Blog di Krugman

Dov’è lo slancio di Rubio? (dal blog di Krugman, 21 dicembre 2015)

 

Dec 21 5:41 pm

Where’s The Rubiomentum?

I’m not a political scientist, man. But I am someone who follows politics, and likes to keep track of conventional wisdom. So I paid a lot of attention when Marco Rubio was elevated to perceived front-runner status for the GOP nomination, basically because on paper he seemed like the natural replacement for the fatally charisma-lacking Jeb!

And maybe it will still happen. But Rubio hasn’t gotten a flood of high-level endorsements, and hasn’t shown any signs of a breakthrough in the polls. I’m not a huge believer in prediction markets, which seem more to reflect conventional wisdom than to offer profound insights, but it’s noteworthy that they are less and less convinced that Rubio is really a front-runner, and now take both Trump and Cruz seriously:

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So what’s going on? Insiders may dislike Rubio because he has a habit of abandoning his allies when the going gets at all tough; or maybe there are personal-life things we don’t hear about. Meanwhile, voters don’t see anything much about Rubio that gives them a positive reason to support him.

The thing is, if Rubiomentum doesn’t surface soon, it’s hard to see why it ever will. And I must say, it will be fun watching supposedly moderate Republicans explain why Trump or Cruz are, in the end, better than Hillary.

 

Dov’è lo slancio di Rubio?

Ragazzi, io non sono uno scienziato della politica. Ma sono qualcuno che segue la politica, e gli piace osservare l’evoluzione del senso comune. Ho dunque prestato molta attenzione quando Marco Rubio è stato innalzato alla condizione di supposto favorito per la nomina del Partito Repubblicano, fondamentalmente perché sulla carta egli sembrava il naturale rimpiazzo per il fatalmente sprovvisto di carisma Jeb.

E forse può ancora accadere. Ma Rubio non ha avuto un’ondata di sostegni di alto livello, e non ha mostrato alcun segno di una svolta nei sondaggi. Io non mi affido granché ai mercati delle previsioni [1], che mi sembrano più riflettere i punti di vista convenzionali che non offrire intuizioni profonde, ma è degno di nota il fatto che essi siano sempre meno convinti che Rubio sia un favorito, e adesso prendono sul serio sia Trump che Cruz:

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Cosa sta succedendo, dunque A coloro che sono addentro alle cose, Rubio può non piacere perché ha l’abitudine di abbandonare i suoi alleati quando il percorso si fa davvero difficile; o forse ci sono aspetti della vita personale dei quali non siamo al corrente. Contemporaneamente, gli elettori non vedono granché in Rubio che dia loro una buona ragione per sostenerlo.

Il punto è che se lo slancio di Rubio non verrà presto a galla, è difficile vedere perché debba mai accadere. E devo dire che sarà divertente osservare i presunti repubblicani moderati spiegare perché Trump o Cruz siano, in fondo, migliori di Hillary.

 

 

 

[1] Il riferimento nel link è ad un gruppo di ricerca (PredictWise) che opera per conto di Microsoft Research di New York City, autore del rilevamento illustrato nella tabella. Ma i mercati delle previsioni sono dei veri e propri mercati virtuali nei quali si vendono e si comprano ‘prodotti’ che sono creati allo scopo di commerciare i possibili risultati degli eventi. In sostanza, se non sbaglio, scommesse che sono indicative delle probabilità degli eventi, ma certamente limitate dalla particolarità dei partecipanti, che si riducono a coloro che possono permettersi di usare denaro in quel modo.

A proposito della tabella, può sembrare strano che Rubio abbia comunque i consensi prevalenti, dato che tutti i sondaggi effettivi dei quali si sente parlare non lo indicano così forte. E dunque può sembrare strano che Krugman scriva di un atteggiamento sempre meno favorevole a quel candidato. La cosa, credo, si spiega proprio considerando la particolarità della fonte dei ‘mercati delle previsioni’. Quella fonte non indica gli orientamenti degli elettori comuni, ma le previsioni degli ‘insiders’ che operano su quei mercati. Gente che suppone di avere conoscenze speciali per fare previsioni, che talora risultano piuttosto difettose. E in effetti, come mostra la tabella che pubblichiamo di seguito, anche in quegli ambienti il favore per Rubio in realtà sta scemando con il tempo:

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Il periodo dei rilevamenti va dal 18 di novembre al 22 di dicembre; la linea rossa in discesa è quella di Rubio; le altre grigie sono – nell’ordine – di Cruz, di Trump, di Jeb Bush e di Chris Christie. Si noti comunque che anche ambienti vicini ai punti di vista più ‘istituzionali’ come quelli dei mercati delle previsioni, ad oggi danno la somma dei candidati più ‘ortodossi’ (Rubio, Bush e Christie) al 50 per cento, esattamente come la somma dei due ‘estremisti’ Cruz e Trump.

 

 

 

Disprezzo in Spagna (dal blog di Krugman, 20 dicembre 2015)

dicembre 22, 2015

 

Dec 20 6:48 pm

Disdain In Spain

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Defenders of austerity have lately taken to citing Spain as a success story; actually, as I and others have argued, Spain’s recent growth reflects the combination of a leveling off of austerity and the slow effects of very painful internal devaluation. David Rosnick and Mark Weisbrot offer further analysis here.

Furthermore, if you look at levels rather than rates of change, the situation is still terrible — as shown in the chart above. And whaddya know, Spanish voters don’t seem enthused about the situation.

I have no clue how this works out; apparently every possible structure for a new government is impossible, except in comparison with all the others. And meanwhile the euro effectively imposes a straitjacket whatever voters say. But anyway, those getting ready to toast the vindication of austerity after all might want to put the cava back in the fridge.

 

Disprezzo in Spagna

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I difensori dell’austerità hanno di recente preso a citare la Spagna come una storia di successo; effettivamente, come io ed altri abbiamo sostenuto, la recente crescita della Spagna riflette la combinazione di una stabilizzazione dell’austerità e del lento effetto di una svalutazione interna molto dolorosa. David Rosnik e Mark Weisbrot offrono in questa connessione una analisi ulteriore.

Inoltre, se guardate ai livelli anziché ai tassi del cambiamento, la situazione è ancora terribile – come mostrato dalla tabella sopra [1]. E per quello che si sa, gli elettori spagnoli non sembrano essere entusiasti della situazione.

Non ho idea di come si risolverà: in apparenza è impossibile ogni composizione di un nuovo Governo, se non in confronto con tutte le altre. E nel frattempo l’euro di fatto impone una camicia di forza a qualsiasi cosa dicano gli elettori. Ma in ogni modo, coloro che dopo tutto sono pronti a fare un brindisi al risarcimento dell’austerità, sarebbe meglio rimettessero il vino spagnolo nel frigorifero.

 

 

 

 

[1] La tabella mostra l’andamento del tasso di disoccupazione spagnolo, che in pratica è passato dall’8/9 per cento di prima della crisi, al 26 per cento del 2013, al 22 per cento di oggi.

 

 

 

Follie della Fed (16 dicembre 2015)

dicembre 22, 2015

 

Dec 16 4:01 pm

Fed Follies

No, I don’t mean the decision to raise rates, although nothing I’ve seen changes my view that it’s a bad idea. I mean the desperate efforts to say something new about today’s move. I understand that there are strong journalistic incentives here, but it really is trying to squeeze blood from a stone.

After all, this move was completely telegraphed in advance; I guess there was some small chance that the Fed would wait, but really very little. Longer-term bond rates barely moved, showing that there was very little news.

And it will be quite some time before we have any evidence about whether the Fed’s judgement of the economy’s trajectory was right. (I think this was an ex ante mistake even if it turns out OK ex post, but it’s still interesting to see how it goes.) We’re talking months if not quarters, and it may take years.

I guess even the fact that the Fed succeeded in communicating its intentions is a kind of news story. But it’s pretty thin gruel.

 

Follie della Fed

No, non intendo la decisione di alzare i tassi, sebbene niente di ciò che ho visto cambia la mia opinione che si sia trattato di una cattiva idea. Mi riferisco agli sforzi disperati di dire qualcosa di nuovo sulla mossa di oggi. Capisco che in questo caso ci siano forti incentivi giornalistici, ma davvero è come cercare di spremere sangue dalle rape.

Dopo tutto, questa mossa era stata completamente telegrafata in anticipo; suppongo che ci fosse una piccola possibilità che la Fed aspettasse, ma davvero molto piccola. I tassi dei bond a più lungo termine si sono appena mossi, mostrando che la novità era minima.

E ci vorrà un po’ di tempo prima che si abbia qualsiasi prova se il giudizio della Fed sulla traiettorie dell’economia era giusto (io penso che sia stato un errore ex-ante anche se si scoprirà giusto ex-post, ma sarà comunque interessante vedere come va). Stiamo parlando di mesi se non di trimestri, e ci potrebbero volere anni.

Penso che persino il fatto che la Fed abbia avuto successo nel comunicare le sue intenzioni sia materia da articolo di cronaca. Ma è praticamente un brodino [1].

 

[1] “Thin-gruel” è la minestra dei poverissimi. Praticamente acqua.

 

 

 

‘Il Donald’ e il fattore della dabbenaggine (15 dicembre 2015)

dicembre 22, 2015

 

Dec 15 4:12 am

The Donald and the Chump Factor

I suppose there are still some people waiting for Trump’s bubble to burst — any day now! But it keeps not happening. And it’s becoming increasingly plausible that he will go all the way. Why?

One answer — probably the most important — is what Greg Sargent has been emphasizing: the majority of Republican voters actually support Trump’s policy positions. After all, he’s just saying outright what mainstream candidates have implied through innuendo; how are voters supposed to know that this isn’t what you do?

I would, however, add a casual observation: at this point Trump has been the front-runner for long enough that it’s very hard to imagine his supporters suddenly losing faith, because it would be too embarrassing.

Bear in mind that embarrassment, and the desire to avoid it, are enormously important sources of motivation. Consider, as a weird, self-aggrandizing, but I think relevant observation, what has happened to supposedly smart guys who predicted soaring interest rates and runaway inflation 6 or 7 years ago. Almost none of them have conceded that they were wrong, and should have done more homework. Instead, many of them — especially the academics — have become ever more obsessed with claiming that they were somehow right, and/or trying to tear down the reputations of those of us who were in fact right. Nobody likes looking like a chump, and most people will go to great lengths to convince themselves that they weren’t.

Now think about someone who has been supporting Trump since the summer. For the Trump bubble to burst, many people like that would have to slap their foreheads and say, “Wow, he’s not a serious person! What was I thinking?”

And very few people ever do that sort of thing. Someone who has spent months supporting Trump despite establishment denunciations — which means something like a third of Republicans — will go to great lengths to avoid conceding that he has been foolish. At this point such people will insist that any negative reports about Trump are the product of hostile mainstream media; Trump’s very durability so far is likely to make him highly resilient looking forward.

To make another analogy, it’s a “When Prophecy Fails” sort of situation.

And this also suggests that even if Trump does finally decline, his support is likely to flow not to an establishment candidate but to another outsider figure. Everyone who knows Ted Cruz well hates him; in this environment that probably enhances his appeal.

The general election will, of course, be quite different. But it’s getting really hard to see how the GOP establishment reasserts control.

 

‘Il Donald’ e il fattore della dabbenaggine

Suppongo che ci sia ancora qualcuno che aspetta che la bolla di Trump scoppi – questione di giorni! Ma continua a non succedere. E sta diventando sempre più plausibile che egli arrivi sino in fondo. Perché?

Una risposta – probabilmente la più importante – è quella sulla quale Greg Sargent sta mettendo l’accento: la maggioranza degli elettori repubblicani effettivamente sostiene le posizioni politiche di Trump. Dopo tutto, egli sta solo dicendo apertamente quello che i candidati convenzionali sottintendono con allusioni; come si può supporre che gli elettori sappiano che non è questo che intendono?

Vorrei aggiungere, tuttavia, una osservazione casuale: a questo punto Trump è stato favorito da tanto tempo che è molto difficile immaginare che i suoi sostenitori smettano di essergli fedeli, perché sarebbe troppo imbarazzante.

Si ricordi che l’imbarazzo, e il desiderio di evitarlo, sono fattori di motivazione enormemente importanti. Si consideri, può sembrare una osservazione bizzarra e in sé esagerata, ma penso sia attinente, quello che è accaduto a individui che si supponevano intelligenti che, 6 o 7 anni orsono, avevano previsto tassi di interesse alle stelle ed una inflazione fuori controllo. Quasi nessuno tra loro ha riconosciuto che avevano avuto torto e che avrebbero dovuto prepararsi meglio. Piuttosto, molti di loro – specialmente gli accademici – si sono ancor più intestarditi nel sostenere che in qualche modo avevano ragione, e nel cercare di demolire la reputazione di quelli che, tra di noi, avevano avuto davvero ragione. A nessuno piace fare la figura di un babbeo, e la maggioranza delle persone fa l’impossibile per convincersi di non esserlo.

Si pensi adesso a qualcuno che abbia sostenuto Trump sin dalla scorsa estate. Nel caso che la bolla di Trump scoppiasse, molte persone del genere si darebbero uno schiaffo in fronte e direbbero: “Per la miseria, non è una persona seria! A cosa stavo pensando?”.

E sono molto poche le persone che fanno quel genere di cose. Chi ha speso mesi nel sostenere Trump nonostante le condanne del gruppo dirigente – ovvero circa un terzo dei repubblicani – faranno l’impossibile per evitare di ammettere di essere stati sciocchi. A questo punto quelle persone insisteranno nel sostenere che ogni resoconto negativo è il prodotto della ostilità dei media convenzionali; guardando avanti, la notevole tenuta di Trump sino ad oggi è probabile lo renda molto forte.

Per fare un’altra analogia, questa è una situazione del genere di “quando crolla una profezia”.

E questo indica anche che se persino Trump avesse alla fine un declino, il suo sostegno è probabile che non si riversi su un candidato del gruppo dirigente ma su un’altra figura fuori dai giochi. Chiunque conosca bene Ted Cruz lo odia; in questo contesto è probabile che tutto ciò accresca la sua attrattività.

Le elezioni generali, ovviamente, saranno un’altra cosa. Ma sta diventando davvero difficile vedere come il gruppo dirigente del Partito Repubblicano possa riprendere il controllo.

Correzioni nell’area euro (dal blog di Krugman, 14 dicembre 2015)

dicembre 15, 2015

 

Dec 14 5:03 am

Adjustment in the Euro Area

The crisis in the euro area — as opposed to the broader global financial crisis — began in late 2009. It’s still far from over. But some of the hard-hit peripheral economies, notably Ireland and Spain, are finally growing again. So how should we think about such recoveries, and how do they fit into an overall picture of the single currency’s performance? I thought it might be useful to walk through how I understand the situation, illustrating the argument with data from Spain, which I think of as the quintessential euro-crisis country — a country that didn’t commit any obvious policy sins, but was whipsawed by huge inflows of capital that suddenly reversed. (All data are from the IMF World Economic Outlook database.)

First, a reminder of just how bad it has been, and how far we still are from full recovery:

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Notice that at this point Finland — which is suffering from an idiosyncratic shock to its export industries rather than a sudden stop in capital inflows — is doing as badly as much of southern Europe. This is a reminder that the euro system creates huge problems for adjustment everywhere, that this isn’t a one-time problem.

But how would we expect countries to respond to adverse shocks? Contrary to what many people seem to believe, Keynesian-type analysis doesn’t say that countries can never recover without devaluation and/or fiscal stimulus; on the contrary, as I pointed out more than three years ago, it predicts a gradual recovery through internal devaluation — that is, a depressed economy will cause low or negative inflation, gradually improving competitiveness against other members of the currency union, and rising net exports should drive growth as long as they’re not offset by ever-tighter austerity.

Spanish experience since the euro was created in 1999 does indeed suggest that a depressed economy holds down inflation:

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And internal devaluation has slowly improved competitiveness (as measured by relative GDP deflators) against the European core:

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What about austerity? Spain did a lot of tightening in the first few years of the euro crisis, but not much since then:

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So we would expect, other things equal, to see Spain experiencing faster growth than the rest of the euro area at this point, as internal devaluation improves competitiveness while fiscal policy is no longer tightening the screws.

The question then is, does this constitute any kind of vindication of either the euro or the austerity regime? As you might guess, I’d say that the answer is a clear no. Yes, adjustment can take place even with a single currency; but it’s a very slow and painful process. Yes, growth can resume once you stop imposing ever-harsher austerity; also, if you repeatedly hit yourself on the head with a baseball bat, you will feel better when you stop.

What is true is that the single currency isn’t totally unworkable. It’s just extremely costly.

And on an intellectual level, basic macroeconomics continues to account pretty well for European developments. There’s nothing in recent experience that should shock a Keynesian or cause deep self-doubt.

 

Correzioni nell’area euro

La crisi nell’area euro – diversamente dalla più generale crisi finanziaria globale – cominciò sulla fine del 2009. Ed è ancora lontana dall’essere superata. Ma alcune delle economie periferiche duramente colpite, in particolare l’Irlanda e la Spagna, stanno finalmente tornando a crescere. Cosa dovremmo dunque pensare di tali riprese, e come dovremmo collocarle in un quadro generale di andamento della moneta unica? Ho pensato che poteva essere utile ripercorrere passo a passo quello che capisco della situazione, illustrando il ragionamento con i dati della Spagna, che penso sia il paese tipico della crisi dell’euro – un paese che non ha commesso alcun peccato politico evidente, ma che è stato esposto all’effetto congiunto di ampi flussi di capitali che all’improvviso si sono rovesciati (tutti i dati provengono dal database World Economic Outlook del FMI).

In primo luogo un promemoria di quanto il fenomeno sia stato negativo, e di quanto si sia ancora lontani da una piena ripresa [1]:

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Si noti che a questo punto la Finlandia – che sta soffrendo di un peculiare shock nella sua industria delle esportazioni, piuttosto che di un blocco improvviso nei flussi dei capitali – sta andando altrettanto male dell’Europa meridionale. Questo ci ricorda che il sistema dell’euro crea vasti problemi di adeguamento dappertutto, che questo non è un problema irripetibile.

Ma come ci dovremmo aspettare che i paesi reagiscano agli shock negativi? Contrariamento a quello che molti sembrano credere, una analisi di tipo keynesiano non dice che i paesi non possano mai riprendersi senza una svalutazione e/o misure di sostegno della finanza pubblica; al contrario, come misi in evidenza più di tre anni orsono, esso prevede una graduale ripresa attraverso la svalutazione interna – ovvero, un’economia depressa provocherà una inflazione bassa o negativa, gradualmente migliorando la competitività rispetto ad altri componenti dell’unione monetaria, e l’aumento delle esportazioni nette dovrebbe guidare una crescita purché esse non siano bilanciate da una austerità sempre più severa.

L’esperienza spagnola a partire da quando venne creato l’euro nel 1999 ci suggerisce proprio che una economia depressa mantiene l’inflazione bassa [2]:

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E la svalutazione interna ha lentamente migliorato la competitività (come misurata dai deflatori del PIL) rispetto al centro Europa [3]:

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Cosa dire dell’austerità? La Spagna operò molta restrizione nei primi pochi anni della crisi dell’euro, ma non molta a partire da allora [4]:

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Dunque, a questo punto ci dovremmo aspettare, a parità delle altre condizioni, che la Spagna stia sperimentando una crescita più veloce, dal momento che la svalutazione interna migliora la competitività mentre la politica della finanza pubblica non sta più stringendo le viti.

La domanda è dunque se questo costituisca una qualche forma di risarcimento sia della scelta dell’auro che del regime di austerità. Come vi potete aspettare, la mia risposta è chiaramente negativa. É vero, la correzione può aver luogo anche con una singola valuta; ma è un processo molto lento e doloroso. É vero, la crescita può riprendere nel momento in cui si cessa di imporre una austerità sempre più dura; anche se vi battete ripetutamente una mazza da baseball in testa, vi sentite meglio quando smettete.

Quello che è vero è che la moneta unica non è completamente impossibile che funzioni. É solo estremamente costosa.

E, da un punto di vista intellettuale, la macroeconomia continua a spiegare abbastanza bene gli sviluppi europei. Non c’è niente nella recente esperienza che dovrebbe impressionare un keynesiano o provocargli profonde crisi di coscienza.

 

 

 

 

[1] La Tabella mostra i mutamenti nel PIL reale procapite dal 2007 al 2015.

[2] La tabella è un grafico a dispersione, ovvero un grafico con due variabili e la disposizione delle due variabili mostra i grado di correlazione tra di esse. Quanto scrivo di seguito è solo in mio personale esercizio di comprensione (dunque potrebbe contenere errori).

In questo caso una variabile (linea verticale) sono i mutamenti nel deflatore del PIL, l’altra (linea orizzontale) mostra il divario nella produzione. Il deflatore del PIL è uno strumento che consente di misurare la crescita del PIL depurandola dall’aumento dei prezzi. Indirettamente, dunque, essa consente anche di comprendere l’evoluzione della competitività, che è positiva tanto più i prezzi crescono meno dei paesi concorrenti. Il divario di produzione, invece, indica la differenza tra il PIL effettivo e quello potenziale, ovvero quello che si avrebbe se l’economia potesse esprimere interamente il suo potenziale produttivo.

I punti all’interno del grafico a dispersione indicano le (doppie) rilevazioni annuali, per ognuna delle variabili suddette. I puntini riguardano dunque la Spagna, e indicano quindici doppie rilevazioni annuali a partire dal 1999. Non sono indicati i singoli anni che ogni puntino rappresenta, mi pare perché quello che interessa nel grafico non è tanto una ricostruzione del processo storico, ma una analisi delle caratteristiche del fenomeno complessivo nel tempo. Tale analisi si evince dalle zone del grafico dove si mostrano i maggiori addensamenti di valori simili o quasi simili. Nel nostro caso, si notano due principali ‘addensamenti’: quando la variabile del deflatore del PIL è vicina allo zero (ovvero, il PIL depurato dall’inflazione non cresce), il divario di produzione è sempre in area negativa (da -2,5 a -6). Quando il deflatore del PIL sale ad un valore tra 3 e 4 (ovvero il PIL cresce in tale percentuale, anche depurato dall’aumento dei prezzi), si nota uno scarso divario o un divario positivo della produzione. Nel caso della Spagna, mi pare che si possa dedurne che la produzione è nel primo caso al di sotto delle sue potenzialità (crisi, dunque); mentre è in equilibrio in cinque degli altri casi, ed è anche troppo positiva in tre altri casi (il che dovrebbe significare che le risorse sono utilizzate al di sopra della loro potenzialità (bolla, dunque).

In conclusione, è dunque probabile che i puntini della parte alta del grafico indichino la situazione dell’economia spagnola nei primi anni dell’euro, dopo il 1999, caratterizzati da forti flussi di capitali franco-tedeschi. Quelli della parte bassa dovrebbero indicare gli anni della crisi.

In conclusione, la tabella mi pare soprattutto interessante proprio perché mostra questa polarizzazione, o addensamento, delle due caratteristiche dell’economia spagnola nell’ultimo quindicennio. E, come Krugman scrive, essa mostra anche che un’economia depressa “mantiene bassa l’inflazione”.

Aggiungo che non capisco il ‘titolo’ della Tabella (forse è un riferimento alla ‘curva di Phillips’).

[3] Il tasso di cambio reale tra Spagna e Germania, ovvero (credo, almeno, che si possa dire così) l’evoluzione del potere di acquisto di un euro spagnolo rispetto ad un euro tedesco, cha appare caratterizzata da un processo di svalutazione dal 1999 al 2008 e da un processo inverso negli anni della crisi.

[4] La tabella mostra l’evoluzione dell’equilibrio strutturale del bilancio spagnolo. L’equilibrio strutturale del bilancio, secondo la definizione dell’OCSE, rappresenta la situazione nella quale entrate e spese sono quello che debbono essere quando la produzione è al suo livello potenziale. In questo caso, l’equilibrio strutturale dovrebbe corrispondere al livello 0. Negli anni immediatamente successivi alla crisi, c’era uno squilibrio negativo pari a quasi l’8% del PIL, per effetto della crisi e delle misure di austerità. Ma, come si vede, a partire dal 2011 la restrizione della finanza pubblica si è gradualmente molto attenuata.

 

 

 

I fatti, come si sa, tendono a …. beh, lo sapete (13 dicembre 2015)

dicembre 15, 2015

 

Dec 13 1:13 pm

The Facts Have A Well-Known, You Know

Somehow there seems to be a pattern in this chart from the editor of PolitiFact, but I can’t quite put my finger on it:

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I fatti, come si sa, tendono a …. beh, lo sapete [1]

In qualche modo sembra esserci uno schema in questa tabella a cura dell’editore di PolitiFact [2], ma non ci metterei completamente la mia mano sopra [3]

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[1] Tendono alla sinistra, alla posizioni progressiste. É un modo di dire frequente di Krugman.

[2] É il nome di una associazione di ricercatori che si sono specializzati nel compiere scrupolose ‘analisi di verità’ sui discorsi, le interviste, gli articoli degli uomini politici; distinguendo quello che è vero, che è in parte vero e in parte no, che è falso, in varie gradazioni.

La tabella deve essere letta in questo modo: ci sono 6 suddivisioni – in parte indicate nella parte superiore e in parte in quella inferiore: il marrone indica il settore delle bugie assolute, consapevolmente ingannevoli (il ritornello “liar, liar, pants on fire” significa “bugiardo, bugiardo, i pantaloni ti vanno a fuoco” ed è un modo di dire in uso tra i bambini per indicare le bugie più gravi); il marrone chiaro indica le affermazioni false, il giallo le affermazioni in gran parte false; il grigio le affermazioni mezze vere e mezze false; il viola chiaro le affermazioni in gran parte vere; il viola scuro quelle vere.

I primi dieci che inclinano verso le falsificazioni sono repubblicani passati o recenti; gli ultimi 6, che inclinano verso una maggiore verità, sono invece tutti democratici, con l’eccezione di Jeb Bush (che ha una prestazione leggermente migliore del ‘peggiore tra i democratici, il Vicepresidente Joe Biden).

[3] “I can’t put my finger on sth” significa ‘non posso stabilire l’identità, non riesco bene a spiegarmelo, c’è qualcosa che mi sfugge’. Penso che si possa anche aggiungere “non ci giurerei”.

 

 

 

Il debito e le spirali demografiche del debito (12 dicembre 2015)

dicembre 13, 2015

 

Dec 12 5:06 am

Debt and Demographic Debt Spirals

I’m in Portugal — sorry, too jet-lagged to post music this week — where I am attending a conference in memory of Jose da Silva Lopes. (No, I’m not doing interviews — I’m spending my spare time with friends.) And I have been doing some homework about the terrible times Portugal has recently suffered. What especially caught my eye was this:

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We used to think that high labor mobility was a good thing for currency unions, because it would allow the union’s economy to adjust to asymmetric shocks — booms in some places, busts in others — by moving workers rather than having to cut wages in the lagging regions. But what about the tax base? If bad times cause one country’s workers to leave in large numbers, who will service its debt and care for its retirees?

Indeed, it’s easy conceptually to see how a country could enter a demographic death spiral. Start with a high level of debt, explicit and implicit. If the work force falls through emigration, servicing this debt will require higher taxes on those who remain, which could lead to more emigration, and so on.

How realistic is this possibility? It obviously depends on having a sufficiently large burden of debt and other mandatory expenditure. It also depends on the elasticity of the working-age population to the tax burden, which in turn will depend both on the underlying economics — is there a strongly downward-sloping demand for labor, or is it highly elastic? — and on things like the willingness of workers to move, which may depend on culture and language.

Portugal, with its long tradition of outmigration, may be more vulnerable than most, but I have no idea whether it’s really in that zone.

One thing you might wonder is whether currency union makes any difference here. Can’t adverse shocks produce emigration and a death spiral regardless of currency regime? Yes, but. With a flexible exchange rate, adverse shocks will cause depreciation and a fall in real wages; under a currency union, they will produce unemployment for an extended period, until the grinding process of internal devaluation restores competitiveness. And everything I’ve seen says that migration is much more sensitive to unemployment than to wage differentials.

Now, it’s true that emigration in an economy with mass unemployment doesn’t immediately reduce the tax base, since the marginal worker wouldn’t have been employed anyway. But it sets things up for longer-run deterioration.

Oh, and Lisbon is really lovely despite all — and seems, justifiably, to be attracting a lot of tourists, which surely helps.

Now off to my friends’ house.

 

Il debito e le spirali demografiche del debito

Sono in Portogallo – spiacente, troppa differenza di fuso orario per mettere il post musicale di questa settimana [1] – dove sto presenziando ad una conferenza in memoria di Jose da Silva Lopes [2] (no, non sto concedendo interviste – passo con amici il mio modesto tempo libero). E sto facendo alcuni miei compiti sui tempi terribili che il Portogallo ha di recente sofferto. Quello che mi è balzato agli occhi è stato questo [3]:

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Eravamo abituati a pensare che una elevata mobilità del lavoro fosse una cosa buona per le unioni valutarie, perché avrebbe permesso all’economia di una unione di correggere gli shock asimmetrici – grandi espansioni in alcuni posti, crolli in altri – spostando i lavoratori anziché tagliare i salari nelle regioni rimaste indietro. Ma cosa accade alla base fiscale? Se il tempi cattivi in un paese inducono i lavoratori in gran numero ad andarsene, che provvederà al debito di quel paese e chi si curerà dei suoi pensionati?

In effetti, è facile osservare come un paese potrebbe entrare in una spirale fatale demografica. Si parta da un alto livello del debito, in termini assoluti e relativi. Se la forza lavoro scende per via dell’emigrazione, assistere questo debito richiederà tasse più elevate per quelli che restano, la qualcosa potrebbe portare ad una emigrazione maggiore, e così via.

Quanto è realistica questa possibilità? Ciò ovviamente dipende dall’avere un ampio peso di debito e di altre spese obbligatorie. Dipende anche dalla elasticità della popolazione in età lavorativa ai carichi fiscali, la qualcosa a sua volta dipende sia dalla sottostante economia – c’è una domanda di lavoro che inclina fortemente verso il basso, oppure è assai elastica? – sia da cose come la disponibilità dei lavoratori a spostarsi, che può essere condizionata dalla cultura e dal linguaggio.

Il Portogallo, con la sua lunga tradizione di emigrazione, potrebbe essere più vulnerabile della maggioranza degli altri, ma non ho idea se essa sia realmente tale in quell’area.

In questo caso, una cosa che ci si potrebbe chiedere è se una unione valutaria faccia qualche differenza. Gli shock negativi, non possono produrre emigrazione e spirali fatali a prescindere dai regimi valutari? Sì, ma … Con un tasso di cambio flessibile, gli shock negativi possono provocare una svalutazione ed una caduta dei salari reali; sotto una unione valutaria essi produrranno disoccupazione per un periodo prolungato, sinché il pesante processo della svalutazione interna non ripristina la competitività. E tutto quello che ho visto dice che l’emigrazione è molto più sensibile alla disoccupazione che ai differenziali di salari.

Ora, è vero che l’emigrazione in una economia con la disoccupazione di massa non riduce immediatamente la base fiscale, dato che il lavoratore marginale non sarebbe stato in ogni modo occupato. Ma essa dispone le cose per un deterioramento nel più lungo periodo.

Inoltre, Lisbona è proprio amabile nonostante tutto – e pare che comprensibilmente stia attraendo molti turisti, il che certamente aiuta.

Ora vado a casa dei miei amici.

 

 

 

 

[1] Ogni venerdì Krugman dedica un breve post ad eventi musicali, con relativi video ed audio.

[2] Un economista portoghese che Krugman conobbe nel 1976, quando faceva pratica in quel paese con altri studenti del MIT. É scomparso nell’aprile di quest’anno.

[3] La Tabella mostra l’andamento della popolazione portoghese in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni) nel periodo dalla fine degli anni ’90 ad oggi.

 

 

 

La banalità del Trumpismo (9 dicembre 2015)

dicembre 13, 2015

 

Dec 9 2:47 pm

The Banality of Trumpism

Brian Beutler has a good piece about the liberal reaction to Trumpism — which is that the phenomenon

was neither unexpected nor the source of any new or profound lesson.

But I think he casts it a bit too narrowly. The basic liberal diagnosis of modern conservatism has long been that it was a plutocratic movement that won elections by appealing to the racism and general anger-at-the-other of whites; there’s nothing too surprising about an election in which the establishment candidates continue to serve plutocracy while the base turns to candidates who drop the euphemisms while going straight to the racism and xenophobia.

Beutler says that

The only people who claim to be befuddled by the Trump phenomenon are officials on knife-edge in the party he leads.

But surely the people most taken by surprise, least able to handle the phenomenon, are the self-proclaimed centrists, the both-sides-do-it crowd, who denounced the plutocrats-and-racists diagnosis as “shrill,” insisting that we are having a real debate with just a few fringe characters on either side. Some of those people are still trying to portray the parties as symmetric: Bernie Sanders calling for single-payer health insurance is just like Trump calling for mass deportations and a ban on Muslims.

That was always a silly position. And as Beutler says, those of us who were clear-headed about conservative politics are almost bored by the repeated revelations of what we already knew.

 

La banalità del Trumpismo

Brian Beutler una un buon articolo sulla reazione liberal al Trumpismo – secondo la quale il fenomeno:

“non è stato inaspettato e neanche ha prodotto una qualche nuova o profonda riflessione”.

Ma io penso che la metta in modo un po’ troppo angusto. La diagnosi di fondo dei progressisti del moderno conservatorismo è stata da tempo che esso è stato un movimento di gente ricchissima che ha vinto le elezioni appellandosi al razzismo e alla generale paura-dell’altro da parte dei bianchi; non c’è niente di sorprendente in una elezione nella quale i candidati del gruppo dirigente si confermano al servizio di una plutocrazia, mentre la base si rivolge a candidati che mettono da parte gli eufemismi e passano direttamente al razzismo ed alla xenofobia.

Beutler dice che:

“Gli unici che sostengono di essere sconcertati dal fenomeno Trump sono i dirigenti che finirebbero sul filo del rasoio in un Partito diretto da lui”.

Ma certamente le persone maggiormente prese in contropiede, gli ultimi capaci di fare i conti con il fenomeno, sono i sedicenti centristi, la gente del ‘sono-tutti-uguali’, che denunciavano le diagnosi dei plutocrati e dei razzisti come “stridenti”, ribadendo che eravamo in presenza, in entrambi gli schieramenti, di un dibattito effettivo condotto soltanto da pochi personaggi con posizioni estreme. Alcune di quelle persone stanno ancora cercando di descrivere i partiti come simmetrici: Bernie Sanders [1] che è a favore di un sistema assicurativo nella sanità con un unico centro di spesa [2] direbbe una cosa simile a quella di Trump quando si pronuncia per le deportazioni di massa e la messa al bando dei Musulmani.

Quella posizione è sempre stata sciocca. E come dice Beutler, coloro tra noi che avevano le idee chiare sulla politica conservatrice sono quasi annoiati dalle ripetute rivelazioni di quello che già sapevamo.

 

 

[1] Democratico, attualmente Senatore per lo Stato del Vermont e in lizza nelle primarie democratiche. Esprime la posizione più di sinistra tra i democratici; per questo vorrebbe anche andare oltre la riforma sanitaria di Obama con un sistema assistenziale interamente pubblicistico.

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[2] Ovvero, avere una sanità pubblica come nella quasi totalità dei paesi avanzati, anziché una sistema basato sul ruolo delle assicurazioni private, che tuttora vige negli Stati Uniti.

 

 

 

Essere compiacenti con i plutocrati (9 dicembre 2015)

dicembre 13, 2015

 

Dec 9 2:29 pm

Pandering to Plutocrats

Jeb Bush is not going to be the Republican nominee, so it’s somewhat unfortunate that the invaluable Tax Policy Center chose to make his proposals the subject of its first analysis of candidate tax plans. Still, it’s useful, if only as an indicator of what passes for responsible, establishment policy in today’s GOP.

Most of the headlines I’ve seen focus on the amazing price tag: $6.8 trillion of unfunded tax cuts in the first decade. Even deep voodoo isn’t enough to turn that number positive; so much for any notion that Republicans cared about fiscal responsibility.

But it’s also important to realize the extent to which this is tax-cutting on the rich, by the rich, for the rich. Here’s the change in after-tax income resulting from the plan:

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Huge benefits for the super-elite. And if you are tempted to say that the middle class gets at least some tax cut, remember that the budget hole would force sharp cuts in spending; and since the federal government is a giant insurance company with an army, this means sharp cuts in programs that benefit ordinary Americans, probably swamping any tax cuts.

So, huge tax cuts that would massively increase debt, with the benefits going to the very highest-income Americans. And this is the “responsible”, moderate candidate.

 

Essere compiacenti con i plutocrati

Jeb Bush non è destinato ad essere il candidato dei repubblicani, dunque è un po’ infelice che l’inestimabile Tax Policy Center abbia scelto le sue proposte come tema della sua prima analisi dei programmi fiscali dei candidati. Tuttavia è utile, anche soltanto come indicatore di ciò che nella politica del gruppo dirigente del Partito Repubblicano odierno viene giudicato responsabile.

La maggioranza dei titoli che ho visto si concentra sul costo incredibile: 6.800 miliardi di dollari di tagli fiscali non coperti nel primo decennio. Anche una radicale economia voodoo non basta a far diventare quel dato positivo: talmente grande risulta per ogni nozione di responsabilità nella finanza pubblica della quale i repubblicani hanno mostrato di preoccuparsi.

Ma è anche importante comprendere in quale misura esso sia un taglio fiscale sui ricchi, per conto dei ricchi e a favore dei ricchi. Ecco il cambiamento nel reddito dopo le tasse che risulterebbe dal programma:

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[1]

Enormi vantaggi per la super élite. E se foste tentati di dire che la classe media otterrebbe almeno qualche sgravio fiscale, ricordate che il buco nel bilancio costringerebbe a bruschi tagli nella spesa pubblica; e dal momento che il Governo federale è come una gigantesca compagnia assicuratrice dotata di un esercito, questo comporterebbe forti tagli ai programmi del quali beneficiano gli americani comuni, probabilmente sommergendo qualsiasi riduzione delle tasse.

Dunque, vasti tagli fiscali che incrementerebbero massicciamente il debito, con i benefici che andrebbero ai redditi davvero più alti degli americani. E questo è il candidato “responsabile” e moderato.

 

 

[1] La Tabella scagliona i redditi di tutti gli americani in cinque quintili (i primi cinque dati sulla sinistra), dato che ogni quintile corrisponde al 20%. Gli ultimi due dati sulla destra sono dunque specificazioni aggiuntive e riguardano gli incrementi di reddito che si produrrebbero rispettivamente per l’1% e lo 0,1% dei più ricchi.

 

 

 

La riforma sanitaria di Obama e gli scarafaggi (8 dicembre 2015)

dicembre 9, 2015

 

Dec 8 10:33 am

Obamacare and the Cockroaches

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National Center for Health Statistics

In policy discourse, zombies and cockroaches are somewhat different.

Zombie ideas are claims that should have been killed by evidence, but just keep shambling along, like the notion that vast numbers of Canadians, frustrated by socialized medicine, come to America in search of treatment. (It was in a paper about that and other myths that I first encountered the zombie terminology.) Cockroaches are claims that disappear for a while when proved ludicrously wrong, but just keep on coming back.

I think of the notion that Obamacare hasn’t really reduced the number of uninsured as a cockroach; it seemed to me that it subsided for a while after the big enrollment numbers of 2014 and the sharp drop in uninsurance rates. And really, how could you continue to make that claim given the results shown above, which are corroborated by independent sources like Gallup?

But the claim is back, as Charles Gaba notes. He says that Avik Roy’s latest is embarrassing, which I guess it is — but how much more embarrassed can the guy who did the totally spurious work on “rate shock” get? I’d say, rather, that the latest is impressive in the way it uses multiple layers of misrepresentation to obscure what you might have thought was too obvious to deny.

Anyway, it’s another example of the proposition that in modern political discourse, in particular on the right, no bad argument is ever abandoned. It’s like inequality, where the current position of the usual suspects is that it hasn’t gone up, it has gone up but it’s a good thing, we can’t do anything about it, and anyway it’s all the fault of liberals. You might think one would have to choose one of these lines, but they don’t.

 

La riforma sanitaria di Obama e gli scarafaggi

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Centro Nazionale per le statistiche sanitarie

Nel dibattito politico, zombi e scarafaggi sono cose alquanto diverse.

Le idee zombi sono pretese che dovrebbero essere state ammazzate dalle prove, ma continuano proprio come se si trascinassero, come l’idea che un gran numero di canadesi, frustrati dalla medicina socializzata, vengano in America in cerca di trattamenti sanitari (fu in un libro su quello e su altri miti che incontrai per la prima volta l’uso del termine zombi). Gli scarafaggi sono pretese che scompaiono per un po’, allorché vengono dimostrate assurdamente sbagliate, eppure continuano precisamente a ripresentarsi.

Io penso che l’idea che la riforma di Obama non abbia realmente ridotto il numero dei non assicurati sia uno scarafaggio; mi pareva che fosse per un po’ scomparsa dopo i grandi numeri sulle iscrizioni e la brusca caduta del tassi dei non assicurati. E, in realtà, come si poteva continuare ad avanzare quell’argomento considerati i risultati mostrati sopra nella tabella [1], che sono corroborati da fonti indipendenti come Gallup?

Ma la pretesa è tornata, come osserva Charles Gaba. Egli afferma che l’ultima presa di posizione di Avik Roy [2] è imbarazzante, cosa che penso anch’io – ma quanto può essere maggiormente imbarazzato il soggetto che arrivò a mettere insieme il lavoro totalmente falso sul cosiddetto “shock del tasso” [3]? Direi piuttosto che l’ultima presa di posizione è impressionante nel senso che utilizza una molteplicità di strati di rappresentazioni ingannevoli, per oscurare quello che si riteneva fosse troppo evidente per essere negato.

In ogni caso, si tratta di un altro esempio del concetto secondo il quale nel dibattito politico odierno, in particolare da parte della destra, nessun cattivo argomento viene mai trascurato. É come per l’ineguaglianza, dove la posizione attuale dei soliti noti è che essa non è cresciuta, è cresciuta ma è una cosa positiva, non possiamo farci niente, e in ogni caso è tutta colpa dei progressisti. Pensereste che avrebbero dovuto scegliere una di queste tesi, ma non lo fanno.

 

 

 

[1] La tabella mostra la percentuale dei non assicurati sul totale dei residenti di tutte le età, dal 1997 al giugno del 2015.

[2] Giornalista americano che si è concentrato di recente sui temi della riforma sanitaria, anche come consigliere di alcuni candidati presidenziali repubblicani (prima Romney, poi Rick Perry e da ultimo Marco Rubio).

[3] Forse il tasso di non assicurati.

 

 

 

Le Persone Molto Serie e il FN (8 dicembre 2015)

dicembre 8, 2015

 

Dec 8 10:09 am

VSPs and the FN

Kevin O’Rourke weighs in on the big showing of Marine Le Pen and friends in the French elections; like me, he argues that it has a lot to do with Europe’s economic failures.

Let me add, however, that it’s not just a matter of times being bad. It’s also important to realize the way in which traditional sources of authority have devalued themselves through repeated policy failure. Europe, much more than the U.S., is run by Very Serious People, who tell the public that it must accept Schengen, austerity, and regulatory harmonization (the eurosausage!), and that these are the right things to do because those who understand how the world works say so. But if things keep going badly, this authority based on the presumption of expertise erodes, and politicians who offer more visceral answers gain support.

Funke, Schularick, and Trebesch recently did some work asking whether the rise of right-wing extremism in the 1930s was paralleled in other times, and found that the answer is yes: “politics takes a hard right turn following financial crises.” Interestingly, this isn’t true for all kinds of crises. Financial crises, they suggest, are different, in part because

financial crises may be perceived as endogenous, ‘inexcusable’ problems resulting from policy failures, moral hazard and favouritism.

I would put it a bit differently: financial crises call into question whether respectable people know what they’re doing, in a way that other kinds of economic shocks often don’t.

The point for Europe is that the doctrinaire policies followed since 2010, and the unwillingness to rethink dogma in the light of experience, aren’t just economically destructive. They undermine the legitimacy of the whole European system, and may in the end lead to political catastrophe.

 

Le Persone Molto Serie e il FN

Kevin O’Rourke interviene sul grande piazzamento di Marine Le Pen e soci nelle elezioni francesi; come me sostiene che ha molto a che fare con gli insuccessi economici dell’Europa.

Consentitemi di aggiungere, tuttavia, che non è solo una faccenda di tempi negativi. É anche importante comprendere il modo in cui le tradizionali risorse dell’autorità si sono svalutate da sole attraverso molteplici fallimenti politici. L’Europa, molto di più degli Stati Uniti, è governata da Persone Molto Serie, che dicono all’opinione pubblica che deve accettare Schengen, l’austerità e l’armonizzazione dei regolamenti (l’eurosalciccia!), e che queste sono le cose giuste da fare perché coloro che capiscono come va il mondo dicono così. Ma se le cose continuano ad andar male, questa autorità basata sulla presunzione della competenza si erode e gli uomini politici che offrono risposte più viscerali guadagnano sostegni.

Funke, Schularick e Trebesch [1], di recente, hanno un po’ lavorato attorno alla domanda se l’estremismo della destra negli anni ’30 avesse qualche parallelo in altre epoche, ed hanno scoperta che la risposta è positiva: “la politica svolta verso la destra dura seguendo le crisi finanziarie”. In modo interessante, questo non è vero per tutti i tipi di crisi. Le crisi finanziarie, suggeriscono, sono diverse, in parte perché:

“le crisi finanziarie possono essere percepite come endogene, problemi ‘ingiustificabili’ che conseguono a fallimenti politici, ad azzardi furbeschi ed a favoritismi”.

La metterei in modo un po’ diverso: le crisi finanziarie chiamano in causa il fatto che le persone rispettabili sappiano quello che stanno facendo, in un modo nel quale altri generi di traumi economici di solito non fanno.

Il problema per l’Europa è che le politiche dottrinarie seguite sin dal 2010, e l’indisponibilità a ripensare i dogmi alla luce dell’esperienza, non sono soltanto economicamente distruttivi. Essi minano la legittimazione dell’intero sistema europeo, e possono alla fine portare alla catastrofe politica.

 

[1] Moritz Schularick e Cristoph Trebesch sono due giovani docenti delle Università di Bonn e di Monaco; Manuel Funke è docente all’Università di Berlino e all’Istituto di studi nordamericani. Il loro intervento, dal titolo “Conseguenze politiche delle crisi finanziarie: andare verso le estreme”, è apparso sul blog VOX.

 

 

 

Il movimento monetario in ‘due passi’, passività- aggressività (dal blog di Krugman, 7 dicembre 2015)

dicembre 8, 2015

 

Dec 7 7:38 am

The Passive-Aggressive Monetary Two-Step

Ted Cruz somewhat surprised Janet Yellen by accusing the Fed of causing the Great Recession by tightening monetary policy in 2008; David Beckworth sort-of-kind-of supports Cruz by arguing that the Fed did in fact “passively” tighten by failing to do enough to offset falling spending.

Uh-oh: it’s starting to look a bit like the Friedman two-step, only this time done at internet speed.

By the Friedman two-step, I mean the process of argument that began with Friedman and Schwartz on the Great Depression, in which they argued that the Fed could have prevented the Depression by aggressively expanding the monetary base to prevent a sharp fall in broader monetary aggregates. This was a defensible argument, although it looks much weaker in the light of more recent developments; as I warned in 1998, in a liquidity trap the central bank loses control of monetary aggregates as well as the real economy; it’s by no means clear that the Fed really could have prevented the Depression. Still, that remains a live argument.

But what happened over time — and Friedman himself was very culpable — was that the claim “the Fed could have prevented the depression” turned into “the Fed caused the depression.” See? Government is the root of all evil! Friedman used this to push his patented agenda of laissez-faire on everything except monetary policy, where under the guise of M2 targeting he was actually calling for a very active Fed.

The thing is that even if that would have worked (which it probably wouldn’t), it was inevitable that others would go the whole way and call for laissez-faire all the way, including monetary policy. I mean, who needs the Fed when everyone knows it caused the Great Depression. Back to the gold standard!

The path from Friedman and Schwartz to goldbuggism took several decades. But things move faster these days.

When Ted Cruz uses the passive-aggressive method to attack the Fed, claiming that it caused the Great Recession because it didn’t do more in 2008, he isn’t using it to push the cause of market monetarism. He is already on record as an ardent supporter of a return to gold. Needless to say, a gold standard would have meant much tighter, not looser, monetary policy since 2008. But Cruz uses the framing of failure to act as acting in the wrong direction to obscure this point.

The question of whether inadequate policy should be viewed as tightening may seem like a fun word game. But you really don’t want to provide, um, passive support to policy ideas that would make things much worse.

 

Il movimento monetario in ‘due passi’, passività- aggressività

Ted Cruz ha un po’ sorpreso Janet Yellen accusando la Fed di aver provocato la Grande Recessione con la restrizione del 2008 della politica monetaria; David Beckworth in qualche modo sostiene Cruz con l’argomento secondo il quale la Fed di fatto operò “passivamente” una stretta non facendo abbastanza per bilanciare la caduta della spesa.

Ma guarda un po’: comincia un po’ ad assomigliare al movimento in due passi di Friedman, soltanto che questa volta viene condotto alla velocità di Internet.

Per i ‘due passi’ di Friedman, intendo il percorso della argomentazione sulla Grande Depressione che cominciò con Friedman e Schwartz, nella quale essi sostennero che la Fed avrebbe potuto impedire la Depressione espandendo aggressivamente la base monetaria per impedire una brusca caduta nei più generali aggregati monetari. Questo era un argomento difendibile, sebbene appaia molto più debole alla luce degli sviluppi più recenti; come avevo messo in guardia nel 1998, in una trappola di liquidità la banca centrale perde il controllo degli aggregati monetari come dell’economia reale; non è in alcun modo chiaro che la Fed avrebbe potuto impedire la Depressione. Eppure, resta un argomento vivo.

Ma quello che accadde col tempo – e lo stesso Friedman ne fu responsabile – fu che l’argomento “la Fed avrebbe potuto impedire la depressione” si trasformò in quello “la Fed provocò la depressione”. Vedete? Il Governo è la radice di tutti i mali! Friedman lo utilizzò per promuovere la sua brevettata agenda del laissez-faire su ogni cosa ad eccezione della politica monetaria, dove nella forma degli obbiettivi di M2 [1] egli in effetti si pronunciava per una Fed molto attiva.

Il punto è che persino se quello avesse funzionato (ed è probabile che non sarebbe successo), era inevitabile che altri avrebbero percorso l’intero tragitto e avrebbero chiesto un laissez-faire completo, inclusa la politica monetaria. Voglio dire, che bisogno c’è della Fed quando tutti sanno che essa ha provocato la Grande Depressione. Si torni al gold-standard!

Occorsero alcuni decenni per passare da Friedman e Schwartz al feticismo aureo. Ma di questi tempi le cose si muovono rapidamente.

Quando Ted Cruz usa la logica della passività-aggressività per attaccare la Fed, sostenendo che essa provocò la Grande Recessione perché non fece di più nel 2008, egli non lo usa per promuovere la causa del monetarismo di mercato. Lui è già agli atti come un ardente sostenitore del ritorno all’oro. Non è il caso di dire che un gold-standard avrebbe comportato a partire dal 2008 una politica monetaria molto più restrittiva, non certo più allentata. Ma Cruz utilizza la cornice dell’incapacità ad agire come una sceneggiata nella direzione sbagliata, per oscurare questo aspetto.

La domanda se una politica inadeguata dovrebbe essere considerata come une restrizione può sembrare un divertente gioco di parole. Ma davvero non si dovrebbe fornire un sostegno, è proprio il caso di dire passivo ad idee politiche che avrebbero reso le cose assai peggiori.

 

[1] Una tipologia di aggregato monetario.

Tutte le banconote e le monete, dette moneta legale, perché per legge devono essere accettate in pagamento, e le riserve obbligatorie delle banche presso la banca centrale costituiscono la cosiddetta base monetaria, anche denominata come M0.

L’aggregato monetario ristretto (M1) comprende le banconote e le monete in circolazione (il circolante) e le attività finanziarie che possono svolgere il ruolo di mezzo di pagamento, ossia i depositi in conto corrente (bancari e postali).

L’aggregato intermedio (M2) comprende M1 e altre attività a liquidità elevata e valore certo in ogni momento futuro, ma la cui conversione in M1 può essere soggetta a qualche restrizione, come la necessità di un preavviso, penalizzazioni o commissioni. Secondo la definizione della Banca Centrale Europea, esse comprendono i depositi con scadenza prestabilita fino a due anni e i depositi rimborsabili con preavviso fino a tre mesi.

L’aggregato ampio (M3) comprende, oltre a M2, alcuni strumenti emessi da varie istituzioni finanziarie monetarie con un alto grado di liquidità e di certezza del prezzo: secondo la Banca Centrale Europea, ne fanno parte le quote o partecipazioni nei fondi comuni monetari, le operazioni pronti contro termine e le obbligazioni bancarie con scadenza fino a due anni. (Treccani)

 

 

 

Quello spettacolo degli anni ‘30 (dal blog di Krugman 7 dicembre 2015)

dicembre 8, 2015

 

Dec 7 7:09 am

That 30s Show

A few years ago de Bromhead, Eichengreen, and O’Rourke looked at the determinants of right-wing extremism in the 1930s. They found that economic factors mattered a lot; specifically,

what mattered was not the current growth of the economy but cumulative growth or, more to the point, the depth of the cumulative recession. One year of contraction was not enough to significantly boost extremism, in other words, but a depression that persisted for years was.

How’s Europe doing on that basis?

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Maddison Project, Europa

And now the National Front has scored a first-place finish in regional elections, and will probably take a couple of regions in the second round. Economics isn’t the only factor; immigration, refugees, and terrorism play into the mix. But Europe’s underperformance is slowly eroding the legitimacy, not just of the European project, but of the open society itself.

 

Quello spettacolo degli anni ‘30

Pochi anni orsono de Bromhead, Eichengreen e O’Rourke osservarono i fattori che determinarono l’estremismo di destra negli anni ’30. Scoprirono che i fattori economici contarono molto: in particolare:

“quello che fu importante non fu la crescita sul momento dell’economia ma la crescita cumulativa o, più precisamente, la profondità della recessione cumulativa. In altre parole, un anno di contrazione non era sufficiente a incoraggiare in modo significativo l’estremismo, ma una depressione che persisteva lo era”.

Su quella base, come sta andando l’Europa?

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Maddison Project, Europa (1)

 

E adesso il Fronte Nazionale ha ottenuto di finire al primo posto nelle elezioni regionali, e probabilmente al secondo turno conquisterà un paio di regioni. L’economia non è il solo fattore; l’immigrazione, i rifugiati e il terrorismo giocano nell’insieme. Ma i risultati negativi dell’Europa stanno lentamente erodendo la legittimazione, non solo del progetto europeo, ma della stessa società aperta.

 

 

(1) La tabella mostra l’andamento del PIL procapite durante la recente-attuale recessione dell’area euro (linea rossa) e l’andamento della Grande Depressione degli anni ’30 nell’Europa Occidentale di allora. Le due linee partono dalle due situazioni precedenti alle crisi, collocate al livello 100.

 

 

 

Disancoraggi (leggermente per esperti) (dal blog di Krugman, 4 dicembre 2015)

dicembre 5, 2015

 

Dec 4 10:05 am

Anchors Away (Slightly Wonkish)

Last week I wrote about what in our macroeconomic models has and hasn’t worked since 2008. As I said, demand-side events have been very much what people using IS-LM would have predicted (and did). But on the supply side, not so much. For one thing, the “accelerationist” doctrine that has dominated economic discussion of inflation and unemployment for 40 years has fallen flat. If inflation had responded to the Great Recession and aftermath the way it did in previous big slumps, we would be deep in deflation by now; we aren’t.

Now, the usual response from model-oriented public officials and research staff at policy institutions is to say that what they work with now is a Phillips curve with “anchored” expectations. The idea is that price- and wage-setters now act as if they expect policymakers to hit their 2 percent target, and don’t change their expectations in the face of recent experience. Operationally, of course, such a curve looks just like the old, pre-NAIRU Phillips curves people estimated in the 1960s. And the truth is that such curves fit pretty well on data since 1990.

But this kind of anchoring argument, I would argue, leaves us with some disturbing questions, both conceptual and practical.

First, on the conceptual side, where does anchoring come from and how far can it be trusted? Is it the consequence of central bank credibility, or is it just the consequence of low inflation: people stop paying much attention to fluctuations in inflation when it’s in the low single digits? Will the anchoring go away if inflation is persistently 1 rather than 2 percent; would it go away if inflation rose to 3 percent?

Second, on the practical side, the anchored-expectations hypothesis tells a very different story about capacity and policy than previous approaches.

Let me illustrate this point with the case of the euro area.

If we use aggregated data for the euro area as a whole, a simple old-fashioned Phillips curve works surprisingly decently:

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In fact, the slope of the curve is quite close to the estimate for the US from Blanchard et al.

What’s worth pointing out, however, is that if we take this result seriously, it implies that the euro area is much more deeply depressed than generally acknowledged, and that the ECB’s attempt to get inflation back up close to 2 percent is a much more daunting challenge, than anyone seems to acknowledge. Euro core inflation is currently about 1 percent; the slope of the Phillips relationship is around 0.25; so getting back to 2 should require a 4 percentage point fall in unemployment. That’s a lot!

How much output growth would this involve? An Okun’s Law type relationship also works pretty well for the euro area as a whole, and gives a coefficient close to the US level:

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So a 4 percentage point decline in unemployment would, if the historical relationship holds, mean 8 percent more in real GDP — that is, this naive calculation puts the euro area output gap at 8 percent, which is huge.

Should we take this seriously? If not, why not?

 

Disancoraggi (leggermente per esperti)

La scorsa settimana scrissi sul tema di quello che nei modelli macroeconomici aveva o non aveva funzionato a partire dal 2008. Come dicevo, gli eventi dal lato della domanda sono stati assai corrispondenti a quello che le persone che utilizzano il modello IS-LM avrebbero previsto (come in effetti fecero). Ma non altrettanto dal lato dell’offerta. Da una parte, la dottrina “accelerazionista” che ha dominato il dibattito economico sull’inflazione e la disoccupazione per 40 anni ha fatto fiasco. Se la inflazione avesse risposto alla Grande Recessione ed alle sue conseguenze nel modo in cui aveva fatto nelle grandi crisi precedenti, saremmo adesso in profonda deflazione; il che non è accaduto.

Ora, la risposta consueta da parte delle autorità pubbliche e dei gruppi di ricerca presso le istituzioni politiche orientati al modello, consiste nel dire che ciò con cui essi oggi lavorano è una curva di Phillips con le aspettative “ancorate”. L’idea è che coloro che determinano i prezzi – ed i salari – adesso agiscono come se si aspettassero il raggiungimento da parte delle autorità pubbliche dell’obbiettivo del 2 per cento, e non modifichino le loro aspettative a fronte di esperienze recenti. Da un punto di vista operativo, naturalmente, tale curva assomiglia alle vecchie curve di Phillips precedenti al NAIRU stimate negli anni ’60 [1]. E la verità è che tali curve si adattano abbastanza bene ai dati a partire dal 1990.

Ma questo genere di argomento basato sull’ancoraggio, direi, ci lascia con alcune fastidiose domande, sia concettuali che pratiche.

La prima, dal punto di vista concettuale: da dove proviene l’ancoraggio e per quanto tempo si può dare ad esso credito? É la conseguenza della credibilità della banca centrale, o è soltanto la conseguenza di una bassa inflazione: le persone cessano di prestare molta attenzione alle fluttuazioni dell’inflazione finché essa resta nei bassi limiti di una sola cifra? Se ne andrà l’ancoraggio, se l’inflazione resta persistentemente all’1 anziché al 2 per cento; se ne andrebbe se l’inflazione crescesse al 3 per cento?

La seconda, dal punto di vista pratico, l’ipotesi delle aspettative ‘ancorate’ ci racconta una storia assai diversa rispetto agli approcci precedenti, a proposito della capacità produttiva e della politica.

Consentitemi di illustrare questo aspetto con il caso dell’area euro.

Se utilizziamo i dati dell’area euro nel loro complesso, una semplice curva di Phillips vecchia maniera funziona in modo sorprendentemente decente:

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Di fatto, l’inclinazione della curva è abbastanza vicina alle stime per gli Stati Uniti di Blanchard ed altri.

Tuttavia, quello che merita di essere sottolineato, e che se assumiamo questo risultato seriamente, esso implica che l’area euro è molto più profondamente depressa di quanto in genere riconosciuto, e che i tentativi della BCE di riportare l’inflazione vicina al 2 per cento sono una sfida molto più temeraria di quanto tutti sembrano ammettere. L’inflazione sostanziale nell’area euro è attualmente attorno all’1 per cento; l’inclinazione della relazione di Phillips [2] è attorno allo 0,25; dunque tornare al 2 per cento dovrebbe richiedere una caduta della disoccupazione di quattro punti percentuali. Il che è tanto!

Quanta crescita di produzione questo comporterebbe? Una relazione del genere di quella della legge di Okun [3] funziona anch’essa abbastanza bene per l’area euro nel suo complesso, e ci fornisce un coefficiente vicino al livello degli Stati Uniti:

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Dunque, quattro punti percentuali di declino della disoccupazione, se la relazione storica regge, comportano un 8 per cento in più di PIL reale – ovvero, questo ingenuo calcolo pone il divario di produzione dell’area euro all’8 per cento, che è un differenziale ampio.

Dovremmo prendere sul serio tutto questo? E se non dobbiamo, perché no?

 

 

 

 

[1] Vedi i termini nelle note della traduzione.

[2] Relazione tra inflazione e disoccupazione.

[3] La Legge di Okun, che prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962) è una legge empirica che associa ad ogni punto aggiuntivo di disoccupazione ciclica (differenza tra tasso di disoccupazione naturale e disoccupazione totale), 2 punti percentuali di gap di produzione.

 

 

 

Le prove del moltiplicatore e la sua negazione (2 dicembre 2015)

dicembre 5, 2015

 

Dec 2 9:59 am

Multiplier Evidence and Multiplier Denial

One of the overwhelming lessons of the post-2008 crisis has been that fiscal multipliers are large when monetary policy can’t offset the effects of spending cuts — which is what basic macroeconomics told us should be true, and is. But it’s a lesson many people don’t want to learn, and there’s very obviously a market for papers that claim to undermine that evidence.

The latest entry is Mohlman and Suyker, claiming that when you look at a longer period the influential Blanchard-Leigh results showing large multipliers don’t hold. Brad DeLong quickly noted that what they actually show is that in 2013-14 and 2014-15 there is very little power in the data, which is by no means the same as showing that the multiplier was small.

But there’s a deeper issue here, which gets to the reason European experience has been so useful for clarifying our understanding of fiscal policy.

The big problem with empirical work on fiscal policy has always been that you rarely get anything resembling a natural experiment. Really big changes in fiscal stance come rarely, and are usually associated with wars, when other things like rationing also tend to happen. And the coincidence of big fiscal shifts with constrained monetary policy is a once-in-three-generations story.

But Europe after 2009 provided something that, while not a perfect natural experiment, was much closer than anything we’re likely to see for a long time. Austerity mania, enforced on countries that had no freedom of maneuver because they were on the euro, led to drastic fiscal tightening in some but not all euro area economies; these big shifts gave us a pretty good view, certainly by historical standards, of what such shifts do.

But this natural sort-of experiment was time-limited. Here’s the euro area cyclically adjusted primary balance over time:

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IMF Fiscal Monitor

The big move toward austerity took place between 2010 and 2013 (with Greece starting earlier). There hasn’t been any consistent move toward either tightening or loosening since then. So of course there’s very little power in estimates from 2013-14 and 2014-15: there wasn’t much going on, so that whatever changes we see in measured structural balances are probably as much measurement error as they are anything real (which also implies that the coefficients are biased downwards.)

So what do we learn from estimates that show big multipliers from 2009 to 2013 but are overwhelmed by noise thereafter? Nothing, except that the researchers aren’t thinking about what was going on.

 

Le prove del moltiplicatore e la sua negazione

Una delle enormi lezioni della crisi successiva al 2008 è stata che i moltiplicatori della finanza pubblica sono ampi quando la politica monetaria non può bilanciare gli effetti dei tagli alla spesa – che è quanto la macroeconomia di base ci diceva dovrebbe essere vero, come in effetti è. Ma è una lezione che molti non intendono apprendere, e c’è molto ovviamente una quantità di studi che pretendono di mettere in crisi queste prove.

L’ultimo della serie è quello di Mohlman e Suyker, che sostengono che quando si osserva un periodo più lungo i persuasivi risultati di Blanchard-Leigh che mostrano moltiplicatori più ampi, non reggono. Brad DeLong osserva rapidamente che quello che essi effettivamente dimostrano è che nel 2013-2014 e nel 2014-2015 c’è molta poca autorevolezza nei dati, che non è in nessun modo la stessa cosa che dimostrare che il moltiplicatore è stato piccolo.

Ma c’è in questo caso un tema più profondo, che tocca la ragione per la quale l’esperienza europea è stata così utile nel rendere più chiara la nostra comprensione della politica della finanza pubblica.

Il grande problema nei lavori empirici sulla politica della finanza pubblica è sempre stato che raramente si ottiene qualcosa che assomigli ad un esperimento naturale. In realtà grandi cambiamenti nella posizione della finanza pubblica si danno raramente, e sono di solito associati a guerre, allorché tendono ad accadere altre cose come i razionamenti. E la coincidenza di grandi spostamenti nella finanza pubblica con politiche monetarie obbligate, avviene una volta ogni tre generazioni.

Ma l’Europa del 2009 ha offerto qualcosa che, se non è stato un esperimento naturale perfetto, gli è andato molto più vicino di ogni cosa che si possa osservare nel lungo periodo. La mania dell’austerità, imposta su paesi che non avevano libertà di manovra perché erano nell’euro, ha portato a drastiche restrizioni in alcune ma non in tutte le economie dell’area euro; questi grandi spostamenti ci hanno fornito un osservatorio abbastanza buono, sicuramente rispetto alle serie storiche, di quello che tali spostamenti provocano.

Ma questa specie di esperimento naturale è stato limitato nel tempo. Ecco nel corso del tempo l’equilibrio primario corretto per il ciclo economico dell’area euro:

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Fiscal Monitor FMI

[1]

 

Il grande movimento verso l’austerità ha avuto luogo tra il 2010 ed il 2013 (con la Grecia che è partita prima). A partire da allora non c’è stato alcun coerente spostamento restrittivo o permissivo. Dunque, è naturale che ci sia poca autorevolezza nei dati del 2013-2014 e 2014-2015: non c’è stato molto seguito, cosicché qualsiasi cambiamento si osservi negli equilibri strutturali esaminati, probabilmente corrisponde altrettanto ad errori che a qualcosa di reale (il che anche implica che i coefficienti sono tendenti verso il basso).

Dunque, cosa impariamo da stime che mostrano grandi moltiplicatori dal 2009 al 2013, ma sono sopraffatte successivamente dal frastuono? Niente, se non che i ricercatori non stavano pensando a quanto stava accadendo.

 

 

 

[1] L’equilibrio strutturale di un bilancio rappresenta la situazione delle entrate e delle uscite di un bilancio se la produzione fosse al suo livello potenziale. Quindi la tabella mostra soltanto la stima di quanto viene modificandosi nel PIL potenziale. Esso diminuisce nei primi anni in corrispondenza di una accertata politica restrittiva, ma tale accertamento non è mostrato dalla tabella stessa. É poi abbastanza noto che negli anni successivi quella restrizione si è, nel dato medio, interrotta. In realtà, di quest’ultimo aspetto non mi pare che si siano trovate molte analisi precise, negli articoli che qua traduciamo. Alcune analisi dettagliate hanno riguardato l’esperienza inglese, dove è noto che la politica di austerità almeno non è proseguita dopo il 2013. Un altro riferimento lo abbiamo trovato riguardo ai deficit a cui la Spagna è stata ammessa di recente. Ma non mi pare che si sia avuta alcuna analisi organica del fenomeno.

(almeno questo è quanto capisco io)

 

 

 

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