Dec 14 5:03 am
The crisis in the euro area — as opposed to the broader global financial crisis — began in late 2009. It’s still far from over. But some of the hard-hit peripheral economies, notably Ireland and Spain, are finally growing again. So how should we think about such recoveries, and how do they fit into an overall picture of the single currency’s performance? I thought it might be useful to walk through how I understand the situation, illustrating the argument with data from Spain, which I think of as the quintessential euro-crisis country — a country that didn’t commit any obvious policy sins, but was whipsawed by huge inflows of capital that suddenly reversed. (All data are from the IMF World Economic Outlook database.)
First, a reminder of just how bad it has been, and how far we still are from full recovery:
Notice that at this point Finland — which is suffering from an idiosyncratic shock to its export industries rather than a sudden stop in capital inflows — is doing as badly as much of southern Europe. This is a reminder that the euro system creates huge problems for adjustment everywhere, that this isn’t a one-time problem.
But how would we expect countries to respond to adverse shocks? Contrary to what many people seem to believe, Keynesian-type analysis doesn’t say that countries can never recover without devaluation and/or fiscal stimulus; on the contrary, as I pointed out more than three years ago, it predicts a gradual recovery through internal devaluation — that is, a depressed economy will cause low or negative inflation, gradually improving competitiveness against other members of the currency union, and rising net exports should drive growth as long as they’re not offset by ever-tighter austerity.
Spanish experience since the euro was created in 1999 does indeed suggest that a depressed economy holds down inflation:
And internal devaluation has slowly improved competitiveness (as measured by relative GDP deflators) against the European core:
What about austerity? Spain did a lot of tightening in the first few years of the euro crisis, but not much since then:
So we would expect, other things equal, to see Spain experiencing faster growth than the rest of the euro area at this point, as internal devaluation improves competitiveness while fiscal policy is no longer tightening the screws.
The question then is, does this constitute any kind of vindication of either the euro or the austerity regime? As you might guess, I’d say that the answer is a clear no. Yes, adjustment can take place even with a single currency; but it’s a very slow and painful process. Yes, growth can resume once you stop imposing ever-harsher austerity; also, if you repeatedly hit yourself on the head with a baseball bat, you will feel better when you stop.
What is true is that the single currency isn’t totally unworkable. It’s just extremely costly.
And on an intellectual level, basic macroeconomics continues to account pretty well for European developments. There’s nothing in recent experience that should shock a Keynesian or cause deep self-doubt.
Correzioni nell’area euro
La crisi nell’area euro – diversamente dalla più generale crisi finanziaria globale – cominciò sulla fine del 2009. Ed è ancora lontana dall’essere superata. Ma alcune delle economie periferiche duramente colpite, in particolare l’Irlanda e la Spagna, stanno finalmente tornando a crescere. Cosa dovremmo dunque pensare di tali riprese, e come dovremmo collocarle in un quadro generale di andamento della moneta unica? Ho pensato che poteva essere utile ripercorrere passo a passo quello che capisco della situazione, illustrando il ragionamento con i dati della Spagna, che penso sia il paese tipico della crisi dell’euro – un paese che non ha commesso alcun peccato politico evidente, ma che è stato esposto all’effetto congiunto di ampi flussi di capitali che all’improvviso si sono rovesciati (tutti i dati provengono dal database World Economic Outlook del FMI).
In primo luogo un promemoria di quanto il fenomeno sia stato negativo, e di quanto si sia ancora lontani da una piena ripresa [1]:
Si noti che a questo punto la Finlandia – che sta soffrendo di un peculiare shock nella sua industria delle esportazioni, piuttosto che di un blocco improvviso nei flussi dei capitali – sta andando altrettanto male dell’Europa meridionale. Questo ci ricorda che il sistema dell’euro crea vasti problemi di adeguamento dappertutto, che questo non è un problema irripetibile.
Ma come ci dovremmo aspettare che i paesi reagiscano agli shock negativi? Contrariamento a quello che molti sembrano credere, una analisi di tipo keynesiano non dice che i paesi non possano mai riprendersi senza una svalutazione e/o misure di sostegno della finanza pubblica; al contrario, come misi in evidenza più di tre anni orsono, esso prevede una graduale ripresa attraverso la svalutazione interna – ovvero, un’economia depressa provocherà una inflazione bassa o negativa, gradualmente migliorando la competitività rispetto ad altri componenti dell’unione monetaria, e l’aumento delle esportazioni nette dovrebbe guidare una crescita purché esse non siano bilanciate da una austerità sempre più severa.
L’esperienza spagnola a partire da quando venne creato l’euro nel 1999 ci suggerisce proprio che una economia depressa mantiene l’inflazione bassa [2]:
E la svalutazione interna ha lentamente migliorato la competitività (come misurata dai deflatori del PIL) rispetto al centro Europa [3]:
Cosa dire dell’austerità? La Spagna operò molta restrizione nei primi pochi anni della crisi dell’euro, ma non molta a partire da allora [4]:
Dunque, a questo punto ci dovremmo aspettare, a parità delle altre condizioni, che la Spagna stia sperimentando una crescita più veloce, dal momento che la svalutazione interna migliora la competitività mentre la politica della finanza pubblica non sta più stringendo le viti.
La domanda è dunque se questo costituisca una qualche forma di risarcimento sia della scelta dell’auro che del regime di austerità. Come vi potete aspettare, la mia risposta è chiaramente negativa. É vero, la correzione può aver luogo anche con una singola valuta; ma è un processo molto lento e doloroso. É vero, la crescita può riprendere nel momento in cui si cessa di imporre una austerità sempre più dura; anche se vi battete ripetutamente una mazza da baseball in testa, vi sentite meglio quando smettete.
Quello che è vero è che la moneta unica non è completamente impossibile che funzioni. É solo estremamente costosa.
E, da un punto di vista intellettuale, la macroeconomia continua a spiegare abbastanza bene gli sviluppi europei. Non c’è niente nella recente esperienza che dovrebbe impressionare un keynesiano o provocargli profonde crisi di coscienza.
[1] La Tabella mostra i mutamenti nel PIL reale procapite dal 2007 al 2015.
[2] La tabella è un grafico a dispersione, ovvero un grafico con due variabili e la disposizione delle due variabili mostra i grado di correlazione tra di esse. Quanto scrivo di seguito è solo in mio personale esercizio di comprensione (dunque potrebbe contenere errori).
In questo caso una variabile (linea verticale) sono i mutamenti nel deflatore del PIL, l’altra (linea orizzontale) mostra il divario nella produzione. Il deflatore del PIL è uno strumento che consente di misurare la crescita del PIL depurandola dall’aumento dei prezzi. Indirettamente, dunque, essa consente anche di comprendere l’evoluzione della competitività, che è positiva tanto più i prezzi crescono meno dei paesi concorrenti. Il divario di produzione, invece, indica la differenza tra il PIL effettivo e quello potenziale, ovvero quello che si avrebbe se l’economia potesse esprimere interamente il suo potenziale produttivo.
I punti all’interno del grafico a dispersione indicano le (doppie) rilevazioni annuali, per ognuna delle variabili suddette. I puntini riguardano dunque la Spagna, e indicano quindici doppie rilevazioni annuali a partire dal 1999. Non sono indicati i singoli anni che ogni puntino rappresenta, mi pare perché quello che interessa nel grafico non è tanto una ricostruzione del processo storico, ma una analisi delle caratteristiche del fenomeno complessivo nel tempo. Tale analisi si evince dalle zone del grafico dove si mostrano i maggiori addensamenti di valori simili o quasi simili. Nel nostro caso, si notano due principali ‘addensamenti’: quando la variabile del deflatore del PIL è vicina allo zero (ovvero, il PIL depurato dall’inflazione non cresce), il divario di produzione è sempre in area negativa (da -2,5 a -6). Quando il deflatore del PIL sale ad un valore tra 3 e 4 (ovvero il PIL cresce in tale percentuale, anche depurato dall’aumento dei prezzi), si nota uno scarso divario o un divario positivo della produzione. Nel caso della Spagna, mi pare che si possa dedurne che la produzione è nel primo caso al di sotto delle sue potenzialità (crisi, dunque); mentre è in equilibrio in cinque degli altri casi, ed è anche troppo positiva in tre altri casi (il che dovrebbe significare che le risorse sono utilizzate al di sopra della loro potenzialità (bolla, dunque).
In conclusione, è dunque probabile che i puntini della parte alta del grafico indichino la situazione dell’economia spagnola nei primi anni dell’euro, dopo il 1999, caratterizzati da forti flussi di capitali franco-tedeschi. Quelli della parte bassa dovrebbero indicare gli anni della crisi.
In conclusione, la tabella mi pare soprattutto interessante proprio perché mostra questa polarizzazione, o addensamento, delle due caratteristiche dell’economia spagnola nell’ultimo quindicennio. E, come Krugman scrive, essa mostra anche che un’economia depressa “mantiene bassa l’inflazione”.
Aggiungo che non capisco il ‘titolo’ della Tabella (forse è un riferimento alla ‘curva di Phillips’).
[3] Il tasso di cambio reale tra Spagna e Germania, ovvero (credo, almeno, che si possa dire così) l’evoluzione del potere di acquisto di un euro spagnolo rispetto ad un euro tedesco, cha appare caratterizzata da un processo di svalutazione dal 1999 al 2008 e da un processo inverso negli anni della crisi.
[4] La tabella mostra l’evoluzione dell’equilibrio strutturale del bilancio spagnolo. L’equilibrio strutturale del bilancio, secondo la definizione dell’OCSE, rappresenta la situazione nella quale entrate e spese sono quello che debbono essere quando la produzione è al suo livello potenziale. In questo caso, l’equilibrio strutturale dovrebbe corrispondere al livello 0. Negli anni immediatamente successivi alla crisi, c’era uno squilibrio negativo pari a quasi l’8% del PIL, per effetto della crisi e delle misure di austerità. Ma, come si vede, a partire dal 2011 la restrizione della finanza pubblica si è gradualmente molto attenuata.
dicembre 15, 2015
Dec 13 1:13 pm
Somehow there seems to be a pattern in this chart from the editor of PolitiFact, but I can’t quite put my finger on it:
I fatti, come si sa, tendono a …. beh, lo sapete [1]
In qualche modo sembra esserci uno schema in questa tabella a cura dell’editore di PolitiFact [2], ma non ci metterei completamente la mia mano sopra [3]
[1] Tendono alla sinistra, alla posizioni progressiste. É un modo di dire frequente di Krugman.
[2] É il nome di una associazione di ricercatori che si sono specializzati nel compiere scrupolose ‘analisi di verità’ sui discorsi, le interviste, gli articoli degli uomini politici; distinguendo quello che è vero, che è in parte vero e in parte no, che è falso, in varie gradazioni.
La tabella deve essere letta in questo modo: ci sono 6 suddivisioni – in parte indicate nella parte superiore e in parte in quella inferiore: il marrone indica il settore delle bugie assolute, consapevolmente ingannevoli (il ritornello “liar, liar, pants on fire” significa “bugiardo, bugiardo, i pantaloni ti vanno a fuoco” ed è un modo di dire in uso tra i bambini per indicare le bugie più gravi); il marrone chiaro indica le affermazioni false, il giallo le affermazioni in gran parte false; il grigio le affermazioni mezze vere e mezze false; il viola chiaro le affermazioni in gran parte vere; il viola scuro quelle vere.
I primi dieci che inclinano verso le falsificazioni sono repubblicani passati o recenti; gli ultimi 6, che inclinano verso una maggiore verità, sono invece tutti democratici, con l’eccezione di Jeb Bush (che ha una prestazione leggermente migliore del ‘peggiore tra i democratici, il Vicepresidente Joe Biden).
[3] “I can’t put my finger on sth” significa ‘non posso stabilire l’identità, non riesco bene a spiegarmelo, c’è qualcosa che mi sfugge’. Penso che si possa anche aggiungere “non ci giurerei”.
dicembre 13, 2015
Dec 12 5:06 am
I’m in Portugal — sorry, too jet-lagged to post music this week — where I am attending a conference in memory of Jose da Silva Lopes. (No, I’m not doing interviews — I’m spending my spare time with friends.) And I have been doing some homework about the terrible times Portugal has recently suffered. What especially caught my eye was this:
We used to think that high labor mobility was a good thing for currency unions, because it would allow the union’s economy to adjust to asymmetric shocks — booms in some places, busts in others — by moving workers rather than having to cut wages in the lagging regions. But what about the tax base? If bad times cause one country’s workers to leave in large numbers, who will service its debt and care for its retirees?
Indeed, it’s easy conceptually to see how a country could enter a demographic death spiral. Start with a high level of debt, explicit and implicit. If the work force falls through emigration, servicing this debt will require higher taxes on those who remain, which could lead to more emigration, and so on.
How realistic is this possibility? It obviously depends on having a sufficiently large burden of debt and other mandatory expenditure. It also depends on the elasticity of the working-age population to the tax burden, which in turn will depend both on the underlying economics — is there a strongly downward-sloping demand for labor, or is it highly elastic? — and on things like the willingness of workers to move, which may depend on culture and language.
Portugal, with its long tradition of outmigration, may be more vulnerable than most, but I have no idea whether it’s really in that zone.
One thing you might wonder is whether currency union makes any difference here. Can’t adverse shocks produce emigration and a death spiral regardless of currency regime? Yes, but. With a flexible exchange rate, adverse shocks will cause depreciation and a fall in real wages; under a currency union, they will produce unemployment for an extended period, until the grinding process of internal devaluation restores competitiveness. And everything I’ve seen says that migration is much more sensitive to unemployment than to wage differentials.
Now, it’s true that emigration in an economy with mass unemployment doesn’t immediately reduce the tax base, since the marginal worker wouldn’t have been employed anyway. But it sets things up for longer-run deterioration.
Oh, and Lisbon is really lovely despite all — and seems, justifiably, to be attracting a lot of tourists, which surely helps.
Now off to my friends’ house.
Il debito e le spirali demografiche del debito
Sono in Portogallo – spiacente, troppa differenza di fuso orario per mettere il post musicale di questa settimana [1] – dove sto presenziando ad una conferenza in memoria di Jose da Silva Lopes [2] (no, non sto concedendo interviste – passo con amici il mio modesto tempo libero). E sto facendo alcuni miei compiti sui tempi terribili che il Portogallo ha di recente sofferto. Quello che mi è balzato agli occhi è stato questo [3]:
Eravamo abituati a pensare che una elevata mobilità del lavoro fosse una cosa buona per le unioni valutarie, perché avrebbe permesso all’economia di una unione di correggere gli shock asimmetrici – grandi espansioni in alcuni posti, crolli in altri – spostando i lavoratori anziché tagliare i salari nelle regioni rimaste indietro. Ma cosa accade alla base fiscale? Se il tempi cattivi in un paese inducono i lavoratori in gran numero ad andarsene, che provvederà al debito di quel paese e chi si curerà dei suoi pensionati?
In effetti, è facile osservare come un paese potrebbe entrare in una spirale fatale demografica. Si parta da un alto livello del debito, in termini assoluti e relativi. Se la forza lavoro scende per via dell’emigrazione, assistere questo debito richiederà tasse più elevate per quelli che restano, la qualcosa potrebbe portare ad una emigrazione maggiore, e così via.
Quanto è realistica questa possibilità? Ciò ovviamente dipende dall’avere un ampio peso di debito e di altre spese obbligatorie. Dipende anche dalla elasticità della popolazione in età lavorativa ai carichi fiscali, la qualcosa a sua volta dipende sia dalla sottostante economia – c’è una domanda di lavoro che inclina fortemente verso il basso, oppure è assai elastica? – sia da cose come la disponibilità dei lavoratori a spostarsi, che può essere condizionata dalla cultura e dal linguaggio.
Il Portogallo, con la sua lunga tradizione di emigrazione, potrebbe essere più vulnerabile della maggioranza degli altri, ma non ho idea se essa sia realmente tale in quell’area.
In questo caso, una cosa che ci si potrebbe chiedere è se una unione valutaria faccia qualche differenza. Gli shock negativi, non possono produrre emigrazione e spirali fatali a prescindere dai regimi valutari? Sì, ma … Con un tasso di cambio flessibile, gli shock negativi possono provocare una svalutazione ed una caduta dei salari reali; sotto una unione valutaria essi produrranno disoccupazione per un periodo prolungato, sinché il pesante processo della svalutazione interna non ripristina la competitività. E tutto quello che ho visto dice che l’emigrazione è molto più sensibile alla disoccupazione che ai differenziali di salari.
Ora, è vero che l’emigrazione in una economia con la disoccupazione di massa non riduce immediatamente la base fiscale, dato che il lavoratore marginale non sarebbe stato in ogni modo occupato. Ma essa dispone le cose per un deterioramento nel più lungo periodo.
Inoltre, Lisbona è proprio amabile nonostante tutto – e pare che comprensibilmente stia attraendo molti turisti, il che certamente aiuta.
Ora vado a casa dei miei amici.
[1] Ogni venerdì Krugman dedica un breve post ad eventi musicali, con relativi video ed audio.
[2] Un economista portoghese che Krugman conobbe nel 1976, quando faceva pratica in quel paese con altri studenti del MIT. É scomparso nell’aprile di quest’anno.
[3] La Tabella mostra l’andamento della popolazione portoghese in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni) nel periodo dalla fine degli anni ’90 ad oggi.
dicembre 13, 2015
Dec 9 2:47 pm
Brian Beutler has a good piece about the liberal reaction to Trumpism — which is that the phenomenon
was neither unexpected nor the source of any new or profound lesson.
But I think he casts it a bit too narrowly. The basic liberal diagnosis of modern conservatism has long been that it was a plutocratic movement that won elections by appealing to the racism and general anger-at-the-other of whites; there’s nothing too surprising about an election in which the establishment candidates continue to serve plutocracy while the base turns to candidates who drop the euphemisms while going straight to the racism and xenophobia.
Beutler says that
The only people who claim to be befuddled by the Trump phenomenon are officials on knife-edge in the party he leads.
But surely the people most taken by surprise, least able to handle the phenomenon, are the self-proclaimed centrists, the both-sides-do-it crowd, who denounced the plutocrats-and-racists diagnosis as “shrill,” insisting that we are having a real debate with just a few fringe characters on either side. Some of those people are still trying to portray the parties as symmetric: Bernie Sanders calling for single-payer health insurance is just like Trump calling for mass deportations and a ban on Muslims.
That was always a silly position. And as Beutler says, those of us who were clear-headed about conservative politics are almost bored by the repeated revelations of what we already knew.
La banalità del Trumpismo
Brian Beutler una un buon articolo sulla reazione liberal al Trumpismo – secondo la quale il fenomeno:
“non è stato inaspettato e neanche ha prodotto una qualche nuova o profonda riflessione”.
Ma io penso che la metta in modo un po’ troppo angusto. La diagnosi di fondo dei progressisti del moderno conservatorismo è stata da tempo che esso è stato un movimento di gente ricchissima che ha vinto le elezioni appellandosi al razzismo e alla generale paura-dell’altro da parte dei bianchi; non c’è niente di sorprendente in una elezione nella quale i candidati del gruppo dirigente si confermano al servizio di una plutocrazia, mentre la base si rivolge a candidati che mettono da parte gli eufemismi e passano direttamente al razzismo ed alla xenofobia.
Beutler dice che:
“Gli unici che sostengono di essere sconcertati dal fenomeno Trump sono i dirigenti che finirebbero sul filo del rasoio in un Partito diretto da lui”.
Ma certamente le persone maggiormente prese in contropiede, gli ultimi capaci di fare i conti con il fenomeno, sono i sedicenti centristi, la gente del ‘sono-tutti-uguali’, che denunciavano le diagnosi dei plutocrati e dei razzisti come “stridenti”, ribadendo che eravamo in presenza, in entrambi gli schieramenti, di un dibattito effettivo condotto soltanto da pochi personaggi con posizioni estreme. Alcune di quelle persone stanno ancora cercando di descrivere i partiti come simmetrici: Bernie Sanders [1] che è a favore di un sistema assicurativo nella sanità con un unico centro di spesa [2] direbbe una cosa simile a quella di Trump quando si pronuncia per le deportazioni di massa e la messa al bando dei Musulmani.
Quella posizione è sempre stata sciocca. E come dice Beutler, coloro tra noi che avevano le idee chiare sulla politica conservatrice sono quasi annoiati dalle ripetute rivelazioni di quello che già sapevamo.
[1] Democratico, attualmente Senatore per lo Stato del Vermont e in lizza nelle primarie democratiche. Esprime la posizione più di sinistra tra i democratici; per questo vorrebbe anche andare oltre la riforma sanitaria di Obama con un sistema assistenziale interamente pubblicistico.
[2] Ovvero, avere una sanità pubblica come nella quasi totalità dei paesi avanzati, anziché una sistema basato sul ruolo delle assicurazioni private, che tuttora vige negli Stati Uniti.
dicembre 13, 2015
Dec 9 2:29 pm
Jeb Bush is not going to be the Republican nominee, so it’s somewhat unfortunate that the invaluable Tax Policy Center chose to make his proposals the subject of its first analysis of candidate tax plans. Still, it’s useful, if only as an indicator of what passes for responsible, establishment policy in today’s GOP.
Most of the headlines I’ve seen focus on the amazing price tag: $6.8 trillion of unfunded tax cuts in the first decade. Even deep voodoo isn’t enough to turn that number positive; so much for any notion that Republicans cared about fiscal responsibility.
But it’s also important to realize the extent to which this is tax-cutting on the rich, by the rich, for the rich. Here’s the change in after-tax income resulting from the plan:
Huge benefits for the super-elite. And if you are tempted to say that the middle class gets at least some tax cut, remember that the budget hole would force sharp cuts in spending; and since the federal government is a giant insurance company with an army, this means sharp cuts in programs that benefit ordinary Americans, probably swamping any tax cuts.
So, huge tax cuts that would massively increase debt, with the benefits going to the very highest-income Americans. And this is the “responsible”, moderate candidate.
Essere compiacenti con i plutocrati
Jeb Bush non è destinato ad essere il candidato dei repubblicani, dunque è un po’ infelice che l’inestimabile Tax Policy Center abbia scelto le sue proposte come tema della sua prima analisi dei programmi fiscali dei candidati. Tuttavia è utile, anche soltanto come indicatore di ciò che nella politica del gruppo dirigente del Partito Repubblicano odierno viene giudicato responsabile.
La maggioranza dei titoli che ho visto si concentra sul costo incredibile: 6.800 miliardi di dollari di tagli fiscali non coperti nel primo decennio. Anche una radicale economia voodoo non basta a far diventare quel dato positivo: talmente grande risulta per ogni nozione di responsabilità nella finanza pubblica della quale i repubblicani hanno mostrato di preoccuparsi.
Ma è anche importante comprendere in quale misura esso sia un taglio fiscale sui ricchi, per conto dei ricchi e a favore dei ricchi. Ecco il cambiamento nel reddito dopo le tasse che risulterebbe dal programma:
Enormi vantaggi per la super élite. E se foste tentati di dire che la classe media otterrebbe almeno qualche sgravio fiscale, ricordate che il buco nel bilancio costringerebbe a bruschi tagli nella spesa pubblica; e dal momento che il Governo federale è come una gigantesca compagnia assicuratrice dotata di un esercito, questo comporterebbe forti tagli ai programmi del quali beneficiano gli americani comuni, probabilmente sommergendo qualsiasi riduzione delle tasse.
Dunque, vasti tagli fiscali che incrementerebbero massicciamente il debito, con i benefici che andrebbero ai redditi davvero più alti degli americani. E questo è il candidato “responsabile” e moderato.
[1] La Tabella scagliona i redditi di tutti gli americani in cinque quintili (i primi cinque dati sulla sinistra), dato che ogni quintile corrisponde al 20%. Gli ultimi due dati sulla destra sono dunque specificazioni aggiuntive e riguardano gli incrementi di reddito che si produrrebbero rispettivamente per l’1% e lo 0,1% dei più ricchi.
dicembre 9, 2015
Dec 8 10:33 am
National Center for Health Statistics
In policy discourse, zombies and cockroaches are somewhat different.
Zombie ideas are claims that should have been killed by evidence, but just keep shambling along, like the notion that vast numbers of Canadians, frustrated by socialized medicine, come to America in search of treatment. (It was in a paper about that and other myths that I first encountered the zombie terminology.) Cockroaches are claims that disappear for a while when proved ludicrously wrong, but just keep on coming back.
I think of the notion that Obamacare hasn’t really reduced the number of uninsured as a cockroach; it seemed to me that it subsided for a while after the big enrollment numbers of 2014 and the sharp drop in uninsurance rates. And really, how could you continue to make that claim given the results shown above, which are corroborated by independent sources like Gallup?
But the claim is back, as Charles Gaba notes. He says that Avik Roy’s latest is embarrassing, which I guess it is — but how much more embarrassed can the guy who did the totally spurious work on “rate shock” get? I’d say, rather, that the latest is impressive in the way it uses multiple layers of misrepresentation to obscure what you might have thought was too obvious to deny.
Anyway, it’s another example of the proposition that in modern political discourse, in particular on the right, no bad argument is ever abandoned. It’s like inequality, where the current position of the usual suspects is that it hasn’t gone up, it has gone up but it’s a good thing, we can’t do anything about it, and anyway it’s all the fault of liberals. You might think one would have to choose one of these lines, but they don’t.
La riforma sanitaria di Obama e gli scarafaggi
Centro Nazionale per le statistiche sanitarie
Nel dibattito politico, zombi e scarafaggi sono cose alquanto diverse.
Le idee zombi sono pretese che dovrebbero essere state ammazzate dalle prove, ma continuano proprio come se si trascinassero, come l’idea che un gran numero di canadesi, frustrati dalla medicina socializzata, vengano in America in cerca di trattamenti sanitari (fu in un libro su quello e su altri miti che incontrai per la prima volta l’uso del termine zombi). Gli scarafaggi sono pretese che scompaiono per un po’, allorché vengono dimostrate assurdamente sbagliate, eppure continuano precisamente a ripresentarsi.
Io penso che l’idea che la riforma di Obama non abbia realmente ridotto il numero dei non assicurati sia uno scarafaggio; mi pareva che fosse per un po’ scomparsa dopo i grandi numeri sulle iscrizioni e la brusca caduta del tassi dei non assicurati. E, in realtà, come si poteva continuare ad avanzare quell’argomento considerati i risultati mostrati sopra nella tabella [1], che sono corroborati da fonti indipendenti come Gallup?
Ma la pretesa è tornata, come osserva Charles Gaba. Egli afferma che l’ultima presa di posizione di Avik Roy [2] è imbarazzante, cosa che penso anch’io – ma quanto può essere maggiormente imbarazzato il soggetto che arrivò a mettere insieme il lavoro totalmente falso sul cosiddetto “shock del tasso” [3]? Direi piuttosto che l’ultima presa di posizione è impressionante nel senso che utilizza una molteplicità di strati di rappresentazioni ingannevoli, per oscurare quello che si riteneva fosse troppo evidente per essere negato.
In ogni caso, si tratta di un altro esempio del concetto secondo il quale nel dibattito politico odierno, in particolare da parte della destra, nessun cattivo argomento viene mai trascurato. É come per l’ineguaglianza, dove la posizione attuale dei soliti noti è che essa non è cresciuta, è cresciuta ma è una cosa positiva, non possiamo farci niente, e in ogni caso è tutta colpa dei progressisti. Pensereste che avrebbero dovuto scegliere una di queste tesi, ma non lo fanno.
[1] La tabella mostra la percentuale dei non assicurati sul totale dei residenti di tutte le età, dal 1997 al giugno del 2015.
[2] Giornalista americano che si è concentrato di recente sui temi della riforma sanitaria, anche come consigliere di alcuni candidati presidenziali repubblicani (prima Romney, poi Rick Perry e da ultimo Marco Rubio).
[3] Forse il tasso di non assicurati.
dicembre 8, 2015
Dec 8 10:09 am
Kevin O’Rourke weighs in on the big showing of Marine Le Pen and friends in the French elections; like me, he argues that it has a lot to do with Europe’s economic failures.
Let me add, however, that it’s not just a matter of times being bad. It’s also important to realize the way in which traditional sources of authority have devalued themselves through repeated policy failure. Europe, much more than the U.S., is run by Very Serious People, who tell the public that it must accept Schengen, austerity, and regulatory harmonization (the eurosausage!), and that these are the right things to do because those who understand how the world works say so. But if things keep going badly, this authority based on the presumption of expertise erodes, and politicians who offer more visceral answers gain support.
Funke, Schularick, and Trebesch recently did some work asking whether the rise of right-wing extremism in the 1930s was paralleled in other times, and found that the answer is yes: “politics takes a hard right turn following financial crises.” Interestingly, this isn’t true for all kinds of crises. Financial crises, they suggest, are different, in part because
financial crises may be perceived as endogenous, ‘inexcusable’ problems resulting from policy failures, moral hazard and favouritism.
I would put it a bit differently: financial crises call into question whether respectable people know what they’re doing, in a way that other kinds of economic shocks often don’t.
The point for Europe is that the doctrinaire policies followed since 2010, and the unwillingness to rethink dogma in the light of experience, aren’t just economically destructive. They undermine the legitimacy of the whole European system, and may in the end lead to political catastrophe.
Le Persone Molto Serie e il FN
Kevin O’Rourke interviene sul grande piazzamento di Marine Le Pen e soci nelle elezioni francesi; come me sostiene che ha molto a che fare con gli insuccessi economici dell’Europa.
Consentitemi di aggiungere, tuttavia, che non è solo una faccenda di tempi negativi. É anche importante comprendere il modo in cui le tradizionali risorse dell’autorità si sono svalutate da sole attraverso molteplici fallimenti politici. L’Europa, molto di più degli Stati Uniti, è governata da Persone Molto Serie, che dicono all’opinione pubblica che deve accettare Schengen, l’austerità e l’armonizzazione dei regolamenti (l’eurosalciccia!), e che queste sono le cose giuste da fare perché coloro che capiscono come va il mondo dicono così. Ma se le cose continuano ad andar male, questa autorità basata sulla presunzione della competenza si erode e gli uomini politici che offrono risposte più viscerali guadagnano sostegni.
Funke, Schularick e Trebesch [1], di recente, hanno un po’ lavorato attorno alla domanda se l’estremismo della destra negli anni ’30 avesse qualche parallelo in altre epoche, ed hanno scoperta che la risposta è positiva: “la politica svolta verso la destra dura seguendo le crisi finanziarie”. In modo interessante, questo non è vero per tutti i tipi di crisi. Le crisi finanziarie, suggeriscono, sono diverse, in parte perché:
“le crisi finanziarie possono essere percepite come endogene, problemi ‘ingiustificabili’ che conseguono a fallimenti politici, ad azzardi furbeschi ed a favoritismi”.
La metterei in modo un po’ diverso: le crisi finanziarie chiamano in causa il fatto che le persone rispettabili sappiano quello che stanno facendo, in un modo nel quale altri generi di traumi economici di solito non fanno.
Il problema per l’Europa è che le politiche dottrinarie seguite sin dal 2010, e l’indisponibilità a ripensare i dogmi alla luce dell’esperienza, non sono soltanto economicamente distruttivi. Essi minano la legittimazione dell’intero sistema europeo, e possono alla fine portare alla catastrofe politica.
[1] Moritz Schularick e Cristoph Trebesch sono due giovani docenti delle Università di Bonn e di Monaco; Manuel Funke è docente all’Università di Berlino e all’Istituto di studi nordamericani. Il loro intervento, dal titolo “Conseguenze politiche delle crisi finanziarie: andare verso le estreme”, è apparso sul blog VOX.
dicembre 8, 2015
Dec 7 7:38 am
Ted Cruz somewhat surprised Janet Yellen by accusing the Fed of causing the Great Recession by tightening monetary policy in 2008; David Beckworth sort-of-kind-of supports Cruz by arguing that the Fed did in fact “passively” tighten by failing to do enough to offset falling spending.
Uh-oh: it’s starting to look a bit like the Friedman two-step, only this time done at internet speed.
By the Friedman two-step, I mean the process of argument that began with Friedman and Schwartz on the Great Depression, in which they argued that the Fed could have prevented the Depression by aggressively expanding the monetary base to prevent a sharp fall in broader monetary aggregates. This was a defensible argument, although it looks much weaker in the light of more recent developments; as I warned in 1998, in a liquidity trap the central bank loses control of monetary aggregates as well as the real economy; it’s by no means clear that the Fed really could have prevented the Depression. Still, that remains a live argument.
But what happened over time — and Friedman himself was very culpable — was that the claim “the Fed could have prevented the depression” turned into “the Fed caused the depression.” See? Government is the root of all evil! Friedman used this to push his patented agenda of laissez-faire on everything except monetary policy, where under the guise of M2 targeting he was actually calling for a very active Fed.
The thing is that even if that would have worked (which it probably wouldn’t), it was inevitable that others would go the whole way and call for laissez-faire all the way, including monetary policy. I mean, who needs the Fed when everyone knows it caused the Great Depression. Back to the gold standard!
The path from Friedman and Schwartz to goldbuggism took several decades. But things move faster these days.
When Ted Cruz uses the passive-aggressive method to attack the Fed, claiming that it caused the Great Recession because it didn’t do more in 2008, he isn’t using it to push the cause of market monetarism. He is already on record as an ardent supporter of a return to gold. Needless to say, a gold standard would have meant much tighter, not looser, monetary policy since 2008. But Cruz uses the framing of failure to act as acting in the wrong direction to obscure this point.
The question of whether inadequate policy should be viewed as tightening may seem like a fun word game. But you really don’t want to provide, um, passive support to policy ideas that would make things much worse.
Il movimento monetario in ‘due passi’, passività- aggressività
Ted Cruz ha un po’ sorpreso Janet Yellen accusando la Fed di aver provocato la Grande Recessione con la restrizione del 2008 della politica monetaria; David Beckworth in qualche modo sostiene Cruz con l’argomento secondo il quale la Fed di fatto operò “passivamente” una stretta non facendo abbastanza per bilanciare la caduta della spesa.
Ma guarda un po’: comincia un po’ ad assomigliare al movimento in due passi di Friedman, soltanto che questa volta viene condotto alla velocità di Internet.
Per i ‘due passi’ di Friedman, intendo il percorso della argomentazione sulla Grande Depressione che cominciò con Friedman e Schwartz, nella quale essi sostennero che la Fed avrebbe potuto impedire la Depressione espandendo aggressivamente la base monetaria per impedire una brusca caduta nei più generali aggregati monetari. Questo era un argomento difendibile, sebbene appaia molto più debole alla luce degli sviluppi più recenti; come avevo messo in guardia nel 1998, in una trappola di liquidità la banca centrale perde il controllo degli aggregati monetari come dell’economia reale; non è in alcun modo chiaro che la Fed avrebbe potuto impedire la Depressione. Eppure, resta un argomento vivo.
Ma quello che accadde col tempo – e lo stesso Friedman ne fu responsabile – fu che l’argomento “la Fed avrebbe potuto impedire la depressione” si trasformò in quello “la Fed provocò la depressione”. Vedete? Il Governo è la radice di tutti i mali! Friedman lo utilizzò per promuovere la sua brevettata agenda del laissez-faire su ogni cosa ad eccezione della politica monetaria, dove nella forma degli obbiettivi di M2 [1] egli in effetti si pronunciava per una Fed molto attiva.
Il punto è che persino se quello avesse funzionato (ed è probabile che non sarebbe successo), era inevitabile che altri avrebbero percorso l’intero tragitto e avrebbero chiesto un laissez-faire completo, inclusa la politica monetaria. Voglio dire, che bisogno c’è della Fed quando tutti sanno che essa ha provocato la Grande Depressione. Si torni al gold-standard!
Occorsero alcuni decenni per passare da Friedman e Schwartz al feticismo aureo. Ma di questi tempi le cose si muovono rapidamente.
Quando Ted Cruz usa la logica della passività-aggressività per attaccare la Fed, sostenendo che essa provocò la Grande Recessione perché non fece di più nel 2008, egli non lo usa per promuovere la causa del monetarismo di mercato. Lui è già agli atti come un ardente sostenitore del ritorno all’oro. Non è il caso di dire che un gold-standard avrebbe comportato a partire dal 2008 una politica monetaria molto più restrittiva, non certo più allentata. Ma Cruz utilizza la cornice dell’incapacità ad agire come una sceneggiata nella direzione sbagliata, per oscurare questo aspetto.
La domanda se una politica inadeguata dovrebbe essere considerata come une restrizione può sembrare un divertente gioco di parole. Ma davvero non si dovrebbe fornire un sostegno, è proprio il caso di dire passivo ad idee politiche che avrebbero reso le cose assai peggiori.
[1] Una tipologia di aggregato monetario.
Tutte le banconote e le monete, dette moneta legale, perché per legge devono essere accettate in pagamento, e le riserve obbligatorie delle banche presso la banca centrale costituiscono la cosiddetta base monetaria, anche denominata come M0.
L’aggregato monetario ristretto (M1) comprende le banconote e le monete in circolazione (il circolante) e le attività finanziarie che possono svolgere il ruolo di mezzo di pagamento, ossia i depositi in conto corrente (bancari e postali).
L’aggregato intermedio (M2) comprende M1 e altre attività a liquidità elevata e valore certo in ogni momento futuro, ma la cui conversione in M1 può essere soggetta a qualche restrizione, come la necessità di un preavviso, penalizzazioni o commissioni. Secondo la definizione della Banca Centrale Europea, esse comprendono i depositi con scadenza prestabilita fino a due anni e i depositi rimborsabili con preavviso fino a tre mesi.
L’aggregato ampio (M3) comprende, oltre a M2, alcuni strumenti emessi da varie istituzioni finanziarie monetarie con un alto grado di liquidità e di certezza del prezzo: secondo la Banca Centrale Europea, ne fanno parte le quote o partecipazioni nei fondi comuni monetari, le operazioni pronti contro termine e le obbligazioni bancarie con scadenza fino a due anni. (Treccani)
dicembre 8, 2015
Dec 7 7:09 am
A few years ago de Bromhead, Eichengreen, and O’Rourke looked at the determinants of right-wing extremism in the 1930s. They found that economic factors mattered a lot; specifically,
what mattered was not the current growth of the economy but cumulative growth or, more to the point, the depth of the cumulative recession. One year of contraction was not enough to significantly boost extremism, in other words, but a depression that persisted for years was.
How’s Europe doing on that basis?
Maddison Project, Europa
And now the National Front has scored a first-place finish in regional elections, and will probably take a couple of regions in the second round. Economics isn’t the only factor; immigration, refugees, and terrorism play into the mix. But Europe’s underperformance is slowly eroding the legitimacy, not just of the European project, but of the open society itself.
Quello spettacolo degli anni ‘30
Pochi anni orsono de Bromhead, Eichengreen e O’Rourke osservarono i fattori che determinarono l’estremismo di destra negli anni ’30. Scoprirono che i fattori economici contarono molto: in particolare:
“quello che fu importante non fu la crescita sul momento dell’economia ma la crescita cumulativa o, più precisamente, la profondità della recessione cumulativa. In altre parole, un anno di contrazione non era sufficiente a incoraggiare in modo significativo l’estremismo, ma una depressione che persisteva lo era”.
Su quella base, come sta andando l’Europa?
Maddison Project, Europa (1)
E adesso il Fronte Nazionale ha ottenuto di finire al primo posto nelle elezioni regionali, e probabilmente al secondo turno conquisterà un paio di regioni. L’economia non è il solo fattore; l’immigrazione, i rifugiati e il terrorismo giocano nell’insieme. Ma i risultati negativi dell’Europa stanno lentamente erodendo la legittimazione, non solo del progetto europeo, ma della stessa società aperta.
(1) La tabella mostra l’andamento del PIL procapite durante la recente-attuale recessione dell’area euro (linea rossa) e l’andamento della Grande Depressione degli anni ’30 nell’Europa Occidentale di allora. Le due linee partono dalle due situazioni precedenti alle crisi, collocate al livello 100.
dicembre 5, 2015
Dec 4 10:05 am
Last week I wrote about what in our macroeconomic models has and hasn’t worked since 2008. As I said, demand-side events have been very much what people using IS-LM would have predicted (and did). But on the supply side, not so much. For one thing, the “accelerationist” doctrine that has dominated economic discussion of inflation and unemployment for 40 years has fallen flat. If inflation had responded to the Great Recession and aftermath the way it did in previous big slumps, we would be deep in deflation by now; we aren’t.
Now, the usual response from model-oriented public officials and research staff at policy institutions is to say that what they work with now is a Phillips curve with “anchored” expectations. The idea is that price- and wage-setters now act as if they expect policymakers to hit their 2 percent target, and don’t change their expectations in the face of recent experience. Operationally, of course, such a curve looks just like the old, pre-NAIRU Phillips curves people estimated in the 1960s. And the truth is that such curves fit pretty well on data since 1990.
But this kind of anchoring argument, I would argue, leaves us with some disturbing questions, both conceptual and practical.
First, on the conceptual side, where does anchoring come from and how far can it be trusted? Is it the consequence of central bank credibility, or is it just the consequence of low inflation: people stop paying much attention to fluctuations in inflation when it’s in the low single digits? Will the anchoring go away if inflation is persistently 1 rather than 2 percent; would it go away if inflation rose to 3 percent?
Second, on the practical side, the anchored-expectations hypothesis tells a very different story about capacity and policy than previous approaches.
Let me illustrate this point with the case of the euro area.
If we use aggregated data for the euro area as a whole, a simple old-fashioned Phillips curve works surprisingly decently:
In fact, the slope of the curve is quite close to the estimate for the US from Blanchard et al.
What’s worth pointing out, however, is that if we take this result seriously, it implies that the euro area is much more deeply depressed than generally acknowledged, and that the ECB’s attempt to get inflation back up close to 2 percent is a much more daunting challenge, than anyone seems to acknowledge. Euro core inflation is currently about 1 percent; the slope of the Phillips relationship is around 0.25; so getting back to 2 should require a 4 percentage point fall in unemployment. That’s a lot!
How much output growth would this involve? An Okun’s Law type relationship also works pretty well for the euro area as a whole, and gives a coefficient close to the US level:
So a 4 percentage point decline in unemployment would, if the historical relationship holds, mean 8 percent more in real GDP — that is, this naive calculation puts the euro area output gap at 8 percent, which is huge.
Should we take this seriously? If not, why not?
Disancoraggi (leggermente per esperti)
La scorsa settimana scrissi sul tema di quello che nei modelli macroeconomici aveva o non aveva funzionato a partire dal 2008. Come dicevo, gli eventi dal lato della domanda sono stati assai corrispondenti a quello che le persone che utilizzano il modello IS-LM avrebbero previsto (come in effetti fecero). Ma non altrettanto dal lato dell’offerta. Da una parte, la dottrina “accelerazionista” che ha dominato il dibattito economico sull’inflazione e la disoccupazione per 40 anni ha fatto fiasco. Se la inflazione avesse risposto alla Grande Recessione ed alle sue conseguenze nel modo in cui aveva fatto nelle grandi crisi precedenti, saremmo adesso in profonda deflazione; il che non è accaduto.
Ora, la risposta consueta da parte delle autorità pubbliche e dei gruppi di ricerca presso le istituzioni politiche orientati al modello, consiste nel dire che ciò con cui essi oggi lavorano è una curva di Phillips con le aspettative “ancorate”. L’idea è che coloro che determinano i prezzi – ed i salari – adesso agiscono come se si aspettassero il raggiungimento da parte delle autorità pubbliche dell’obbiettivo del 2 per cento, e non modifichino le loro aspettative a fronte di esperienze recenti. Da un punto di vista operativo, naturalmente, tale curva assomiglia alle vecchie curve di Phillips precedenti al NAIRU stimate negli anni ’60 [1]. E la verità è che tali curve si adattano abbastanza bene ai dati a partire dal 1990.
Ma questo genere di argomento basato sull’ancoraggio, direi, ci lascia con alcune fastidiose domande, sia concettuali che pratiche.
La prima, dal punto di vista concettuale: da dove proviene l’ancoraggio e per quanto tempo si può dare ad esso credito? É la conseguenza della credibilità della banca centrale, o è soltanto la conseguenza di una bassa inflazione: le persone cessano di prestare molta attenzione alle fluttuazioni dell’inflazione finché essa resta nei bassi limiti di una sola cifra? Se ne andrà l’ancoraggio, se l’inflazione resta persistentemente all’1 anziché al 2 per cento; se ne andrebbe se l’inflazione crescesse al 3 per cento?
La seconda, dal punto di vista pratico, l’ipotesi delle aspettative ‘ancorate’ ci racconta una storia assai diversa rispetto agli approcci precedenti, a proposito della capacità produttiva e della politica.
Consentitemi di illustrare questo aspetto con il caso dell’area euro.
Se utilizziamo i dati dell’area euro nel loro complesso, una semplice curva di Phillips vecchia maniera funziona in modo sorprendentemente decente:
Di fatto, l’inclinazione della curva è abbastanza vicina alle stime per gli Stati Uniti di Blanchard ed altri.
Tuttavia, quello che merita di essere sottolineato, e che se assumiamo questo risultato seriamente, esso implica che l’area euro è molto più profondamente depressa di quanto in genere riconosciuto, e che i tentativi della BCE di riportare l’inflazione vicina al 2 per cento sono una sfida molto più temeraria di quanto tutti sembrano ammettere. L’inflazione sostanziale nell’area euro è attualmente attorno all’1 per cento; l’inclinazione della relazione di Phillips [2] è attorno allo 0,25; dunque tornare al 2 per cento dovrebbe richiedere una caduta della disoccupazione di quattro punti percentuali. Il che è tanto!
Quanta crescita di produzione questo comporterebbe? Una relazione del genere di quella della legge di Okun [3] funziona anch’essa abbastanza bene per l’area euro nel suo complesso, e ci fornisce un coefficiente vicino al livello degli Stati Uniti:
Dunque, quattro punti percentuali di declino della disoccupazione, se la relazione storica regge, comportano un 8 per cento in più di PIL reale – ovvero, questo ingenuo calcolo pone il divario di produzione dell’area euro all’8 per cento, che è un differenziale ampio.
Dovremmo prendere sul serio tutto questo? E se non dobbiamo, perché no?
[1] Vedi i termini nelle note della traduzione.
[2] Relazione tra inflazione e disoccupazione.
[3] La Legge di Okun, che prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962) è una legge empirica che associa ad ogni punto aggiuntivo di disoccupazione ciclica (differenza tra tasso di disoccupazione naturale e disoccupazione totale), 2 punti percentuali di gap di produzione.
dicembre 5, 2015
Dec 2 9:59 am
One of the overwhelming lessons of the post-2008 crisis has been that fiscal multipliers are large when monetary policy can’t offset the effects of spending cuts — which is what basic macroeconomics told us should be true, and is. But it’s a lesson many people don’t want to learn, and there’s very obviously a market for papers that claim to undermine that evidence.
The latest entry is Mohlman and Suyker, claiming that when you look at a longer period the influential Blanchard-Leigh results showing large multipliers don’t hold. Brad DeLong quickly noted that what they actually show is that in 2013-14 and 2014-15 there is very little power in the data, which is by no means the same as showing that the multiplier was small.
But there’s a deeper issue here, which gets to the reason European experience has been so useful for clarifying our understanding of fiscal policy.
The big problem with empirical work on fiscal policy has always been that you rarely get anything resembling a natural experiment. Really big changes in fiscal stance come rarely, and are usually associated with wars, when other things like rationing also tend to happen. And the coincidence of big fiscal shifts with constrained monetary policy is a once-in-three-generations story.
But Europe after 2009 provided something that, while not a perfect natural experiment, was much closer than anything we’re likely to see for a long time. Austerity mania, enforced on countries that had no freedom of maneuver because they were on the euro, led to drastic fiscal tightening in some but not all euro area economies; these big shifts gave us a pretty good view, certainly by historical standards, of what such shifts do.
But this natural sort-of experiment was time-limited. Here’s the euro area cyclically adjusted primary balance over time:
IMF Fiscal Monitor
The big move toward austerity took place between 2010 and 2013 (with Greece starting earlier). There hasn’t been any consistent move toward either tightening or loosening since then. So of course there’s very little power in estimates from 2013-14 and 2014-15: there wasn’t much going on, so that whatever changes we see in measured structural balances are probably as much measurement error as they are anything real (which also implies that the coefficients are biased downwards.)
So what do we learn from estimates that show big multipliers from 2009 to 2013 but are overwhelmed by noise thereafter? Nothing, except that the researchers aren’t thinking about what was going on.
Le prove del moltiplicatore e la sua negazione
Una delle enormi lezioni della crisi successiva al 2008 è stata che i moltiplicatori della finanza pubblica sono ampi quando la politica monetaria non può bilanciare gli effetti dei tagli alla spesa – che è quanto la macroeconomia di base ci diceva dovrebbe essere vero, come in effetti è. Ma è una lezione che molti non intendono apprendere, e c’è molto ovviamente una quantità di studi che pretendono di mettere in crisi queste prove.
L’ultimo della serie è quello di Mohlman e Suyker, che sostengono che quando si osserva un periodo più lungo i persuasivi risultati di Blanchard-Leigh che mostrano moltiplicatori più ampi, non reggono. Brad DeLong osserva rapidamente che quello che essi effettivamente dimostrano è che nel 2013-2014 e nel 2014-2015 c’è molta poca autorevolezza nei dati, che non è in nessun modo la stessa cosa che dimostrare che il moltiplicatore è stato piccolo.
Ma c’è in questo caso un tema più profondo, che tocca la ragione per la quale l’esperienza europea è stata così utile nel rendere più chiara la nostra comprensione della politica della finanza pubblica.
Il grande problema nei lavori empirici sulla politica della finanza pubblica è sempre stato che raramente si ottiene qualcosa che assomigli ad un esperimento naturale. In realtà grandi cambiamenti nella posizione della finanza pubblica si danno raramente, e sono di solito associati a guerre, allorché tendono ad accadere altre cose come i razionamenti. E la coincidenza di grandi spostamenti nella finanza pubblica con politiche monetarie obbligate, avviene una volta ogni tre generazioni.
Ma l’Europa del 2009 ha offerto qualcosa che, se non è stato un esperimento naturale perfetto, gli è andato molto più vicino di ogni cosa che si possa osservare nel lungo periodo. La mania dell’austerità, imposta su paesi che non avevano libertà di manovra perché erano nell’euro, ha portato a drastiche restrizioni in alcune ma non in tutte le economie dell’area euro; questi grandi spostamenti ci hanno fornito un osservatorio abbastanza buono, sicuramente rispetto alle serie storiche, di quello che tali spostamenti provocano.
Ma questa specie di esperimento naturale è stato limitato nel tempo. Ecco nel corso del tempo l’equilibrio primario corretto per il ciclo economico dell’area euro:
Fiscal Monitor FMI
Il grande movimento verso l’austerità ha avuto luogo tra il 2010 ed il 2013 (con la Grecia che è partita prima). A partire da allora non c’è stato alcun coerente spostamento restrittivo o permissivo. Dunque, è naturale che ci sia poca autorevolezza nei dati del 2013-2014 e 2014-2015: non c’è stato molto seguito, cosicché qualsiasi cambiamento si osservi negli equilibri strutturali esaminati, probabilmente corrisponde altrettanto ad errori che a qualcosa di reale (il che anche implica che i coefficienti sono tendenti verso il basso).
Dunque, cosa impariamo da stime che mostrano grandi moltiplicatori dal 2009 al 2013, ma sono sopraffatte successivamente dal frastuono? Niente, se non che i ricercatori non stavano pensando a quanto stava accadendo.
[1] L’equilibrio strutturale di un bilancio rappresenta la situazione delle entrate e delle uscite di un bilancio se la produzione fosse al suo livello potenziale. Quindi la tabella mostra soltanto la stima di quanto viene modificandosi nel PIL potenziale. Esso diminuisce nei primi anni in corrispondenza di una accertata politica restrittiva, ma tale accertamento non è mostrato dalla tabella stessa. É poi abbastanza noto che negli anni successivi quella restrizione si è, nel dato medio, interrotta. In realtà, di quest’ultimo aspetto non mi pare che si siano trovate molte analisi precise, negli articoli che qua traduciamo. Alcune analisi dettagliate hanno riguardato l’esperienza inglese, dove è noto che la politica di austerità almeno non è proseguita dopo il 2013. Un altro riferimento lo abbiamo trovato riguardo ai deficit a cui la Spagna è stata ammessa di recente. Ma non mi pare che si sia avuta alcuna analisi organica del fenomeno.
(almeno questo è quanto capisco io)
dicembre 3, 2015
Dec 1 2:24 pm
The historian David Potter had a great letter published in the Financial Times, correcting the really bad history of the Dutch president, who suggested that migrants brought about the fall of Rome. (Bad history is all the rage these days.) Potter:
The “barbarians” who were “responsible” for the “fall” of the western Roman empire in the fifth century AD were not a wave of desperate migrants. They were a collection of disgruntled employees.
Yep — in fact, many of the groups who ended up invading the Roman Empire were originally clients, hired, subsidized, or bribed (hard to tell these apart) to serve the empire at a time when its own military capacity was waning. And this isn’t just a story about the western empire, or about Rome.
I’m currently reading In God’s Path: The Arab Conquests and the Creation of an Islamic Empire by Robert G. Hoyland; I read Tom Holland’s In the Shadow of the Sword a while back. Both books portray the rise of Islam as something very different from the image I and I suspect many other people had.
We are not, it turns out, talking about Bedouin, inspired by faith, suddenly swooping out of the desert on unsuspecting lands. The soldiers and generals who conquered Persia and much of the Byzantine Empire were, most likely, mainly drawn from long-established client states on the Persian and Byzantine borders — men who learned the art of war and much else from the people who hired them. They turned first into raiders, drawn by the empires’ weakness, then into conquerors when that weakness — exacerbated by an exhausting, destructive war between Persia and Byzantium — proved so great that resistance to their raids collapsed. In other words, the Arab conquests were quite a lot like the Visigoth conquests in the west, at least at first.
And as Hoyland points out, the Arabs weren’t the only peripheral powers making big inroads at the time. The Avars, for example, swept up to the walls of Constantinople a few years before the Arab conquest; various Turkic groups wreaked havoc on Persia.
What was different about the Arabs was the way they achieved political and religious unity. But while that was a momentous achievement with huge consequences, it was probably a much messier and slower process than we tend to imagine, mainly taking place after the initial conquests, not before. The picture of a great holy war is probably a story invented centuries after the fact.
So how much light does any of this shed on current events? Little if any.
Gli Avari, gli Arabi e la storia
Lo storico David Potter ha pubblicato una lettera importante sul Financial Times, correggendo il racconto davvero brutto del Presidente Olandese [1], che aveva suggerito che gli emigranti provocarono la caduta di Roma (la brutta storia è tutta la rabbia di questi giorni). Potter:
“I ‘barbari’ che furono ‘responsabili’ della ‘caduta’ dell’Impero romano d’Occidente nel quinto secolo dopo Cristo non furono un’ondata di emigranti disperati. Erano una raccolta di impiegati scontenti”.
Sì – di fatto, molti dei gruppi che finirono con l’invadere l’Impero Romano erano originariamente clienti, ingaggiati, sovvenzionati o corrotti (difficile separare tutti questi aspetti) per servire l’Impero in un epoca nella quale la sua potenza militare stava svanendo. E questa non una storia che riguarda soltanto l’Impero d’Occidente, o Roma.
Sto attualmente leggendo “Sul sentiero di Dio: le conquiste arabe e la creazione di un Impero Islamico” di Robert G. Hoyland; ho letto un po’ di tempo fa “All’ombra della spada” di Tom Holland. Entrambi i libri presentano l’ascesa dell’Islam come qualcosa di molto diverso rispetto all’immagine che ne avevo io, e suppongo molti altri.
Si scopre che non stiamo parlando di beduini, ispirati dalla fede e improvvisamente piombati dal deserto e da terre sconosciute. I soldati ed i generali che conquistarono la Persia e gran parte dell’Impero Bizantino erano, molto più probabilmente, principalmente attirati da Stati satellite da lungo insediati sui confini persiani o bizantini – uomini che avevano appreso l’arte della guerra e molte altre cose dalle persone che li avevano ingaggiati. Essi si trasformarono dapprima in razziatori, attratti dalla debolezza degli imperi, poi in conquistatori – quando quella debolezza – esacerbata da una sfibrante guerra distruttiva tra la Persia e Bisanzio – si mostrò così grande che la resistenza alle loro razzie crollò. In altre parole, le conquiste degli Arabi furono del tutto simili alle conquiste dei Visigoti ad Occidente, almeno agli inizi.
E come mette in evidenza Hoyland, gli Arabi non erano le uniche potenze periferiche che all’epoca facevano grandi incursioni. Gli Avari, ad esempio, si trascinarono sino alle mura di Costantinopoli pochi anni prima della conquista araba; vari gruppi turchi gettarono scompiglio sulla Persia.
Quello che fu diverso con gli Arabi fu il modo in cui essi realizzarono la loro unità politica e religiosa. Ma se quella fu una realizzazione momentanea con vaste conseguenze, esso fu probabilmente un processo più caotico e lento di quello che tendiamo ad immaginare, che principalmente ebbe luogo dopo le conquiste iniziali, non prima. La raffigurazione di una grande guerra santa fu probabilmente una storia inventata secoli dopo quei fatti.
Dunque, quanta luce porta tutto questo sugli eventi attuali? Poca, se non punta.
[1] Dovrebbe trattarsi di una dichiarazione di questi giorni di Mark Rutte, che è capo del Governo olandese.
dicembre 3, 2015
Dec 1 8:41 am
So the IMF has included the renminbi in the SDR, adding a world of hurt to newspaper reports; now everyone will have to deal with China’s awkward currency nomenclature. (As I understand it, you should use renminbi and yuan more or less as you use sterling and the pound; the RMB is the term for Chinese money in general, the yuan a denomination of its notes.) It’s a symbolic event — the first developing country to achieve that status. And if you ask me, it was a bit rushed: China is big, but it still has capital controls, so that its currency really isn’t freely negotiable the way the other currencies in the basket are.
But how much difference does this make for the real economy? Almost none.
That’s not what you usually hear. Today’s commentary by the usually excellent Neil Irwin compares the rise of the RMB to the gradual replacement of sterling by the dollar “as the predominant currency for global trade and finance.” He goes on to say that
This development was a crucial piece of the nation’s rise to superpower status.
Actually, no, it wasn’t. America became a superpower because its economy was huge — by 1913 it was already about as big as the combined economies of Western Europe, and it was even more dominant after World War II. The international role of the dollar was at best a minor footnote to this story.
Ask yourself, what special privileges does being a reserve currency bring? People who don’t actually work in international monetary economics tend to make claims about America having a unique ability to run trade deficits, or to borrow in its own currency, or to extract large amounts of resources from other countries due to “exorbitant privilege,” but none of that is true. At most, the dollar’s special role might mean slightly lower borrowing costs — although there’s little evidence of that — and a de facto zero-interest loan from people holding currency — pieces of green paper with portraits of dead presidents — outside the country.
And it’s far from clear that China will get even these minor payoffs: putting the currency in the SDR should have very little bearing on the willingness of individuals to hold yuan in cash, or even to buy RMB-denominated bonds.
Maury Obstfeld had a nice survey of the SDR a few years back, which put things in perspective. Essentially, the SDR at present provides a limited credit line to countries that want to borrow reserves of actual currencies from other countries. He goes on:
The basket valuation of the SDR is motivated by denominational convenience, and can be argued to be quite incidental (and inessential) to the main purposes.
In other words, this not much more than a minor change in accounting, with trivial economic implications.
Piccole novità sullo yuan
Dunque il FMI ha incluso il renmimbi nei Diritti Speciali di Prelievo, provocando una montagna di risentimenti nei resoconti giornalistici: ora tutti dovranno misurarsi con la complicata terminologia valutaria cinese (per quanto capisco, si dovrà usare il renmimbi ed lo yuan più o meno come si usa la sterlina e il pound; il renmimbi è l’espressione generale per la moneta cinese, lo yuan la denominazione delle sue banconote). Si tratta di un evento simbolico – il primo paese in via di sviluppo ad ottenere quello status. E se volete una mia impressione, è stato un po’ prematuro: la Cina è grande, ma ha ancora i controlli sui capitali, cosicché la sua valuta in realtà non è liberamente negoziabile come lo sono le altre valute del paniere.
Ma questo quanta differenza fa per l’economia reale? Quasi nessuna.
Non è quello che di solito si sente dire. Oggi il commento da parte del di solito eccellente Neil Irwin confronta l’ascesa del renmimbi con la graduale sostituzione della sterlina da parte del dollaro “come la valuta predominante per il commercio globale e la finanza”. Prosegue dicendo:
“Questo sviluppo fu un aspetto cruciale dell’ascesa della nazione allo status di superpotenza”.
Per la verità, non andò così. L’America divenne una superpotenza perché la sua economia era grande – nel 1913 era già all’incirca altrettanto grande di tutte le economie assieme dell’Europa Occidentale, e dopo la Seconda Guerra Mondiale divenne ancora più dominante. Al massimo, il ruolo internazionale del dollaro fu una nota a fondo pagina di questa storia.
Chiedetevi quali speciali privilegi comporti l’essere una valuta di riserva. Le persone che non operano nell’economia monetaria internazionale tendono ad avanzare argomenti secondo i quali l’America avrebbe una possibilità unica di gestire deficit commerciali, o di indebitarsi nella propria valuta, oppure di trarre grandi quantità di risorse dagli altri paesi a seguito di “esorbitanti privilegi”, ma niente di questo è vero. Nel migliore dei casi, il ruolo speciale del dollaro può comportare costi di indebitamento leggermente più bassi – sebbene ci siano poche prove di questo – e un prestito di fatto a interesse zero da parte di persone che detengono valute – fogli verdi di carta con i ritratti di presidenti morti – fuori dal paese.
Ed è lungi dall’essere chiaro se la Cina otterrà persino questi benefici minori: inserire la valuta nei Diritti Speciali di Prelievo dovrebbe avere una influenza molto piccola sulla disponibilità degli individui a detenere yuan come contante, o persino ad acquistare bond denominati come yuan.
Maury Obstfeld realizzò una graziosa indagine sui DSP pochi anni orsono, che poneva la questione in prospettiva. In sostanza, al presente i DSP forniscono una linea limitata di credito a paesi che intendono prendere in prestito riserve di reale valuta da parte di altri paesi. Egli proseguiva:
“La valutazione del paniere dei DSP e motivata dalla convenienza della denominazione, e si può sostenere che sia abbastanza casuale (e inessenziale) per gli scopi principali”.
In altre parole, questo non è molto di più di una cambiamento minore nella contabilità, con implicazioni economiche banali.
dicembre 3, 2015
Nov 30 3:59 pm
I’ve mentioned before that I’m a big fan of work by my CUNY colleague Branko Milanovic showing that if you look at income growth by percentile of the whole world population for the past 25 years, you see “twin peaks”: rapid growth near the middle, representing China’s middle class, and at the top, representing the global elite, with a sag in the region representing the OECD working class. But was it always thus? I asked Branko what a similar picture looked like for the previous generation — and he has obliged.
Here’s a version of the original Milanovic history of the world in one chart:
Branko calls this the elephant picture, although I don’t see it; Janet Gornick says it’s a camel. I say it’s very like a whale …
But here’s the picture for the preceding generation — by “ventile”, that is, 5 percent interval, rather than percentile — and it doesn’t look at all similar:
So pre-1990 or so we had no visible tendency toward either inequality or equality at a world level; the elephant-camel-whale is for the later period. That’s interesting, because post-1990 is also the period of hyperglobalization, of unprecedented growth in trade due to slicing up of the value chain.
How big is the causal link? I don’t know. But there is, I’d argue, an important and interesting stylized fact here for us to work with.
Iperglobalizzazione e ineguaglianza globale
Avevo ricordato in passato di essere un grande sostenitore del lavoro del mio collega al CUNY [1] Branko Milanovic che mostra come, se si guarda alla crescita del reddito dell’intera popolazione mondiale nei passati 25 anni, si notano “due picchi gemelli” [2]: la rapida crescita sulla zona mediana, che rappresenta la classe media cinese, e al vertice, che rappresenta l’élite globale, con un afflosciamento in corrispondenza delle classi lavoratrici dei paesi dell’OCSE. Ma è sempre stato così? Avevo chiesto a Branko come sarebbe apparsa una raffigurazione simile per la precedente generazione – e lui mi ha soddisfatto.
Ecco la versione della originaria storia del mondo di Milanovic in un diagramma:
Branko dice che è il disegno di un elefante, sebbene io non lo veda; Janet Gornick dice che è un cammello. Io dico che somiglia proprio ad una balena ….
Ma ecco la rappresentazione per la precedente generazione – sulla base di “ventili” anziché di percentili, ovvero di intervalli del 5 per cento – e non sembra affatto simile:
Dunque, prima degli anni ’90 non avevamo alcuna tendenza visibile sia all’ineguaglianza che all’eguaglianza a livello mondiale; l’elefante-cammello-balena riguarda il periodo successivo. Ciò è interessante, perché il periodo successivo agli anni ’90 è anche quello della iperglobalizzazione, di una crescita senza precedenti dei commerci dovuta allo spezzettamento della catena del valore.
Quanto è grande questa connessione casuale? Non lo so. Ma direi che c’è in questo caso un importante ed interessante fatto rappresentato in modo espressivo, sul quale lavorare.
[1] City University of New York, Università pubblica statunitense.
[2] Krugman, il 1 gennaio di quest’anno, pubblicò con grande rilievo, prima in un post e in seguito in un articolo su New York Times dal titolo “Il Pianeta dei picchi gemelli”, un diagramma che mostrava il risultato del lavoro di Milanovic. Sono entrambi tradotti in questo blog.
Mi pare possa essere utile anche alla comprensione dei due diagrammi di questo post, ripubblicare il diagramma degli articoli di gennaio, con un mio tentativo di spiegazione del diagramma originario:
“Il diagramma mostra la crescita del reddito reale ai vari percentili della distribuzione globale del reddito nel periodo 1988 – 2008, espressa in dollari “a parità dei poteri di acquisto” (PPP) relativi all’anno 2005. Se ben capisco, sulla linea verticale si mostra la crescita del reddito (dunque, non un valore assoluto ma il valore relativo che esprime l’entità della variazione); mentre quella orizzontale fa comprendere come il fenomeno della crescita si è distribuito per i vari “percentili” della popolazione mondiale. In altre parole: l’ultimo picco (quello tra il 99° ed il 100° percentile) indica l’enorme incremento che si è determinato per i più ricchi al mondo, espresso con un aumento verticale; il picco in prossimità del 60° percentile mostra il forte incremento che si è determinato per la popolazione mondiale con redditi intermedi, che corrisponde grosso modo alle condizioni di reddito della ‘classe media cinese’; mentre l’andamento in forte calo (attenuazione della crescita) riguarda la classe di reddito tra il 60° e l’80° percentile, sul quale si colloca normalmente la ‘classe medio bassa americana’.”
Aggiunta: E’ evidente che in questo diagramma del gennaio scorso gli scostamenti appaiono assai più pronunciati del primo diagramma pubblicato nel post di oggi, perchè la linea verticale – la crescita del reddito in termini percentuali – allora veniva applicata ad una scala da 1 a 80, mentre oggi ad una scala da 1 a 200. I valori dovrebbero essere i medesimi (anche se forse c’è qualche differenza abbastanza marginale, dato che oggi la crescita del reddito al 60° percentile pare raggiunga il 100 per cento, mentre a gennaio arrivava sotto l’80 per cento. Ma si noti che nel diagramma di oggi non appare il riferimento al metro di misura della “parità del potere di acquisto”, che forse è la spiegazione delle differenze).
dicembre 3, 2015
November 30, 2015 2:02 pm
Via Mark Thoma, there have been multiple interesting responses to my post about what has and hasn’t worked in macro since 2008. I guess the piece was useful, if only for focusing debate.
What I want to focus on in this post is the suggestion by Brad DeLong that I missed a failed implication of Hicksian analysis — that demand shocks should be short-term in their effect. Actually, and very unusually, I think Brad has this wrong. The proposition of a long-run tendency toward full employment isn’t a primitive axiom in IS-LM. It’s derived from the model, under certain assumptions. But there’s good reason to believe that even under “normal” conditions it’s a very weak, slow process. And under liquidity trap conditions it’s not a process we expect to see operate at all.
How is the self-correction of an economy to its long-run equilibrium supposed to work? In textbook analysis, the story is that falling prices raise the real money supply, pushing down interest rates, and hence restoring employment.
So how rapidly would we expect this process to work? Let’s take the most favorable assumption, which is that of a constant velocity of money. Under those conditions, holding the money supply fixed would also hold nominal GDP fixed, so that a one percent fall in the price level would raise real output by one percent. The question then is how responsive prices are to the output gap.
Well, Blanchard, Cerutti and Summers have a new paper that estimates an an “anchored expectations” Phillips curve (aka an old-fashioned, pre-Friedman/Phelps curve), and finds the coefficient on unemployment for the US to be about -.25. That’s for unemployment; on output, given Okun’s Law, the coefficient should be only half that. This implies a half-life for output gaps of around 6 years. The long run is pretty long, in other words; we might not all be dead, but most of us will be hitting mandatory retirement.
And that’s assuming constant velocity. With interest rates dropping, part of the fall in prices should translate into a fall in velocity rather than a rise in real output, so the implied speed of adjustment should be even lower.
But wait, it gets worse: at the zero lower bound the process doesn’t work at all. In a liquidity trap, the proposition of a self-correcting economy falls down — in fact, what more flexible prices would do, arguably, is bring on a debt-deflation spiral.
Yes, a sufficiently large price fall could bring about expectations of future inflation — but that’s not the mechanism we’re talking about here.
You might ask, given this logic, why actual slumps usually don’t last all that long. The answer is, first, that the shocks causing slumps are often temporary; but second, in practice central banks don’t sit there passively, holding the money supply constant, but in fact push back against slumps with expansionary policy. The economy isn’t self-correcting, at least on a time scale that matters; it relies on Uncle Alan, or Uncle Ben, or Aunt Janet to get back to full employment.
Which brings us back to the liquidity trap, in which the central bank loses most if not all of its traction. Nothing about basic macro models says that there should be a fast return to long-run equilibrium under those conditions, so the failure to see such a fast return is actually a point in favor of the model, not a failure.
L’economia si sta autocorreggendo? (per esperti)
Per il tramite di Mark Thoma [1], c’è stata una varietà di risposte interessanti al mio post su quello che ha e non ha funzionato nella macroeconomia a partire dal 2008 [2]. Penso che l’articolo sia stato utile, se non altro a focalizzare il dibattito.
Ciò su cui mi voglio concentrare in questo post è il suggerimento di Brad DeLong secondo il quale avrei trascurato un aspetto implicito della analisi hicksiana che non è stato confermato – che gli shock della domanda dovrebbero avere effetto di breve termine. Per la verità, ed è assai inconsueto, io penso che Brad in questo caso abbia torto. Il concetto di una tendenza di lungo periodo verso la piena occupazione non è un assioma originario del modello IS-LM. Esso deriva dal modello, sulla base di alcuni assunti. Ma c’è una buona ragione per credere che persino in condizioni normali si tratti di un processo molto debole e lento. E nelle condizioni di una trappola di liquidità è un processo che non ci aspettiamo affatto di vedere all’opera.
Come si suppone che funzioni l’autocorrezione di un’economia verso il suo equilibrio di lungo periodo? Nell’analisi dei libri di testo, la spiegazione è che i prezzi in caduta accrescono l’offerta reale di moneta, spingendo in basso i tassi di interesse e di conseguenza ripristinando occupazione.
Dunque, quanto rapidamente ci si deve aspettare che questo processo operi? Assumiamo l’ipotesi più favorevole, che è quella di una velocità costante della moneta [3]. A quelle condizioni, tenere fissa l’offerta di moneta manterrebbe stabile anche il PIL nominale, cosicché una caduta dell’1 per cento nel livello dei prezzi aumenterebbe la produzione reale dell’1 per cento. La domanda, dunque, è quanto sono reattivi i prezzi al divario di produzione.
Ebbene, Blanchard, Cerutti e Summers presentano un nuovo studio che stima una curva di Phillips (ovvero, una curva vecchia maniera, prima di Friedman-Phelps [4]) “ancorata alle aspettative”, e scopre che il coefficiente di disoccupazione degli Stati Uniti è attorno al -0,25. In quel caso si tratta della disoccupazione; per la produzione, data la Legge di Okun [5], il coefficiente dovrebbe essere attorno alla metà. Questo implica una semi vita per i differenziali di produzione di circa 6 anni. In altre parole: il lungo periodo è abbastanza lungo; non dovremmo essere tutti morti, ma la maggior parte di noi avrà raggiunto il pensionamento obbligatorio.
E ciò accade supponendo una velocità costante. Con i tassi di interesse in discesa, parte della caduta dei prezzi dovrebbe tradursi in una caduta di velocità piuttosto che in una crescita della produzione reale, cosicché la implicita velocità di adeguamento dovrebbe essere persino più lenta.
Ma aspettate, è ancora peggio: al limite inferiore dello zero il processo non opera affatto. In una trappola di liquidità, la proposizione di una economia che si autocorregge viene meno – di fatto, ciò che farebbero prezzi più flessibili, verosimilmente, è dare origine ad una spirale debito-deflazione.
É vero, una caduta sufficientemente ampia dei prezzi potrebbe avere provocare aspettative di inflazione futura – ma non è questo il droide che stiamo osservando il meccanismo del quale in questo caso stiamo parlando.
Data questa logica, ci si potrebbe chiedere perché le crisi attuali solitamente non durano così a lungo. La risposta è che, anzitutto, gli shock che provocano le crisi sono spesso temporanei; ma in secondo luogo, in pratica le banche centrali non se ne stanno sedute passivamente, tenendo costante l’offerta di denaro, ma di fatto spingono indietro le crisi con una politica espansiva. L’economia non si sta autocorreggendo, almeno su una scala temporale significativa; si affida allo Zio Alan, o allo Zio Ben, o alla Zia Janet [6], per tornare alla piena occupazione.
La qualcosa mi riporta alla trappola di liquidità, nella quale la banca centrale perde la gran parte, se non tutta, della sua capacità di trazione. Niente dei modelli di base della macroeconomia dice che, in queste condizioni, ci dovrebbe essere un ritorno veloce all’equilibrio di lungo periodo, cosicché il fatto che non si assista a quel rapido ritorno è un punto a favore del modello, non un segno del suo insuccesso.
[1] Ovvero, del blog di Thoma che fornisce quotidianamente una sintesi molta ampia del dibattito economico statunitense.
[2] Il riferimento è al post precedente del 28 novembre, dal titolo “Domanda, offerta e modelli macroeconomici”.
[3] Si intende, una velocità di circolazione della moneta.
[4] Il tasso naturale di disoccupazione è un concetto economico sviluppato particolarmente da Milton Friedman e Edmund Phelps negli anni sessanta. Esso rappresenta l’ipotetico tasso di disoccupazione coerente con il livello potenziale della produzione aggregata. Questo è il tasso di disoccupazione che l’economia raggiunge in assenza di frizioni temporanee come ad esempio un aggiustamento solo parziale dei prezzi nei mercati dei beni e del lavoro. Il tasso naturale di disoccupazione corrisponde quindi al tasso di disoccupazione che prevarrebbe secondo l’economia classica. Esso è determinato prevalentemente dall’offerta aggregata, e quindi dalle possibilità di produzione e dalle istituzioni economiche. Se ciò determina disallineamenti permanenti nel mercato del lavoro, oppure rigidità nei salari reali, allora il tasso naturale di disoccupazione può rappresentare anche una disoccupazione involontaria, dovuto a persone che pur cercando un lavoro non riescono a trovarlo.
Disturbi all’equilibrio del sistema economico (ad esempio, variazioni cicliche nell’ottimismo o pessimismo dei soggetti economici) fanno sì che la disoccupazione effettiva sia diversa da quella naturale, e sia determinata in parte da fattori di domanda aggregata secondo una visione keynesiana della determinazione del PIL. L’implicazione, dal punto di vista della politica economica, è che il tasso naturale di disoccupazione non può essere ridotto in modo permanente da politiche di controllo della domanda (inclusa la politica monetaria), mentre tali politiche possono giocare un ruolo nella stabilizzazione delle variazioni della disoccupazione effettiva. Una riduzione del tasso naturale di disoccupazione, secondo questa teoria, deve essere ottenuta attraverso politiche strutturali dirette al lato dell’offerta dell’economia.
Lo sviluppo della teoria del tasso naturale di disoccupazione arrivò negli anni ’60 quando gli economisti osservarono che la relazione prevista dalla curva di Phillips tra inflazione e disoccupazione cominciò a venir meno. Fino ad allora, era generalmente accettata l’esistenza di una relazione stabilmente negativa tra inflazione e disoccupazione. Ciò implicava che la disoccupazione potesse essere ridotta in modo permanente da politiche espansive della domanda, e quindi da un’inflazione più elevata. Milton Friedman e Edmund Phelps criticarono questa idea su una base teorica, notando che se la disoccupazione fosse stata ridotta in modo permanente, qualche variabile economica reale (come i salari reali) sarebbe dovuta cambiare anch’essa in modo permanente. Il fatto che ciò dovesse accadere in conseguenza di un’inflazione più elevata, sembrava dovuto ad una sistematica irrazionalità del mercato del lavoro. Come notò Friedman, l’aumento dei salari prima o poi avrebbe uguagliato l’aumento dei prezzi dovuto all’inflazione, lasciando così i salari reali, e quindi la disoccupazione, invariati. Dunque, una disoccupazione più bassa poteva essere ottenuta finantochè l’aumento dei salari e l’inflazione attesa fossero stati inferiori all’inflazione realizzata. Tale risultato non poteva che essere considerato temporaneo. Prima o poi, la disoccupazione sarebbe tornata al tasso determinato da fattori reali indipendenti dal tasso di inflazione. Secondo Friedman e Phelps, la Curva di Phillips era quindi verticale nel lungo periodo, e politiche di domanda espansive avrebbero causato soltanto inflazione, senza abbassare permanentemente la disoccupazione. (Wikipedia)
[5] In economia, la Legge di Okun, che prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962) è una legge empirica che associa ad ogni punto aggiuntivo di disoccupazione ciclica (differenza tra tasso di disoccupazione naturale e disoccupazione totale), 2 punti percentuali di gap di produzione.
[6] I nomi degli ultimi tre Presidenti della Fed: Alan Greenspan, Ben Bernanke e Janet Yellen.
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