puntini sulle “i” avrebbe prodotto qualche apprezzabile intuizione. Di fatto, io non credevo alla trappola di liquidità finché non la vidi saltar fuori in un modello neo keynesiano, ed usare la matematica della riduzione del rapporto di indebitamento contribuì sostanzialmente a chiarire il mio pensiero anche su quell’aspetto.

Dunque, io non ho alcuna generale opposizione all’approccio di una modellazione più elaborata. Quello che mi inquieta è la sostanziale probizione ai semplici modelli ad hoc, che talvolta producono le maggiori intuizioni – nel caso della stagnazione secolare, direi in una percentuale ben superiore al 90 per cento – in una forma che è molto più utile per il confronto politico nel mondo reale.

D’altra parte, può darsi che si tratti soltanto di una mia datata fissazione. Per giunta, figlioli, scendete sul mio campo!

 

 

[1][1] Sembra che “tl;dr” stia per “too long, I didn’t read”. Vedi UrbanDictionary.

[2] Si riferisce al termine “wonkish”, che significa “sgobbone, studioso, molto esperto”; e che non va confuso con “monkish”, che significa “da monaco, monacale”.

[3] Si tratta di un settore della teoria economica più recente, che – da Wikipedia – “cerca di spiegare i fenomeni dell’economia aggregata (crescita, cicli economici, effetti delle politiche monetarie e della finanza pubblica) sulla base di modelli macroeconomici derivati da principi microeconomici”. Si può anche dire che, in sostanza, è un indirizzo assunto dall’economia neokeynesiana, che ha consentito ad essa di superare le obiezioni avanzate contro di essa dagli economisti ‘neoclassici’ (Lucas in particolare).

[4] Gauti B. Eggertsson, Neil Mehrotra, Sanjay Singh, Lawrence H. Summers.

[5] Nel diagramma la linea “home”. Mentre il paese straniero è la linea “foreign”.

 

 

 

 

 

Una domanda alla Fed (dal blog di Krugman, 18 giugno 2016)

giugno 19, 2016

JUN 18 11:55 AM

 

A Question For the Fed

There is a near-consensus at the FOMC that rates must eventually move up. But here’s my question: why, exactly? Specifically, which component of aggregate demand do we believe will continue to strengthen in a way that will require monetary tightening to avoid an overheating economy?

Here’s a look at two obvious candidates, nonresidential (business) and residential investment. I’ve expressed both as shares of potential GDP, and further normalized by taking deviations from the 1990-2007 average of these shares:

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Nonresidential investment has basically recovered from the recession-induced slump. Residential investment is still a bit low by historical standards, but not as much as you might think if your baseline is the boom of the mid-naughties. And given the slowing growth of the working-age population — down from more than 1 percent a year to less than 0.5 — should’t we expect some reduction in home construction?

So I don’t see an obvious reason to believe that current rates are too low. Yes, they’re near zero — but that in itself doesn’t mean too low.

Like others, notably Larry Summers, I think the Fed is trying to return to a normality that is no longer normal.

 

Una domanda alla Fed

C’è un consenso quasi unanime alla FOMC [1], secondo il quale alla fine i tassi dovranno rialzare. Ma qua è la mia domanda: perché, esattamente? In particolare, quale componente della domanda aggregata crediamo che continuerà a rafforzarsi in modo da richiedere una restrizione monetaria che eviti il sovra riscaldamento dell’economia?

Si può dare un’occhiata a due candidati naturali. Gli investimenti non residenziali (delle imprese) e quelli residenziali [2]. Ho espresso entrambi come quote del PIL potenziale e li ho ulteriormente adeguati per considerare le deviazioni dalle medie di queste percentuali nel periodo 1990-2007:

zz 153

 

 

 

 

 

 

 

Gli investimenti non residenziali fondamentalmente si sono ripresi dalla crisi indotta dalla recessione. Gli investimenti residenziali sono ancora un po’ bassi per le serie storiche, ma non così tanto come potreste ritenere se il vostro punto di partenza è il boom della metà dei primi anni 2000. E, dato il rallentamento della crescita della popolazione in età lavorativa – scesa da più dell’1 per cento all’anno a meno dello 0,5 – non ci dovremmo aspettare qualche riduzione nella costruzione degli alloggi?

Dunque, io non vedo alcuna ragione evidente per credere che i tassi attuali siano troppo bassi. È vero, sono vicini a zero – ma questo in sé non significa che siano troppo bassi.

Come altri, in particolare come Larry Summers, io credo che la Fed stia cercando di tornare ad una normalità che non è più normale.

 

[1] FOMC è lo strumento delle decisioni strategiche della Fed, e significa Commissione Federale a Mercato Aperto.

[2] Per ‘investimenti non residenziali’ si intendono gli investimenti delle imprese in macchinari, impianti etc.; per residenziali si intendono gli investimenti in alloggi singoli o multipli delle famiglie.

 

 

 

 

Stanno imparando i nostri economisti? (dal blog di Krugman, 18 giugno 2016)

giugno 19, 2016

JUN 18 9:44 AM

 

Is Our Economists Learning?

Bernie is doing his long — very, very, very long — goodbye; Trump appears to be flaming out. So, time to revisit some macroeconomics.

Brad DeLong has an excellent presentation on the sad history of belief in the confidence fairy and its dire effects on policy. One of his themes is the bad behavior of quite a few professional economists, who invented new doctrines on the fly to justify their opposition to stimulus and desire for austerity even in the face of a depression and zero interest rates.

One quibble: I don’t think Brad makes it clear just how bad the Lucas-type claim that government spending would crowd out private investment even at the zero lower bound really was. You see, it didn’t even follow from Ricardian equivalence.

Anyway, two things crossed my virtual desk today that reinforce the point about how badly some of my colleagues continue to deal with fiscal policy issues.

First, Greg Mankiw has a piece that talks about Alesina-Ardagna on expansionary austerity without mentioning any of the multiple studies refuting their results. And wait, there’s more. As @obsoletedogma (Matt O’Brien) notes, he cites a 2002 Blanchard paper skeptical about fiscal stimulus while somehow not mentioning the famous 2013 Blanchard-Leigh paper showing that multipliers are much bigger than the IMF thought.

Second, I see a note from David Folkerts-Landau of Deutsche Bank lambasting the ECB for its easy-money policies, because

by appointing itself the eurozone’s “whatever it takes” saviour of last resort, the ECB has allowed politicians to sit on their hands with regard to growth-enhancing reforms and necessary fiscal consolidation.

Thereby ECB policy is threatening the European project as a whole for the sake of short-term financial stability. The longer policy prevents the necessary catharsis, the more it contributes to the growth of populist or extremist politics.

Yep. That “catharsis” worked really well when Chancellor Brüning did it, didn’t it?

What strikes me is the contrast with the 1970s. Back then the experience of stagflation led to a dramatic revision of both macroeconomics and policy doctrine. This time far worse economic events, and predictions by freshwater economists far more at odds with experience than the mistakes of Keynesians in the past, seem to have produced no concessions whatsoever.

 

Stanno imparando i nostri economisti?

Bernie ci salutando – molto, molto lentamente; Trump sembra perdere di potenza. Dunque, è il momento di tornare a qualche tema macroeconomico.

Brad DeLong pubblica una eccellente presentazione della triste storia della fede nella fata della fiducia e dei suoi effetti tremendi sulla politica. Uno dei suoi soggetti è la pessima prestazione di un bel po’ di economisti di professione, che si inventarono all’impronta nuove dottrine, per giustificare la loro opposizione alle misure di sostegno e per il desiderio di austerità anche dinanzi ad una depressione e a tassi di interesse pari a zero.

Una minuzia: io non penso che Brad chiarisca nel migliore dei modi quanto sia stato proprio negativo l’argomento di individui cime Lucas, secondo il quale la spesa pubblica avrebbe, anche nelle condizioni del limite inferiore dello zero nei tassi, spiazzato gli investimenti privati. Voglio dire che esso non derivava neppure dalla teoria ricardiana dell’equivalenza.

In ogni caso, ci sono due aspetti che oggi incrociano il mio tavolo di lavoro virtuale, che rafforzano l’argomento su quanto negativamente alcuni miei colleghi continuano a trattare i temi della finanza pubblica.

In primo luogo, Greg Mankiw ha un articolo che parla di Alesina-Ardagna sulla austerità espansiva, senza menzionare i molti studi che confutano i loro risultati. E aspettate, perché c’è di più’. Come Matt O’Brien, su @obsoletedogma, osserva, egli [1] cita uno studio del 2002 di Blanchard scettico sulle misure di sostegno della spesa pubblica, mentre in qualche modo non fa cenno al famoso studio di Blanchard e Leigh del 2013, che mostra che i moltiplicatori erano molto più grandi di quanto il FMI aveva pensato.

In secondo luogo, vedo una nota da parte di David Folkerts-Landau della Deutsche Bank che striglia la BCE per le sue politiche del denaro facile, giacché:

“la BCE, nominandosi come il salvatore di ultima istanza, a qualsiasi prezzo, dell’eurozona, ha consentito ai politici di starsene con le mani in mano quanto alle riforme che accrescono la crescita e al necessario consolidamento delle finanze pubbliche.

In tal modo la politica della BCE sta minacciando il progetto europeo nel suo complesso nell’interesse della stabilità finanziaria nel breve termine. La politica a più lungo termine impedisce la necessaria catarsi, per di più contribuisce alla crescita delle politiche dei populisti o degli estremisti.”

Per la miseria. Quella “catarsi” funzionò davvero bene quando il Cancelliere Brüning la mise in atto, non è così?

Quello che mi sbigottisce è il contrasto con gli anni ’70. Allora l’esperienza della stagflazione condusse ad una spettacolare revisione sia della macroeconomia che della dottrina politica. Questa volta eventi economici di gran lunga peggiori, nonché previsioni da parte degli economisti della scuola ‘dell’acqua dolce’ [2] ben più agli antipodi dell’esperienza degli errori dei keynesiani nel passato, sembra non aver prodotto concessioni di sorta.

 

[1] Ovvero, Mankiw.

[2] Vedi sulle note della traduzione, a proposito della scuola “freshwater” e “saltwater”.

 

 

 

 

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