Blog di Krugman

L’antipatia per Boris mi basta (dal blog di Krugman, 23 aprile 2016)

 

Boris Is Bad Enough

April 23, 2016 8:58

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Thank you, Boris Johnson. You’ve finally given me the moral courage to weigh in on a subject I’ve been avoiding: Brexit, Britain’s possible exit from the European Union. It’s not as easy a case as I’d like – but Johnson’s intervention makes it clear: Britain should stay in, lest it empower people like him.

Let me start with the economics. There are a number of estimates of the economic impact of Brexit out there, from HM Treasury and independent analysts, but I like to have a quick-and-dirty calculation I understand; it’s not out of line with other, more detailed results.

Here it goes: before it joined the EU, Britain did only about a third of its trade with Europe. Now it’s about half, and it’s unlikely that much of that represents trade diversion. So unless Britain can negotiate something that looks like Norway’s deal – which would basically mean accepting EU policies in which it would no longer have a voice – we might expect Brexit to reduce the share of trade in British GDP from about 30 percent to about 25 percent.

What’s that worth? I’ve previously used the elegant Eaton-Kortum trade analysis as a benchmark for assessing globalization; it tells us that real income, for given technology, is (1-trade share)^(-1/theta), where theta is a parameter reflecting how much comparative advantage there is in the world (don’t ask). Eaton-Kortum suggest theta=4 fits best. In that case, Brexit would reduce British real income by 1.7 percent. Call it 2 percent, with the understanding that there are big error margins around all of this.

Should we, as some argue, multiply this by two or more to reflect dynamic gains? In general, I’m not fond of this practice – it smacks way too much of 101 boosterism, deriving a policy argument from basic economic models then invoking factors not in the models to make the argument seem much stronger than it is. Why tout the dynamic effects of trade as opposed to lots of other things?

But 2 percent is a lot! It’s very, very hard to come up with policies that will make a country 2 percent richer in perpetuity. You’d have to have very good reasons to leave the EU to be willing to make that big a sacrifice.

What about income distribution, which is a big issue in many trade agreements? In this case, it’s pretty much irrelevant: the EU is, on average, comparable in wages and per capita income to the UK, with much of the trade intraindustry specialization that has little distributional effect. So Trumpsandersism shouldn’t matter here.

So what’s this all about? In a word, governance. The case for Brexit is, basically, that EU membership ties Britain to a very badly run institution. And that case is, unfortunately, reasonably strong. Eurocrats have a lot to answer for: the huge mistake of the euro, the reckless and feckless promotion of austerity, the hapless response to the refugee crisis and in general the failure to take seriously the strains of internal migration. Oh, and Europe has been largely useless in dealing with the destruction of democracy in Hungary.

But to point to the EU’s failings as a reason to leave is, as George Stigler used to say, giving the prize in a singing contest to the second contestant because you’ve heard the first. If Britain does leave the EU, and escapes the grip of the Eurocrats, who will it be empowering instead?

You sometimes hear people saying that the attitudes and character of the pro-Brexit forces are not a valid argument for staying in. But that’s wrong: asking who would call the shots afterwards, who would be strengthened, is extremely relevant.

And that’s where Boris Johnson’s tirade against President Obama is so wonderfully clarifying. It tells us who the anti-EU wing of the Conservatives really are; it tells us not just that they are pretty close to UKIP, but that intellectually and emotionally they live in the same fever swamps as the American right. And they would, all too probably, take on a strong, even dominant role in British politics post-Brexit.

So Britain, don’t do this. You would pay a fairly large economic price, and in return you would get governance so bad that it would make the EU look good.

 

L’antipatia per Boris mi basta

Grazie, Boris Johnson. Mi hai dato finalmente il coraggio morale per intervenire su un tema che stavo evitando: la Brexit, la possibile uscita dell’Inghilterra dal Regno Unito. Non è un argomento così ovvio come preferirei – ma l’intervento di Boris lo chiarisce: il Regno Unito dovrebbe restare, per il timore di rafforzare individui come lui.

Consentitemi di partire dall’economia. Circola un certo numero di stime sull’impatto economico dell’uscita del Regno Unito, da HM Treasury ad analisti indipendenti, ma preferisco utilizzare un calcolo rapido e semplicistico che capisco; non è disallineato con gli altri risultati più dettagliati.

Ecco come procede: prima di aderire alla UE, il Regno Unito aveva solo un terzo del suo commercio con l’Europa. Ora è quasi la metà, ed è improbabile che molto di questo rappresenti una deviazione dal commercio. Dunque, se il Regno Unito può negoziare qualcosa che assomigli all’accordo della Norvegia – che fondamentalmente comporterebbe l’accettazione delle politiche dell’UE, nelle quali essa non avrebbe più voce in capitolo – ci potremmo aspettare che la Brexit riduca la quota del commercio sul PIL inglese da circa il 30 per cento a circa il 25 per cento.

Cosa rappresenta quel valore? In passato ho utilizzato l’elegante analisi di Eaton-Kortum come punto di riferimento per stimare la globalizzazione; esso ci dice che il reddito reale, per una tecnologia data, è: (1-trade share)^(-1/theta), dove theta è un parametro che riflette quanto vantaggio comparativo c’è nel mondo (non chiedetevi cosa significhi [1]).  Eaton-Kortum suggeriscono che la soluzione più calzante sia “theta=4”. In quel caso la Brexit ridurrebbe il reddito reale inglese dell’1,7 per cento. Diciamo del 2 per cento, tenendo conto che ci sono grandi margini di errore in tutto questo.

Dovremmo, come sostiene qualcuno, moltiplicare questo per due o più ancora, per riflettere i vantaggi dinamici? In generale, non sono molto affezionato a questa pratica – essa assomiglia troppo all’uso amplificato dei libri di testo, derivando un argomento politico da modelli economici di base e poi invocando fattori che non sono nei modelli per far sembrare l’argomento più forte di quello che è. Perché promuovere gli effetti dinamici del commercio anziché quelli di una quantità di altre cose?

Ma il 2 per cento è molto! É molto, molto difficile farsi venire in mente politiche che renderanno un paese in perpetuo del 2 per cento più ricco [2]. Dovreste avere ragioni molto buone a lasciare l’UE, per essere disponibili a fare un sacrificio del genere.

Che dire della distribuzione del reddito, che è una grande questione in molti accordi commerciali? In questo caso, essa è sostanzialmente irrilevante: l’UE è, in media comparabile per salari e reddito procapite con il Regno Unito, con molta della specializzazione commerciale all’interno del settore industriale che ha un piccolo effetto distributivo. Dunque, in questo caso gli argomenti usati da Trump e da Sanders non dovrebbero contare.

Dunque, tutto questo in cosa consiste? In un parola, nella governance. L’argomento per la Brexit è, fondamentalmente, che la partecipazione all’UE tiene il Regno Unito legato ad una istituzione dall’andamento molto negativo. E questo argomento, sfortunatamente, è ragionevolmente forte. Gli eurocrati devono dare una grande quantità di risposte, a questo proposito: l’enorme errore dell’euro, la spericolata e inconcludente promozione dell’austerità, l’infelice risposta alla crisi dei rifugiati e in generale il fallimento nel prendere sul serio le tensioni della emigrazione interna. Inoltre, l’Europa è stata ampiamente incapace di misurarsi con la distruzione della democrazia in Ungheria.

Ma indicare i fallimenti dell’UE come una ragione per lasciarla sarebbe, come era solito dire George Stigler [3], come dare il premio in una competizione canora al secondo partecipante, perché si è sentito il primo. Piuttosto, se il Regno Unito effettivamente lascia l’UE e sfugge alla presa degli eurocrati, chi ne risulterà rafforzato?

Talora si sentono persone che dicono che le inclinazioni e il carattere delle forze a favore dell’uscita dall’UE, non sono un valido argomento per restarci. Ma questo è sbagliato: chi condurrà successivamente le danze, chi sarà rafforzato, è estremamente rilevante.

Ed è qua che la tirata contro il Presidente Obama da parte di Boris Johnson è stupendamente chiarificatrice. Essa ci dice cosa è effettivamente l’ala anti-UE dei conservatori; ci dice non solo che sono abbastanza vicini all’UKIP, ma che intellettualmente ed emotivamente vivono nello stesso acquitrino febbricitante della destra americana. Ed essi, anche troppo probabilmente, assumerebbero un ruolo forte, persino dominante, nel Regno Unito dopo la Brexit.

Dunque, inglesi, non fatelo. Paghereste un prezzo economico abbastanza grande, e in cambio avreste una governance che farebbe sembrare buona quella dell’UE.

 

 

[1] La teoria dei vantaggi comparati (o modello ricardiano) è stata concepita a partire dai concetti essenziali dall’economista inglese David Ricardo e si inserisce nel contesto delle teorie riguardanti il commercio internazionale. L’assunto su cui si basa è che un paese tenderà a specializzarsi nella produzione del bene su cui ha un vantaggio comparato (cioè la cui produzione ha un costo opportunità, in termini di altri beni, minore che negli altri paesi). (Wikipedia)

Data questa definizione, parrebbe che la quantità a livello mondiale di ‘vantaggio comparativo’ sarebbe un sorta di somma dei livelli di specializzazione delle economie nazionali. Ironicamente, Krugman sconsiglia di approfondire nel dettaglio.

[2] Ovvero, nuove politiche di ribilanciamento dell’economia del Governo inglese, se il referendum decidesse un sacrificio del 2 per cento del reddito nazionale.

[3] George Joseph Stigler (Seattle, 17 gennaio 1911Chicago, 1º dicembre 1991) è stato un economista e sviluppatore di ricerca statunitense, figura di spicco della Scuola di economia di Chicago. (Wikipedia)

 

 

 

‘Sarandonizzare’ l’economia (22 aprile 2016)

aprile 24, 2016

 

Apr 22 10:54 am

Sarandonizing Economics

The Democratic primary is essentially over, although the Sanders campaign is still fundraising off naive supporters by claiming that it has a real shot. But the controversies will live on, for a while at least. Among these controversies, the debate over economic analysis is probably well down the list of importance; but it’s obviously one that I care about. And I see that Pro Growth Liberal is complaining about Gerald Friedman’s latest attempt to defend his estimates for growth from the Sanders program.

The history, for those who weren’t paying attention, is that Friedman produced huge numbers that were hard to understand on both the demand and the supply side. Initially, he didn’t claim to be doing anything especially new — on the contrary, he and his defenders claimed that they were doing standard Keynesian economics — apparently unaware that they were doing no such thing. Only after this was pointed out did they turn to declaring that the standard analysis was all wrong, and that Keynesians like Christina and David Romer are really just neoclassical types.

For those of us who participated in the austerity debates, that’s pretty amazing and disheartening. Remember when Robert Lucas accused Christy Romer of corruptly producing “schlock economics” to justify government spending? Remember the long fight against the doctrine of expansionary austerity and the mythical cliff at 90 percent debt? There was a huge division between Keynesians and anti-Keynesians, in which people like the Romers faced a torrent of abuse from the right. And there has also been a huge intellectual vindication, with interest rates, inflation, and output looking much more like Keynesian predictions than like what those on the right were predicting.

Oh, and on the issue where Lucas accused Romer of corruption: her estimate of a multiplier of 1.5 turns out to be very close to the numbers most researchers have found in the aftermath of the disastrous turn to austerity.

But now any skepticism about claims that multipliers are vastly higher than that, and that there are no supply constraints preventing the U.S. economy from growing 4.5 percent for the next decade, makes you no different from the inflation and debt fear mongers of the right.

The way to think about this, I’d say, is that it’s the economics nerd equivalent of Susan Sarandon dismissing Hillary Clinton as “the best Republican out there.” Anyone who tells you that you can’t get everything you want, in economics or politics, is just evil and useless.

Will this attitude persist as we enter an election in which the choice is between Clinton and Trump or Cruz, between Romer-type economics and Ayn Randism? We’ll see.

 

‘Sarandonizzare’ [1] l’economia

Le primarie democratiche sono sostanzialmente passate, anche se la campagna di Sanders sta ancora raccogliendo fondi con la pretesa di sostenitori ingenui che egli abbia ancora reali possibilità. Ma le controversie, almeno per un po’, proseguiranno. Tra queste controversie, il dibattito sulla analisi economica è probabilmente in fondo alla lista per importanza; ma è ovviamente qualcosa che mi interessa. E vedo che Progressista per la crescita  [2] si sta lamentando con l’ultimo tentativo di Gerald Friedman [3] di difendere le sue stime per la crescita dal programma di Sanders.

La storia, per coloro che non hanno prestato attenzione, è che Friedman ha prodotto dati esagerati che erano difficili da intendere sia sul lato della domanda che dell’offerta. Inizialmente, egli non sosteneva di star facendo qualcosa di particolarmente originale – al contrario, lui ed i suoi difensori sostenevano di stare utilizzando una convenzionale economia keynesiana – apparentemente inconsapevoli che non stavano facendo niente di simile. Solo dopo che questo è stato messo in evidenza, sono passati a sostenere che l’analisi convenzionale era tutta sbagliata, e che keynesiani come Christina e David Romer [4], erano in realtà semplicemente economisti di orientamento neoclassico.

Per quelli tra noi che avevano partecipato ai dibattiti sull’austerità, questo era abbastanza stupefacente e scoraggiante. Si ricorda quando Robert Lucas [5] accusò Christy Romer di praticare colpevolmente un “ciarpame di economia”  per giustificare la spesa pubblica? Si ricorda la lunga battaglia contro la dottrina della ‘austerità espansiva’ e la mitica soglia al 90 per cento del debito? Ci fu allora una vasta contrapposizione tra keynesiani ed antikeynesiani, nella quale persone come i Romer fronteggiarono un torrente di insulti da parte della destra. E c’è anche stato un grande risarcimento intellettuale, con i tassi di interesse, l’inflazione e la produzione che si sono collocati molto più sulla falsariga delle previsioni keynesiane che di quelle della destra.

Inoltre, quanto al tema  sul quale Lucas accusò la Romer di alterazione dei dati: si scopre che la sua stima di un moltiplicatore di 1,5 è molto vicino ai dati che la maggioranza dei ricercatori hanno scoperto, in conseguenza della disastrosa svolta verso l’austerità.

Ma di questi tempi ogni scetticismo sulle tesi per le quali il moltiplicatore sarebbe enormemente più alto di quello, e che non ci sarebbe alcun condizionamento dal lato dell’offerta che impedisce all’economia americana di crescere il 4,5 per cento il prossimo decennio, vi mette sullo stesso piano di coloro che a destra spargevano paure sull’inflazione e sul debito.

Direi che il modo per pensare a questo fenomeno è considerarlo l’equivalente, per i cultori di economia, del rigetto di Hillary Clinton da parte di Susan Sarandon come “la migliore repubblicana che ci sia in giro”. Chiunque vi dica che non potete avere tutto quello che volete, in economia come in politica, è solo malvagio ed inutile.

Questa tendenza persisterà, una volta che entreremo in una elezione nella quale la scelta è tra la Clinton e Trump o Cruz, tra una economia del genere di quella dei Romer e quella ispirata a Ayn Rand [6]? Lo vedremo.

 

[1] Come spiega il post – purtroppo solo alla fine – “sarandonizzare” è un neologismo che deriva dal cognome della attrice Susan Sarandon, in particolare da una sua affermazione ostile alla Clinton. Nel dibattito americano di queste settimane, la Sarandon ha avuto il ruolo di coerente ‘pasionaria’ sandersiana, mentre Clooney si è convertito a Sanders strada facendo, dopo aver inizialmente appoggiato la Clinton. Sul blog di Repubblica è apparsa in questi giorni una intervista della Sarandon sulle primarie democratiche.

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[2] La connessione è con il blog Econospeak, che pubblica un post con la firma del gruppo Progressista per la crescita.

[3] E’ l’economista che ha sostenuto Sanders nelle settimane passate, provocando una vasta polemica per le sue previsioni non molto credibili sulla crescita possibile per effetto della ricetta sandersiana.

[4] Due economisti, moglie e marito, di orientamento progressista e keynesiano piuttosto noti. La prima presiedeva nel 2009 il comitato di consulenza economica di Obama, e sostenne posizioni critiche a proposito della esiguità quantitativa e della insufficiente durata dei programmi di  sostegno all’economia che vennero approvati.

[5] Forse il principale economista di orientamento conservatore dei decenni passati.

[6] Figura ormai nota di scrittrice della destra dei primi decenni del secolo; si veda alle note sulla traduzione.

 

 

 

“L’amplificazionismo” dei libri di testo di economia (dal blog di Krugman, 20 aprile 2016)

aprile 21, 2016

 

101 Boosterism

April 20, 2016 12:47 pm

I see that @drvox is writing a big piece on carbon pricing – and agonizing over length and time. I don’t want to step on his forthcoming message, but what he’s said so far helped crystallize something I’ve meant to write about for a while, a phenomenon I’ll call “101 boosterism.”

The name is a takeoff on Noah Smith’s clever writing about “101ism”, in which economics writers present Econ 101 stuff about supply, demand, and how great markets are as gospel, ignoring the many ways in which economists have learned to qualify those conclusions in the face of market imperfections. His point is that while Econ 101 can be a very useful guide, it is sometimes (often) misleading when applied to the real world.

My point is somewhat different: even when Econ 101 is right, that doesn’t always mean that it’s important – certainly not that it’s the most important thing about a situation. In particular, economists may delight in talking about issues where 101 refutes naïve intuition, but that doesn’t at all mean that these are the crucial policy issues we face.

The example I think of most is in my original home field of international trade. Comparative advantage says that countries are made richer by international trade, even if one trading partner is more productive than the other across the board, and the less productive country can only export thanks to low wages. Paul Samuelson once declared this the prime example of an economic insight that is true without being obvious – and to this day you get furious attempts to refute the concept. So comparative advantage has, for generations, been considered one of the crown jewels of economic analysis.

Now, there are a variety of reasons why, despite this big insight, free trade may not be the right policy – that’s Noah’s 101ism. But I want to make a different point: even if comparative advantage is a profound insight, does this make free trade versus protectionism a front-burner issue? How important is this insight, anyway?

And the answer – the answer that comes from standard trade models – is, not as important as many people seem to think. Yes, protectionism reduces world income. But if you want to make the case that trade liberalization has been the principal driver of growth, or anything along those lines, well, the models don’t say that. If you want enormous benefits to trade, you have to invoke things like technology transfer that aren’t in the very analysis that gives the case for free trade such prestige.

In fact, you see a lot of that. There’s a kind of bait and switch, in which people invoke Ricardo and the gains from trade to say “free trade good”, then tell scare stories about how protectionism would destroy millions of jobs and cause a global depression, which doesn’t make much sense – and in any case has nothing to do with the classical analysis of the gains from trade.

It seems to me that there’s something similar involved in discussions of carbon pricing.

Econ 101 tells us that if you want to reduce emissions of a pollutant, the most efficient way to do that is to put a price on emissions, so that all possible routes to reduction are taken, and the marginal cost is the same for all routes. It’s a real insight, and has had positive impacts on real-world policy — cap-and-trade has worked very well at reducing acid rain.

That said, there are reasons Econ 101 may not be right here. There is some evidence that consumers aren’t hyper rational when it comes to conservation, that they may pass up conservation opportunities even when it would save them money — and in that case rule rather than prices may be the right way to make them change. And to the extent that we’re talking about innovation, the Econ 101 case says nothing at all: the efficiency case for carbon pricing is about making best use of existing technology, not about providing incentives to develop better technology.

But leave all that aside, and ask: how *important* is it that our carbon-emissions strategy take the form of a universal or near-universal price on carbon?

The answer, in principle, is that it depends on the complexity of the required response. If reducing emissions really has to involve moving on many fronts, anything that looks like an administrative solution — telling, say, power companies what to do or not to do — is going to be much more costly than carbon pricing that exploits all the possibilities. But if a large part of the solution is going to involve a fairly limited set of measures — such as putting a quick end to the practice of burning coal to generate electricity — getting to broad-based carbon pricing is much less central.

And what I gather from reading various analyses of our prospects is that we’re closer to case #2 than to case #1: the problem of limiting climate change isn’t all that complex. End coal-burning and you’ve gone a significant way; a few other big things get you another substantial part of the way. Yes, comprehensive carbon pricing would be best, but it’s not the sine qua non of effective action.

The point is that just because Econ 101 makes a smart, counterintuitive point doesn’t make that point of central importance, here or elsewhere. People should know what’s in the textbook; above all, they should buy my book! But never imagine that it’s the be-all and end-all of what matters.

 

“L’amplificazionismo” dei libri di testo di economia[1]

Vedo che @drvox sta scrivendo un grosso articolo sulla politica dei prezzi del carbonio[2], ed è angosciato per la sua lunghezza e per il tempo [3]. Non voglio pestare i piedi al suo imminente messaggio, ma quello che lui ha detto sinora ha contribuito a consolidare qualcosa che da un po’ avevo intenzione di scrivere, un fenomeno che chiamerò “l’amplificazionismo dei libri di testo”.

Il termine è una parodia da un intelligente scritto di Noah Smith sull’ “uso dei libri di testo”, secondo il quale gli scrittori di economia presentano le cose dei libri di testo di economia sull’offerta, la domanda e su quanto i mercati funzionino ottimamente come un vangelo, ignorando i molti modi nei quali  gli economisti hanno imparato a condizionare quelle conclusioni, a fronte delle imperfezioni dei mercati. La sua tesi è che mentre un libro di testo di economia può essere una guida molto utile, esso talvolta (spesso) è fuorviante quando viene applicato al mondo reale.

La mia accezione è un po’ diversa: anche quando un libro di testo di economia è nel giusto, questo non significa sempre che sia importante – certamente non la cosa più importante in relazione ad una situazione specifica. In particolare, gli economisti possono deliziarsi nel parlare di tematiche nelle quali i libri di testo confutano intuizioni ingenue, ma ciò non significa affatto che tali tematiche siano quelle fondamentali con le quali ci si misura.

L’esempio al quale soprattutto mi riferisco proviene dalla mia originaria disciplina del commercio internazionale. Il ‘vantaggio comparativo’ [4] dice che i paesi sono resi più ricchi dal commercio internazionale, persino se un partner complessivamente è più produttivo dell’altro, e il paese meno produttivo può esportare soltanto grazie ai bassi salari. Paul Samuelson una volta lo indicò come il principale esempio di una intuizione economica che è vera senza essere evidente – e si trovano tentativi frenetici di confutare il concetto sino ai nostri giorni. Dunque, il vantaggio comparativo è stato considerato per generazioni come un fiore all’occhiello.

Ora, ci sono una molteplicità di ragioni per le quali, nonostante questa grande intuizione, il libero commercio può non essere la politica giusta – è questo è quello a cui Noah si riferisce con la sua espressione sull’uso dei libri di testo. Ma io voglio avanzare un aspetto diverso: anche se il vantaggio comparativo è una intuizione profonda, questo rende il libero commercio a fronte del protezionismo una tema di primo piano?

E la risposta – la risposta che proviene dai modelli convenzionali sul commercio – è: no, non così importante come molte persone ritengono. É vero, il protezionismo riduce il reddito mondiale. Ma se volete avanzare l’argomento secondo il quale la liberalizzazione del commercio è stata il fattore principale della crescita, o qualcosa di simile, non è quello che dicono i modelli. Se volete sostenere gli enormi benefici del commercio, dovete invocare cose come i trasferimenti di tecnologia, che non sono propriamente nella analisi che dà un tale prestigio all’argomento del libero commercio.

Di fatto, potete constatare molte cose al proposito. C’è una sorta di gioco delle tre carte [5], per il quale le persone invocano Ricardo e i vantaggi del commercio per dire “il libero commercio è buono”, poi raccontano storie allarmanti su come il protezionismo distruggerebbe milioni di posti di lavoro e provocherebbe una depressione globale, il che non ha molto senso – e comunque non ha niente a che fare con l’analisi classica del vantaggi del commercio.

Nel dibattito implicito sulla politica dei prezzi del carbonio, mi pare ci sia qualcosa di simile.

Un libro di testo di economia ci dice che se si vogliono ridurre le emissioni di un inquinante, la cosa più efficace da fare è mettere un prezzo sulle emissioni, in modo tale che tutti i possibili indirizzi per la riduzione siano utilizzati, e il costo marginale sia lo stesso per tutti tali indirizzi. Si tratta di una intuizione vera, ed ha avuto impatti positivi sulla politica del mondo reale – il metodo del cap-and-trade [6] ha funzionato benissimo nella riduzione delle piogge acide.

Ciò detto, ecco le ragioni per le quali il libro di testo di economia può non essere giusto in questo caso. Ci sono alcune prove che i consumatori non siano iperrazionali quando si arriva al tema della conservazione, che possano rinunciare ad opportunità di conservazione anche quando risparmierebbero soldi – e il quel caso la legge, anziché i prezzi, può essere il modo giusto per farli cambiare. E nella misura in cui stiamo parlando di innovazione, l’argomento del libro di testo di economia non dice proprio niente: nella politica dei prezzi del carbonio l’argomento dell’efficacia riguarda il fare l’uso migliore delle tecnologie esistenti, non il fornire incentivi per sviluppare migliori tecnologie.

Ma lasciamo tutto questo da parte, e chiediamoci: quanto è importante che la nostra strategia sulle emissioni di carbonio prenda la forma di un costo universale, o quasi universale, sulle emissioni di carbonio?

In linea di principio, ciò dipende dalla complessità della risposta attesa. Se ridurre le emissioni comporta realmente muoversi su molti fronti, ogni cosa che assomigli ad una soluzione amministrativa – come il dire, ad esempio, alle società elettriche cosa devono o non devono fare – è destinato ad essere più costoso che un prezzo sulle emissioni di carbonio che sfrutta tutte le possibilità. Ma se una larga parte della soluzione è destinata a riguardare un complesso abbastanza limitato di misure – come stabilire un termine a breve entro il quale interrompere la pratica di bruciare carbone per produrre elettricità – impegnarsi in una generalizzata politica dei prezzi sulle emissioni di carbonio è molto meno rilevante.

E quello che raccolgo da una lettura di varie analisi sulle nostre prospettive è che siamo più vicini al secondo caso che non al primo: il problema del limitare il cambiamento climatico non è così complicato. Mettete un termine alla combustione del carbone e avrete fatto un pezzo di strada significativo; poche altre cose vi daranno un’altra parte sostanziale del percorso. É vero, una organica politica dei prezzi sulle emissioni di carbonio sarebbe la cosa migliore, ma essa non è il sine qua non di una iniziativa efficace.

Il punto è che soltanto perché un libro di testo di economia offre un argomento acuto, che sfida l’apparenza, non rende quell’argomento di importanza centrale, in questo come in tutti gli altri casi. Le persone dovrebbero conoscere cosa c’è nei libri di testo; soprattutto, dovrebbero acquistare il mio! Ma non dovrebbero mai immaginarsi che essi siano il massimo di quello che ha importanza.

 

[1] Giustifico la traduzione: Krugman prende a prestito, come spiega con le prime frasi, un termine di Noah Smith (“101ism”). Econ 101 è l’espressione che definisce – negli studi universitari – un libro di testo di economia; l’ “ismo” del 101, dunque, è una forma di uso, od anche di abuso, dei libri di testo di economia. “Booster” significa “sostenitore, amplificatore” – da “to boost” che significa “incoraggiare, spingere, promuovere, incrementare”; dunque il titolo di questo post indica l’uso ‘amplificante’, disinvolto dei libri di testo di economia. Ma la differenza della accezione di Krugman (peraltro autore di vari libri di testo di economia, uno dei quali – tradotto in italiano – in collaborazione con la moglie, Robin Wells), viene spiegata nello stesso post.

[2] Ovvero, dei costi imposti o da imporre alle emissioni di carbonio.

[3] E’ in effetti quanto risulta da alcuni tweet di David Roberts, che sembra sia stato costretto a ritirare un articolo e a riproporlo in due pezzi, per via della lunghezza.

[4] Una più ampia digressione sul concetto ricardiano di ‘vantaggio comparativo’ (e di ‘rendimenti crescenti’) – scritta proprio sulla base delle spiegazioni contenute nel libro di testo di Krugman e Wells – la si trova in una nota sul post del 22 ottobre 2013.

[5] La tattica del “bait and switch” è, in termini commerciali, la ‘tecnica dell’adescamento’ del commerciante verso il consumatore. Più in generale, far apparire qualcosa mettendo sullo sfondo la cosa reale.

[6] Letteralmente, del “mettere un limite e consentire gli scambi” in materia di inquinamento ambientale – ovvero mettere un limite all’inquinamento e premiare chi sta sotto quel limite, anche permettendogli di ‘vendere’ il proprio comportamento virtuoso a chi resta provvisoriamente sopra (l’acquisto di ‘punti’ dai più virtuosi – e talora anche di tecnologie – essendo un modo provvisorio per restare nella legalità).

In Italia, per un certo periodo, una soluzione del genere venne adottata sui limiti alle emissioni degli impianti di termocombustione dei rifiuti.

 

 

 

 

Perchè non sono stato sensibile a “Il Bern” (15 aprile 2016)

aprile 20, 2016

 

Apr 15 10:09 am

Why I Haven’t Felt The Bern

Today’s column offers an opportunity to say, for the record, why I haven’t been the Bernie booster a lot of people apparently expected me to be. For the business about discounting Clinton support as coming from “conservative states” in the “Deep South” actually exemplifies the problem I saw in the Sanders campaign from the beginning, and made me distrust both the movement and the man.

What you see, on this as on multiple issues, is the casual adoption, with no visible effort to check the premises, of a story line that sounds good. It’s all about the big banks; single-payer is there for the taking if only we want it; government spending will yield huge payoffs — not the more modest payoffs conventional Keynesian analysis suggests; Republican support will vanish if we take on corporate media.

In each case the story runs into big trouble if you do a bit of homework; if not completely wrong, it needs a lot of qualification. But the all-purpose response to anyone who raises questions is that she or he is a member of the establishment, personally corrupt, etc.. Ad hominem attacks aren’t a final line of defense, they’re argument #1.

I know some people think that I’m obsessing over trivial policy details, but they’re missing the point. It’s about an attitude, the sense that righteousness excuses you from the need for hard thinking and that any questioning of the righteous is treason to the cause. When you see Sanders supporters going over the top about “corporate whores” and such, you’re not seeing a mysterious intrusion of bad behavior into an idealistic movement; you’re seeing the intolerance that was always just under the surface of the movement, right from the start.

Does Clinton have problems too? Of course — she’s been too cozy with established interests in the past, she shouldn’t have given those speeches, and of course she shouldn’t have voted for the Iraq War. But there is no evidence that she’s corrupt, and lots of evidence that she both thinks hard about issues and is willing to revise her views in the light of facts and experience. Those are important virtues — important *progressive* virtues — that seem woefully absent on the other side of the primary.

But never mind. As you know, I’m only saying these things because I’m a corporate whore and want a job with Hillary.

 

Perchè non sono stato sensibile a “Il Bern”

L’articolo di oggi mi offre l’opportunità di dire, per la cronaca, perché non sono stato il sostenitore di Bernie che molti si aspettavano fossi. Perché la faccenda del fare una tara sui sostegni alla Clinton in quanto provenienti dagli “Stati conservatori” del “profondo Sud” effettivamente esemplifica il problema che avevo visto sin dagli inizi nella campagna elettorale di Sanders, e che mi aveva reso sfiduciato sia del movimento che dell’uomo.

Quello che constatate, su questo come su una molteplicità di temi, è il far propria casualmente, senza nessuno sforzo visibile di controllarne le premesse, una linea di narrazione che sembra buona. Dipende tutto dalle grandi banche; il sistema sanitario pubblico centralizzato è lì a disposizione, basta volerlo; la spesa pubblica renderà grandi risultati – non i modesti vantaggi che la convenzionale analisi keynesiana indica; il sostegno ai repubblicani svanirà se sfidiamo i media delle grandi imprese.

In ciascun caso il racconto si scontra con un grande problema se si fa un po’ di riflessione; se non completamente sbagliato, esso ha necessità di molte specificazioni. Ma la risposta buona per tutti gli scopi a chiunque sollevi dubbi è che lui o lei fanno parte del gruppo dirigente, sono personalmente corrotti etc. etc. Gli attacchi alla persona non sono una linea finale di difesa, sono l’argomento principale.

So che alcuni pensano che sia ossessionato dai banali dettagli della politica, ma ad essi sfugge il punto. Si tratta di una attitudine, la sensazione che l’essere nel giusto vi dispensi dal bisogno della riflessione profonda e che ogni dubbio sulla giustezza sia un tradimento della causa. Quando vedete i sostenitori di Sanders che vanno oltre i limite sulle “puttane delle grandi imprese” e cose del genere, non siete in presenza di una misteriosa intrusione di cattivi comportamenti in un movimento idealistico; state osservando l’intolleranza che è sempre stata sotto la superficie del movimento, proprio dall’inizio.

Ha problemi anche la Clinton? Certamente – nel passato ella è stata troppo compiacente con gli interessi costituiti, non avrebbe dovuto fare quei discorsi, e naturalmente non avrebbe dovuto votare per la guerra in Iraq. Ma non c’è alcuna prova che sia corrotta, e ci sono molte prove sia che stia riflettendo seriamente su tali questioni, o che sia disponibile a rivedere i suoi punti di vista alla luce dei fatti e dell’esperienza. Quelle sono virtù importanti – importanti valori progressisti – che sembrano tristemente assenti sull’altro fronte delle primarie.

Ma non conta. Come sapete sto dicendo queste cose perché sono una puttana delle grandi imprese e voglio un incarico da Hillary.

 

 

 

Il ritorno del pessimismo dell’elasticità (per esperti) (dal blog di Krugman, 16 aprile 2016)

aprile 19, 2016

 

Apr 16 11:13 am

The Return of Elasticity Pessimism (Wonkish)

I talked at the Council for European Studies conference in Philly last night, and was surprised by one aspect of the discussion. As you might expect if you’re into these things, my take on the euro was strongly informed by the theory of Optimum Currency Areas; I expected pushback. But I didn’t realize how many people now seem to believe that real exchange rates don’t matter for adjustment — that is, that even internal devaluation (downward adjustment of prices and wages relative to trading partners) isn’t necessary in the aftermath of unsustainable capital inflows.

It turns out, however, that we’re seeing a significant revival of the “elasticity pessimism” widely prevalent during the post World War II “dollar shortage”. This was the belief that trade flows barely respond to price signals, and hence that devaluations don’t help alleviate imbalances. Now as then, the argument rests in large part on specific cases where large changes in relative prices don’t seem to have produced large changes in trade (Greece’s lagging exports), or conversely, where large changes in trade seem to have happened without large changes in relative prices (Spain’s export recovery, maybe).

The difference is that in the late 1940s this kind of argument was deployed in support of more government intervention — keep those exchange controls in place, because devaluation won’t work — whereas now it’s being deployed as an argument against activism — never mind the euro, it’s all rigidities that must be cured with structural reform.

But while the purposes may be different, the substantive issues remain. What is the case against elasticity pessimism?

I guess I’d offer several answers.

First, it’s worth thinking about where those big external imbalances came from. Big capital flows to the European periphery led to inflation and rising real exchange rates, and this was associated with huge trade imbalances. How did that happen, if real exchange rates don’t matter?

Second, my sense is that at least some analyses aren’t taking sufficient account of cyclical factors. Devaluation that takes place along with an economic recovery may not be associated with a falling trade deficit, because rising demand is offsetting improved competitiveness — I think this is relevant for Iceland. Also important for understanding why sudden stops produce large import contractions even under fixed rates.

Third, there are lots of other factors, so you have to avoid picking and choosing your stories too much. One way to do this may be to do what one recent IMF study did: focus only on large real exchange rate changes, estimate elasticities for lots of countries, and pool the results. The result is to diminish the noise, both by eliminating small fluctuations that may be statistical illusions and by exploiting the power of large numbers.

Beyond all this, however, we probably need to revisit the classic 1950 Orcutt analysis of likely biases in estimates of trade response to prices.

I guess I’m showing a strong preconception here — that done right, analysis will show that trade elasticities remain fairly large. Certainly willing to be proved wrong — but we need to do this carefully, because it’s really important for future policy.

 

Il ritorno del pessimismo dell’elasticità (per esperti)

L’altra notte ho tenuto un discorso a Filadelfia, alla conferenza del Consiglio per gli Studi Europei, e sono rimasto sorpreso da un aspetto della discussione. Come vi potete immaginare se siete addentro queste cose, la mia posizione sull’euro era fortemente ispirata dalla teoria delle Aree valutarie ottimali; mi aspettavo qualche reazione. Ma non avevo compreso quante persone oggi sembrano credere che i tassi reali di cambio non contino agli effetti della correzione – ovvero, che persino le svalutazioni interne (la correzione verso il basso dei prezzi e dei salari relativamente ai partner commerciali) non sono necessarie a seguito di flussi di capitali in entrata insostenibili.

Si scopre, tuttavia, che stiamo assistendo a un significativo revival del “pessimismo dell’elasticità”che prevalse ampiamente durante la “mancanza di dollari” successiva alla Seconda Guerra Mondiale. Era questo il convincimento che i flussi commerciali rispondono a malapena ai segnali dei prezzi, e di conseguenza le svalutazioni non contribuiscono ad attenuare gli squilibri. Ora come allora, l’argomento si basa su casi specifici nei quali ampie modiche nei prezzi relativi non sembrano aver prodotto grandi cambiamenti nel commercio (le esportazioni della Grecia restano indietro) o, di converso, grandi cambiamenti nel commercio sembrano essere accaduti senza ampi mutamenti nel prezzi relativi (la ripresa, forse, delle esportazioni in Spagna).

La differenza è che negli ultimi anni ’40 questo genere di argomenti venivano utilizzati a sostegno di un maggiore intervento pubblico – tenete in funzione quei controlli sui cambi, perché la svalutazione non funziona – mentre oggi vengono utilizzati come un argomento contro l’attivismo pubblico – non si tratta dell’euro, sono tutte rigidità che debbono essere curate con riforme strutturali.

Ma se gli scopi possono essere diversi, i temi sostanziali restano. Quale è l’argomento contro il pessimismo dell’elasticità?

Penso di dover avanzare alcune risposte.

La prima, merita di riflettere da dove siano venuti quei grandi squilibri esterni. I grandi flussi di capitali verso la periferia europea hanno portato all’inflazione e a tassi di cambio reali crescenti, e questo è stato associato con grandi squilibri commerciali. Come è accaduto, se i tassi reali di cambio non sono importanti?

La seconda, la mia sensazione è che almeno alcune analisi non stiano mettendo sufficientemente in conto i fattori ciclici. La svalutazione che ha luogo assieme ad una ripresa economica può non essere associata con un deficit commerciale in caduta, perché una domanda crescente sta bilanciando la competitività migliorata – penso che nel caso dell’Islanda questo sia rilevante. É anche importante per la comprensione della ragione per la quale i ‘blocchi improvvisi’ [1] producono ampie contrazioni nelle importazioni persino con tassi fissi.

La terza, ci sono una quantità di altri fattori, tale che si deve evitare di estrarre e scegliere troppo i nostri racconti. Un modo per farlo è come nello studio recente del FMI: ci si concentri soltanto su ampi cambiamenti nei tassi di cambio reali; si stimino le elasticità per un buon numero di paesi e si mettano assieme i risultati. La differenza è che si riduce il frastuono, sia per l’eliminazione di piccole variazioni che possono essere illusioni statistiche, sia per lo sfruttamento del potere dei grandi numeri.

Oltre a tutto questo, tuttavia, probabilmente abbiamo bisogno di rivisitare la classica analisi del 1950 di Orcutt, sulla probabilità di pregiudizi nelle stime delle risposte del commercio ai prezzi.

Suppongo in questo modo di mostrare una buona dose di preconcetti – ovvero che, fatta una analisi corretta, essa dimostrerà che le elasticità commerciali restano piuttosto ampie. Sono certamente disponibile ad ammettere di aver torto – ma abbiamo bisogno di fare questo in modo scrupoloso, perché ciò è realmente importante per la politica del futuro.

 

 

[2] Per un comprensione migliore del concetto di ‘blocco improvviso’ – che si riferisce al carattere subitaneo di blocco nei flussi dei capitali, quale quello che avvenne per i flussi di capitali dalla Germania e dalla Francia in Grecia-Spagna-Portogallo-Irlanda, dopo la crisi finanziaria del 2008 –  si veda il secondo paragrafo della comunicazione di Krugman alla Conferenza del FMI del 27 ottobre 2013 “Regimi valutari, flussi di capitali e crisi”, qua tradotta.

 

 

 

Il petrolio a basso costo è restrittivo? (13 aprile 2016)

aprile 17, 2016

 

Apr 13 1:48 pm

Is Cheap Oil Contractionary?

Low oil prices were supposed to be a big boost for the world economy; but it didn’t happen. Maury Obstfeld, my long-time textbook co-author and now chief economist at the IMF, offers an interesting argument about why: he suggests that it’s because of the zero lower bound. Falling oil leads to falling inflation expectations, and since interest rates can’t fall, real rates go up, hurting recovery.

Matt O’Brien is skeptical, and so am I — even though I am very much in favor of rethinking our usual assumptions when the economy is at the ZLB.

First, a priori, falling oil prices shouldn’t affect expectations for the rate of inflation of non-oil goods and services, or at least it’s not obvious that it should — and that’s the inflation rate that should matter for investment. Still, you could argue that oil is in fact driving those expectations, whether it should or not. What Matt does is question whether correlation is causation.

I’d make another point: even using market expectations, real interest rates have in fact gone down, not up, in the face of falling oil prices:

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How is this possible, given the zero lower bound? It’s all about the term structure: long-term rates aren’t at zero, although they’re at least somewhat supported by the floor on short-term rates. And as it turns out, during the recent oil crash long-term rates fell enough to more than offset the decline in expected inflation.

Of course, Maury could be right in an other things equal sense. But my guess is that the oil-price disappointment comes less from expectational channels than from two facts: oil is now a big driver of investment, via shale, and oil exporters are actually cash-constrained these days, with an arguably *higher* marginal propensity to spend than oil consumers.

Anyway, interesting stuff.

 

Il petrolio a basso costo è restrittivo?

Si supponeva che i bassi prezzi del petrolio fossero un grande incoraggiamento per l’economia mondiale, ma non è accaduto. Maury Obstfeld, da lunga data coautore come me di un libro di testo ed oggi capoeconomista al FMI, offre un argomento interessante sulla ragione di ciò: suggerisce che dipenda dl limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse). La caduta del petrolio porta alla caduta delle aspettative di inflazione, e dal momento che i tassi di interesse non possono scendere oltre, i tassi reali salgono, danneggiando la ripresa.

Matt O’Brien è scettico ed anch’io lo sono – anche se sono molto favorevole ad un ripensamento dei nostri consueti assunti quando l’economia è al limite inferiore dello zero.

Anzitutto, prima di ogni altra cosa, i prezzi del petrolio in calo non dovrebbero influenzare le aspettative sui tassi di inflazione dei beni e servizi non petroliferi, o almeno non è così ovvio che dovrebbero – e quello è il tasso di inflazione che dovrebbe contare per gli investimenti. Comunque, potreste sostenere che il petrolio di fatto sta guidando quelle aspettative, che lo debba o no. Quello che Matt mette in dubbio è che quella correlazione sia una causa.

Io avanzerei un altro punto: persino utilizzando le aspettative dei mercati, i tassi di interesse reali sono scesi, non saliti, a fronte del calo dei prezzi del petrolio [1]:

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Come è possibile questo, considerato il limite inferiore dello zero? Dipende tutto dal struttura temporale dei tassi di interesse  [2]: i tassi di interesse a lungo termine non sono a zero, sebbene siano almeno qualcosa che viene influenzato dalla base dei tassi a breve termine. E si scopre che, durante il recente crollo del petrolio i tassi a lungo termine sono caduti a sufficienza da più che bilanciare il declino della inflazione attesa.

Naturalmente, Maury, a parità delle altre condizioni, potrebbe aver ragione. Ma la mia impressione è che la delusione del prezzo del petrolio venga più da altri fattori, che non dai canali delle aspettative: adesso il petrolio è una grande guida degli investimenti, per effetto dell’estrazione dagli scisti, e di questi tempi gli esportatori di petrolio sono effettivamente limitati nel contante, con una propensione marginale a spendere più elevata dei consumatori di petrolio.

In ogni caso, cose interessanti.

 

 

[1] La tabella mostra (linea blu) l’andamento degli interessi, indicizzato per l’inflazione, sui titoli del Tesoro, e (linea rossa) l’andamento dei prezzi del petrolio (Brent, Europa). La maturazione di tali obbligazioni è decennale, e dunque è indicativa delle aspettative di inflazione nel lungo periodo.

[2] Il “term structure” dei tassi di interesse è la relazione tra i rendimenti dei bond ed i diversi tempi della loro maturazione. É anche noto come “curva dei rendimenti” e segnala le aspettative dei mercati sui cambiamenti futuri dei tassi.

 

 

 

Perchè il monetarismo ha fallito (dal blog di Krugman, 13 aprile 2016)

aprile 17, 2016

 

Apr 13 10:10 am

Why Monetarism Failed

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Brad DeLong asks why monetarism — broadly defined as the view that monetary policy can and should be used to stabilize economies — has more or less disappeared from the scene, both intellectually and politically. As it happens, I wrote about essentially the same question back in 2010, inspired by the more or less hysterical pushback against quantitative easing. I thought then and think now that this was fated to happen, that Milton Friedman’s project was always doomed to failure.

To repeat the key points of my argument:

On the intellectual side, the “neoclassical synthesis” — of which Friedman-style monetarism was essentially part, despite his occasional efforts to make it seem completely different — was inherently an awkward construct. Economists were urged to build everything from “micro foundations” — which was taken to mean perfect rationality and clearing markets, not realistic descriptions of individual behavior. But to get a macro picture that looked anything like the real world, and which justified monetary activism, you needed to assume that for some reason wages and prices were slow to adjust.

Inevitably the drive for purism collided with the realistic accommodations, the ad hockery, needed to be useful; sure enough, half the macroeconomics profession basically said, “what are you going to believe, our models or your lying eyes?” and abandoned any good sense Friedman had originally brought to the subject.

On the political side, there was a similar collision. Right-wingers insisted — Friedman taught them to insist — that government intervention was always bad, always made things worse. Monetarism added the clause, “except for monetary expansion to fight recessions.” Sooner or later gold bugs and Austrians, with their pure message, were going to write that escape clause out of the acceptable doctrine. So we have the most likely non-Trump GOP nominee calling for a gold standard, and the chairman of Ways and Means demanding that the Fed abandon its concerns about unemployment and focus only on controlling the never-materializing threat of inflation.

What about the reformicons, who pushed for neo-monetarism? We can sum up their fate in two words: Marco Rubio. There is no home for the kind of return to realism they were seeking.

The point is that the monetarist idea no longer serves any useful purpose, intellectually or politically. Hicksian macro — IS-LM or something like it — remains an extremely useful tool of both analysis and policy formulation; that tool is not helped by trying to state it in terms of monetary velocity and all that. And if you want macro policy that isn’t dictated by Ayn Rand logic, you have to turn to a Democrat; on the other side, there’s nobody rational to talk to. Sad!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Perchè il monetarismo ha fallito [1]

Brad DeLong si chiede perché il monetarismo – generalmente definito come il punto di vista secondo il quale la politica monetaria può e dovrebbe essere utilizzata per stabilizzare le economie – è più o meno scomparso dalla scena, sia in termini intellettuali che politici. Si dà il caso che nel passato 2010 scrissi sostanzialmente sullo stesso tema, stimolato dalle reazioni più o meno isteriche alla ‘facilitazione quantitativa’. Pensavo allora e penso oggi che era destino che accadesse, che il progetto di Milton Friedman è sempre stato condannato all’insuccesso.

Per ripetere i punti cardine della mia tesi:

dal lato intellettuale, la “sintesi neoclassica” – della quale il monetarismo nella versione di Friedman era una parte essenziale, nonostante i suoi sforzi occasionali di farlo sembrare completamente diverso – era intrinsecamente una costruzione problematica. Gli economisti venivano sollecitati a costruire ogni cosa a partire dai “fondamenti microeconomici” – termine prescelto per indicare la perfetta razionalità e la funzione equilibratrice dei mercati, anziché descrizioni realistiche dei comportamenti individuali. Per ottenere un quadro macroeconomico che assomigliasse a qualcosa del mondo reale, e che giustificasse l’attivismo monetario, si doveva assumere che per qualche ragione i salari ed i prezzi fossero lenti a correggersi.

Inevitabilmente l’impulso per il purismo entrava in conflitto con gli accomodamenti realistici, la pratica delle soluzioni ‘ad hoc’, necessari ai fini dell’utilità; di fatto, metà della disciplina macroeconomica fondamentalmente sosteneva “a cosa vuoi credere, ai nostri modelli o ai tuoi occhi fallaci?”, e Friedman, abbandonato ogni buon senso, in modo originale portò a compimento l’operazione.

Sul lato della politica, c’era un conflitto simile. Le persone di destra ribadivano ad ogni piè sospinto – Friedman aveva loro insegnato a insistere – che l’intervento del Governo era sempre negativo, rendeva sempre le cose peggiori. Il monetarismo aggiunse la clausola: “ad eccezione della espansione monetaria, per combattere le recessioni”. Presto o tardi i patiti della parità aurea ed i simpatizzanti per la scuola austriaca [2], col loro messaggio di purezza, erano destinati a cancellare quella clausola risolutiva dalla dottrina ammissibile.

Che dire dei conservatori riformisti, che avevano spinto per il meo-monetarismo? Posiamo riassumere la loro sorte in due parole: Marco Rubio. Non c’è posto per quel genere di ritorno al realismo che stavano cercando.

Il punto è che l’idea monetarista non serve più ad alcun proposito utile, intellettuale o politico. La macroeconomia hicksiana – il modello IS-LM o qualcosa di simile – resta uno strumento estremamente utile sia per la analisi che per la formulazione politica; quello strumento non è aiutato dal tentativo di illustrarlo nei termini della velocità monetaria o cose simili. E se volete una politica macroeconomica che non sia ispirata dalla logica di Ayn Rand [3], dovete rivolgervi ad un democratico; dall’altra parte non c’è nessuno con cui parlare razionalmente. Sconfortante!

 

[1] Il fotomontaggio nel testo inglese mostra il repubblicano Paul Ryan – attualmente speaker della Camera dei Rappresentanti – e la scrittrice Ayn Rand, icona della destra americana. Tra i due c’è più di mezzo secolo di distanza, ma Ryan ha varie volte ammesso di ispirarsi ai romanzi della Rand per la politica economica.

[2] Vedi “austrians” sulle note per la traduzione.

[3] Ovvero, dalla ideologia più radicale della destra americana.

 

 

 

Il Donald e il Veg-O-Matic (9 aprile 2016)

aprile 13, 2016

 

The Donald and the Veg-O-Matic

April 9, 2016 2:33 pm

I’ve written on a number of occasions about the Veg-O-Matic temptation — the urge to claim that your preferred policy solves all problems — it slices! It dices! It purees! It creates jobs! It raises productivity! It takes off weight without diet or exercise! There’s also the reverse version, in which a policy you dislike does everything bad — It’s inflationary! It’s contractionary! It causes acne!

When you see Veg-O-Matic claims, you should always be suspicious. Sometimes a policy does kill two or more birds with one stone — there’s a very good case that infrastructure investment under current conditions, with interest rates very low and economies still under capacity, would create jobs now, enhance long-run growth, and even improve fiscal prospects. But conclusions like that shouldn’t be accepted without a lot of hard thinking and self-criticism; you need to bend over backward to avoid falling into wishful thinking.

That consideration in itself should have flashed warning signs about, to take one important example, the embrace by Very Serious People of the doctrine of expansionary austerity — it was all too obvious that the austerians wanted a reason to cut government spending, and they should have been extremely wary of studies purporting to say that doing so would actually create jobs in a depressed economy. The fact that they instead seized on those studies was a very bad sign.

In modern America Veg-O-Matic economics has tended to be a right-wing thing, for a couple of reasons. One is that if your party’s central mission is to comfort the comfortable and afflict the afflicted, you need to claim that all kinds of wonderful side effects will take place from what might otherwise look like a combination of greed and cruelty. Another is that the parties are different; the monolithic GOP has, until just now, been able to get all its followers declaring that we’re at war with Eurasia, or Eastasia, with no awkward challenges from independent-minded wonks. The Democrats are a coalition in which the wonks have a fair bit of autonomy, and at least believe that they have a professional ethos to uphold.

That said, the Veg-O-Matic temptation exists for everyone. Yes, we see some of it in the populist uprising within the Democratic party, where anyone questioning the happy talk can be dismissed as a corrupt tool of the corporations. But the big example of Veg-O-Matic reasoning I see right now — in this case the anti-VOM version — is coming in what we might call the mainstream critique of Donald Trump.

I come here not to praise Trump — God no — and would be happy to see his political ambitions buried, with maximum ignominy. He would destroy American civil society; destroy our hopes of containing climate change; destroy U.S. influence by trying to bully everyone in sight. It’s very scary that there’s any chance that he might end up with his (long) finger on the button.

But too many anti-Trump critics seem to have settled on one critique that happens not to be right: the claim that a turn to protectionism would cause vast job losses. Sorry, that’s just not a claim justified by either theory or history.

Protectionism reduces world exports, but it also reduces world imports, so that the effect on overall demand is a wash; textbook economic models just don’t say what conventional wisdom is asserting here.

History doesn’t support this line of attack either. Protection in the 1930s was a result, not a cause, of the depression; the early postwar years, when tariffs were still high and exchange controls were pervasive, were marked by very full employment in many countries.

Why, then, focus on such a weak argument against a truly despicable candidate? I think I know the answer: it’s an argument that doesn’t involve taking on bad things in the Trump agenda that differ from the agenda of other Republicans only in degree — as Matt O’Brien says, on tax policy Trump is just Paul Ryan on steroids.

But bad arguments are bad arguments, even if used against a bad guy. And the choice of this argument is telling us something about what’s wrong with a lot of people beyond Trump.

 

Il Donald e il Veg-O-Matic

In un certo numero di occasioni ho scritto sulla tentazione del Veg-O-Matic [1] – il bisogno di sostenere che la vostra politica preferita risolva tutti i problemi – Taglia a fette! Taglia a dadini! É un passatutto! Crea lavoro! Aumenta la produttività! Vi riduce il peso senza dieta ed esercizi! C’è anche una versione inversa, per la quale la politica che non vi piace fa tutto male – E’ inflazionistica! E’ restrittiva! Fa venire l’acne!

Quando vedete queste pretese Veg-O-Matic, dovreste essere sempre sospettosi. Talvolta una politica può prendere due o più piccioni con una fava – c’è una argomento molto buono secondo il quale, nella attuali condizioni, con tassi di interesse molto bassi e le economie ancora al di sotto delle loro potenzialità, l’investimento in infrastrutture creerebbe da subito posti di lavoro, potenzierebbe la crescita a lungo termine, e migliorerebbe persino le prospettive della finanza pubblica. Ma conclusioni come quella non dovrebbero essere accolte senza profonda riflessione e senza senso autocritico; avete bisogno di molto impegno per evitare di ricadere in un ottimismo di maniera.

Per fare un esempio importante, quella considerazione da sola dovrebbe aver balenato segnali di ammonimento sulla adesione alla dottrina della austerità espansiva da parte di persone Molto Serie – era evidente che i filo austeri volevano una ragione per tagliare la spesa pubblica, ed esse avrebbero dovuto essere estremamente diffidenti su studi che si propongono di affermare che così facendo si creerebbero effettivamente posti di lavoro in una economia depressa. Il fatto che invece scegliessero di approfittare di quegli studi era un pessimo segnale.

Nell’America odierna l’economia Veg-O-Matic ha teso ad essere una questione della destra, per un paio di ragioni. Una è che se la missione fondamentale del vostro Partito è confortare chi sta bene ed accanirsi con chi sta male, avete bisogno di sostenere che ogni genere di meraviglioso effetto collaterale deriverà da quella che altrimenti  potrebbe apparire come una combinazione di avidità e di crudeltà. Un’altra è che i partiti sono diversi: il monolitico Partito Repubblicano, sino ad oggi,  è stato capace di portare tutti i suoi seguaci a dichiarare che siamo in guerra con l’Eurasia, o con l’Estasia, senza alcuna imbarazzante sfida da parte degli esperti di orientamento indipendente. I democratici sono una coalizione nella quale gli esperti hanno una discreta dose di autonomia, e credono almeno di possedere un’etica professionale da difendere.

Ciò detto, la tentazione del Veg-O-Matic esiste per tutti. É vero, vediamo qualcosa di ciò nel sollevamento populista all’interno del Partito Democratico, dove chiunque sollevi dubbi sul dibattito spensierato può essere liquidato come uno strumento corrotto delle corporazioni. Ma il grande esempio del Veg-O-Matic in questo momento lo vedo provenire – in questo caso nella versione ostile al Veg-O-Matic – in quella che potremmo definire la critica convenzionale a Donald Trump.

Non intendo qua elogiare Trump – Dio non voglia – e sarei contento di veder seppellite le sue ambizioni politiche con il massimo di ignominia. Egli distruggerebbe la società civile americana; distruggerebbe le nostre speranze di contenere il cambiamento climatico; distruggerebbe l’influenza degli Stati Uniti cercando di agire con prepotenza verso chiunque finisse nel mirino. É terrificante che ci sia una qualche possibilità che egli possa finire con avere il suo (lungo) dito sul bottone.

Ma troppi tra i critici anti-Trump sembrano convergere su una critica che si dà il caso sia sbagliata: la pretesa che una svolta verso il protezionismo provocherebbe una grande perdita di posti di lavoro. Spiacente, ma essa non è una pretesa giustificata, né dalla teoria né dalla storia.

Il protezionismo riduce le esportazioni mondiali, ma riduce anche le importazioni mondiali, cosicché l’effetto sulla domanda complessiva sarebbe un bilanciamento; in questo caso, i modelli di un libro di testo di economia non dicono proprio quello che sta sostenendo la saggezza convenzionale.

Neppure la storia è a sostegno di questa linea di attacco. Il protezionismo negli anni ’30 fu un risultato, non una causa, della depressione; i primi anni post bellici, quando le tariffe erano ancora alte e il controllo sugli scambi era pervasivo, furono caratterizzati in molti paesi da una decisa piena occupazione.

Perché, dunque, concentrarsi su un tale debole argomento contro un candidato davvero deprecabile? Penso di conoscere la risposta: si tratta di un argomento che non comporta una sfida all’agenda di Trump, che differisce dalla agenda degli altri repubblicani soltanto di intensità – come dice Matt O’Brien, sulla politica fiscale Trump è solo un Paul Ryan con gli steroidi.

Ma i cattivi argomenti sono cattivi argomenti, anche se sono usati contro un pessimo soggetto. E la scelta di questo argomento ci sta dicendo qualcosa su quello che non funziona in molte persone, oltre Trump.

 

[1] Ovvero, una macchinetta che realizza ogni genere di operazione di cucina, che negli Stati Uniti ha quel nome commerciale.

 

 

 

 

 

Il miraggio di una sostituzione della riforma sanitaria di Obama (dal blog di Krugman, 11 aprile 2016)

aprile 13, 2016

 

Apr 11 7:32 am

The Obamacare Replacement Mirage

Hype springs eternal — certainly when it comes to Paul Ryan, whose media image as a Serious, Honest Conservative and policy wonk seems utterly impervious to repeated demonstrations that he is neither serious nor honest, and that he actually knows very little about policy. And here we go again.

But what really amazes me about the latest set of stories is the promise that Ryan will finally deliver the Republican Obamacare alternative that his colleagues in Congress have somehow failed to produce after all these years. No, he won’t — because there is no alternative.

Or maybe I should say that there is no alternative to the right. Alternatives to the left do exist. True socialized medicine — an American NHS — would be feasible economically; so would single-payer, in the form of Medicare for all. The reasons we aren’t doing those are political.

But on the right, is there a more free-market, more privatized system that could replace the Affordable Care Act without causing the number of uninsured to soar? No, as some of us have tried to explain many times.

Once again: a useful starting point is the problem of people with pre-existing conditions. How can they be offered affordable insurance? You can prohibit insurers from discriminating on the basis of medical history — community rating. But if that’s all you do, only sicker people will sign up; many will wait until they get sick to buy insurance; and so costs will be high due to a bad risk pool.

So non-discrimination must be combined with an individual mandate, the requirement that everyone get insurance. But what about people who can’t afford it? There must be subsidies to lower-income families, so that they can.

What you end up with, then, is community rating + individual mandate + subsidies — that is, with Obamacare. There’s nothing arbitrary about it, and you can’t pick and choose from the elements: it’s a three-legged stool that needs all three legs to stand. And it can’t be made cheaper, either — the subsidies are already on the low end, requiring that the allowed policies can involve higher deductibles than they really should.

And all this, in turn, is the reason Republicans haven’t come up with an alternative. It’s not because they’re timid, or lazy, or stupid (they may be all these things, but that’s not why they’ve come up short). It’s because there is no alternative that wouldn’t involve taking coverage away from tens of millions.

So no, Ryan isn’t going to roll out a magical solution to this problem in the next couple of months. Even if he were the policy wonk he pretends to be, he couldn’t do the impossible.

 

Il miraggio di una sostituzione della riforma sanitaria di Obama

Il battage pubblicitario zampilla interminabile – certamente nel caso di Paul Ryan, la cui immagine mediatica di Persona Seria, di Onesto Conservatore e di politico competente sembra completamente impermeabile alle ripetute dimostrazioni che egli non è né serio né onesto, e che in effetti si intende davvero poco di programmi politici. Ed è qua dove vogliamo nuovamente insistere.

Ma quello che davvero mi sorprende sull’ultima serie di racconti  è la promessa che Ryan alla fine presenterà l’alternativa repubblicana alla riforma sanitaria di Obama, che i suoi colleghi in Congresso non sono in alcun modo riusciti a produrre dopo tutti questi anni. Eppure non lo farà – perché l’alternativa non esiste.

O forse dovrei dire che non esiste alternativa a destra. Alternative a sinistra esistono. Una sanità davvero socializzata – un sistema sanitario nazionale come quello inglese in America – sarebbe economicamente fattibile; altrettanto lo sarebbe un sistema di pagamenti centralizzato [1], nella forma di un Medicare per tutti. Le ragioni per le quali non si sta facendo sono interamente politiche.

Ma c’è a destra un sistema più ispirato al mercato, più privatizzato che potrebbe rimpiazzare la Legge sulla Assistenza Sostenibile, senza far schizzare alle stelle il numero dei non assicurati? No, come alcuni di noi hanno provato a spiegare molte volte.

Riproviamoci: un utile punto di partenza è il problema delle persone con preesistenti problematiche di salute. Come si può loro offrire una assicurazione sostenibile? Si può proibire agli assicuratori di discriminare sulla base della storia sanitaria delle persone – con il sistema di stime (sul rischio assicurativo) a livello di comunità [2]. Ma se ci limita a questo, soltanto le persone più malate di iscriveranno; molti aspetteranno di ammalarsi per acquistare una assicurazione; e di conseguenza i costi sarebbero elevati a seguito di un cattivo aggregato di rischio.

Dunque, la non discriminazione deve essere combinata con una obbligo individuale [3], la richiesta che ognuno acquisti la assicurazione. Ma che fare con le persone che non possono permettersela? Ci devono essere sussidi per le famiglie con redditi più bassi, in modo che possano permettersela.

Quello su cui si finisce, dunque, è un sistema “stime a livello di comunità + delega alle persone + sussidi” – il che significa la riforma di Obama. In questo non c’è niente di arbitrario, e potete prendere a caso e scegliere tra i diversi elementi: è uno sgabello a tre gambe che ha bisogno di tre gambe per stare in piedi. E non può neppure essere reso più economico – i sussidi sono già i più bassi, richiedendo che le polizze ammissibili possano includere deducibilità più elevate di quelle che realmente dovrebbero.

E, a sua volta, tutto questo è la ragione per la quale i repubblicani non hanno escogitato alternative. Non si tratta del fatto che siano timidi, pigri o stupidi (possono essere tutte queste cose, ma non è questa la ragione per la quale non ci sono riusciti). Si tratta del fatto che non esiste alcuna alternativa che non comporterebbe il togliere la assicurazione a decine di milioni di persone.

Dunque no, nel corso dei prossimi due mesi Ryan non presenterà alcuna soluzione magica a questo problema. Anche se fosse l’esempio di competenza politica che pretende di essere, non può fare l’impossibile.

 

[1] Un “unico sistema di pagamenti” significa, in sostanza, la eliminazione del ruolo delle assicurazioni private.

[2] Ovvero: i calcoli sula valore delle polizze assicurative non sono più fatti sulla base della personale morbilità, bensì sulla base della morbilità di comunità intere, città, grandi aree, Stati.

[3] “Mandate” significa “mandato, delega”. In questo caso ha il senso di una partecipazione obbligata delle persone singole alla economia del sistema sanitario, appunto con l’obbligo di dotarsi di una assicurazione.

 

 

 

Il ritorno dei poveri immeritevoli (16 marzo 2016)

aprile 12, 2016

 

Mar 15 10:28 am

Return of the Undeserving Poor

When I was growing up, income inequality wasn’t yet a big issue, because the middle class was strong and the plutocracy fairly marginal. But there was a great deal of alarm over the troubles of the African-American community, where social disorder was on the rise even as explicit legal discrimination (although not de facto discrimination) was coming to an end. What was going on?

There were all kinds of theories, ranging from cultural hand-waving to claims that it was all because of welfare. But some people, notably William Julius Wilson, argued that the underlying cause was economic: good jobs, while still fairly plentiful in America as a whole, were disappearing from the urban centers where the A-A population was concentrated. And the social collapse, while real, followed from that underlying cause.

This story contained a clear prediction — namely, that if whites were to face a similar disappearance of opportunity, they would develop similar behavior patterns. And sure enough, with the hollowing out of the middle class, we saw (via Mark Thoma) what Kevin Williamson at National Review describes as

the welfare dependency, the drug and alcohol addiction, the family anarchy

And what is the lesson? Why, that poor whites are moral failures, and they should move to where there are opportunities (where?). It’s really extraordinary.

Oh, and lots of swipes at food stamps, welfare programs, disability insurance (which conservatives insist is riddled with fraud, despite lots of evidence to the contrary.)

It’s surely worth noting that other advanced countries, with much more generous welfare states, aren’t showing anything like the kind of social collapse we’re seeing in the U.S. heartland. Here’s Case and Deaton:

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Why, it’s almost as if having a strong safety net leads to better, not worse, social health. Culture still matters: US Hispanics do a lot better than one might have expected. But the idea that somehow food stamps are why we’re breaking bad is utterly at odds with the evidence. (Just as an aside, since someone will bring it up: all of those other advanced economies are just as open to trade as we are — so whatever you think of free trade, it doesn’t necessarily cause social collapse.)

Anyway, the right’s inability to face up to the evidence on this front is … just like its inability to face up to evidence on any other front.

 

Il ritorno dei poveri immeritevoli

Quando ero giovane, l’ineguaglianza del reddito non era un grande tema, perché la classe media era forte e la plutocrazia abbastanza marginale. Ma c’era molto allarme sui problemi della comunità afro-americana, dove il disordine sociale era in crescita, anche se la sostanziale discriminazione legale (se non la discriminazione di fatto) stava arrivando al termine. Cosa stava accadendo?

C’erano teorie di ogni genere, si andava da approssimazioni culturali a pretese che fosse tutto a causa dello stato assistenziale. Ma alcune persone, in particolare William Julius Wilson [1], sostenevano che la causa fondante era di natura economica: i buoni posti di lavoro, per quanto ancora abbastanza abbondanti nell’America nel suo complesso, stavano sparendo dai centri urbani dove la era concentrata popolazione di colore. E il collasso sociale, per quanto reale, era una conseguenza di quella causa sottostante.

Questa storia conteneva una chiara premonizione – precisamente, che se i bianchi avessero affrontato una simile scomparsa di opportunità, avrebbero sviluppato simili schemi di comportamento. E, come era prevedibile, con lo svuotamento della classe media, constatiamo (per il tramite di Mark Thoma) quello che Kevin Williamson della National Review descrive come:

“la dipendenza dallo Stato assistenziale, la assuefazione alle droghe ed all’alcol, l’anarchia familiare”.

E quale è la lezione? Che domanda: che i bianchi poveri sono casi di fallimenti morali, e che si dovrebbero spostare dove esistono opportunità (dove?). E’ proprio stupefacente.

Inoltre, attacchi a iosa sulle tessere degli aiuti alimentari, sui programmi della assistenza, sulla assicurazione per i disabili (che i conservatori insistono sia permeata da frodi, nonostante molte prove del contrario).

É certamente degno di nota che gli altri paesi avanzati, con stati assistenziali molto più generosi, non stiano mostrando niente di simile al collasso sociale che stiamo constatando nel cuore degli Stati Uniti. Ecco cosa mostrano Case a Deaton [2]:

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Perché, è quasi come se possedere avere una forte rete di sicurezza sociale comporti una migliore, non una peggiore, salute sociale. La cultura è ancora importante: gli ispanici americani hanno un andamento molto migliore di quello che ci si sarebbe aspettati. Ma l’idea che in qualche modo gli aiuti alimentari siano la ragione per la quale siamo dinanzi ad una rottura così negativa, è completamente all’opposto delle prove (solo per inciso, dal momento che qualcuno solleverà la questione: tutti gli altri paesi avanzati sono in materia di commercio altrettanto aperti di noi – dunque, qualsiasi cosa pensiate del libero commercio, esso non provoca necessariamente il collasso sociale).

Il ogni caso, l’incapacità della destra di misurarsi con le prove su questa faccenda …. è uguale all’incapacità di misurarsi con le prove su ogni altra faccenda.

 

[1] William Julius Wilson è un sociologo statunitense nato nel 1935, che ha insegnato all’Università di Chicago, dal 1972 al 1996, e poi a quella di Harvard. I suoi studi sulla povertà, particolarmente sulle condizioni degli afroamericani, hanno contribuito in particolare a mettere in evidenza la complessa interazione di fenomeni politici e culturali – la cultura dei ghetti e l’intera storia dei diritti civili – e di fenomeni socioeconomici, quali quelli della evoluzione di molte metropoli americane, che hanno conosciuto grandi fenomeni di decentramento dell’occupazione. Tra l’altro mostrò come il fenomeno delle donne afroamericane sole e con figli spesso derivasse semplicemente dalla resistenza delle donne di colore a riconoscere i padri dei loro figli attraverso regolari matrimoni, sinché i padri non potevano mantenere una famiglia con redditi almeno paragonabili agli aiuti delle famiglie di origine.

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[2] La tabella, che abbiamo pubblicato in altre occasioni, mostra l’andamento del tasso di mortalità tra gli americani bianchi (USW), che cresce dalla fine degli anni ’90 a fronte di un tasso di mortalità in forte calo in tutti gli altri paesi del mondo avanzato. Da notare che il caso degli americani bianchi è anche diversissimo rispetto all’andamento degli americani ispanici (USH).  In sostanza, il tasso di mortalità tra gli americani bianchi è più che doppio a quello della Svezia e superiore – tra il 30 ed il 40 per cento – a quello di Regno Unito, Canada, Austria e Germania. Case e Deaton sono i due autori dello studio (Deaton è stato quest’anno insignito del Premio Nobel per l’economia).

 

 

 

Offerta aggregata ed economia della depressione (per esperti) (4 aprile 2016)

aprile 11, 2016

 

Apr 4 12:50 pm

Aggregate Supply and Depression Economics (Wonkish)

Robert Waldmann follows up on the question of who got what wrong in the late 1990s analysis of Japan’s liquidity trap. As he says, the extremely stripped-down nature of the model I used may have led some readers — like, surprisingly, Brad DeLong — to suppose that I had forgotten about the supply side. Actually, though, I still don’t really understand the confusion — I explicitly began with a flexible-price model, then considered the effects of temporarily fixed prices, so how could that have been unclear?

Be that as it may, it’s quite ironic given recent events that some critics of the old paper warned that higher expected inflation might get built into wage and price setting — because that’s what you *want* to happen. It’s a feature, not a bug.

Indeed, the biggest problem with Abenomics — which is the closest thing we’ve seen yet to an attempt to bootstrap an economy out of the liquidity trap by promising higher inflation — is precisely that so far inflation expectations, while they have moved asset markets, haven’t translated into sufficiently higher inflation in the real economy. The idea that inflation promises might go directly into prices is a hope, not a worry.

So why did smart people get so confused by all this (and some still are)? Partly, I think, because liquidity trap economics — depression economics — is deeply counterintuitive to many people, including economists. I tried to make it more intuitive with an extremely simple model, but evidently that didn’t work for everyone.

Beyond that, in the late 1990s, and even now to some extent, we were suffering from the tyranny of the 1970s, with too many people seeing stagflation around every corner. In fact, it’s still happening now, despite the reality that the post-2008 crisis was far worse for the world’s major economies than the stagflation of the 1970s ever was.

Again, I tried to break through that obsession, with some modeling that I’m still very proud of, and with a book that I think looks very good in retrospect. But sometimes you can’t change preconceptions, no matter how clearly and simply you write. Sad!

 

Offerta aggregata ed economia della depressione (per esperti)

Robert Waldmann ritorna sul tema di chi, nell’analisi sulla trappola di liquidità del Giappone negli ultimi anni ’90, aveva inteso le cose in modo sbagliato. Come egli dice, la natura estremamente semplificata del modello che utilizzai può aver portato alcuni lettori – come, sorprendentemente, Brad DeLong –  a supporre che io mi sia dimenticato il lato dell’offerta. Eppure, per la verità, io ancora non capisco la confusione – esplicitamente io presi le mosse con un modello a prezzo flessibile, poi considerai gli effetti di prezzi temporaneamente fissi, in che modo poteva risultare non chiaro?

Sia quel che sia, è abbastanza comico dati gli eventi recenti che alcuni critici del vecchio studio abbiano messo in guardia che più alte aspettative di inflazione potrebbero essere incorporate nella definizione dei salari e dei prezzi – perché è quello che ‘volete’ cha accada. É una peculiarità, non un errore.

In effetti, il problema più grande con la politica economica di Abe – che è la cosa più vicina ad un tentativo di tirar fuori un’economia da una trappola di liquidità attraverso la promessa di una inflazione più elevata – è precisamente che, sino a questo punto, le aspettative di inflazione non si sono tradotte in una inflazione sufficientemente più alta nell’economia reale, mentre hanno messo in movimento i mercati degli asset. L’idea che le promesse di inflazione possano andare direttamente nei prezzi è una speranza, non una preoccupazione.

Dunque, perché persone intelligenti sono rimaste così confuse da tutto questo (e in parte lo sono ancora)? In parte perché, penso, l’economia della trappola di liquidità – l’economia della depressione – è profondamente contro intuitiva per molta gente, compresi gli economisti.  Io cercai di renderla più intuitiva con un modello estremamente semplice, ma evidentemente non ha funzionato con tutti.

Oltre a ciò, negli ultimi anni ’90, e in qualche misura persino oggi, stiamo soffrendo della tirannia degli anni ’70, con troppe persone che si aspettano la stagflazione dietro ogni angolo. Di fatto, ciò sta ancora succedendo oggi, nonostante il dato di fatto che la crisi successiva al 2008 sia stata di gran lunga peggiore  per le principali economie del mondo, di quanto la stagflazione degli anni ’70 sia mai stata.

Ancora, mi sono sforzato di demolire quella ossessione, con qualche costruzione di modelli delle quali vado ancora orgoglioso, e con un libro che in retrospettiva penso appaia molto buono. Ma talvolta non si possono cambiare i preconcetti,  per quanto chiaramente e semplicemente scriviate. Triste!

 

 

 

Globalizzazione e crescita (dal blog di Krugman, 14 marzo 2016)

marzo 16, 2016

 

Mar 14 9:10 am

Globalization and Growth

My column about the ambiguities of trade was, I can report, a surprise to at least some readers, aka my neighbors — well-informed people who told me, “I thought the story was that trade always raises all boats.” But Brad DeLong has a thoughtful response, arguing that the really big benefits of globalization come from technology diffusion, which make it a much more positive force than I suggest.

I used to believe the same thing, and still find myself thinking along those lines now and then. But I’d argue that economists need to be, at the least, upfront about the argument’s limitations.

First, it doesn’t come out of the models. As Brad says, the map is not the territory; but guesses about such things are, well, guesses. There was a time when everyone knew that import-substituting industrialization was the key to economic takeoff, based on loose historical reasoning (America and Germany did it!). Then developing countries tried it en masse, and the results weren’t great.

Furthermore, my sense is that nonstandard free-trade arguments tend to involve, often unintentionally, a kind of bait and switch. Economists love to talk about comparative advantage, which is a beautiful piece of reasoning that runs counter to lay intuition. Somewhere Alan Blinder said that economists would almost all agree on the slogan “Yay free trade.” But the seeming authority of the comparative-advantage case then ends up being carried over, illegitimately, to arguments for trade that have nothing to do with comparative advantage. Yes, there could be positive externalities associated with trade, but there could be positive externalities associated with lots of things, and Ricardian models don’t give us any special reason to think that the trade ones are more important.

So how would you test such arguments? Well, in a way we did carry out an experiment. In the early 1990s there was a widespread orthodoxy that “outward-looking” development policies were much more favorable to growth than “inward-looking” policies. This orthodoxy had a lot to do with the rapid growth of Asian economies, which had followed an export-oriented path rather than the import substitution tried by much of the world in the 50s and 60s. The question, however, was whether you would see dramatic acceleration of growth in other places, such as Latin America, when policy shifted away from inward focus.

And the answer turned out to be, not so much. Look at Mexico, which did a radical trade liberalization in 1985-88, then joined NAFTA. It has seen a transformation of its economy in many ways; it has gone from an economy that didn’t export much besides oil and tourism to a major manufacturing export power. And the effect on development has been … undewhelming.

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World Bank

So Brad could be right; but the evidence is far from conclusive. I would still argue very strongly that it’s crucial to keep markets open for poor countries. But we should be cautious in our claims about the virtues of free trade.

 

Globalizzazione e crescita

Il mio articolo sulle ambiguità del commercio è stato, posso confermare, una sorpresa almeno per alcuni lettori, ad esempio i miei vicini – persone ben informate che mi hanno detto “Pensavo che la storia fosse che il commercio alza sempre tutte le barche”. Ma Brad De Long offre una risposta meditata, e sostiene che i veri grandi benefici della globalizzazione provengono dalla diffusione della tecnologia, che la rende una forza molto più positiva di quanto non suggerito da me.

Ero solito pensare la stessa cosa, e ancora di quando in quando mi ritrovo a ragionare negli stessi termini. Come dice Brad, la mappa non è il territorio; ma le congetture su tali cose sono solo congetture. C’è stato un tempo nel quale tutti sapevano che l’industrializzazione in sostituzione delle importazioni erano la chiave per il decollo economico, basandosi su approssimativi ragionamenti storici (così è stato anche in America ed in Germania!). Poi i paesi in via di sviluppo hanno cercato di farlo in massa, e i risultati non furono granché.

Inoltre, la mia sensazione è che gli argomenti non convenzionali per il libero commercio tendono a riguardare, spesso in modo non intenzionale, una sorta di tattica di adescamento. Gli economisti amano parlare del vantaggio comparativo, che è un bel ragionamento che va contro l’intuito degli inesperti. In qualche occasione Alan Blinder disse che quasi tutti gli economisti sarebbero d’accordo con lo slogan “Evviva il libero commercio”. Ma la apparente autorità dell’argomento del vantaggio comparativo poi finisce con l’essere, illegittimamente, trasferita su argomenti a favore del commercio che non hanno niente a che fare con il vantaggio comparativo. É vero, ci possono essere esternalità positive associate con il commercio, ma ci potrebbero essere esternalità positive associate con una quantità di cose, e i modelli ricardiani non ci danno alcuna ragione per considerare quelle commerciali più importanti.

Come mettere alla prova, dunque, tali argomenti? Ebbene, in un modo portammo a termine un esperimento. Nei primi anni ’90 c’era una diffusa ortodossia secondo la quale politiche di sviluppo “rivolte all’esterno” erano molto più favorevoli alla crescita di politiche “rivolte all’interno”. Questa ortodossia dipendeva molto dalla rapida crescita delle economie asiatiche, che aveva seguito un indirizzo orientato alle esportazioni piuttosto che quello della sostituzione delle importazioni provato in gran parte del mondo negli anni ’50 e ’60. Tuttavia, la domanda era se si sarebbe assistito ad una spettacolare accelerazione della crescita in altri posti, come in America Latina, quando la politica si fosse spostata dalla concentrazione verso l’interno.

E la risposta si scoprì che era: non molto. Si osservi il Messico, che operò una radicale liberalizzazione del commercio nel periodo 1985-88, per poi aderire al NAFTA. Esso ha conosciuto in molti modi una trasformazione della sua economia; è passato da una economia che non si basava molto sulle esportazioni oltre al petrolio ed al turismo ad un importanze potenza di esportazione manifatturiera. E l’effetto sullo sviluppo è stato …. deludente.

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World Bank [1]

Dunque, Brad potrebbe aver ragione; ma le prove sono lontane dall’essere conclusive. Sosterrei ancora con forza che per i paesi poveri è cruciale tenere i mercati aperti. Ma dovremmo essere cauti nei nostri argomenti sulle virtù del libero commercio.

 

 

 

[1] Ovvero: l’apertura del Messico, misurata per il peso delle esportazioni sul PIL, è stata notevole, passando da circa l’8% a circa il 32% (scala di sinistra); mentre l’evoluzione del PIL procapite in percentuale su quello degli Stati Uniti (valutato sulla scala a destra), ha visto una diminuzione dal dato di partenza di circa il 36%, al dato di circa il 34% del 2012.

 

 

 

Mettere alla fame l’istruzione pubblica (11 marzo 2016)

marzo 15, 2016

 

Mar 11 12:13 pm

Starving Public Education

While most of us are focused on presidential politics — with good reason, to be sure — much of the work of government, for good and for ill, is done at the state and local level. In most cases, these days, that means Republican politicians are calling the shots; but there are some big states where Democrats still hold sway, and it’s really important for progressive values that these Democrats set a positive example about what good government can do.

Which brings me to Governor Cuomo’s sudden proposal, seemingly out the blue, to cut half a billion dollars in state funding for CUNY and shift the burden to the city.

Full disclosure: I am now a CUNY employee. But that’s not the reason I think this would be a terrible idea. The point is, instead, that CUNY as an institution is doing such obvious good, especially in an era of growing inequality and hardening class lines, that it’s hard to understand why anyone who isn’t the hardest of hard-line conservatives would want to undermine it.

CUNY has long been a powerful engine of social mobility; my father, the son of penniless immigrants, went to Brooklyn College, which gave him opportunities he could never have found otherwise. And it’s still playing that role. If you look at the student body today, you see a portrait of the American dream in action: hundreds of thousands of students, roughly 40 percent of whom are their family’s first generation in college, come from households with income less than $20,000, or both, all getting an affordable education that leaves them far less burdened by debt than all too many of their contemporaries.

We need more of this kind of thing — much more — not savage budget cuts that are driven by no fiscal imperative I can see.

Don’t do this, Mr. Governor.

 

Mettere alla fame l’istruzione pubblica

Mentre la maggioranza di noi sono concentrati sulla politica presidenziale – con buona ragione, è indubbio – gran parte della attività di governo, nel bene e nel male, viene svolta al livello degli Stati e locale. Di questi tempi, in gran parte dei casi questo significa che i politici repubblicani stanno guidando le danze; ma ci sono alcuni grandi Stati dove ancora dominano i democratici, ed è davvero importante per i valori progressisti che questi democratici forniscano un esempio positivo di quello che un buon Governo può realizzare.

La qualcosa mi porta all’improvvisa proposta del Governatore Cuomo di tagliare, in modo apparentemente inaspettato, mezzo miliardo di dollari di finanziamento statale alla CUNY [1] e di spostare il peso sulla città.

Lo rivelo senza esitazione: io attualmente sono un impiegato della CUNY. Ma quella non è la ragione per la quale penso che si tratterebbe di una pessima idea. Piuttosto, il punto è che CUNY è una istituzione che sta facendo cose così evidentemente positive, specialmente in un’epoca di ineguaglianza crescente e di rafforzamento degli indirizzi classisti, che è difficile capire perché chiunque non sia il più duro dei conservatori radicali possa volerla mettere in difficoltà.

CUNY è stata per lungo tempo un motore potente di mobilità sociale; mio padre, figlio di genitori poveri in canna, andò al Brooklyn College, che gli dette opportunità che non avrebbe mai trovato altrimenti. Ed essa sta ancora giocando quel ruolo. Se guardate al corpo studentesco di questi tempi, vedete il ritratto del sogno americano in azione: centinaia di migliaia di studenti, all’incirca il 40 per cento dei quali sono la prima generazione che frequenta l’Università nelle loro famiglie o provengono da famiglie con un reddito inferiore ai 20.000 dollari, oppure entrambe le cose, stanno tutti ricevendo una educazione sostenibile, che li lascia molto meno gravati dai debiti che non gli anche troppi loro coetanei.

Abbiamo bisogno di più cose di questo genere – molte di più – e non di selvaggi tagli ai bilanci che non sono guidati da alcun evidente imperativo finanziario.

Non lo faccia, signor Governatore.

 

[1] L’Università della Città di New York.

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I fondamentali, i sondaggi e le primarie (10 marzo 2016)

marzo 15, 2016

 

Mar 10 3:24 pm

Fundamentals, Polls, and the Primary

The huge polling miss in Michigan was a cautionary tale: for all its excellence, FiveThirtyEight is only as good as the polls, which at least this time were way, way off. It’s too soon to dismiss them, but not too soon to explore other approaches, which is what Alan Abramowitz has just done. Using data for the Dem contests so far, he estimates a simple relationship based on just two factors — nonwhite share of the population, and north versus south — that accounts for the results quite well — and Michigan is not an outlier.

If this model is right — and bear in mind that until Michigan polls were doing pretty well, so it may be a special case — next Tuesday won’t go as well for Clinton as the polls predict, with Sanders quite possibly winning three states. It’s important to remember, however, that Democratic delegates are allocated more or less proportionately, so that we would still be looking at a substantial Clinton gain in delegates. My back of the envelope says that she would widen her lead by 80-100 if Alan’s model calls it right.

What about later? There aren’t many more Southern states. On the other hand, after Tuesday almost half the pledged delegates will have been chosen, and to close the gap Sanders would have to win big in what remains. The back of my envelope says that he would need to win the rest of the primaries by something like a 14-16 point margin, which seems unlikely. So even with this model, Clinton remains a strong favorite.

But this could go on for a long, long time. And people who say that it’s good for the Democratic party might want to look at the Sanders Twitter feed, which is, if you ask me, getting pretty ugly in a way the Clinton feed hasn’t.

We’ll know a lot more after next Tuesday.

 

I fondamentali, i sondaggi e le primarie

Il grande fallimento nei sondaggi in Michigan è stato un episodio ammonitore: con tutta la sua eccellenza, FiveThirtyEight riesce soltanto ad eguagliare i sondaggi, che almeno questa volta ci sono andati lontani. É troppo presto per rigettarli, ma non è troppo presto per esplorare altri approcci, quale quello che Alan Abramowitz ha appena realizzato. Utilizzando i dati per le competizioni dei democratici sino a questo punto, egli stima una semplice relazione tra solo due fattori – la quota dei non bianchi nella popolazione e il rapporto tra Nord e Sud – che spiega abbastanza bene i risultati – e il Michigan non fa eccezione.

Se questo modello è giusto – e tenete conto che sino al Michigan i sondaggi avevano funzionato abbastanza bene, e che dunque esso può essere un caso particolare – il prossimo martedì per la Clinton non andrebbe così bene come avevano previsto i sondaggi, con Sanders che abbastanza probabilmente vincerebbe in tre Stati. É importante ricordare, tuttavia, che i delegati democratici sono distribuiti in modo più o meno proporzionale, cosicché saremmo ancora in presenza di una vantaggio sostanziale della Clinton nei delegati. Il mio calcolo approssimativo dice che ella amplierebbe il suo vantaggio di 80-100 delegati, se il modello di Alan dice il giusto.

Cosa accadrebbe successivamente? Non ci sono molti altri Stati meridionali. D’altra parte, dopo martedì quasi la metà dei delegati ammessi sarà stata scelta, e per colmare la differenza Sanders dovrebbe vincere alla grande in quello che resta. Il mio calcolo approssimativo dice che egli avrebbe bisogno di vincere le restanti primarie con un margine di qualcosa come 14-16 punti, il che sembra improbabile. Dunque anche con questo modello, la Clinton resta di gran lunga la favorita.

Ma questo potrebbe andare avanti per un tempo assai lungo. E le persone che sostengono che questa sia una cosa buona per il Partito Democratico, dovrebbero dare un’occhiata ai modi nei quali Sanders interviene su Twitter, che, se volete la mia opinione, sta diventando abbastanza sgradevole, diversamente da quello della Clinton.

Ne sapremo di più dopo il prossimo martedì.

 

 

 

É il momento del protezionismo? (dal blog di Krugman 9 marzo 2016)

marzo 10, 2016

 

A Protectionist Moment?

March 9, 2016 4:32 pm

Busy with real life, but yes, I know what happened in the primaries yesterday. Triumph for Trump, and big upset for Sanders — although it’s still very hard to see how he can catch Clinton. Anyway, a few thoughts, not about the horserace but about some deeper currents.

The Sanders win defied all the polls, and nobody really knows why. But a widespread guess is that his attacks on trade agreements resonated with a broader audience than his attacks on Wall Street; and this message was especially powerful in Michigan, the former auto superpower. And while I hate attempts to claim symmetry between the parties — Trump is trying to become America’s Mussolini, Sanders at worst America’s Michael Foot — Trump has been tilling some of the same ground. So here’s the question: is the backlash against globalization finally getting real political traction?

You do want to be careful about announcing a political moment, given how many such proclamations turn out to be ludicrous. Remember the libertarian moment? The reformocon moment? Still, a protectionist backlash, like an immigration backlash, is one of those things where the puzzle has been how long it was in coming. And maybe the time is now.

The truth is that if Sanders were to make it to the White House, he would find it very hard to do anything much about globalization — not because it’s technically or economically impossible, but because the moment he looked into actually tearing up existing trade agreements the diplomatic, foreign-policy costs would be overwhelmingly obvious. In this, as in many other things, Sanders currently benefits from the luxury of irresponsibility: he’s never been anywhere close to the levers of power, so he could take principled-sounding but arguably feckless stances in a way that Clinton couldn’t and can’t.

But it’s also true that much of the elite defense of globalization is basically dishonest: false claims of inevitability, scare tactics (protectionism causes depressions!), vastly exaggerated claims for the benefits of trade liberalization and the costs of protection, hand-waving away the large distributional effects that are what standard models actually predict. I hope, by the way, that I haven’t done any of that; I think I’ve always been clear that the gains from globalization aren’t all that (here’s a back-of-the-envelope on the gains from hyperglobalization — only part of which can be attributed to policy — that is less than 5 percent of world GDP over a generation); and I think I’ve never assumed away the income distribution effects.

Furthermore, as Mark Kleiman sagely observes, the conventional case for trade liberalization relies on the assertion that the government could redistribute income to ensure that everyone wins — but we now have an ideology utterly opposed to such redistribution in full control of one party, and with blocking power against anything but a minor move in that direction by the other.

So the elite case for ever-freer trade is largely a scam, which voters probably sense even if they don’t know exactly what form it’s taking.

Ripping up the trade agreements we already have would, again, be a mess, and I would say that Sanders is engaged in a bit of a scam himself in even hinting that he could do such a thing. Trump might actually do it, but only as part of a reign of destruction on many fronts.

But it is fair to say that the case for more trade agreements — including TPP, which hasn’t happened yet — is very, very weak. And if a progressive makes it to the White House, she should devote no political capital whatsoever to such things.

 

É il momento del protezionismo?

Ho il mio daffare con le cose quotidiane, ma sì, so quello che è successo nelle primarie di ieri. Trionfo per Trump, e grande ribaltamento a favore di Sanders – sebbene sia ancora molto difficile vedere come possa raggiungere la Clinton. In ogni modo, qualche riflessione, non sulla competizione serrata ma su qualche più profondo fenomeno in corso.

La vittoria di Sanders sfida tutti i sondaggi, e nessuno per la verità ne conosce i motivi. Ma una impressione generale è che i suoi attacchi sugli accordi commerciali abbiano trovato il favore di un pubblico più ampio dei suoi attacchi su Wall Street; e questo messaggio era particolarmente efficace in Michigan, una volta la superpotenza dell’auto. E mentre io odio i tentativi di sostenere una simmetria tra i Partiti – Trump sta cercando di diventare il Mussolini d’America, nel peggiore dei casi Sanders è il Michael Foot [1] d’America – Trump sta cercando di arare un po’ sullo stesso terreno. Ecco, dunque, la domanda: la reazione contro la globalizzazione sta finalmente ottenendo una qualche presa politica?

Nell’annunciare una fase della politica si deve essere scrupolosi, considerato quanti proclami si sono rivelati ridicoli. Vi ricordate il fenomeno ‘libertariano’ [2]? Vi ricordate il periodo della fortuna dei riformisti conservatori? Eppure, un contraccolpo protezionista, come un contraccolpo sull’immigrazione, è uno dei fenomeni per i quali il mistero è stato semmai il tempo che c’è voluto a entrare in scena. E forse adesso è il suo momento.

La verità è che se Sanders intendesse provarci alla Casa Bianca, troverebbe molto difficile fare qualcosa di rilevante sulla globalizzazione – non perché sia politicamente o economicamente possibile, ma perché nel momento in cui cercasse di liquidare gli accordi commerciali esistenti, i costi diplomatici e di politica estera sarebbero assolutamente evidenti. In questa, come in molto altre cose, Sanders attualmente si giova del lusso della irresponsabilità: egli non è mai stato in alcun modo vicino alle leve del potere, dunque ha potuto assumere posizioni che sembrano di buoni principi, per quanto verosimilmente inconcludenti, in modi nei quali la Clinton non ha potuto e non può fare.

Ma è anche vero che buona parte della difesa dei gruppi dirigenti della globalizzazione è fondamentalmente disonesta: falsi argomenti sulla sua inevitabilità (il protezionismo che provocherebbe le depressioni), tattiche allarmistiche, tesi ampiamente esagerate sui benefici della liberalizzazione del commercio e sui costi della protezione, ammiccando vagamente ad ampi effetti distributivi che in effetti sono quello che i normali modelli prevedono. Per inciso, spero di non aver fatto niente del genere; penso di esser stato sempre chiaro sul fatto che i vantaggi della globalizzazione non sono poi una cosa enorme [3] (ecco un calcolo su due piedi dei vantaggi della iperglobalizzazione – solo una parte dei quali può essere attribuita alla politica – che, nel corso di una generazione, è meno del 5 per cento del PIL mondiale); e penso di non aver mai presupposto effetti sulla distribuzione del reddito.

Inoltre, come Mark Kleiman osserva saggiamente, l’argomento tradizionale a favore della liberalizzazione commerciale si basa sull’assunto che il Governo potrebbe redistribuire il reddito per assicurare che tutti ci guadagnino – ma noi adesso abbiamo una ideologia completamente opposta che controlla pienamente uno dei due Partiti, con un potere di veto nei confronti di ogni iniziativa, se non insignificante, in quella direzione da parte dell’altro Partito.

Dunque, l’argomento delle classi dirigenti per un commercio sempre più libero è un gran parte un imbroglio, la qualcosa gli elettori probabilmente avvertono, anche se non sanno esattamente quale forma sta assumendo.

Stracciare gli accordi commerciali che già abbiamo sarebbe, anch’esso, un disastro, e direi che lo stesso Sanders si è un po’ assunto la responsabilità di un imbroglio, anche solo facendo cenno al fatto che potrebbe realizzare una cosa del genere. Effettivamente Trump potrebbe farlo, ma soltanto come un aspetto di uno scenario di sistema distruttivo su molti fronti.

Ma è giusto dire che gli argomenti per ulteriori accordi commerciali – incluso il Trans Pacific Partnership, che non si è ancora realizzato – sono davvero molto deboli. E se una progressista arrivasse alla Casa Bianca, ella [4] non dovrebbe spendere alcun capitale politico per qualsiasi cosa del genere.

 

[1] Michael Mackintosh Foot (Plymouth, 23 luglio 1913Londra, 3 marzo 2010) è stato un politico, giornalista e scrittore inglese, leader del Partito Laburista dal 1980 al 1983. ll Labour ottenne, alle elezioni generali del 1983 (trionfalmente vinte da Margaret Thatcher), il suo peggior risultato elettorale dalle elezioni generali del 1918. (Wikipedia)

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[2] Una corrente di idee della destra americana (vedi nelle note sulla traduzione il profilo della sua ispiratrice, Ayn Rand). Mi sembra improprio tradurlo con ‘libertario’, che nel linguaggio politico italiano ha tutt’altra storia.

[3] Krugman suggerisce nel testo inglese una connessione con il suo post del 1 ottobre 2013, dal titolo “I guadagni della globalizzazione (per esperti)”, qua tradotto.

[4] Il femminile indica che si tratta precisamente di un invito a Hillary Clinton a prendere le distanze dagli accordi commerciali sui quali si è impegnato Obama; cosa che del resto mi pare la Clinton abbia annunciato.

 

 

 

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