Blog di Krugman

Neil Cavuto e la dinamica della disinformazione (15 gennaio 2016)

 

Jan 15 8:18 am

Neil Cavuto and the Dynamics of Misinformation

Josh Marshall notes that during last night’s debate Neil Cavuto seemed to imply that the financial crisis happened on Obama’s watch without saying anything explicitly false. Indeed. But there’s something else going on here, and it’s part of a larger pattern.

I’ve talked in the past about how negative views of Obamacare get propagated:

It goes like this: a lot of the untrue beliefs people have about Obamacare come not so much from outright false reporting as from selective reporting. Every suggestion of bad news gets highlighted — especially, of course, but not only by Fox, the WSJ, etc.. But when it turns out that the news wasn’t really that bad, these sources just move on. There are claims that millions of people are losing coverage — headlines! When it turns out not to be true — crickets! Some experts claim that premiums will rise by double digits — big news! Actual premium numbers come in and they’re surprisingly low — not mentioned.

Something similar applies to economic and market news. Cavuto spoke about the dip in stocks that took place in the very early days of the Obama presidency — which, not incidentally, led a lot of the usual suspects to declare that his policies had already failed — and about the decline in the past few weeks. Somehow no mention of what happened in between. Here’s the full picture:

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It would be interesting to poll Republicans about what happened to the stock market under Obama; my bet is that many, perhaps a majority, believe that it went down, thanks to this technique of only reporting the bad news.

 

Neil Cavuto e la dinamica della disinformazione

Josh Marshall osserva che durante il dibattito dell’altra sera Neil Cavuto [1] sembrava dare per scontato che la crisi finanziaria fosse avvenuta durante il governo di Obama, come se non fosse letteralmente falso. Proprio così. Ma c’è qualcos’altro che continua ad andare avanti in questo senso, e costituisce una aspetto di uno schema più ampio.

Ho parlato in passato su come vengono diffusi punti di vista negativi sulla riforma sanitaria di Obama:

“Avviene in questo modo: che una quantità di false convinzioni che la gente ha sulla riforma sanitaria di Obama provengono non tanto da un giornalismo apertamente falso, ma da un giornalismo selettivo. Ogni apparente cattiva notizia viene evidenziata – in specie, ma non soltanto, da Fox, dal Wall Street Journal etc. Ma quando si scopre che le notizie non erano realmente così negative, queste fonti semplicemente passano oltre. C’è la pretesa che milioni di persone stiano perdendo la copertura assicurativa – titoloni! Quando si scopre che non era vero – grilli [2]! Alcune esperti sostengono che le polizze saliranno a doppia cifra – grande notizia! Arrivano i dati effettivi sulle polizze e sono sorprendentemente bassi – nessuna menzione.”

Qualcosa di simile si applica alle notizie sull’economia e sui mercati. Caputo parlava del calo delle azioni che avvenne nei primissimi giorni della Presidenza Obama – che, non casualmente, portò molti soliti noti a dichiarare che le sue politiche erano già fallite – e del declino nelle poche settimane recenti. In qualche modo, nessuna menzione di quello che è avvenuto in mezzo. Ecco il quadro complessivo:

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[3]

Sarebbe interessante fare un sondaggio tra i repubblicani su quello che è successo al mercato azionario sotto Obama: scommetto che molti, forse la maggioranza, credono che esso sia sceso, grazie a questa tecnica di riportare solo le cattive notizie.

 

 

 

[1] Un conduttore televisivo di orientamento di destra, che opera su Fox News.

[2][2] Non ho trovato un riferimento a questo uso del termine “grilli”; suppongo che stia per “chiacchiere, parlar d’altro, incongrui rumori”.

[3] La tabella mostra l’andamento del mercato azionari nel periodo della Presidenza di Obama; la freccia rossa mostra il dato sul quale di concentra l’attenzione dei repubblicani (“quello che i repubblicani ricordano”).

 

 

 

Oltraggio (14 gennaio 2016)

gennaio 20, 2016

 

Jan 14 2:02 pm

Outrage

Greg Sargent marvels at the spectacle of Paul Ryan, who is outraged, outraged, at President Obama for devoting part of the State of the Union to a denunciation of politicians who encourage bigotry. In fact, Ryan says that Obama “degraded” the presidency by denouncing bigotry — because that amounts to an intervention in the Republican primary.

So, are are all subjects on which top-tier GOP candidates have expressed reprehensible opinions off limits? Interesting new rule.

Meanwhile, what’s apparently not an outrage is for the Senate Majority leader to insinuate that the president is a traitor. Mitch McConnell:

I don’t want to tie the hands of the next president. The next president may want to actually defeat ISIL.

Said with a little grin, by the way — McConnell was really pleased with himself.

Anyway, the combination of eagerness to bomb everyone in sight and a propensity to whine and throw a tantrum over every perceived slight remains remarkable.

 

Oltraggio

Greg Sargent si meraviglia dello spettacolo di Paul Ryan, che è oltraggiato, niente meno che oltraggiato, perché il Presidente Obama ha dedicato una parte del discorso sullo Stato dell’Unione ad una denuncia degli uomini politici che incoraggiano l’intolleranza. In sostanza, Ryan dice che Obama ha “disonorato” la Presidenza denunciando l’intolleranza – giacché questo corrisponde ad un intervento nelle primarie americane.

Dunque, siamo proprio tutti assoggettati alle censurabili opinioni fuori da ogni limite che i candidati di primo livello del Partito Repubblicano hanno espresso? Interessante nuova regola.

Nel frattempo, quello che in apparenza non è un oltraggio è l’insinuazione da parte del leader della maggioranza del Senato secondo la quale il Presidente è un traditore. Dice Mitch McConnell:

“Io non voglio legarmi le mani al prossimo presidente. Il prossimo Presidente sarà bene che intenda per davvero sconfiggere l’ISIL [1]”.

Il tutto detto, ovviamente, con un gran sorriso – McConnell appariva realmente compiaciuto con se stesso.

In ogni modo, resta rimarchevole la combinazione del fervore di bombardare chiunque a vista e di una propensione al piagnucolio e al fare capricci dinanzi a qualsiasi cosa percepita come una mancanza di rispetto.

 

 

[1] É una denominazione dello Stato Islamico, e sta per Stato Islamico dell’Iraq e del Levante.

 

 

 

Paul Ryan Dada (13 gennaio 2016)

gennaio 20, 2016

 

Jan 13 2:26 pm

Paul Ryan Dada

OK, Paul Ryan is messing with our heads, although “messing” isn’t really the word I want to use.

You see, in a press conference yesterday Ryan denied that President Obama deserves credit for the economy’s growth, declaring that it was the Fed’s policies (which he then, mysteriously, described as “trickle-down economics” — which I thought Republicans favor).

So, the economy has succeeded because the Fed followed the policies that Ryan himself denounced as inflationary measures that would “debase the currency,” not to mention part of a corrupt conspiracy to bail out fiscal policy (remember, John Taylor co-authored that one).

There’s no possible way this makes sense. Even if you give all the credit to the Fed, Obama gets points for keeping people like Ryan off Bernanke’s back. Not to mention all the claims that everything Obama did was “job-killing”; if a bit of easy money is all it takes to avoid the terrible effects of “more regulations, higher taxes, more uncertainty”, then let the regulations rip!

The only way to parse this is to accept that Ryan is engaged in absurdist performance art. Either that or he thinks we’re all androids, and he’s trying to overload our logic circuits.

 

Paul Ryan Dada

Va bene, Paul Ryan ci sta provocando, sebbene “provocare” non è esattamente il termine che dovrei usare.

Vedete, in un conferenza stampa di ieri Ryan ha negato che il Presidente Obama meriti credito per la crescita dell’economia, dichiarando che essa è dipesa dalle politiche della Fed (che in seguito, misteriosamente, egli descrive come “economia della caduta dei benefici verso il basso” [1] – che io pensavo piacesse ai repubblicani).

Dunque, l’economia ha avuto successo perché la Fed ha seguito le politiche che lo stesso Ryan denunciava come misure inflazionistiche che avrebbero “diminuito il valore del dollaro”, per non dire che erano parte di una cospirazione illecita per salvare la politica della finanza pubblica (si ricordi, John Taylor fu coautore di quella posizione).

Questo non può in nessun caso aver senso. Anche se si dà tutto il merito alla Fed, Obama ne esce bene per aver impedito a persone come Ryan di condizionare Bernanke. Per non dire di tutte quelle pretese secondo le quali ogni cosa che faceva Obama era “distruzione di posti di lavoro”; se un po’ di moneta facile è tutto quello che serve per evitare gli effetti di “più regolamenti, tasse più alte e maggiore incertezza”, allora facciamo andare i regolamenti a tutta randa!

L’unico modo per farsi una ragione di tutto questo è prendere atto che Ryan è impegnato in una ‘performance di artista’ dell’assurdo. Che sia così o che egli pensi che siamo tutti androidi, sta cercando di sovraccaricare i nostri circuiti logici.

 

[1] La classica definizione dell’economia della destra reaganiana e post reaganiana; letteralmente “sgocciolamento verso il basso”.

 

 

 

L’economia che cambia la mentalità (dal blog di Krugman, 13 gennaio 2016)

gennaio 18, 2016

 

Mind-Altering Economics

January 13, 2016 1:12 pm

Adam Ozimek has a nice article arguing against the view that economics is just ideology, that

economists and those who read economics are locked into ideologically motivated beliefs—liberals versus conservatives, for example—and just pick whatever empirical evidence supports those pre-conceived positions.

He argues instead that

solid empirical evidence, even of the complicated econometric sort, changes plenty of minds.

I have a few quibbles. Surely some — perhaps all too many — economists are indeed locked into ideologically motivated beliefs. Consider the response of fresh-water macroeconomists to the utter failure of their predictions about inflation; who other than Narayana Kocherlakota has made the slightest concession to the people who got it right? I’m also skeptical about the persuasive power of complicated econometrics; my sense is that mind-changing empirical work almost always involves not much more than simple correlations, usually from natural experiments — that is, even multiple regression turns out, in practice, to be too complicated to persuade.

On the other hand, I would argue that empirical work isn’t the only thing that can change minds: really clear analytical arguments can do it too, by letting economists see things that were in front of their noses but overlooked because they didn’t have a framework.

Personal experiences: my mind was strongly changed by the empirical work on minimum wages that started with Card and Krueger; a summary and further evidence is here. I used to be a very conventional, Econ 101 person on this subject, figuring that the labor market would work like any market with a price floor. But the accumulation of evidence when some states raised minimum wages while neighbors didn’t — a classic natural experiment — made it clear that at least for the US, at current minimums, there is little or not negative effect on employment.

On analytics: I have personally had several experiences of entering a subject with a clear preconception, knowing what had to be true, working up a model that was supposed to confirm my intuition, and finding both that the model said no such thing and that I ended up persuaded that my original intuition was wrong.

This happened in my work on increasing returns and trade, way back when. There was at the time a sort of trade “counter-culture”, rejecting comparative advantage as the sole story and asserting things like the “home market effect”, where countries tended to export things for which they had strong domestic demand. While I took non-comparative advantage trade seriously, I was sure that the home market effect would boil away in my models; instead, it came in clearly, and I ended up asserting that the effect was real and made a lot of sense.

Years later, thinking about Japan in the 1990s, I was quite sure that arguments about the ineffectiveness of monetary policy were all wrong — even at zero interest rates, printing money simply had to be effective. But when I tried to model it I ended up finding that this intuition was wrong; that analysis has stood me in very good stead now that we’re all Japan.

So where’s the ideology here? The minimum wage issue is politically charged, of course, but my conversion reflected evidence, not a move to the left (I’d been writing about inequality long before I changed views on minimum wages.) The trade stuff has no ideological bent I can see. And when I changed views about monetary policy, it was about Japan and had nothing to do with a desire for fiscal expansion in the US.

Again, the point is that the discipline of economics is, or at least can be, real — it can lead you, via evidence and/or analysis, to a different place from where you started. And if you’re an economist and that has never happened to you, you should take a long hard look in the mirror.

 

L’economia che cambia la mentalità

Adam Ozimek ha un bell’articolo nel quale si pronuncia contro il punto di vista secondo il quale l’economia sarebbe solo un’ideologia, per il quale:

“gli economisti e coloro che leggono l’economia sono rinchiusi entro convinzioni motivate ideologicamente – progressisti contro conservatori, ad esempio – e semplicemente scelgono qualsiasi prova empirica che supporti le loro presupposte posizioni”.

Egli invece sostiene che:

“solide prove empiriche, persino del genere della complicata econometria, cambiano una gran quantità di opinioni”.

Ho alcune minime obiezioni. Certamente alcuni economisti – forse anche troppi – sono in effetti rinchiusi entro convinzioni motivate ideologicamente. Si consideri la risposta dei macroeconomisti “dell’acqua dolce” [1] al completo fallimento delle loro previsioni sull’inflazione; chi altri, oltre a Narayana Kocherlakota, hanno fatto la minima concessione alle persone che avevano compreso giustamente? Io sono anche scettico sul potere di persuasione della complicata econometria; la mia sensazione è che i lavori empirici che cambiano le mentalità quasi sempre non riguardano molto di più che semplici correlazioni, di solito derivanti da esperimenti naturali – ovvero, risulta che persino una regressione multipla, in pratica, è troppo complicata per persuadere.

D’altra parte, direi che il lavoro empirico non è l’unica cosa che può cambiare le mentalità: anche argomenti analitici realmente chiari possono farlo, consentendo agli economisti di vedere cose che avevano dinanzi al naso ma erano trascurate perché erano privi di un modello.

Alcune mie esperienze: la mia opinione venne modificata grandemente dal lavoro empirico sui salari minimi che si avviò con Card e Krueger; in questa connessione trovate una sintesi ed ulteriori testimonianze [2]. Su questo tema ero abituato ad essere in individuo molto convenzionale, da libro di testo di economia, immaginando che il mercato del lavoro funzionasse come ogni mercato con un prezzo di base. Ma l’accumularsi di prove quando alcuni Stati elevarono i salari minimi mentre gli altri vicini non lo facevano – un classico esperimento naturale – rese chiaro che almeno per gli Stati Uniti, ai minimi attuali, c’è poco o nessun effetto sull’occupazione.

Sugli aspetti analitici: ho avuto personalmente varie esperienze di affacciarmi ad un tema con un chiaro presentimento, sapendo che doveva esser vero, lavorando su un modello che pensavo confermasse la mia intuizione, per poi scoprire sia che il modello non diceva una cosa del genere che finire col persuadermi che la mia intuizione originaria era sbagliata.

Questo è successo nel mio lavoro sui rendimenti crescenti e sul commercio, quando accadde tempo addietro. A quel tempo c’era una sorta di “contro-cultura” del commercio, che respingeva il vantaggio comparativo come spiegazione esclusiva e sosteneva cose come “l’effetto del mercato interno”, secondo le quali i paesi tendevano ad esportare oggetti per i quali avevano una forte domanda interna. Nel mentre io considerai seriamente il commercio non nelle condizioni del vantaggio comparativo, ero certo che l’effetto del mercato interno sarebbe evaporato nei miei modelli; invece chiaramente c’entrava, ed io finii col sostenere che l’effetto era reale ed aveva molto senso.

Anni dopo, pensando al Giappone degli anni ’90, ero quasi certo che gli argomenti sull’inefficacia della politica monetaria erano tutti sbagliati – anche con i tassi di interesse allo zero, semplicemente lo stampare moneta doveva essere efficace. Ma quando provai a restituirlo in un modello finii con lo scoprire che questa intuizione era sbagliata; quell’analisi mi è stata molto utile adesso che siamo finiti tutti come il Giappone.

Dov’è dunque, in questo caso, l’ideologia? Il tema del salario minimo è politicamente sensibile, come è ovvio, ma la mia conversione rifletteva le prove, non uno spostamento a sinistra (avevo scritto sull’ineguaglianza molto tempo prima che cambiassi opinione sui salari minimi). La faccenda del commercio non ha alcun connotato ideologico che mi riesca di vedere. E quando cambiai opinione sulla politica monetaria, ciò riguardava il Giappone e non aveva niente a che fare con il desiderio di una espansione della finanza pubblica negli Stati Uniti.

Di nuovo, il punto è che l’esercizio dell’economia è, o almeno può essere, una cosa reale – può condurvi, attraverso le prove o l’analisi, ad un punto diverso da quello da cui eravate partiti. E se siete un economista e non vi è mai accaduta una cosa del genere, dovreste guardarvi molto attentamente allo specchio.

 

[1] É il nome della scuola economica conservatrice americana, vedi alle note sulla traduzione.

[2] La connessione è con un studio di Arindrajit Dube, T. William Lester, and Michael Reich del 2010.

 

 

 

Sì, l’ha fatto (dal blog di Krugman, 13 gennaio 2016)

gennaio 18, 2016

 

Jan 13 8:55 am

Yes He Did

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Sentier Research

These days many Americans live in an alternative political reality, in which the simplest factual assertions are met with anger and derision. When I, like many others, noted that job growth since Obamacare went into full effect has been the fastest since the 1990s — which is simply what the BLS data say — I got a barrage of mail from people claiming that I’m crazy, a liar, etc.. Similarly, but on of course a much bigger scale, a lot of what I’m seeing in reactions to the State of the Union amounts to the assertion that only an imbecile or a hack could believe Obama’s talk about the strength of the U.S. economy relative to other advanced countries — when that’s a simple fact.

But that involves grading on a curve, one where the average is dragged down by the awful performance of Europe. What does the economic record look like compared with our own past?

Not great, but not too bad.

Unemployment is, of course, more or less back to pre-crisis levels, but that’s in part due to falling labor force participation. So what’s happening to family incomes? Unfortunately, the Census data on those incomes come with a long lag, but Sentier Research now produces much more timely estimates (using the CPS data), which are shown above. What they say is that after a severe drop, median real household income is also roughly back to pre-crisis levels.

That’s not a great result; once upon a time we expected median income to be markedly higher at each business cycle peak than it was at the preceding peak. But that wasn’t true under Bush, who also only more or less presided over a return to the previous peak on the eve of the Great Recession — and the Bush-era economy only got there thanks to a disastrous housing bubble. (As an aside: median income didn’t rise much under Reagan either.)

So the Obama macroeconomic record isn’t just one of stabilizing the economy after a terrifying crisis; he has also presided over overall income growth that, assuming we don’t have another recession this year, will have been better than his predecessor.

And meanwhile we’ve seen a dramatic reduction in the number of uninsured Americans, so while income has been flat, income security is up substantially.

Of course, none of this will make any dent on the conviction of the usual suspects that everything has been a disaster. But really, Obama has cause for satisfaction though not triumph.

 

Sì, l’ha fatto

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Sentier Research

[1]

In questi giorni molti americani vivono in un realtà politica immaginaria, nella quale i più semplici giudizi su dati di fatto sono vissuti con rabbia e derisione. Quando, assieme a molti altri, ho osservato che la crescita dei posti di lavoro da quando la riforma della sanità di Obama è entrata pienamente in funzione è stata la più veloce a partire dagli anni ’90 – che è semplicemente quello che dicono i dati dell’Ufficio delle Statistiche sul Lavoro – ho ricevuto una raffica di mail da parte di persone che sostengono che sono un pazzo, un mentitore, e così via. In modo simile, ma su una scala ovviamente molto maggiore, molto di quello che sto osservando nelle reazioni al (discorso) sullo Stato dell’Unione si risolve nella affermazione che soltanto un imbecille o un pennivendolo potrebbe credere al discorso di Obama sulla forza dell’economia degli Stati Uniti a confronto con gli altri paesi avanzati – quando si tratta di un semplice fatto.

Ma quel fatto riguarda una valutazione su una curva, nella quale la media è spinta in basso dalla tremenda prestazione dell’Europa. Cosa sarebbe quella prestazione economica a confronto con il nostro passato?

Non sarebbe così negativa, per quanto non eccezionale.

La disoccupazione è, naturalmente, tornata più o meno ai livelli precedenti alla crisi, ma quella è in parte dovuto alla caduta della partecipazione alla forza lavoro. Dunque, cosa sta accadendo al reddito delle famiglie? Sfortunatamente, i dati del Censimento su quei redditi arrivano con molto ritardo, ma Sentier Research adesso produce stime molto più tempestivamente (utilizzando i dati del CPS [2]), che sono mostrate sopra. Quello che esse dicono è che dopo una brusca caduta, anche il reddito mediano reale delle famiglie è grosso modo tornato ai livelli precedenti alla crisi.

Non è un gran risultato; una volta ci aspettavamo che il reddito mediano fosse marcatamente più elevato ad ogni picco di ciclo economico, rispetto a quanto era al picco precedente. Ma ciò non avvenne sotto Bush, il quale anche governò nel corso più o meno di un ritorno al picco precedente nell’epoca della Grande Recessione [3] – e l’economia dell’epoca di Bush ottenne quel risultato soltanto grazie ad una disastrosa bolla immobiliare (per inciso: il reddito mediano non crebbe molto neppure sotto Reagan).

Dunque, l’andamento macroeconomico con Obama non è stato soltanto una stabilizzazione dell’economia dopo una crisi terrificante; egli ha anche governato nel corso di una complessiva crescita del reddito che, assumendo che non avremo un’altra recessione quest’anno, sarà stato migliore di quello del suo predecessore.

E contemporaneamente abbiamo assistito ad una spettacolare riduzione nel numero degli americani non assicurati, dunque mentre il reddito è stato piatto, la sicurezza del reddito è cresciuta sostanzialmente.

Naturalmente, niente di tutto questo sposterà di una virgola la convinzione dei soliti noti che sia stato tutto un disastro. Ma in realtà, Obama ha motivi di soddisfazione, anche se non di trionfo.

 

 

 

[1] La tabella alla quale si fa riferimento nel seguito di questo post mostra l’andamento del tasso di disoccupazione (in grigio) e del reddito mediano delle famiglie (in rosso), in particolare dopo il periodo della Grande Recessione degli anni 2008-2011.

[2] “Current Population Survey” (Sondaggio sulla popolazione Attuale), è un sondaggio mensile statunitense che elabora i dati dell’Ufficio del Censimento degli Stati Uniti per l’Ufficio delle Statistiche sul Lavoro.

[3] Nella tabella, questo si nota osservando i periodo precedente alla Grande Recessione; anch’esso ebbe inizio con un fenomeno recessivo, più breve (la prima barra in grigio) e assai meno intenso, durante il quale la disoccupazione naturalmente crebbe, per ridiscendere soltanto dopo due anni, mentre il reddito mediano delle famiglie scese per alcuni anni e tornò non oltre i livelli precedenti solo verso la fine.

 

 

 

Bullismo a favore delle neurotossine (12 gennaio 2016)

gennaio 18, 2016

 

Jan 12 8:31 am

Bully for Neurotoxins

The Wall Street Journal has a remarkable editorial titled The Carnage in Coal Country, accusing President Obama of destroying jobs through his terrible, horrible, no good regulations on coal: “According to the National Mining Association, 40,000 coal jobs have been lost in the U.S. since 2008.”

That’s a bigger number than the BLS figure, but never mind; you might want to put that in perspective by remembering that the US economy has added 14 million private sector jobs since 2010. You might also want to note that coal has been declining for a long time, of which more in a second.

But what really struck me were two things. First, the editorial sneers that we’re “still waiting for all those new green jobs Mr. Obama has been promising since he arrived in Washington.” Um:

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BLS, Solar Foundation

Yes, that number is from the Solar Foundation, a private group; so is the Journal’s number on mining jobs. And while you might want to quibble with specific numbers, the boom in renewable energy is very real, as are the surging number of jobs in things like solar panel installation. I can’t imagine any calculation under which the number of green jobs added doesn’t exceed the loss in coal mining, which was already a shadow of its former self before Obama took office.

The other striking thing is that the editorial simply takes it as a given that any regulation is bad, including regulations on mercury and coal ash (which is also loaded with mercury and other heavy metals like lead). Let’s see: mercury is a neurotoxin, which can impair intelligence; other heavy metals can cause cancer and poison people in a variety of ways. In what moral or even economic universe is it obviously wrong to limit emissions of neurotoxins?

I know, I know: this article wasn’t intended as any kind of rational argument, it was just an anti-Obama Two Minutes Hate. But still kind of amazing to see in a paper that sometimes pretends to be a cut above Erick Erickson.

 

Bullismo a favore delle neurotossine

Il Wall Street Journal ha un notevole editoriale dal titolo “Carneficina nel paese del carbone”, che accusa il Presidente Obama di distruggere posti di lavoro con i suoi terribili, spaventosi, negativi regolamenti sul carbone: “Secondo la Associazione Nazionale delle Attività Estrattive, dal 2008 sono stati persi 40.000 posti di lavoro negli Stati Uniti”.

Si tratta di un numero più grande di quello fornito dall’Ufficio delle Statistiche sul Lavoro, ma non è importante: potreste desiderare di collocarlo in un certo contesto ricordando che l’economia degli Stati Uniti è cresciuta di 14 milioni di posti di lavoro a partire dal 2010. Potreste anche aver voglia di notare che il carbone sta declinando da lungo tempo, sul quale aspetto vengo tra un attimo.

Ma quello che realmente mi ha impressionato sono state due cose. La prima, l’editoriale afferma con irrisione che “stiamo ancora aspettando per tutti quei nuovi posti di lavoro verdi che il signor Obama ha promesso dal momento in cui è arrivato a Washington”. Ma guarda:

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BLS, Solar Foundation

É vero, quel dato proviene da Solar Foundation, un gruppo privato; nello stesso modo del dato del Journal sui posti di lavoro nel settore estrattivo. E mentre si potrebbe cavillare sui dati specifici, il boom delle energie rinnovabili è del tutto reale, come lo è il numero dei posti di lavoro in crescita in cose come l’installazione dei pannelli solari. Non riesco ad immaginare alcun calcolo con il quale il dato dei posti di lavoro verdi aumentati non ecceda le perdite nel settore estrattivo, che erano già un’ombra della loro precedente prestazione prima che Obama entrasse in carica.

L’altra cosa che colpisce è che l’editoriale semplicemente considera un dato il fatto che ogni regolamentazione sia negativa, inclusa la regolamentazione sul mercurio e sulle ceneri del carbone (che peraltro sono cariche di mercurio e di altri metalli pesanti come il piombo). Vediamo: il mercurio è una neurotossina che può danneggiare l’intelligenza; gli altri metalli pesanti possono provocare il cancro e avvelenare le persone in vari modi. In quale morale o anche in quale contesto economico è ovviamente sbagliato limitare le emissioni di neurotossine?

Lo so, lo so: l’intenzione di quell’articolo non era quella di avanzare un qualche argomento razionale, erano solo Due Minuti di Odio anti-Obama. Ma resta una cosa sorprendente leggerlo in un giornale che talvolta pretende di essere una spanna sopra Erick Erickson [1].

 

[1] Un blogger della destra americana particolarmente rozzo.

 

 

 

Economisti e ineguaglianza (dal blog di Krugman, 8 gennaio 2016)

gennaio 14, 2016

 

Jan 8 11:19 am

Economists and Inequality

I’m a few days late on this characteristically lucid Justin Fox column on why it took so long for economists to focus on income inequality. But as one of the economists who did write about inequality — especially the rise of the one percent — pretty early, I think Fox has missed one important aspect: it’s a hard issue to model.

Let me back up a bit. There are, broadly speaking, two kinds of income distribution analysis you might want to conduct. One involves the factor distribution of income — capital versus labor, and highly educated versus less educated labor. Economists never lost sight of that issue, which is a classic concern — it’s actually a major theme in David Ricardo, and can be modeled in terms of good old marginal productivity theory. In my original home field, trade, debates about the effects of trade on the education premium were a major concern all through the 1990s.

The other involves the personal distribution of income and wealth. Why are investment bankers paid so much? Why did the gap between CEOs and the average worker widen so much after 1980?

And here’s the thing: we really don’t know how to model personal income distribution — at best we have some semi-plausible ad hoc stories. Part of why Piketty made such a big splash was that he offered a sketch of a model of wealth inequality that tied it into broader macro numbers — r-g and all that — which gave all of us something systematic to talk about. But he himself concedes that the big rise in inequality so far has come from a surge in the right tail of earnings, which may have had something to do with norms, but in any case isn’t well explained by any model we have right now.

It’s worth noting that we’re not just talking about a problem of Anglo-Saxon neoclassical types. Nobody has a good handle on personal distribution. Marx is all about factor distribution — his book is titled Capital, not The One Percent — and there’s nothing there that helps make sense of the past 30 years.

But, you may say, shouldn’t you study important issues even if you don’t have neat models? Well, yes, but ability to say something interesting does affect research topics, and that’s even justified up to a point. Remember Raymond Chandler:

Other things being equal, which they never are, a more powerful theme will provoke a more powerful performance. Yet some very dull books have been written about God, and some very fine ones about how to make a living and stay fairly honest.

True, at this point, economists are doing much more on personal income distribution; mainly it’s empirical, part of the data revolution in the field. And that’s a good thing. But they have a better excuse than you might think for not doing more of this earlier.

 

Economisti e ineguaglianza

Sono alcuni giorni in ritardo con questo tipicamente lucido articolo di Justin Fox sul perché ci sia voluto tanto tempo perché gli economisti si concentrassero sull’ineguaglianza dei redditi. Ma come uno degli economisti che effettivamente hanno scritto abbastanza per tempo sull’ineguaglianza – particolarmente sulla crescita del reddito dell’1 per cento dei più ricchi – penso che a Fox sfugga un aspetto importante: è difficile ricondurre quel tema ad un modello.

Consentitemi qualche passo indietro. Generalmente parlando, ci sono due tipi di analisi di distribuzione del reddito che si potrebbero effettuare. Uno riguarda il fattore della distribuzione del reddito – il capitale nei confronti del lavoro e la forza lavoro con elevata istruzione nei confronti di quella con minore istruzione. Gli economisti non hanno mai perso di visa questo tema, che costituisce un interesse classico – è un tema effettivamente importante in David Ricardo e può essere modellato nei termini della buona vecchia teoria della produttività marginale. Nella originale disciplina della mia specializzazione, il commercio, i dibattiti sugli effetti dello scambio sui vantaggi connessi con l’istruzione furono una importante preoccupazione per tutti gli anni ’90.

L’altro riguarda la distribuzione personale del reddito e della ricchezza. Perché i dirigenti delle banche di investimento sono pagati così tanto? Perchè, dopo il 1980, la differenza tra gli amministratori delegati e la media dei lavoratori si è talmente allargata?

E qua è il punto: noi davvero non sappiamo come ridurre ad un modello la distribuzione personale del reddito – al massimo possiamo addurre qualche quasi plausibile spiegazione ad hoc. Parte della ragione per la quale Picketty ha ottenuto così grande attenzione è stata che egli ha offerto un abbozzo di un modello di ineguaglianza nella ricchezza che la collegava ai più generali dati macroeconomici – “r-g” e tutto il resto [1] – il che ha dato a tutti noi qualcosa di sistematico di cui parlare. Ma egli stesso ammette che il grande aumento dell’ineguaglianza sino ad oggi è dipesa da un crescita della ‘coda destra’ [2] dei profitti, il che può aver avuto a che fare con le norme, ma che in ogni caso non è ben spiegato da alcun modello attualmente in nostro possesso.

É degno di nota che non stiamo parlando soltanto di un problema della cultura neoclassica anglo sassone. Nessuno padroneggia agevolmente i temi della distribuzione personale. Marx si occupa interamente del fattore della distribuzione – il titolo del suo libro è Il Capitale, non L’uno per cento – e non c’è niente che aiuti a dare una senso agli ultimi trenta anni.

Potreste però dire: non dovreste studiare temi importanti anche se non avete modelli precisi? Ebbene, sì, ma la capacità di dire qualcosa di interessante in effetti influenza i temi della ricerca, e fino a un certo punto questo è anche giustificato. Si ricordi Raymond Chandler [3]:

“A parità delle altre condizioni, il che non accade mai, un tema più potente provocherà una prestazione più potente. Tuttavia, sono stati scritti alcuni libri molto noiosi su Dio, ed alcuni molto belli su come guadagnarsi da vivere restando abbastanza onesti”.

É vero, a questo punto gli economisti si stanno dando molto di più da fare sulla distribuzione personale dei redditi; principalmente si tratta di lavori empirici, che sono un aspetto della rivoluzione dei dati nella disciplina. Ed è una buona cosa. Ma essi hanno una scusante per non aver fatto di più in precedenza, migliore di quello che potreste pensare.

 

[1] “r” è il tasso di rendimento degli asset: “g” il tasso di crescita generale dell’economia.

Questi temi sono spiegati, tra l’altro, nel post di Krugman del 14 marzo 2014 qua tradotto, dal titolo “Note su Picketty (per esperti)”.

[2] Per ‘coda destra o sinistra’ dei dati sulla distribuzione dei redditi, si intende la alterazione o inclinazione dei diagrammi relativi, che possono allungarsi nella parte iniziale o in quella finale del diagramma.

[3] Famoso scrittore statunitensi di romanzi gialli e polizieschi.

 

 

 

Irritazioni fatali (5 gennaio 2016)

gennaio 14, 2016

 

Jan 5 4:35 pm

Deadly Snits

Josh Marshall has a great term for what is happening in Oregon: white privilege performance art. We have people engaging in armed insurrection over the vast oppression of being asked to pay a small fee when grazing their animals on public land; surely an important part of the story is the fact that the perpetrators know that they won’t face the consequences that would follow if, you know, some nonwhite group pulled a similar stunt — and they’re be Fox News heroes forever after.

Something that strikes me, however — and which I don’t fully understand — is that when people like this turn to angry rhetoric, with at least a hint of violence, the trigger events tend to be trivial. There are plenty of real grievances that could be motivating working-class whites; but what sets them, or their would-be spokesmen, off are things like the belief that Obama is giving debt relief to Those People (which basically never even happened), or this. Here’s Erick Erickson engaged in what could be considered an incitement to violence:

At what point do the people tell the politicians to go to hell? At what point do they get off the couch, march down to their state legislator’s house, pull him outside, and beat him to a bloody pulp for being an idiot?

So what motivated this rage? Regulations banning phosphate in dishwasher detergent, which Erickson believed was causing his dishes to get inadequately cleaned.

There has to be some significance in the awesome triviality of the things that induce rage. But I don’t understand it.

 

Irritazioni fatali

Josh Marshall conia una grande espressione per quello che sta accadendo in Oregon [1]: performance d’arte [2] del privilegio bianco. Abbiamo individui che si danno all’insurrezione armata per l’immenso abuso di essere tenuti a pagare una piccola multa quando pascolano le loro bestie su terreni pubblici; di sicuro una parte importante della storia è che i suoi autori sanno che non dovranno fronteggiare le conseguenze che, come sapete, seguirebbero se qualche gruppo di persone non bianche se ne uscissero con una trovata del genere – e in seguito diventeranno per sempre eroi di Fox News.

Quello che tuttavia mi stupisce – e che non capisco pienamente – è che quando persone come queste ricorrono alla retorica arrabbiata, con almeno un cenno di violenza, gli eventi che l’innescano tendono ad essere banali. Ci sono una quantità di torti reali che potrebbero motivare la classe lavoratrice bianca; ma quello che sembra metta in moto costoro, o i loro aspiranti portavoce, sono cose come la convinzione che Obama stia offrendo una attenuazione dei debiti a Quella Gente (il che fondamentalmente non è ancora mai successo), oppure questo [3]. Ed ecco Erick Erickson in quello che potrebbe essere considerato un incitamento alla violenza:

“Quand’è che la gente dice ai politici di andare al diavolo? Quand’è che si smuovono dal loro sofà, si mettono in marcia verso l’abitazione del legislatore del loro Stato, lo tirano fuori e lo riducono ad una poltiglia sanguinolenta per la sua idiozia?”

Cosa era all’origine, in fondo, di questa rabbia? Regole che mettono al bando i fosfati nei detergenti della lavastoviglie, a seguito delle quali Erickson credeva che i suoi piatti fossero insufficientemente puliti.

Ci deve essere un qualche senso in questa incredibile trivialità delle cose che inducono alla rabbia. Ma io non lo capisco.

 

[1] In Oregon sembra ci sia stata di recente l’occupazione di un ufficio federale da parte di un gruppo di individui armati che protestavano contro la presenza stessa di tale ufficio o rifugio in un ambiente naturale, nonché forse per unq questione di multe sgradite. Una immagine dell’evento:

Ryan Bundy talks on the phone at the Malheur National Wildlife Refuge near Burns, Ore., Sunday, Jan. 3, 2016. Bundy is one of the protesters occupying the refuge to object to a prison sentence for local ranchers for burning federal land. (AP Photo/Rebecca Boone)

 

[2] La performance art, resa in italiano come performance d’arte o performance d’artista, è un’azione artistica, generalmente presentata ad un pubblico, che spesso investe aspetti di interdisciplinarità. Una performance o azione può essere scritta seguendo un copione o non scritta, casuale o orchestrata attentamente, spontanea o pianificata, con o senza coinvolgimento di pubblico. (Wikipedia)

L’espressione viene usata da Marshall in un breve articolo sul blog TMP.

[3] Nella connessione, un articolo del sito repubblicano Red State, nel quale ci si lamenta per regole più restrittive per i detergenti nelle lavastoviglie.

 

 

 

 

 

 

Riassumendo il trialogo (5 gennaio 2016)

gennaio 14, 2016

 

Jan 5 4:24 pm

Summarizing the Trialogue

Martin Sandbu has a summary of the three-cornered discussion over models and policy; Brad DeLong has excerpts for those without FT Premium access. I have some quibbles, basically amounting to “But I’m right in the end!” But never mind.

One important meta-thing to note, however, is that discussions like this are basically only a possibility thanks to the internet. Getting three well-known policy-oriented economists in the same room with time for a substantive discussion is, as Brad notes, very hard. And to-and-fro discussions in the journals are (a) relatively stiff and formal, (b) v-e-r-y s-l-o-w compared with what just went down.

In effect, the web has recreated in a virtual way the kind of coffee house discussions out of which the modern scientific journals emerged, without the necessity of all of us being in London and drinking incredibly terrible coffee.

 

Riassumendo il trialogo

Martin Sandbu fornisce una sintesi di questo dibattito a tre voci sui modelli e la politica: Brad DeLong offre estratti per coloro che non hanno l’accesso Premium al Financial Times. Io avrei qualche cavillo, in sostanza del tipo “Ma alla fine ho ragione io!”. Ma non è importante.

Un importante aspetto ulteriore da notare, tuttavia, è che dibattiti come questo sono fondamentalmente possibili solo grazie ad internet. É molto difficile, come osserva Brad, mettere insieme tre economisti assai noti nella stessa stanza con un tempo a disposizione per un dibattito sostanziale. E i dibattiti che vanno e vengono sulle riviste sono: (a) relativamente rigidi e formali, (b) molto lenti a confronto di quello che si è appena svolto.

In effetti, il web ha ricreato in modo virtuale il genere di dibattiti da caffetterie dai quali si sono sviluppate le moderne riviste scientifiche, senza la necessità di star tutti a Londra e di sorbirsi caffè incredibilmente cattivi.

 

 

 

Giochi di fiducia (dal blog di Krugman, 4 gennaio 2016)

gennaio 7, 2016

 

Jan 4 7:52 pm

Confidence Games

OK, one more round in this models versus instincts go-round. As Robert Waldmann points out over at Brad’s place, there’s a bit of bait-and-switch going on at this point; my Mundell-Fleming claim — that countries in a liquidity trap borrowing in their own currencies shouldn’t fear Greek-style confidence crises — is being transmuted into the claim that confidence never matters, and the Blanchard result that is being cited has little bearing on that assertion.

Maybe it will help to make this specific. In the original memo on stimulus sent to Obama by his economic advisers we find this caution:

“An excessive recovery package could spook matkets or the pubblic and be counterproductive. Given where the public discussion is moving and given the “flight to treasuries” present in markets at this point, we do not believe this should deter escalation well above $600 billions – a view shared by senior Federal Reserve officials. It does speak to the importance of accompanying recovery actions with strong measures to reinforce mediun term fiscal credibility.” 

So, was it reasonable to worry about an excessive package spooking markets, and was it essential to combine stimulus with measures to produce “medium term fiscal credibility”?

My answer was and is no – that such concerns didn’t reflect a level of insight deeper than the models, but rather a gut feeling insufficiently disciplined by models.

The story as people were telling it then, and still are telling it, is that fears about US fiscal soundness would lead to capital flight; that this would drive up interest rates; and that this would be contractionary. That is, after all, what happened in Greece. But Greece doesn’t have its own currency, and as I pointed out in my Mundell-Fleming lecture, the effect of the Greek confidence crisis was a sharp fall in the monetary base, which wouldn’t happen here.

Instead, I argued, doubts about U.S. finances would be reflected in higher inflation expectations and a weaker dollar – both of which would be expansionary, not contractionary. That was, after all, what happened in the only historical case I was able to find that looked anything like the scenario being described, the attack on the French franc in the 1920s.

So let’s focus on this specific question: Were people worrying about a loss in confidence from excessive stimulus in 2009 right to be so worried? Or were they simply not thinking it through?

 

Giochi di fiducia

Dunque, un altro giro in questa giostra sui modelli a fronte degli istinti. Come mette in evidenza Robert Waldmann sulla posizione di Brad, sta andando avanti un certo equivoco su questo punto; il mio argomento alla conferenza Mundell-Fleming – che i paesi in una trappola di liquidità che prendono prestiti nella loro valuta non dovrebbero temere crisi di fiducia sul genere della Grecia – viene tramutato nella pretesa che la fiducia non sia mai importante, e la conseguenza di Blanchard che viene citata ha poca attinenza con quel giudizio.

Forse può aiutare restituire questo aspetto con precisione. Nella nota originaria inviata ad Obama sulle misure di sostegno dai suoi consiglieri economici, troviamo questo ammonimento:

“Un eccessivo pacchetto di misure per la ripresa potrebbe intimorire i mercati o l’opinione pubblica ed essere controproducente. Considerato dove si sta spostando il dibattito pubblico e considerata la “fuga verso i buoni del tesoro” presente a questo punto sui mercati, noi non crediamo che questo dovrebbe scoraggiare da un incremento assai al di sopra dei 600 miliardi di dollari – un punto di vista condiviso dai dirigenti più esperti della Fed. Esso attesta l’importanza di accompagnare azioni per la ripresa con forti misure per rafforzare la credibilità della finanza pubblica a medio termine”.

Dunque, era ragionevole preoccuparsi su un eccessivo pacchetto che avrebbe intimorito i mercati ed era essenziale combinare azioni di sostegno con misure che producessero “la credibilità nel medio termine della finanza pubblica”?

La mia risposta era ed è negativa – tali preoccupazioni non riflettevano un livello di intuizione più profonda del modelli, ma piuttosto una sensazione emotiva insufficientemente disciplinata dai modelli.

La spiegazione per come in molti la raccontavano allora, e continuano a raccontarla, era che i timori per la salute finanziaria degli Stati Uniti avrebbero condotto ad una fuga di capitali; questo avrebbe spinto in alto i tassi di interesse ed avrebbe avuto effetti di contrazione. Questo fu, dopotutto, quello che avvenne in Grecia. Ma la Grecia non aveva la sua propria valuta, e come misi in evidenza nella mia conferenza al Mundell-Fleming, l’effetto della crisi di fiducia greca fu una brusca caduta nella base monetaria, che in questo caso non avrebbe dovuto aver luogo.

Piuttosto, sostenevo, i dubbi sulle finanze degli Stati Uniti si sarebbero riflessi in aspettative di inflazione più elevate e in un dollaro più debole – entrambi aspetti che sarebbero stati espansivi, non restrittivi. Dopo tutto, quello fu il solo caso storico che fui capace di trovare che aveva qualche somiglianza con lo scenario che veniva descritto, l’attacco al franco francese del 1920.

Concentriamoci dunque su questa domanda specifica: avevano ragione le persone che nel 2009 si preoccupavano di misure di sostegno eccessive ad essere così preoccupate? Oppure semplicemente non ci rifletterono a fondo?

 

 

 

Docenti universitari e politica (dal blog di Krugman, 4 gennaio 2016)

gennaio 7, 2016

 

Jan 4 7:44 am

Academics And Politics

Via Noah Smith, an interesting back-and-forth about the political leanings of professors. Conservatives are outraged at what they see as a sharp leftward movement in the academy:

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But what’s really happening here? Did professors move left, or did the meaning of conservatism in America change in a way that drove scholars away? You can guess what I think. But here’s some evidence. First, using the DW-nominate measure — which uses roll-call votes over time to identify a left-right spectrum, and doesn’t impose any constraint of symmetry between the parties — what we’ve seen over the past generation is a sharp rightward (up in the figure) move by Republicans, with no comparable move by Democrats, especially in the North:

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So self-identifying as a Republican now means associating yourself with a party that has moved sharply to the right since 1995. If you like, being a Republican used to mean supporting a party that nominated George H.W. Bush, but now it means supporting a party where a majority of primary voters support Donald Trump or Ted Cruz. Being a Democrat used to mean supporting a party that nominated Bill Clinton; it now means supporting a party likely to nominate, um, Hillary Clinton. And views of conservatism/liberalism have probably moved with that change in the parties.

Furthermore, if your image is one of colleges being taken over by Marxist literary theorists, you should know that the political leanings of hard scientists are if anything more pronounced than those of academics in general. From Pew:

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Why is this? Well, climate denial and hostility to the theory of evolution are pretty good starting points.

Overall, the evidence looks a lot more consistent with a story that has academics rejecting a conservative party that has moved sharply right than it does with a story in which academics have moved left.

Now, you might argue that academics should reflect the political spectrum in the nation — that we need affirmative action for conservative professors, even in science. But do you really want to go there?

 

Docenti universitari e politica

Per il tramite di Noah Smith, una interessante disputa sugli orientamenti politici dei docenti. I conservatori sono indignati per quello che considerano un brusco spostamento a sinistra negli ambienti accademici:

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Ma cosa sta realmente accadendo, in questo caso? I docenti si sono spostati a sinistra, oppure in America è cambiato il significato del conservatorismo, a tal punto da allontanare gli accademici? Quello che penso io ve lo potete immaginare. Ma ci sono alcune testimonianze. Anzitutto, utilizzando il sistema di misurazione definito “DW-Nominate” – che utilizza i voti di lista nel corso del tempo allo scopo di identificare uno spettro sinistra-destra e non impone alcun condizionamento di simmetria tra i due partiti – quello che osserviamo nel corso della generazione passata è un brusco spostamento verso la destra (in alto nella figura) da parte dei repubblicani [1], con nessun paragonabile spostamento da parte dei democratici, soprattutto a Nord:

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Dunque, al giorno d’oggi identificarsi come repubblicani significa associarsi ad un partito che si è spostato bruscamente a destra a partire dal 1995. Se preferite, essere repubblicani era solito significare il sostegno ad un partito che candidò George W. Bush, ma ora significa sostenere un partito nel quale la maggioranza degli elettori delle primarie sostiene Donald Trump o Ted Cruz. Essere democratici significava sostenere un partito che candidava Bill Clinton; ora significa sostenere un Partito che probabilmente candiderà, ehm, Hillary Clinton.

Inoltre, se il vostro riferimento è uno dei collegi nei quali sono subentrati teorici marxisti della letteratura, dovreste sapere che le tendenze politiche degli scienziati puri sono semmai ancora più pronunciate di quelle degli universitari in generale. Da Pew [2]:

Schieramento e ideologia

 
                                            Pubblico     Scienziati
Affiliazione ad
un Partito                            %                         %
Repubblicano                   23                         6
Democratico                     35                         55
Indipendente                   34                         32
Altro/nessuno                    4                           4
Tendenze degli
Indipendenti
Repubblicani o tendenti    35                       12
verso i repubblicani
Democratici o tendenti
verso i democratici               52                        81
Ideologia
Conservatori                       37                             9
Moderati                                38                           35
Progressisti                          20                           52
Molto progressisti               5                            14

Perché questo? Ebbene, il negazionismo sul clima e l’ostilità verso la teoria dell’evoluzione sono, per cominciare, due aspetti piuttosto utili.

Il generale, le prove sembrano più coerenti con una spiegazione per la quale i docenti universitari stanno rigettando un partito conservatore che si è spostato fortemente a destra, piuttosto che con una spiegazione per la quale i docenti si sono spostati a sinistra.

Ora, si può sostenere che i docenti dovrebbero riflettere lo spettro politico della nazione – che ci sarebbe bisogno di una azione positiva a favore dei docenti conservatori, persino nel settore della scienza. Ma volete davvero arrivare a quel punto?

 

 

[1] Si consideri che la linea verticale (progressisti-conservatori) indica, appunto, il grado di progressismo o di conservatorismo nei vari partiti (o, nel caso dei democratici, anche delle loro articolazioni nel nord e nel sud del paese). Come si legge, la tabella riguarda un andamento più che secolare; ad esempio, i democratici al Sud erano spostati a sinistra sino agli anni ’20, e si spostarono sensibilmente a destra a partire dagli anni ’30, sino agli anni ’90. Per i repubblicani, il netto spostamento a destra inizia con la metà degli anni ’70 e diventa molto netto con la metà degli anni ’90.

[2] Un Istituto di ricerche statistiche e sondaggi. (Alcuni passaggi li traduciamo sulla base di una lettura dell’intero articolo relativo al sondaggio, che chiarisce alcuni significati della tabella).

 

 

 

Creare ed utilizzare i modelli (dal blog di Krugman, 2 gennaio 2016)

gennaio 6, 2016

 

Making And Using Models

January 2, 2016 10:07 am

Larry Summers, Brad DeLong, and yours truly are having a bit of a three-cornered dialogue about the role of models in policy, set off by Larry’s initial post about why he believes the Fed is making a mistake in raising rates. We’re now in round two – and before I get to the specifics, let me ask: Don’t you wish real life were like this? (Let me pull John Maynard Keynes out from behind this sign.)

I mean, we’re having a serious discussion by people who have thought hard about these topics, and more than that, have a long history of hard thinking about economics. To the extent that the three of us differ, it’s not based on knee-jerk ideology, or simplistic slogans. Oh, and on the immediate question of whether the Fed should raise rates, we’re all agreed that it should not.

Compare this with what mainly happens in economic debate. Oh well.

Anyway, Larry now comes back with an assertion that his case against a rate hike rests largely on supply-side uncertainty, where I think textbook demand-side economics is already enough; and also with a statement that he’s OK in principle with policy judgments that aren’t based on models, and a critique of my Mundell-Fleming lecture arguing that policymakers’ fears that deficits can cause a disastrous loss of confidence don’t make sense. Brad responds by wondering exactly how the policymakers could be right in this case.

And that really gets at my point, which is not that existing models are always the right guide for policy, but that policy preferences should be disciplined by models. If you don’t believe the implications of the standard model in any area, OK; but then give me a model, or at least a sketch of a model, to justify your instincts.

What, after all, are economic models for? They are definitely not Truth. They are, however, a way to make sure that the stories you tell hang together, that they involve some plausible combination of individual behavior and interaction of those plausibly behaving individuals.

Take, for example, the famous open letter to Ben Bernanke demanding that he call off quantitative easing. The signatories declared that “The planned asset purchases risk currency debasement and inflation, and we do not think they will achieve the Fed’s objective of promoting employment.” OK, how is that supposed to work? What model of the inflation process do you have in which an expansion of the Fed’s balance sheet translates into inflation without causing an overheating of the labor market first? I’m not saying that there is no possible story along those lines, but spell it out so we can see how plausible it is.

What I said in my Mundell-Fleming lecture was that simple models don’t seem to have room for the confidence crises policymakers fear – and that I couldn’t find any plausible alternative models to justify those fears. It wasn’t “The model says you’re wrong”; it was “Show me a model”.

The reason I’ve been going on about such things is that since 2008 we’ve repeatedly seen policymakers overrule or ignore the message of basic macro models in favor of instincts that, to the extent they reflect experience at all, reflect experience that comes from very different economic environments. And these instincts have, again and again, proved wrong – while the basic models have done well. The models aren’t sacred, but the discipline of thinking things through in terms of models is really important.

 

Creare ed utilizzare i modelli

É in corso tra Larry Summers, Brad DeLong ed il sottoscritto una specie di dialogo triangolare sul ruolo dei modelli nella politica, avviato da un post iniziale di Larry sui motivi per i quali egli ritiene che la Fed stia facendo un errore nell’alzare i tassi di interesse. Siamo adesso al secondo giro – e prima che passi al merito, fatemi porre questa domanda: non vorreste che la vita reale fosse così? (fatemi tirar fuori John Maynard Keynes da dietro questo pretesto [1]).

Voglio dire, è in corso una discussione seria tra persone che hanno ragionato a fondo su queste tematiche, e oltre a ciò, hanno una lunga storia di pensieri approfonditi sull’economia. Nelle misura in cui i tre hanno opinioni diverse, ciò non dipende da una ideologia impulsiva o da banali slogan. Inoltre, sulla domanda immediata se la Fed dovrebbe elevare i tassi, tutti e tre concordano che non dovrebbe.

Confrontate tutto questo con quello che principalmente avviene nel dibattito economico. Lasciamo perdere.

In ogni modo, Larry adesso ritorna con un giudizio secondo il quale la sua tesi contraria ad un rialzo dei tassi si basa ampiamente su una incertezza dal lato dell’offerta, laddove io penso che l’economia da libro di testo dal lato della domanda sia già sufficiente; ed anche con una affermazione secondo la quale egli sarebbe favorevole in via di principio a giudizi politici che non siano basati su modelli, e con una critica alla mia conferenza in occasione del Mundell-Fleming [2], dove sostenevo che i timori degli operatori pubblici che i deficit possano provocare una disastrosa perdita di fiducia non hanno senso. Brad replica chiedendosi per quale mai ragione gli operatori pubblici dovrebbero in questo caso aver ragione.

E ciò si avvicina realmente alla mia opinione, che non è quella per cui i modelli esistenti siano sempre la guida giusta per la politica, ma che le preferenze della politica dovrebbero essere disciplinate da modelli. Potete non credere nelle implicazioni del modello standard in una qualsiasi area; ma datemi un modello, o almeno uno schizzo di modello, che giustifichi i vostri istinti.

Dopo tutto, a cosa servono i modelli? Chiaramente, essi non sono la verità. Tuttavia, sono un modo per accertare che le storie che raccontate stanno insieme, che esse riguardano una qualche plausibile combinazione di comportamenti individuali e l’interazione di tali plausibili comportamenti individuali.

Si prenda, ad esempio, la famosa lettera aperta a Ben Bernanke che chiedeva che egli annullasse la facilitazione quantitativa. I firmatari dichiaravano che “Gli acquisti programmati di asset rischiano di provocare una perdita di valore del dollaro e l’inflazione, e noi non pensiamo che realizzeranno l’obbiettivo della Fed di promuovere occupazione”. Va bene: come si pensa che tutto questo funzioni? Quale modello di inflazione avete per il quale una espansione degli equilibri patrimoniali della Fed si traduca in inflazione, senza provocare anzitutto un surriscaldamento del mercato del lavoro? Non sto affermando che non esista alcuna possibile spiegazione lungo queste linee, ma ditela in dettaglio, in modo che si possa vedere quanto è plausibile.

Quello che io dicevo nella mia conferenza al Mundell-Fleming era che non sembra esserci spazio per le crisi di fiducia che gli operatori della politica temono – e che non sapevo trovare alcun plausibile modello alternativo che giustificasse quelle paure. La mia posizione non era “Il modello dice che avete torto”; era “Mostratemi un modello”.

La ragione per la quale sto procedendo con ragionamenti del genere è che a partire dal 2008 abbiamo ripetutamente visto gli operatori della politica rigettare o ignorare i modelli macroeconomici di base a favore di istinti che, nella misura in cui riflettono davvero una esperienza, riflettono una esperienza che proviene da contesti economici molto diversi. E questi istinti si sono mostrati, in continuazione, sbagliati – mentre i modelli di base hanno operato correttamente. I modelli non sono sacri, ma la disciplina di ragionare in termini di modelli è davvero importante.

 

 

[1] In connessione appare una scena con Woody Allen che dovrebbe appartenere al film Annie Hall (in italiano, Io e Annie), scena che si conclude con un curioso incontro nientemeno che con Marshall McLuhan, che all’epoca (morì nel 1980) era un filosofo canadese, studioso degli effetti prodotti dalla comunicazione sulla società e sugli individui. La cancellazione e la sua sostituzione di una parola (Keynes al posto di McLuhan), in genere, è una tecnica ironica. Sarebbe come dire, suppongo, che Krugman sta chiedendosi se il genere di dibattito tra i tre economisti non indichi il valore civico potenziale del keynesismo nella vita reale, chiamando a testimoniare un grande esperto come McLuhan, preso a prestito da un film di Woody Allen.

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[2] Si tratta della conferenza dei 27 ottobre 2013 dal titolo “Regimi valutari, flussi dei capitali e crisi”. É qua tradotta, nella sezione ‘Saggi ed articoli su riviste’.

 

 

 

Radicalismo rispettabile (30 dicembre 2015)

gennaio 4, 2016

 

Dec 30 2:58 pm

Respectable Radicalism

Brad DeLong, riffing off Larry Summers, asks about what is driving the Fed – and argues that Larry has it wrong, that the Fed’s problem is not an “excessive commitment to existing models.” On the contrary, the Fed seems to hold beliefs that are very much at odds with Macroeconomics 101, whose basic Hicksian models do not at all support the Fed’s eagerness to hike rates.

Indeed. This is a thesis I’ve tried to argue for a number of years; back in 2011 I noted that

[S]upposedly sober, serious people are actually radicals insisting that we can make the economy work in ways that it has never worked in the past … Meanwhile, the irresponsible bearded professors are actually the custodians of traditional wisdom.

I suspect that Larry is talking about hysteresis, which is indeed a departure from standard models. But the case that the risks of hiking too soon and too late are deeply asymmetric comes right out of IS-LM with a zero lower bound – which is basically the framework I used in the paper Brad addresses.

I think I understand how being an official, surrounded by men (and some but not many women) who seem knowledgeable in the ways of the world, can create a conviction that you and your colleagues know more than is in the textbooks. And that may even be true in normal times, when recent experience counts a lot. But in a world of zero-lower-bound macroeconomics, which is a world nobody not Japanese experienced for three generations, theory and history are much more important than market savvy. I would have expected current Fed management to understand that; but apparently not.

 

Radicalismo rispettabile

Brad DeLong, prendendo a prestito Larry Summers, si chiede cosa sta guidando la Fed – e sostiene che Larry ha torto, che il problema della Fed non è un “eccessivo affidamento ai modelli esistenti”. Al contrario, la Fed sembra abbracciare convinzioni che sono molto agli antipodi di un testo di base di macroeconomia, i cui modelli fondamentalmente hicksiani non sono affatto di supporto all’entusiasmo della Fed nell’innalzare i tassi.

Proprio così. Questa è una tesi che ho cercato di sostenere per un certo numero di anni; nel passato 2011 osservavo:

“Persone serie, in apparenza sobrie, sono per la verità come radicali che ripetono che possiamo far funzionare l’economia in modi che non hanno mai funzionato nel passato … Nel frattempo, irresponsabili professori barbuti sono gli effettivi custodi della saggezza tradizionale”.

Io sospetto che Larry stia parlando dell’isteresi, che è in effetti una deviazione dai modelli consueti. Ma l’argomentazione secondo la quale i rischi di alzare troppo presto o troppo tardi i tassi sono profondamente asimmetrici, deriva proprio dal modello IS-LM con un limite inferiore dello zero nei tassi – che è fondamentalmente lo schema che io utilizzavo nel saggio a cui Brad si rivolge [1].

Penso di comprendere come essendo un dirigente, circondato da uomini (e da qualche donna, seppur non molte) che sembrano intendersi delle strade del mondo, possa creare la convinzione di saperne di più, assieme ai propri colleghi, di quello che è scritto nei libri di testo. E ciò può essere persino vero in tempi normali, quando l’esperienza recente conta molto. Ma in un mondo di una macroeconomia al limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse), che è un mondo che nessuno che non sia giapponese ha conosciuto da tre generazioni, la teoria e la storia sono molto più importanti della astuzia del mercato. Mi sarei aspettato che l’attuale dirigenza della Fed lo comprendesse; ma non sembra.

 

[1] Un lavoro di Krugman del 1999 dal titolo “Ragionare sulla trappola di liquidità”.

 

 

 

I Presidenti e l’economia (30 dicembre 2015)

gennaio 4, 2016

 

Dec 30 9:49 am

Presidents and the Economy

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Congressional Budget Office

After I put up my post comparing private-sector jobs under Obama and Bush, a number of people asked me whether I believe that presidents have a large effect on economic performance. My answer is no — but conservatives believe that they do, which is why this kind of comparison is useful.

To expand on my own views, in normal times the economy’s macroeconomic performance mainly depends on monetary policy, which isn’t under White House control. Now, we’ve been in a liquidity trap for the whole Obama administration so far, giving fiscal policy a much more central role — and the initial stimulus did help quite a lot. Since 2010, however, fiscal policy has been paralyzed by GOP obstruction, so we’re back to a situation where the WH has little influence.

The point, however, is that the right has insisted non-stop that Obama was doing terrible things to the economy — that health reform was a job-killer (one of the dozens of House votes repealing Obamacare was called the Repealing the Job-Killing Health Care Law Act.) The tax hike on the top 1 percent in 2013 was also supposed to destroy the economy (much as the same people predicted disaster from the Clinton hike 20 years earlier.) Financial reform was similarly supposed to be hugely destructive. And there was constant invocation of the “Ma, he’s looking at me funny” doctrine — the claim that Obama, by not praising businessmen sufficiently, was scaring away the confidence fairy.

Given all that, the fact that the private sector has added more than twice as many jobs under that job-killing Obama as it did under pre-crisis Bush is important, not because Obama did it, but because it shows that there is no hint that the important things he did do had any negative effect at all, let alone the terrible effects right-wingers predicted. You can, it turns out, tax the rich, regulate the banks, and expand health insurance coverage without punishment by the invisible hand.

I Presidenti e l’economia

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Ufficio del Bilancio del Congresso [1]

Dopo aver pubblicato il mio post che confronta i posti di lavoro nel settore privato sotto Obama e sotto Bush, un certo numero di persone mi ha chiesto se credo che i Presidenti abbiano un ampio effetto sulle prestazioni economiche. Io non lo credo – ma i conservatori credono che lo abbiano, e questa è la ragione per la quale quel genere di confronti è utile.

Per ampliare le mie considerazioni, in tempi normali la prestazione macroeconomica dell’economia dipende principalmente dalla politica monetaria, che non è sotto il controllo della Casa Bianca. Ora, siamo stati sinora in una trappola di liquidità per l’intero periodo della Amministrazione Obama, il che dà alla politica della finanza pubblica un ruolo molto più centrale – e le iniziali misure di sostegno aiutarono parecchio. Tuttavia, a partire dal 2010, la politica della finanza pubblica è stata paralizzata dall’ostruzionismo del Partito Repubblicano, e dunque siam tornati ad una situazione nella quale la Casa Bianca ha avuto modesta influenza.

Ciononostante, il punto è che la destra ha insistito non finire che Obama stava facendo cose terribili all’economia – che la riforma sanitaria era uno sterminio di posti di lavoro (una delle dozzine di votazioni per l’abrogazione delle riforma della assistenza di Obama fu chiamata Abrogazione della Legge di riforma sanitaria che distrugge posti di lavoro). Anche il rialzo delle tasse sull’1 per cento dei più ricchi nel 2013 si suppose distruggesse l’economia (nello stesso modo in cui le stesse persone avevano previsto un disastro dal rialzo da parte di Clinton di 20 anni prima). Analogamente, la riforma del sistema finanziario si riteneva fosse ampiamente distruttiva. E ci fu la costante invocazione del “Mamma, mi prende in giro!” [2] – la pretesa che Obama, non incensando a sufficienza gli impresari, stesse scacciando la fata della fiducia.

Tutto ciò considerato, il fatto che il settore privato sia cresciuto di più del doppio nell’occupazione sotto lo sterminatore di posti di lavoro Obama, rispetto al Bush di prima della crisi, è importante, non perché sia stato merito di Obama, ma perché mostra che non c’è assolutamente alcun segno che le cose importanti che egli ha fatto abbiano avuto alcun effetto negativo, per non dire degli effetti terrificanti che avevano previsto a destra. Si scopre che si può mettere le tasse sui ricchi, regolare le banche ed ampliare la copertura della assicurazione sanitaria senza essere puniti dalla mano invisibile [3].

 

 

[1] La tabella mostra l’andamento delle aliquote fiscali medie dal 1980 al 2013 (queste ultime sono quelle previste). Gli andamenti sono suddivisi per le varie categorie di reddito e, come si può vedere, l’1 per cento dei redditi più ricchi (linea più scura) hanno avuto un incremento delle aliquote con Obama che li ha riportati ai livelli dell’epoca di Clinton. Abbastanza stazionari, pur in lieve crescita, gli altri scaglioni di reddito.

[2] Un’altra invenzione giornalistica di Krugman, che definì in alcuni articoli e post la infantile suscettibilità dei conservatori e delle imprese alle critiche di Obama (che avevano riguardato in particolare la condotta di alcune società del sistema finanziario) alla stregua di un bimbetto che si lamenta con la propria madre.

[3] Ovvero, dal mercato, secondo la definizione di Adam Smith.

 

 

Efficacia della politica, a partire dal 2008 (dal blog di Krugman, 29 dicembre 2015)

gennaio 4, 2016

 

Dec 29 12:37 pm

Policy Effectiveness Since 2008

I came down pretty hard on Tim Taylor yesterday, but with reason. There is simply no reason any reputable economist should, at this late date, be saying things like “We tried huge stimulus, but it didn’t work, so maybe fiscal policy is ineffective.” This just flies in the face of the facts. Three points:

  1. Actual stimulus was only modest-sized and short-lived, as I documented in my previous post.
  2. Since 2010, the distinguishing feature of fiscal policy has been how contractionary it has been compared with previous experience. That’s not just me talking; it has been repeatedly documented by the IMF and others. Here’s the simplest indicator, government employment after the last two recessions:

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That spike in 2010, by the way, is temporary hiring for the Census.

  1. There has been quite a lot of empirical work on fiscal policy since 2009, and the preponderant conclusion of that work is that fiscal multipliers are larger, not smaller, than under pre-crisis conditions. If you want to disagree with that work, OK, but explain why — a tossed-off remark won’t cut it.

The thing is, this matters — a lot. If fiscal policy is as effective as ever, if not more so, then austerity policies did immense damage, and we really need to be ready to do stimulus in the next downturn. But that has no chance of taking place if even economists who should be well-informed just make up a policy history that never happened.

 

Efficacia della politica, a partire dal 2008

Me la sono presa un po’ aspramente con Tim Taylor ieri, ma per un motivo. Semplicemente non c’è nessuna ragione per la quale un economista rispettato dovrebbe, ad un punto così avanzato, dire cose come: “Abbiamo provato con ampie misure di sostegno, ma non ha funzionato; dunque forse la politica della finanza pubblica non è così efficace”. A fronte dei fatti, questa è solo una menzogna. Tre punti:

1 – Le misure di sostegno sono state soltanto di dimensione modesta e di breve durata, come ho documentato nel mio post precedente.

2 – A partire dal 2010, la peculiarità distintiva della politica della finanza pubblica è stata la dimensione del suo effetto contrattivo a confronto con l’esperienza precedente. Non lo dico soltanto io; è stato ripetutamente documentato dal FMI e da altri. Ecco l’indicatore più semplice, l’impiego pubblico dopo le due recessioni:

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Quel picco nel 2010, per inciso, sono le assunzioni temporanee per il Censimento.

3 – Ci sono stati molti lavori empirici sulla politica della finanza pubblica a partire dal 2009, e la conclusione preponderante di quei lavori è che i moltiplicatori della finanza pubblica sono più grandi, non più piccoli, che nelle condizioni precedenti alla crisi. Se non concordate con quei lavori, va bene, ma spiegate i motivi – una osservazione casuale non li elimina.

Il punto è che questo è molto importante. Se la politica della finanza pubblica è efficace come sempre, se non di più, allora le politiche dell’austerità hanno fatto un danno immenso, ed avremmo veramente bisogno di essere pronti ad operare misure di sostegno al prossimo declino. Ma questo non avrà alcuna possibilità di accadere se persino gli economisti che dovrebbero essere bene informati semplicemente si inventano una storia politica che non è mai accaduta.

 

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