Dec 1 2:24 pm
The historian David Potter had a great letter published in the Financial Times, correcting the really bad history of the Dutch president, who suggested that migrants brought about the fall of Rome. (Bad history is all the rage these days.) Potter:
The “barbarians” who were “responsible” for the “fall” of the western Roman empire in the fifth century AD were not a wave of desperate migrants. They were a collection of disgruntled employees.
Yep — in fact, many of the groups who ended up invading the Roman Empire were originally clients, hired, subsidized, or bribed (hard to tell these apart) to serve the empire at a time when its own military capacity was waning. And this isn’t just a story about the western empire, or about Rome.
I’m currently reading In God’s Path: The Arab Conquests and the Creation of an Islamic Empire by Robert G. Hoyland; I read Tom Holland’s In the Shadow of the Sword a while back. Both books portray the rise of Islam as something very different from the image I and I suspect many other people had.
We are not, it turns out, talking about Bedouin, inspired by faith, suddenly swooping out of the desert on unsuspecting lands. The soldiers and generals who conquered Persia and much of the Byzantine Empire were, most likely, mainly drawn from long-established client states on the Persian and Byzantine borders — men who learned the art of war and much else from the people who hired them. They turned first into raiders, drawn by the empires’ weakness, then into conquerors when that weakness — exacerbated by an exhausting, destructive war between Persia and Byzantium — proved so great that resistance to their raids collapsed. In other words, the Arab conquests were quite a lot like the Visigoth conquests in the west, at least at first.
And as Hoyland points out, the Arabs weren’t the only peripheral powers making big inroads at the time. The Avars, for example, swept up to the walls of Constantinople a few years before the Arab conquest; various Turkic groups wreaked havoc on Persia.
What was different about the Arabs was the way they achieved political and religious unity. But while that was a momentous achievement with huge consequences, it was probably a much messier and slower process than we tend to imagine, mainly taking place after the initial conquests, not before. The picture of a great holy war is probably a story invented centuries after the fact.
So how much light does any of this shed on current events? Little if any.
Gli Avari, gli Arabi e la storia
Lo storico David Potter ha pubblicato una lettera importante sul Financial Times, correggendo il racconto davvero brutto del Presidente Olandese [1], che aveva suggerito che gli emigranti provocarono la caduta di Roma (la brutta storia è tutta la rabbia di questi giorni). Potter:
“I ‘barbari’ che furono ‘responsabili’ della ‘caduta’ dell’Impero romano d’Occidente nel quinto secolo dopo Cristo non furono un’ondata di emigranti disperati. Erano una raccolta di impiegati scontenti”.
Sì – di fatto, molti dei gruppi che finirono con l’invadere l’Impero Romano erano originariamente clienti, ingaggiati, sovvenzionati o corrotti (difficile separare tutti questi aspetti) per servire l’Impero in un epoca nella quale la sua potenza militare stava svanendo. E questa non una storia che riguarda soltanto l’Impero d’Occidente, o Roma.
Sto attualmente leggendo “Sul sentiero di Dio: le conquiste arabe e la creazione di un Impero Islamico” di Robert G. Hoyland; ho letto un po’ di tempo fa “All’ombra della spada” di Tom Holland. Entrambi i libri presentano l’ascesa dell’Islam come qualcosa di molto diverso rispetto all’immagine che ne avevo io, e suppongo molti altri.
Si scopre che non stiamo parlando di beduini, ispirati dalla fede e improvvisamente piombati dal deserto e da terre sconosciute. I soldati ed i generali che conquistarono la Persia e gran parte dell’Impero Bizantino erano, molto più probabilmente, principalmente attirati da Stati satellite da lungo insediati sui confini persiani o bizantini – uomini che avevano appreso l’arte della guerra e molte altre cose dalle persone che li avevano ingaggiati. Essi si trasformarono dapprima in razziatori, attratti dalla debolezza degli imperi, poi in conquistatori – quando quella debolezza – esacerbata da una sfibrante guerra distruttiva tra la Persia e Bisanzio – si mostrò così grande che la resistenza alle loro razzie crollò. In altre parole, le conquiste degli Arabi furono del tutto simili alle conquiste dei Visigoti ad Occidente, almeno agli inizi.
E come mette in evidenza Hoyland, gli Arabi non erano le uniche potenze periferiche che all’epoca facevano grandi incursioni. Gli Avari, ad esempio, si trascinarono sino alle mura di Costantinopoli pochi anni prima della conquista araba; vari gruppi turchi gettarono scompiglio sulla Persia.
Quello che fu diverso con gli Arabi fu il modo in cui essi realizzarono la loro unità politica e religiosa. Ma se quella fu una realizzazione momentanea con vaste conseguenze, esso fu probabilmente un processo più caotico e lento di quello che tendiamo ad immaginare, che principalmente ebbe luogo dopo le conquiste iniziali, non prima. La raffigurazione di una grande guerra santa fu probabilmente una storia inventata secoli dopo quei fatti.
Dunque, quanta luce porta tutto questo sugli eventi attuali? Poca, se non punta.
[1] Dovrebbe trattarsi di una dichiarazione di questi giorni di Mark Rutte, che è capo del Governo olandese.
dicembre 3, 2015
Dec 1 8:41 am
So the IMF has included the renminbi in the SDR, adding a world of hurt to newspaper reports; now everyone will have to deal with China’s awkward currency nomenclature. (As I understand it, you should use renminbi and yuan more or less as you use sterling and the pound; the RMB is the term for Chinese money in general, the yuan a denomination of its notes.) It’s a symbolic event — the first developing country to achieve that status. And if you ask me, it was a bit rushed: China is big, but it still has capital controls, so that its currency really isn’t freely negotiable the way the other currencies in the basket are.
But how much difference does this make for the real economy? Almost none.
That’s not what you usually hear. Today’s commentary by the usually excellent Neil Irwin compares the rise of the RMB to the gradual replacement of sterling by the dollar “as the predominant currency for global trade and finance.” He goes on to say that
This development was a crucial piece of the nation’s rise to superpower status.
Actually, no, it wasn’t. America became a superpower because its economy was huge — by 1913 it was already about as big as the combined economies of Western Europe, and it was even more dominant after World War II. The international role of the dollar was at best a minor footnote to this story.
Ask yourself, what special privileges does being a reserve currency bring? People who don’t actually work in international monetary economics tend to make claims about America having a unique ability to run trade deficits, or to borrow in its own currency, or to extract large amounts of resources from other countries due to “exorbitant privilege,” but none of that is true. At most, the dollar’s special role might mean slightly lower borrowing costs — although there’s little evidence of that — and a de facto zero-interest loan from people holding currency — pieces of green paper with portraits of dead presidents — outside the country.
And it’s far from clear that China will get even these minor payoffs: putting the currency in the SDR should have very little bearing on the willingness of individuals to hold yuan in cash, or even to buy RMB-denominated bonds.
Maury Obstfeld had a nice survey of the SDR a few years back, which put things in perspective. Essentially, the SDR at present provides a limited credit line to countries that want to borrow reserves of actual currencies from other countries. He goes on:
The basket valuation of the SDR is motivated by denominational convenience, and can be argued to be quite incidental (and inessential) to the main purposes.
In other words, this not much more than a minor change in accounting, with trivial economic implications.
Piccole novità sullo yuan
Dunque il FMI ha incluso il renmimbi nei Diritti Speciali di Prelievo, provocando una montagna di risentimenti nei resoconti giornalistici: ora tutti dovranno misurarsi con la complicata terminologia valutaria cinese (per quanto capisco, si dovrà usare il renmimbi ed lo yuan più o meno come si usa la sterlina e il pound; il renmimbi è l’espressione generale per la moneta cinese, lo yuan la denominazione delle sue banconote). Si tratta di un evento simbolico – il primo paese in via di sviluppo ad ottenere quello status. E se volete una mia impressione, è stato un po’ prematuro: la Cina è grande, ma ha ancora i controlli sui capitali, cosicché la sua valuta in realtà non è liberamente negoziabile come lo sono le altre valute del paniere.
Ma questo quanta differenza fa per l’economia reale? Quasi nessuna.
Non è quello che di solito si sente dire. Oggi il commento da parte del di solito eccellente Neil Irwin confronta l’ascesa del renmimbi con la graduale sostituzione della sterlina da parte del dollaro “come la valuta predominante per il commercio globale e la finanza”. Prosegue dicendo:
“Questo sviluppo fu un aspetto cruciale dell’ascesa della nazione allo status di superpotenza”.
Per la verità, non andò così. L’America divenne una superpotenza perché la sua economia era grande – nel 1913 era già all’incirca altrettanto grande di tutte le economie assieme dell’Europa Occidentale, e dopo la Seconda Guerra Mondiale divenne ancora più dominante. Al massimo, il ruolo internazionale del dollaro fu una nota a fondo pagina di questa storia.
Chiedetevi quali speciali privilegi comporti l’essere una valuta di riserva. Le persone che non operano nell’economia monetaria internazionale tendono ad avanzare argomenti secondo i quali l’America avrebbe una possibilità unica di gestire deficit commerciali, o di indebitarsi nella propria valuta, oppure di trarre grandi quantità di risorse dagli altri paesi a seguito di “esorbitanti privilegi”, ma niente di questo è vero. Nel migliore dei casi, il ruolo speciale del dollaro può comportare costi di indebitamento leggermente più bassi – sebbene ci siano poche prove di questo – e un prestito di fatto a interesse zero da parte di persone che detengono valute – fogli verdi di carta con i ritratti di presidenti morti – fuori dal paese.
Ed è lungi dall’essere chiaro se la Cina otterrà persino questi benefici minori: inserire la valuta nei Diritti Speciali di Prelievo dovrebbe avere una influenza molto piccola sulla disponibilità degli individui a detenere yuan come contante, o persino ad acquistare bond denominati come yuan.
Maury Obstfeld realizzò una graziosa indagine sui DSP pochi anni orsono, che poneva la questione in prospettiva. In sostanza, al presente i DSP forniscono una linea limitata di credito a paesi che intendono prendere in prestito riserve di reale valuta da parte di altri paesi. Egli proseguiva:
“La valutazione del paniere dei DSP e motivata dalla convenienza della denominazione, e si può sostenere che sia abbastanza casuale (e inessenziale) per gli scopi principali”.
In altre parole, questo non è molto di più di una cambiamento minore nella contabilità, con implicazioni economiche banali.
dicembre 3, 2015
Nov 30 3:59 pm
I’ve mentioned before that I’m a big fan of work by my CUNY colleague Branko Milanovic showing that if you look at income growth by percentile of the whole world population for the past 25 years, you see “twin peaks”: rapid growth near the middle, representing China’s middle class, and at the top, representing the global elite, with a sag in the region representing the OECD working class. But was it always thus? I asked Branko what a similar picture looked like for the previous generation — and he has obliged.
Here’s a version of the original Milanovic history of the world in one chart:
Branko calls this the elephant picture, although I don’t see it; Janet Gornick says it’s a camel. I say it’s very like a whale …
But here’s the picture for the preceding generation — by “ventile”, that is, 5 percent interval, rather than percentile — and it doesn’t look at all similar:
So pre-1990 or so we had no visible tendency toward either inequality or equality at a world level; the elephant-camel-whale is for the later period. That’s interesting, because post-1990 is also the period of hyperglobalization, of unprecedented growth in trade due to slicing up of the value chain.
How big is the causal link? I don’t know. But there is, I’d argue, an important and interesting stylized fact here for us to work with.
Iperglobalizzazione e ineguaglianza globale
Avevo ricordato in passato di essere un grande sostenitore del lavoro del mio collega al CUNY [1] Branko Milanovic che mostra come, se si guarda alla crescita del reddito dell’intera popolazione mondiale nei passati 25 anni, si notano “due picchi gemelli” [2]: la rapida crescita sulla zona mediana, che rappresenta la classe media cinese, e al vertice, che rappresenta l’élite globale, con un afflosciamento in corrispondenza delle classi lavoratrici dei paesi dell’OCSE. Ma è sempre stato così? Avevo chiesto a Branko come sarebbe apparsa una raffigurazione simile per la precedente generazione – e lui mi ha soddisfatto.
Ecco la versione della originaria storia del mondo di Milanovic in un diagramma:
Branko dice che è il disegno di un elefante, sebbene io non lo veda; Janet Gornick dice che è un cammello. Io dico che somiglia proprio ad una balena ….
Ma ecco la rappresentazione per la precedente generazione – sulla base di “ventili” anziché di percentili, ovvero di intervalli del 5 per cento – e non sembra affatto simile:
Dunque, prima degli anni ’90 non avevamo alcuna tendenza visibile sia all’ineguaglianza che all’eguaglianza a livello mondiale; l’elefante-cammello-balena riguarda il periodo successivo. Ciò è interessante, perché il periodo successivo agli anni ’90 è anche quello della iperglobalizzazione, di una crescita senza precedenti dei commerci dovuta allo spezzettamento della catena del valore.
Quanto è grande questa connessione casuale? Non lo so. Ma direi che c’è in questo caso un importante ed interessante fatto rappresentato in modo espressivo, sul quale lavorare.
[1] City University of New York, Università pubblica statunitense.
[2] Krugman, il 1 gennaio di quest’anno, pubblicò con grande rilievo, prima in un post e in seguito in un articolo su New York Times dal titolo “Il Pianeta dei picchi gemelli”, un diagramma che mostrava il risultato del lavoro di Milanovic. Sono entrambi tradotti in questo blog.
Mi pare possa essere utile anche alla comprensione dei due diagrammi di questo post, ripubblicare il diagramma degli articoli di gennaio, con un mio tentativo di spiegazione del diagramma originario:
“Il diagramma mostra la crescita del reddito reale ai vari percentili della distribuzione globale del reddito nel periodo 1988 – 2008, espressa in dollari “a parità dei poteri di acquisto” (PPP) relativi all’anno 2005. Se ben capisco, sulla linea verticale si mostra la crescita del reddito (dunque, non un valore assoluto ma il valore relativo che esprime l’entità della variazione); mentre quella orizzontale fa comprendere come il fenomeno della crescita si è distribuito per i vari “percentili” della popolazione mondiale. In altre parole: l’ultimo picco (quello tra il 99° ed il 100° percentile) indica l’enorme incremento che si è determinato per i più ricchi al mondo, espresso con un aumento verticale; il picco in prossimità del 60° percentile mostra il forte incremento che si è determinato per la popolazione mondiale con redditi intermedi, che corrisponde grosso modo alle condizioni di reddito della ‘classe media cinese’; mentre l’andamento in forte calo (attenuazione della crescita) riguarda la classe di reddito tra il 60° e l’80° percentile, sul quale si colloca normalmente la ‘classe medio bassa americana’.”
Aggiunta: E’ evidente che in questo diagramma del gennaio scorso gli scostamenti appaiono assai più pronunciati del primo diagramma pubblicato nel post di oggi, perchè la linea verticale – la crescita del reddito in termini percentuali – allora veniva applicata ad una scala da 1 a 80, mentre oggi ad una scala da 1 a 200. I valori dovrebbero essere i medesimi (anche se forse c’è qualche differenza abbastanza marginale, dato che oggi la crescita del reddito al 60° percentile pare raggiunga il 100 per cento, mentre a gennaio arrivava sotto l’80 per cento. Ma si noti che nel diagramma di oggi non appare il riferimento al metro di misura della “parità del potere di acquisto”, che forse è la spiegazione delle differenze).
dicembre 3, 2015
November 30, 2015 2:02 pm
Via Mark Thoma, there have been multiple interesting responses to my post about what has and hasn’t worked in macro since 2008. I guess the piece was useful, if only for focusing debate.
What I want to focus on in this post is the suggestion by Brad DeLong that I missed a failed implication of Hicksian analysis — that demand shocks should be short-term in their effect. Actually, and very unusually, I think Brad has this wrong. The proposition of a long-run tendency toward full employment isn’t a primitive axiom in IS-LM. It’s derived from the model, under certain assumptions. But there’s good reason to believe that even under “normal” conditions it’s a very weak, slow process. And under liquidity trap conditions it’s not a process we expect to see operate at all.
How is the self-correction of an economy to its long-run equilibrium supposed to work? In textbook analysis, the story is that falling prices raise the real money supply, pushing down interest rates, and hence restoring employment.
So how rapidly would we expect this process to work? Let’s take the most favorable assumption, which is that of a constant velocity of money. Under those conditions, holding the money supply fixed would also hold nominal GDP fixed, so that a one percent fall in the price level would raise real output by one percent. The question then is how responsive prices are to the output gap.
Well, Blanchard, Cerutti and Summers have a new paper that estimates an an “anchored expectations” Phillips curve (aka an old-fashioned, pre-Friedman/Phelps curve), and finds the coefficient on unemployment for the US to be about -.25. That’s for unemployment; on output, given Okun’s Law, the coefficient should be only half that. This implies a half-life for output gaps of around 6 years. The long run is pretty long, in other words; we might not all be dead, but most of us will be hitting mandatory retirement.
And that’s assuming constant velocity. With interest rates dropping, part of the fall in prices should translate into a fall in velocity rather than a rise in real output, so the implied speed of adjustment should be even lower.
But wait, it gets worse: at the zero lower bound the process doesn’t work at all. In a liquidity trap, the proposition of a self-correcting economy falls down — in fact, what more flexible prices would do, arguably, is bring on a debt-deflation spiral.
Yes, a sufficiently large price fall could bring about expectations of future inflation — but that’s not the mechanism we’re talking about here.
You might ask, given this logic, why actual slumps usually don’t last all that long. The answer is, first, that the shocks causing slumps are often temporary; but second, in practice central banks don’t sit there passively, holding the money supply constant, but in fact push back against slumps with expansionary policy. The economy isn’t self-correcting, at least on a time scale that matters; it relies on Uncle Alan, or Uncle Ben, or Aunt Janet to get back to full employment.
Which brings us back to the liquidity trap, in which the central bank loses most if not all of its traction. Nothing about basic macro models says that there should be a fast return to long-run equilibrium under those conditions, so the failure to see such a fast return is actually a point in favor of the model, not a failure.
L’economia si sta autocorreggendo? (per esperti)
Per il tramite di Mark Thoma [1], c’è stata una varietà di risposte interessanti al mio post su quello che ha e non ha funzionato nella macroeconomia a partire dal 2008 [2]. Penso che l’articolo sia stato utile, se non altro a focalizzare il dibattito.
Ciò su cui mi voglio concentrare in questo post è il suggerimento di Brad DeLong secondo il quale avrei trascurato un aspetto implicito della analisi hicksiana che non è stato confermato – che gli shock della domanda dovrebbero avere effetto di breve termine. Per la verità, ed è assai inconsueto, io penso che Brad in questo caso abbia torto. Il concetto di una tendenza di lungo periodo verso la piena occupazione non è un assioma originario del modello IS-LM. Esso deriva dal modello, sulla base di alcuni assunti. Ma c’è una buona ragione per credere che persino in condizioni normali si tratti di un processo molto debole e lento. E nelle condizioni di una trappola di liquidità è un processo che non ci aspettiamo affatto di vedere all’opera.
Come si suppone che funzioni l’autocorrezione di un’economia verso il suo equilibrio di lungo periodo? Nell’analisi dei libri di testo, la spiegazione è che i prezzi in caduta accrescono l’offerta reale di moneta, spingendo in basso i tassi di interesse e di conseguenza ripristinando occupazione.
Dunque, quanto rapidamente ci si deve aspettare che questo processo operi? Assumiamo l’ipotesi più favorevole, che è quella di una velocità costante della moneta [3]. A quelle condizioni, tenere fissa l’offerta di moneta manterrebbe stabile anche il PIL nominale, cosicché una caduta dell’1 per cento nel livello dei prezzi aumenterebbe la produzione reale dell’1 per cento. La domanda, dunque, è quanto sono reattivi i prezzi al divario di produzione.
Ebbene, Blanchard, Cerutti e Summers presentano un nuovo studio che stima una curva di Phillips (ovvero, una curva vecchia maniera, prima di Friedman-Phelps [4]) “ancorata alle aspettative”, e scopre che il coefficiente di disoccupazione degli Stati Uniti è attorno al -0,25. In quel caso si tratta della disoccupazione; per la produzione, data la Legge di Okun [5], il coefficiente dovrebbe essere attorno alla metà. Questo implica una semi vita per i differenziali di produzione di circa 6 anni. In altre parole: il lungo periodo è abbastanza lungo; non dovremmo essere tutti morti, ma la maggior parte di noi avrà raggiunto il pensionamento obbligatorio.
E ciò accade supponendo una velocità costante. Con i tassi di interesse in discesa, parte della caduta dei prezzi dovrebbe tradursi in una caduta di velocità piuttosto che in una crescita della produzione reale, cosicché la implicita velocità di adeguamento dovrebbe essere persino più lenta.
Ma aspettate, è ancora peggio: al limite inferiore dello zero il processo non opera affatto. In una trappola di liquidità, la proposizione di una economia che si autocorregge viene meno – di fatto, ciò che farebbero prezzi più flessibili, verosimilmente, è dare origine ad una spirale debito-deflazione.
É vero, una caduta sufficientemente ampia dei prezzi potrebbe avere provocare aspettative di inflazione futura – ma non è questo il droide che stiamo osservando il meccanismo del quale in questo caso stiamo parlando.
Data questa logica, ci si potrebbe chiedere perché le crisi attuali solitamente non durano così a lungo. La risposta è che, anzitutto, gli shock che provocano le crisi sono spesso temporanei; ma in secondo luogo, in pratica le banche centrali non se ne stanno sedute passivamente, tenendo costante l’offerta di denaro, ma di fatto spingono indietro le crisi con una politica espansiva. L’economia non si sta autocorreggendo, almeno su una scala temporale significativa; si affida allo Zio Alan, o allo Zio Ben, o alla Zia Janet [6], per tornare alla piena occupazione.
La qualcosa mi riporta alla trappola di liquidità, nella quale la banca centrale perde la gran parte, se non tutta, della sua capacità di trazione. Niente dei modelli di base della macroeconomia dice che, in queste condizioni, ci dovrebbe essere un ritorno veloce all’equilibrio di lungo periodo, cosicché il fatto che non si assista a quel rapido ritorno è un punto a favore del modello, non un segno del suo insuccesso.
[1] Ovvero, del blog di Thoma che fornisce quotidianamente una sintesi molta ampia del dibattito economico statunitense.
[2] Il riferimento è al post precedente del 28 novembre, dal titolo “Domanda, offerta e modelli macroeconomici”.
[3] Si intende, una velocità di circolazione della moneta.
[4] Il tasso naturale di disoccupazione è un concetto economico sviluppato particolarmente da Milton Friedman e Edmund Phelps negli anni sessanta. Esso rappresenta l’ipotetico tasso di disoccupazione coerente con il livello potenziale della produzione aggregata. Questo è il tasso di disoccupazione che l’economia raggiunge in assenza di frizioni temporanee come ad esempio un aggiustamento solo parziale dei prezzi nei mercati dei beni e del lavoro. Il tasso naturale di disoccupazione corrisponde quindi al tasso di disoccupazione che prevarrebbe secondo l’economia classica. Esso è determinato prevalentemente dall’offerta aggregata, e quindi dalle possibilità di produzione e dalle istituzioni economiche. Se ciò determina disallineamenti permanenti nel mercato del lavoro, oppure rigidità nei salari reali, allora il tasso naturale di disoccupazione può rappresentare anche una disoccupazione involontaria, dovuto a persone che pur cercando un lavoro non riescono a trovarlo.
Disturbi all’equilibrio del sistema economico (ad esempio, variazioni cicliche nell’ottimismo o pessimismo dei soggetti economici) fanno sì che la disoccupazione effettiva sia diversa da quella naturale, e sia determinata in parte da fattori di domanda aggregata secondo una visione keynesiana della determinazione del PIL. L’implicazione, dal punto di vista della politica economica, è che il tasso naturale di disoccupazione non può essere ridotto in modo permanente da politiche di controllo della domanda (inclusa la politica monetaria), mentre tali politiche possono giocare un ruolo nella stabilizzazione delle variazioni della disoccupazione effettiva. Una riduzione del tasso naturale di disoccupazione, secondo questa teoria, deve essere ottenuta attraverso politiche strutturali dirette al lato dell’offerta dell’economia.
Lo sviluppo della teoria del tasso naturale di disoccupazione arrivò negli anni ’60 quando gli economisti osservarono che la relazione prevista dalla curva di Phillips tra inflazione e disoccupazione cominciò a venir meno. Fino ad allora, era generalmente accettata l’esistenza di una relazione stabilmente negativa tra inflazione e disoccupazione. Ciò implicava che la disoccupazione potesse essere ridotta in modo permanente da politiche espansive della domanda, e quindi da un’inflazione più elevata. Milton Friedman e Edmund Phelps criticarono questa idea su una base teorica, notando che se la disoccupazione fosse stata ridotta in modo permanente, qualche variabile economica reale (come i salari reali) sarebbe dovuta cambiare anch’essa in modo permanente. Il fatto che ciò dovesse accadere in conseguenza di un’inflazione più elevata, sembrava dovuto ad una sistematica irrazionalità del mercato del lavoro. Come notò Friedman, l’aumento dei salari prima o poi avrebbe uguagliato l’aumento dei prezzi dovuto all’inflazione, lasciando così i salari reali, e quindi la disoccupazione, invariati. Dunque, una disoccupazione più bassa poteva essere ottenuta finantochè l’aumento dei salari e l’inflazione attesa fossero stati inferiori all’inflazione realizzata. Tale risultato non poteva che essere considerato temporaneo. Prima o poi, la disoccupazione sarebbe tornata al tasso determinato da fattori reali indipendenti dal tasso di inflazione. Secondo Friedman e Phelps, la Curva di Phillips era quindi verticale nel lungo periodo, e politiche di domanda espansive avrebbero causato soltanto inflazione, senza abbassare permanentemente la disoccupazione. (Wikipedia)
[5] In economia, la Legge di Okun, che prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962) è una legge empirica che associa ad ogni punto aggiuntivo di disoccupazione ciclica (differenza tra tasso di disoccupazione naturale e disoccupazione totale), 2 punti percentuali di gap di produzione.
[6] I nomi degli ultimi tre Presidenti della Fed: Alan Greenspan, Ben Bernanke e Janet Yellen.
dicembre 2, 2015
November 28, 2015 1:26
I’m supposed to do a presentation next week about “shifts in economic models,” which has me trying to systematize my thought about what the crisis and aftermath have and haven’t changed my understanding of macroeconomics. And it seems to me that there is an important theme here: it’s the supply side, stupid.
What I mean by that is that if you came into the crisis with a broadly Hicksian view of aggregate demand you did quite well. You made predictions that Very Serious People scoffed at — that as long as we were at the zero lower bound massive increases in the monetary base wouldn’t be inflationary, that budget deficits would not drive up interest rates — and also predicted large multipliers from fiscal policy, in particular nasty consequences of austerity. And you would not have found anything in what happened from 2008 on that contradicted your views.
I worded the above carefully. There’s a whole industry of people trying to show that Keynesian predictions about austerity didn’t pan out; it’s an industry that relies mainly on crude misrepresentations of what those predictions really amount to, and especially on confusions between levels and rates of change. (Britain imposed a lot of austerity from 2010 to 2012, but it grew in 2013. Ha! Keynes disproved!) But I won’t claim that the data prove Hicks/Keynes models right; the point is just that when you do the obvious comparisons, say between austerity and growth, they’re pretty much what a Keynesian would have said:
What hasn’t worked nearly as well is our understanding of aggregate supply — which was, if truth be told, always based on much less solid reasoning.
One big problem has been the absence of deflation. The “accelerationist” Phillips curve that used to be standard — inflation depends on unemployment and lagged inflation — seemed consistent with the experience from previous big slumps, which were associated with large declines in the rate of inflation. Specifically, we used to cite the “clockwise spirals” one saw in unemployment-inflation space as evidence for something like the Friedman-Phelps theory of the natural rate.
But what worked in the 70s and 80s doesn’t look so good for recent experience:
Why didn’t the sustained high unemployment after 2008 push us into deflation? There are some popular stories — downward nominal wage rigidity that makes the long-run Phillips curve non-vertical at low inflation rates, “anchored” inflation expectations — and I cite those stories myself. But standard discourse on macroeconomics has not fully taken the non-deflation surprise into account.
The other big problem is the dramatic drop in estimates of potential output, which is clearly correlated with the depth of cyclical slumps — and with austerity policies. Fatas and Summers have made a splash recently making this point, but Larry Ball has been on the case for a while — and I made the link to austerity. Here’s what it looks like using Ball’s estimates of the fall in potential output:
Is there a policy moral from these supply-side failures of the pre-crisis doctrine? Yes: I think they both suggest the great danger of excessively contractionary policies. On one side, central banks focused on stable inflation may think they’re doing a good job — because where’s the deflation? — when they are actually falling very far short of providing enough support. And fiscal contraction in a liquidity trap seems to be absolutely terrible for the long run as well as the short run, and quite possibly counterproductive even in purely fiscal terms.
Again, I don’t think even Hicksian-inclined economists have taken all of this sufficiently into account.
Domanda, offerta e modelli macroeconomici
Sembra che la prossima settimana debba fare una presentazione sul tema degli “cambiamenti nei modelli economici”, per cui sto cercando di sistematizzare quello che la crisi e le sue conseguenze hanno o non hanno cambiato nella mia comprensione della macroeconomia. E qua mi pare ci sia un tema importante: si tratta dell’offerta, stupidi [1].
Quello che voglio dire è che se siete arrivati alla crisi con un generale punto di vista hicksiano sulla domanda aggregata, vi è andata abbastanza bene. Avete fatto previsioni che le Persone Molto Serie hanno sbeffeggiato – che per tutto il tempo in cui fossimo restati al limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse) massicci incrementi nella base monetaria non avrebbe avuto effetti inflattivi, che i deficit di bilancio non avrebbero spinto in alto i tassi di interesse – ed avete anche previsto ampi moltiplicatori dalla politica della finanza pubblica, in particolare conseguenze sgradevoli dall’austerità. E non avete trovato niente in quello che è accaduto dal 2008 in poi, che ha contraddetto i vostri punti di vista.
Ho detto quanto sopra misurando le parole. C’è un’intera industria di individui che cercano di dimostrare che le previsioni keynesiane sull’austerità non hanno avuto successo; è un’industria che si fonda principalmente su caricature di quello che tali previsioni configurano, e in particolare su confusioni tra livelli e tassi di cambiamento (l’Inghilterra ha imposto un sacco di austerità dal 2010 al 2012, ma nel 2013 è cresciuta. Vedi? Keynes è stato smentito!). Ma io non sosterrò che i dati dimostrano che i modelli di Keynes ed Hicks sono giusti; il punto è soltanto che quando si fanno confronti ovvi, diciamo tra austerità e crescita, essi corrispondono abbastanza a quello che un keynesiano avrebbe detto:
Quello che non ha funzionato neanche lontanamente così bene è stata la nostra comprensione dell’offerta aggregata – che è stata, a dir la verità, sempre fondata su un ragionamento assai meno solido.
Un grande problema è stato l’assenza di deflazione. La curva “accelerazionista” di Phillips che si era soliti utilizzare – l’inflazione dipende dalla disoccupazione e dalla inflazione ritardata – sembrava coerente con l’esperienza delle recessioni precedenti, che erano associate con ampi decrementi nel tasso di inflazione. In particolare, eravamo soliti citare le “spirali nel senso orario” che si potevano notare nell’intervallo tra disoccupazione ed inflazione come prova di qualcosa che assomigliava alla teoria del tasso naturale di Friedman-Phelps.
Ma quello che ha funzionato negli anni ’70 e ’80 non è apparso così chiaro nella recente esperienza [3]:
Perché la perdurante elevata disoccupazione dopo il 2008 non ci ha spinto nella deflazione? Ci sono alcune spiegazioni popolari – la rigidità verso il basso dei salari che rende la curva di Phillips di lungo periodo non-verticale a bassi tassi di inflazione, come “ancorata” alle aspettative di inflazione – ed io racconto queste spiegazioni per me stesso. Ma il dibattito standard sulla macroeconomia non ha pienamente messo la sorpresa della non deflazione nel conto.
L’altro grande problema è stata la spettacolare caduta nelle stime della produzione potenziale, che è chiaramente correlata con la profondità delle crisi cicliche – e con le politica dell’austerità. Fatas e Summers di recente hanno fatto clamore avanzando questo argomento, ma Larry Ball lo aveva sostenuto per un certo periodo – ed io stesso indicai la connessione con l’austerità. Ecco quello che appare utilizzando le stime di Ball sulla caduta della produzione potenziale [4]:
C’è una morale politica in questi insuccessi dal lato dell’offerta della dottrina precedente alla crisi? Sì: io penso che entrambe suggeriscano il grande pericolo delle politiche eccessivamente restrittive. Da una parte, le banche centrali concentrate su una inflazione stabile possono pensare di star facendo un buon lavoro – perché la deflazione non si vede – mentre non sono affatto all’altezza nel fornire sufficiente sostegno. Inoltre, la contrazione della spesa pubblica in una trappola di liquidità sembra essere assolutamente terribile per il lungo periodo come per il breve, e forse abbastanza controproducente anche in termini di pura finanza pubblica.
Lo ripeto: non penso che neppure gli economisti di orientamento hicksiano abbiano messo tutto questo sufficientemente nel conto.
[1] Come altre volte ho ricordato, l’uso del termine “stupido” non è così frequente in americano. Dipende soltanto dal fatto che una storica battuta di Bill Clinton, peraltro non così divertente, entrò un giorno nel linguaggio comune. É un forma bizzarra di ‘intrattenimento’ un po’ brusco di chi ascolta o legge.
[2] Ovvero, come mostra la tabella, che in generale c’è stata una certa corrispondenza tra l’intensità delle politiche di restrizione della finanza pubblica (linea orizzontale) e la quantità dei mutamenti nel PIL reale.
Una tabella simile – elaborata da Krugman – era stata presentata nel post “Lo Zombi dell’austerità espansiva” del 20 novembre 2015, dove era chiarito che essa si riferiva al periodo dal 2007 al 2015. Questa, invece, probabilmente parte dal 2009.
[3] La tabella mostra gli andamenti del tasso di disoccupazione e dell’inflazione sostanziale (al netto dei generi volatili) nei tre periodi di declino economico (anni ’70 in blu, anni ’80 in rosso e Grande Recessione recente, in verde). Le linee esprimono gli anni in sequenza, e dunque le “spirali” dipendono dai movimenti combinati del tasso di disoccupazione e dell’inflazione. Secondo la curva di Phillips un aumento sensibile della inflazione comporta dopo un po’ una crescita della disoccupazione, a sua volta essa comporta un successivo processo di deflazione.
Allo scopo di aiutare la comprensione di quello che Krugman osserva successivamente, si può notare, ad esempio con gli anni ’70, che essi furono caratterizzati – se li leggo giustamente, ovvero se vanno letti nel senso di una spirale ‘in senso orario’ – da una rapida crescita dell’inflazione (da circa il 5 al 10% annuo), che dopo un certo periodo produsse una rilevante crescita della disoccupazione (da circa il 6 al 9%); dopo quel periodo ci fu un terzo momento di deflazione netta (da circa il 10 al 6%) e poi un quarto di sensibile diminuzione della disoccupazione (dall’8% al 5,5& circa) con un tasso di inflazione stabile. La deflazione negli anni ’80 fu minore (dal 6 all’8%), ma ci fu. Negli anni recenti il forte incremento della disoccupazione (dal 5 al 10%) non è stato seguito da alcuna deflazione; l’inflazione è rimasta attorno al 2% per l’intero periodo.
[4] Per produzione potenziale si intende il PIL depurato degli effetti del ciclo economico, ovvero il potenziale produttivo che residua, che non scompare per gli effetti una recessione (o che addirittura ha fatto il suo ingresso nell’economia nel periodo recessivo). Sulla linea orizzontale, ancora l’intensità delle politiche di austerità; su quella verticale l’andamento delle stime sul PIL potenziale, tutto in territorio negativo, ad eccezione degli Stati Uniti.
novembre 28, 2015
Nov 27 10:28 am
One of the big lessons of the euro crisis has been that Milton Friedman was right — not about monetarism, but about the case for flexible exchange rates. When big adjustments in a country’s wages and prices relative to trading partners are necessary, it’s much easier to achieve these adjustments via currency depreciation than via relative deflation — which is one main reason there have been such big costs to the euro.
But many economists remain deeply unwilling to accept this point. And so in Thordvaldur Gylfason’s otherwise useful survey of Iceland since the crisis, we get this:
In Ireland, the 2007 level of the purchasing power of per capita GNI was restored a year later than in Iceland, in 2014.
It is, therefore, not true that having its own currency (which lost a third of its value in real terms during the crash) saved Iceland from the sorry fate that Ireland would have to suffer because Ireland is anchored to the euro.
Ireland adjusted by other means. Iceland, had it used the euro, could have done the same. The Icelandic króna has lost 99.95% of its value vis-à-vis the Danish krone since 1939 when the two currencies were equivalent, convincing many local observers that Iceland is ripe for the adoption of the euro.
OK, the bit about depreciation since 1939 — 1939! — is a cheap shot. What about the Ireland comparison?
It’s true that Irish GDP per capita (in this case using GNI doesn’t make much difference) recovered to its pre-crisis level only a bit later than Iceland’s. But that’s not the only indicator, and it’s one that is arguably distorted by the nature of the Irish export sector, which held up fairly well and is highly capital-intensive (think pharmaceuticals) — that is, it contributes a lot to GDP but employs very few people.
If you look at employment instead, as in the chart, Iceland did far better than Ireland; and Icelandic unemployment similarly shows a much more favorable picture. Less formally, everyone I know who tracked both countries has the sense that the human toll in Iceland was much less than it was in Ireland.
Oh, and if you remember, everyone expected the Icelandic crisis to be much worse, given the incredible scale of the banking overreach — early on, comparisons between the two in Ireland were regarded as black humor, not something anyone expected to be meaningful.
I guess I understand the urge to make excuses for the single currency. But the evidence really does suggest that there are important advantages to keeping your own currency.
L’Islanda, l’Irlanda e il negazionismo sulla svalutazione
Una delle grandi lezioni della crisi dell’euro è stata che Milton Friedman aveva ragione – non sul monetarismo, ma sugli argomenti a favore dei tassi di cambio flessibili. Quando sono necessarie grandi correzioni sui salari e sui prezzi di un paese, in rapporto ai partner commerciali, è molto più facile ottenerle attraverso una svalutazione della moneta che attraverso una relativa deflazione – che è una delle ragioni per le quali ci sono stati costi talmente elevati per l’euro.
Ma molti economisti restano profondamente indisponibili ad accettare questa opinione. E così, nell’indagine sull’Islanda a partire dalla crisi di Thordvaldur Gylfson, per altri aspetti utile, abbiamo questi giudizi:
“In Irlanda, il livello del potere di acquisto del Reddito Lordo Nazionale [1] procapite è stato ripristinato un anno dopo che in Islanda, nel 2014.
Di conseguenza, non è vero che avere la propria valuta (che durante il tracollo ha perso un terzo del suo valore in termini reali) abbia salvato l’Islanda dal destino spiacevole che l’Irlanda si suppone abbia sofferto in quanto ancorata all’euro.
L’Irlanda ha provocato le correzioni in altri modi. L’Islanda, se avesse usato l’euro, avrebbe potuto fare lo stesso. Dal 1939, la corona islandese ha perso il 99,95% del suo valore a confronto con la corona danese, quando le due valute erano equivalenti, convincendo molti osservatori locali che l’Islanda è matura per l’adozione dell’euro”.
Va bene, la parte relativa alla svalutazione a partire dal 1939 – 1939! – è un colpo ad effetto. Cosa dire a proposito del confronto con l’Irlanda?
É vero che il PIL irlandese procapite (in questo caso utilizzare il Reddito Lordo Nazionale non fa molta differenza) si è ripreso ai suoi livelli precedenti alla crisi solo un po’ più tardi dell’Islanda. Ma questo non è l’unico indicatore, ed esso è probabilmente distorto dalla natura del settore delle esportazioni irlandese, che si è sostenuto discretamente ed è ad elevata intensità di capitale (si pensi ai farmaceutici) – vale a dire contribuisce molto al PIL ma occupa davvero poche persone.
Se invece guardate all’occupazione, come nella tabella, l’Islanda ha fatto assai meglio dell’Irlanda; e in modo simile la disoccupazione islandese mostra un quadro molto più favorevole. In modo meno formale, tutti quelli che conosco che hanno seguito entrambi i paesi hanno la sensazione che il tributo umano in Islanda sia stato molto minore che in Irlanda.
Inoltre, se vi ricordate, tutti si aspettavano che la crisi islandese fosse molto peggiore, data la dimensione incredibile degli eccessi bancari – agli inizi, i confronti tra i due paesi in Irlanda erano considerati come umorismo nero, non come qualcosa che in genere ci si aspettava avesse un qualche significato.
Immagino di comprendere il bisogno di avanzare scusanti per la moneta unica. Ma le prove davvero indicano che ci sono vantaggi importanti a tenersi la propria valuta.
[1] Il Reddito Lordo Nazionale è il prodotto totale all’interno e all’estero imputabile ai residenti di un paese. Si ottiene sommando il Prodotto Interno Lordo ai redditi degli stranieri che risiedono nel paese, e sottraendo i redditi guadagnati nella economia di quella nazione da coloro che non sono residenti.
novembre 28, 2015
Nov 26 11:15 am
I awakened, long before dawn, to the sound of helicopters patrolling the Upper West Side. Many helicopters. I guess they’re protecting Snoopy. Then, over coffee, I read more Alan Abramowitz on how The Donald could be the nominee.
Indeed. All the rules have changed. Media mockery of Trump has no impact — perhaps because even the candidates considered respectable would have been considered out of bounds not that long ago. Consider the guy getting a lot of establishment puffery lately, supposedly making a comeback: he exemplifies the transition from a nation whose motto was “speak softly and carry a big stick” to one whose de facto motto is yell a lot and carry a strawberry smoothie.
Oh well. Time to get ready for the relatives.
Un “Giorno del ringraziamento” alla Trump
Fonte: BNR (Blue Nation Review)
Mi sono svegliato, un bel po’ prima dell’alba, al rumore di elicotteri che pattugliavano la Upper West Side. Suppongo che stessero proteggendo Snoopy [1]. Poi, con il caffè, ho letto meglio Alan Abramowitz, su come “Il Donald” potrebbe essere il prescelto (nelle primarie repubblicane).
É proprio così. Tutte le regole sono cambiate. L’ironia del media su Trump non ha alcun impatto – forse perché anche i candidati considerati rispettabili sarebbero stati, sino a non molto tempo fa, valutati fuori dai limiti consentiti. Si consideri quel soggetto che sta ottenendo di recente molta montatura da parte del gruppo dirigente [2], che si suppone stia realizzando un rientro sulla scena: egli esemplifica il passaggio da una Nazione il cui motto era “parla con voce sommessa e tieni appresso un gran bastone”, ad una il cui motto in sostanza è “grida a squarciagola e tieni appresso un frappè alla fragola”.
Va bene. É tempo che mi prepari per i parenti.
[1] In quel giorno ha luogo la Parata per il Thanksgiving, nella quale sfilano grandi palloni areostatici che somigliano ai carri del Carnevale. Forse era in programma un pallone ispirato a Snoopy. Del genere di questi altri:
[2] Dal contesto, non si comprende chi sia precisamente questo individuo; forse Marco Rubio, le cui credenziali nel gruppo dirigente repubblicano crescono, con il tramontare della ipotesi di Jeb Bush.
Colgo l’occasione per ripetere che in questo caso scelgo di tradurre “establishment” con “gruppo dirigente”, perché interpreto che si riferisca ai personaggi più autorevoli del Partito Repubblicano. In realtà, non si tratta di individui che probabilmente fanno parte di uno specifico organismo (una “Direzione”): probabilmente comprendono cariche rilevanti al Congresso, forse qualche Governatore di Stati a maggioranza repubblicana. Sono distinguibili per le loro posizioni più tradizionali, suppongo per la distanza relativa dalle posizioni dei gruppi più estremisti come il Tea Party, e in sostanza esprimono una preferenza per candidati “meno pazzeschi”, come Jeb Bush e Marco Rubio.
novembre 28, 2015
Nov 25 3:44 pm
Greg Sargent has lately been driving home the point that Donald Trump just isn’t vulnerable to typical establishment attacks — at least in the Republican primary. (The general election might be different.) Catch him making an utterly false assertion, and his supporters just see it as the liberal media conspiring against him. It’s driving the establishment Republicans wild.
But really, why should they be shocked? Think about what the establishment has to say on other issues. The chairman of the House science committee says that global warming is a fraud, perpetrated by a vast conspiracy at the NOAA, which is presumably part of a global scientific conspiracy. When the administration reported large numbers of people signing up for Obamacare, leading Republican Senators accused it of cooking the books — and I’m unaware of any apology or even acknowledgement that they were wrong. Rush Limbaugh claimed that one of the Batman films was an anti-Romney conspiracy. And on and on.
So how are base voters supposed to know that Trump’s claims that the media suppressed films of Muslims cheering on 9/11 mark him as crazy, while all the other conspiracy theories on the right are OK? I guess someone could try to put out a cheat sheet listing acceptable and unacceptable tin-hat views; but Trump would just call that part of the conspiracy, and a lot of people would believe him.
Sorry, guys, you created this monster, and now he’s coming for you.
É una cospirazione!
Greg Sargent di recente sta chiarendo bene il fatto che Donald Trump non è vulnerabile agli attacchi convenzionali del gruppo dirigente – almeno nelle primarie repubblicane (nelle elezioni generali potrebbe essere diverso). Sorprendetelo a fare una affermazione completamente falsa, e i suoi sostenitori semplicemente la considereranno come una cospirazione dei media progressisti ai suoi danni. Ciò sta facendo ammattire i dirigenti repubblicani.
Ma in realtà, perché mai sorprendersi? Si pensi a quello che il gruppo dirigente ha da dire su altri temi. Il Presidente della commissione ‘sulla scienza’ della Camera sostiene che il riscaldamento globale è un frode, perpetrata da una grande cospirazione presso la National Oceanic and Atmospheric Adiministration [1], che presumibilmente fa parte di una cospirazione scientifica globale. Quando la Amministrazione ha dato conto del gran numero di persone che si stavano iscrivendo nei registri della legge sanitaria di Obama, principali Senatori repubblicani l’hanno accusata di truccare i dati – e non sono al corrente di nessuna scusa e neanche del riconoscimento che avevano torto. Rush Limbaugh ha sostenuto che uno dei film di Batman era una cospirazione ai danni di Romney [2]. E si potrebbe continuare.
Dunque, come si può pensare che gli elettori della base sappiano che la pretesa di Trump, secondo il quale i media avrebbero censurato i film dei musulmani che acclamano all’11 settembre, lo segnalano come un pazzoide, mentre tutte le altre teorie della cospirazione della destra sarebbero giuste? Suppongo che qualcuno potrebbe cercare di metter fuori un foglio degli imbrogli, elencando i punti di vista da battaglia accettabili e quelli non accettabili; ma Trump si appellerebbe proprio a quell’aspetto come una cospirazione, e una grande quantità di persone gli crederebbero.
Spiacente, signori, ma questo mostro l’avete create voi, ed ora è a vostra disposizione.
[1] É una agenzia federale americana che si occupa delle condizioni degli oceani e dell’atmosfera.
[2] É una vicenda del 2012. Secondo Limbaugh, sfrenato conduttore televisivo della destra americana, il fatto che il “cattivo” nel film di Batman si chiamasse “BANE”, mentre la società finanziaria nella quale operava Mitt Romney si chiamasse “BAIN”, era intenzionale.
novembre 25, 2015
Nov 23 7:02 pm
“Cats of War.”Credit Slate.com
Update: Yes, I know there’s a cat in the picture; I took it from Slate, “The Cats of War.” I’ve used that image before, to lighten things up slightly. Apparently I didn’t succeed.
Conventional wisdom on the politics of terror seems to be faring just as badly as conventional wisdom on the politics of everything. Donald Trump went up, not down, in the polls after Paris — Republican voters somehow didn’t decide to rally around “serious” candidates. And as Greg Sargent notes, polls suggest that the public trusts Hillary Clinton as much if not more than Republicans to fight terror.
May I suggest that these are related?
After all, where did the notion that Republicans are effective on terror come from? Mainly from a rally-around-the-flag effect after 9/11. But if you think about it, Bush became America’s champion against terror because, um, the nation suffered from a big terrorist attack on his watch. It never made much sense.
What Bush did do was talk tough, boasting that he would get Osama bin Laden dead or alive. But, you know, he didn’t. And guess who did?
So people who trust Republicans on terror — which presumably includes the GOP base — are going to be the kind of people who value big talk and bluster over actual evidence of effectiveness. Why on earth would you expect such people to turn against Trump after an attack?
La politica nel terrore
“Cats of War.”Credit Slate.com (1)
Aggiornamento: Sì, so che c’è un gatto nella foto, l’ho presa da Slate, “I gatti di guerra”. Avevo usato questa immagine in precedenza, per prendere le cose un po’ meno sul serio. Pare che non sia successo.
Gli orientamenti prevalenti (2) sulla politica del terrore sembra passarsela altrettanto male degli orientamenti prevalenti sulla politica di tutto il resto. Nei sondaggi dopo Parigi Donald Trump è salito, non è sceso – gli elettori repubblicani non hanno comunque deciso di puntare su un altro “serio” candidato. E come nota Greg Sargent, i sondaggi indicano che l’opinione pubblica si fida di Hillary Clinton altrettanto, se non di più, dei repubblicani nel combattere il terrorismo.
Posso suggerire che questi dati sono connessi?
Dopo tutto, da dove derivava il concetto secondo il quale i repubblicani sono efficaci sul terrorismo? Principalmente dall’effetto dell’unirsi-attorno-alla-bandiera successivo all’11 settembre. Ma se ci pensate, Bush divenne il campione dell’America contro il terrorismo perché, insomma, la nazione patì un grande attacco terrorista sotto la sua sorveglianza. Non ha mai avuto molto senso.
Quello che Bush fece fu di parlare con durezza, vantandosi che avrebbe avuto Osama bin Laden vivo o morto. Ma sapete che non lo fece. E indovinate chi lo fece?
Dunque, le persone che si fidano dei repubblicani sul terrore – il che presumibilmente include la base del Partito Repubblicano – è inevitabile che siano il genere di individui che stimano i grandi discorsi e le spacconate di più delle prove effettive di efficacia. Perché diamine dovreste aspettarvi che gente del genere si rivolti contro Trump dopo un attacco?
(1) Provo a dare una spiegazione/interpretazione.
Spiegazione: la foto, come si ricorderà, mostra i massimi dirigenti della Amministrazione americana attorno ad Obama, mentre ricevone le notizie sulla uccisione di Osama bin Laden. Aver introdotto il gatto nella foto era stata una iniziativa della rivista Slate, che aveva presentato, pare, una galleria di foto significative di “gatti in guerra”. Può darsi che tale scherzo fosse derivato dalla notizia in apparenza seria di un utilizzo a fini non meglio specificati dei gatti da parte dell’esercito americano; notizia apparsa su Slate il 5 maggio 2011. Krugman, come si vede, precisa che l’aveva già fatto in precedenza; dunque riconosce che la primogenitura è di Slate. Infine: nella primitiva edizione del post non compariva l’aggiornamento; probabilmente è diventato necessario per le rimostranze di Slate sulla primogenitura della foto felina.
Interpretazione: il post accenna ad un sondaggio un po’ sorprendente: pare che gli americani si fidino maggiormente della signora Clinton, in caso di vicende terroristiche. Krugman osserva che il suo passato tentativo di ‘alleggerire’ la foto della riunione di guerra con il gatto bianco non deve aver prodotto conseguenze, visto che gli americani si fidano maggiormente di Hillary, che è nel centro del gruppo alla Casa Bianca (i giornali dell’epoca notarono il suo gesto di esclamazione).
(2) Mi pare, considerando i ragionamenti che Krugman esprime da tempo, che intenda riferirsi ai commentatori. La “conventional wisdom” (“letteralmente, “saggezza convenzionale”) si riferisce a loro, e al fatto che capiscono sempre di meno cosa stia accadendo.
novembre 25, 2015
Nov 23 1:14 pm
Last night I was invited to a screening of The Big Short, which I thought was terrific; who knew that CDOs and credit default swaps could be made into an edge-of-your-seat narrative (with great acting)?
But there was one shortcut the narrative took, which was understandable and possibly necessary, but still worth noting.
In the film, various eccentrics and oddballs make the discovery that subprime-backed securities are garbage, which is pretty much what happened; but this is wrapped together with their realization that there was a massive housing bubble, which is presented as equally contrary to anything anyone respectable was saying. And that’s not quite right.
It’s true that Greenspan and others were busy denying the very possibility of a housing bubble. And it’s also true that anyone suggesting that such a bubble existed was attacked furiously — “You’re only saying that because you hate Bush!” Still, there were a number of economic analysts making the case for a massive bubble. Here’s Dean Baker in 2002. Bill McBride (Calculated Risk) was on the case early and very effectively. I keyed off Baker and McBride, arguing for a bubble in 2004 and making my big statement about the analytics in 2005, that is, if anything a bit earlier than most of the events in the film. I’m still fairly proud of that piece, by the way, because I think I got it very right by emphasizing the importance of breaking apart regional trends.
So the bubble itself was something number crunchers could see without delving into the details of MBS, traveling around Florida, or any of the other drama shown in the film. In fact, I’d say that the housing bubble of the mid-2000s was the most obvious thing I’ve ever seen, and that the refusal of so many people to acknowledge the possibility was a dramatic illustration of motivated reasoning at work.
The financial superstructure built on the bubble was something else; I was clueless about that, and didn’t see the financial crisis coming at all.
Il tema degli scoperti
La sera scorsa ero invitato ad una proiezione de La grande scommessa [1], che mi è sembrato magnifico: chi si immaginava che i CDO [2] e gli scambi sui rischi di credito potessero essere infilati in un racconto da seguire col fiato sospeso (e con una recita magistrale)?
Ma il racconto ha preso una scorciatoia, che era comprensibile e forse necessaria, e tuttavia merita di essere segnalata.
Nel film, alcuni individui eccentrici e originali fanno la scoperta che i titoli garantiti da debiti subprime sono spazzatura; che è grosso modo quello che è successo; ma questo è combinato assieme alla loro comprensione che era in atto una massiccia bolla immobiliare, la qualcosa è presentata come contraria a tutto quello che ogni persona rispettabile stava sostenendo. E questo non è del tutto corretto.
É vero che Greenspan ed altri erano occupati a negare l’effettiva possibilità di una bolla immobiliare. Ed è anche vero che chiunque suggerisse l’esistenza di una tale bolla, era attaccato furiosamente – “Lo state dicendo solo perché odiate Bush!”. Eppure c’era un certo numero di analisti economici che avanzavano la tesi di una massiccia bolla. Ecco (nella connessione nel testo inglese) Dean Baker nel 2002. Intervenne per tempo sullo stesso argomento, Bill McBride (del blog Calculated Risk), in modo molto efficace. Io mi accordai su Baker e McBride, sostenendo l’argomento della bolla nel 2004 e mettendo a punto la mia maggiore presa di posizione sugli aspetti analitici nel 2005 [3], che si colloca, semmai, un po’ prima del gran parte degli eventi del film. Tra parentesi, sono ancora orgoglioso di quell’articolo, perché penso che avevo molta ragione ad enfatizzare l’importanza di disgregare le tendenze regionali [4].
Dunque, la bolla stessa era qualcosa che un certo numero di analisti poterono constatare senza fare ricerche nei dettagli degli MBS [5], viaggiando attraverso la Florida, o in qualsiasi altro teatro mostrato nel film. Di fatto, direi che la bolla immobiliare della metà degli anni 2000 fu la cosa più evidente che non si fosse mai vista, e che il rifiuto di molte persone di riconoscerne la possibilità fu una illustrazione spettacolare di come funzionano i ragionamenti interessati.
La superstruttura finanziaria costruita sulla bolla fu qualcosa di diverso; al riguardo ero privo di indizi, e non mi accorsi affatto della crisi finanziaria che stava arrivando.
[1] Un film che esce negli Stati Uniti in questi giorni, del genere alta finanza (e assalti da parte di giovani promettenti). Con Brad Pitt e Ryan Gosling.
La traduzione del titolo del film (La grande scommessa) è molto libera. Il libro di Michael Lewis da cui il film è tratto è stato tradotto con Il grande scoperto. Il termine è comunque riferito, mi sembra, alla individuazione di una aperta situazione irregolare sul mercato finanziario, ed al conseguente tantativo di speculazione.
[2] Da Wikipedia: “Una CDO (Collateralized debt obligation) è letteralmente un’obbligazione che ha come garanzia (collaterale) un debito. Una CDO è composta da decine o centinaia di ABS, obbligazioni a loro volta garantite da un altrettanto elevato numero di debiti individuali.
Il creatore della CDO acquista un portafoglio obbligazionario e lo trasferisce ad uno Special Purpose Vehicle. L’SPV provvede a ripartire tra diverse tranches il reddito proveniente dalle obbligazioni, incanalandolo innanzitutto verso le tranche più senior, poi verso quella con seniority immediatamente successiva e così via. Rappresentano un modo per creare debito di alta qualità, distinguendolo da debito di media (o anche bassa) qualità.
L’enorme numero di debiti individuali sottostanti la singola obbligazione CDO rende di fatto impossibile valutare i rischi di ciascuna obbligazione. La conseguenza è che gli acquirenti, non potendo valutare correttamente le potenziali perdite dovute all’insolvenza dei debitori, si libereranno delle CDO non appena comprenderanno l’aumento della quota di debitori insolventi … ”.
[3] La connessione è con un post dell’8 agosto 2005, dal titolo “Quel suono sibilante”. Per quanto lo scritto fosse piuttosto breve, probabilmente Krugman ne sottolinea l’aspetto analitico perché esso è una analisi precisa dei fenomeni di collasso delle bolle immobiliari (che si annunciano, sosteneva, con il rumore di un sibilo, non di uno scoppio).
In questo blog la traduzione non compare, ma mi parrebbe interessante prossimamente aggiungerla a questo post.
[4] L’articolo sosteneva che l’America è fatta di due territori: la “Flatland” (suppongo che voglia dire il territorio metropolitano degli ‘appartamenti’) e la “Zoning Zone” (il territorio sottoposto ad una maggiore limitazione urbanistica, caratterizzato da alta densità ma da forti limiti edificativi). Nel primo, al centro del paese, il fenomeno della bolla non era neppure partito, i prezzi delle case coincidevano quasi con i costi di costruzione. Nel secondo una sproporzione tra una vivace domanda e limiti nell’offerta determinavano prezzi crescenti, sia nell’acquisto di edifici esistenti che nuovi. Il secondo caso riguardava Stati come la Florida o il Nevada, dove in effetti la bolla fu cospicua. Il dato medio nazionale dell’aumento annuo dei prezzi delle abitazioni, in effetti, era non confrontabile con quello delle aree della bolla, circa un terzo.
[5] Si dovrebbe riferire ai titoli garantiti da mutui (Mortgages-backed securities), una tipologia di prodotti finanziari. Potrebbe in teoria anche essere Mega Building System, una grande società (forse, più in generale, una tipologia industriale) che fornisce varie componenti per l’edilizia dei grandi edifici. Forse entrambi potrebbero essere stati ‘osservatori’ per una analisi della evoluzione dei mercati immobiliari; ma il prodotto finanziario effettivamente fu lo strumento principe.
novembre 24, 2015
Nov 22 2:07 pm
Brad Delong has nice things to say about my old Brookings Papers on Economic Activity on the liquidity trap, and asks why central bankers still don’t seem to get some of the basic points I made way back then, especially about the desirability of a higher inflation target. I actually have a few thoughts, which are inevitably mostly — but not entirely! — self-serving.
First, most trivially but possibly significant, I suspect that fewer macroeconomists have actually read that paper than you might think. I still run into people who believe that the modern liquidity-trap literature started with Eggertsson and Woodford, which was written several years later, and that my piece must have been a commentary on theirs (which was very good!) And it’s been very clear that remarkably few people read what I had to say about financial intermediaries and monetary aggregates, even though that has turned out, I’d argue, to be a really important insight.
This comes, I think, from the kind of micro-tribalism that is surprisingly powerful in academic economics: I have never been part of the domestic-economy macroeconomic regular circuit, so some of them couldn’t believe that I could have something new to tell them (or were simply unaware that the paper even existed.)
After all, in the early stages of the crisis response you encountered lots of macroeconomists asserting that “nobody” had discussed fiscal policy in recent years, even though Obstfeld and Rogoff had done plenty in their big 1996 book; the point is that Obstfeld and Rogoff were in the international macro circuit, and domestic guys weren’t listening.
Oh, and by the time some of them may have gotten a clue that I wrote something they maybe should read, I was politically controversial, which shouldn’t matter but does. In effect, some people may have been unwilling to consider that I might have been right about macroeconomics because I had committed the unforgivable sin of being right about Iraq. (I told you this would be self-serving!)
Second, the whole story of our woeful crisis response has been that Very Serious People seize on orthodoxies that are grounded more in their gut feelings and the comfort that comes from repeating what everyone else says than in economic analysis. Central bankers are more given to analytical thinking than most, but it’s still a very brave official who disputes the orthodoxy of 2 percent, even though the original rationale for that target — it was supposed to make the zero lower bound no problem — has long since evaporated.
Finally, to be fair, there are arguments one can make that go beyond what I said in 1998. Some models of sticky prices suggest that inflation may have bigger costs than conventional models imply. I don’t find these models plausible, but it’s not all gut feelings here.
The bottom line, however, is that while you might think it obvious that a clearly relevant paper by a well-known guy with all the right credentials must be widely understood by people who matter, it ain’t necessarily so.
Le Persone Molto serie e il caso della scomparsa dei Brookings Paper on Economic Activity
Brad DeLong dice cose cortesi sul mio vecchio saggio sulla trappola di liquidità al Brooking Paper on Economic Activity, e si chiede perché i banchieri centrali ancora non sembrano comprendere alcuni dei punti fondamentali che avevo allora prospettato, in particolare a proposito della desiderabilità di un obbiettivo di inflazione più elevato. In effetti io ho un po’ di pensieri, che in gran parte sono inevitabilmente – ma non interamente! – rivolti a me stesso.
Il primo, molto banale ma forse di un qualche significato, ho il sospetto che abbiano effettivamente letto quel saggio molti meno macroeconomisti di quello che si creda. Incontro ancora persone che credono che la letteratura moderna della trappola di liquidità sia cominciata con Eggertsson e Woodford, che scrissero diversi anni dopo, e che il mio pezzo sia stato un commento sui loro (e, come commento, era molto positivo!). Così come è chiaro che davvero in pochi hanno letto quello che avevo da dire sugli intermediari finanziari e gli aggregati monetari, anche se devo dire si è dimostrata una intuizione davvero importante.
Penso che questo derivi da quel genere di micro tribalismo che è sorprendentemente potente nell’economia accademica: io non provengo dal regolare circuito macroeconomico dell’economia interna, dunque alcuni di loro potevano pensare che non potevo aver niente da dire di nuovo (oppure erano semplicemente inconsapevoli che lo studio persino esistesse).
Dopo tutto, nei primi stadi della risposta alla crisi si sono incontrati una quantità di macroeconomisti che sostenevano che “nessuno” aveva ragionato di politica della finanza pubblica negli anni recenti, anche se Obstfeld e Rogoff l’avevano fatto in abbondanza nel loro grande libro del 1966; il fatto è che Obstfeld e Rogoff erano nel circuito della macroeconomia internazionale, e gli individui del settore interno non stavano ascoltando.
Inoltre, allorché alcuni di loro ebbero un indizio che avevo scritto qualcosa che forse dovevano leggere, io ero politicamente controverso, la qualcosa non dovrebbe contare ma conta. In effetti, alcune persone possono essere state indisponibili a considerare che potevo aver ragione sulla macroeconomia, perché avevo commesso il peccato imperdonabile di aver ragione sull’Iraq (ve l’avevo detto che quest’articolo sarebbe stato molto centrato su me stesso!).
In secondo luogo, l’intera storia della deplorevole risposta alla crisi è stata che le Persone Molto Serie si sono afferrate ad ortodossie che si basavano più sulle loro sensazioni istintive e sul conforto che deriva dal ripetere quello che dicono tutti, che non sull’analisi economica. I banchieri centrali sono più predisposti al pensiero analitico della maggioranza, eppure è ancora un dirigente molto audace colui che mette in discussione l’ortodossia del 2 per cento [1], anche se la logica originaria per quell’obbiettivo è da tempo evaporata (si supponeva che il limite inferiore dello zero dei tassi di interesse non costituisse un problema).
Infine, per essere onesti, ci sono argomenti che si possono avanzare per andare oltre ciò che dicevo nel 1998. Alcuni modelli sulla vischiosità dei prezzi indicano che l’inflazione può avere costi più grandi di quello che i modelli convenzionali implicano. Io non trovo plausibili quei modelli, ma in questo caso non si tratta solo di sensazioni istintive.
La morale della favola, tuttavia, è che se si dovrebbe supporre evidente che uno studio chiaramente rilevante da parte di un individuo ben noto con tutte le credenziali giuste debba essere ampiamente conosciuto dalle persone che contano, non è necessariamente così.
[1] Ovvero, di un obbiettivo di inflazione al 2 per cento, che è indiscutibile e indiscusso.
novembre 24, 2015
Nov 22 1:39 pm
Alan Abramowitz reads the latest WaPo poll and emails:
Read these results and tell me how Trump doesn’t win the Republican nomination? I’ve been very skeptical about this all along, but I’m starting to change my mind. I think there’s at least a pretty decent chance that Trump will be the nominee.
Here’s why I think Trump could very well end up as the nominee:
Indeed. You have a party whose domestic policy agenda consists of shouting “death panels!”, whose foreign policy agenda consists of shouting “Benghazi!”, and which now expects its base to realize that Trump isn’t serious. Or to put it a bit differently, the definition of a GOP establishment candidate these days is someone who is in on the con, and knows that his colleagues have been talking nonsense. Primary voters are expected to respect that?
Ragionando su quello che si può immaginare di Trump
Alan Abramowitz legge gli ultimi sondaggi sul Washington Post e scrive una mail:
“Leggo questi risultati e mi chiedo come farà Trump a non vincere la ‘nomination’ repubblicana? Sono stato molto scettico su questo sin dall’inizio, ma sto cominciando a cambiare il mio punto di vista. Penso che ci sia almeno una discreta possibilità che Trump finisca con l’essere nominato.
Ecco perché penso che Trump davvero finirà con l’avere la nomina:
1 – Egli è adesso avanti a tutti gli altri candidati ed è stato alla guida, da solo o al pari con altri, per lungo tempo.
2 – L’unico che appare ancora in competizione in questo momento è Carson, che è anche meno plausibile e il cui sostegno è pesantemente concentrato su un (ampio) segmento della base – gli evangelici.
3 – Rubio, la grande speranza del gruppo dirigente, in questo momento sprofonda in terza posizione, con una percentuale appena a due cifre e in nessun modo vicino a Trump o a Carson.
4 – La cosa di gran lunga più importante che cercano gli elettori del Partito Repubblicano in un candidato, è qualcuno che “porti il cambiamento necessario a Washington”.
5 – Egli è favorito, secondo gli elettori repubblicani, con ampio margine su quasi tutte le tematiche, compresa l’immigrazione e il terrorismo. Lo spavento per il terrorismo, presso i repubblicani, aiuta soltanto lui. Essi vogliono qualcuno che “bombardi la merda” dei terroristi islamici.
6 – C’è chiaramente un ampio sostegno tra i repubblicani sulla deportazione di 11 milioni di immigranti illegali. In questo caso non viene fornita una scomposizione per partito, ma il sostegno a questa scelta riguarda circa il 40 per cento di tutti gli elettori, e dunque è destinato ad essere un po’ più alto tra i repubblicani, diciamo del 60 per cento.
7 – Se nessuna delle cose totalmente pazzesche che egli ha detto sino ad adesso lo hanno colpito tra gli elettori repubblicani, perché dovrebbero ferirlo le cose pazzesche che dirà nei prossimi mesi?
8 – In questo momento egli è molto forte in vari Stati che voteranno per primi, come il New Hampshire, il Nevada e il South Carolina. Inoltre, dovrebbe andar molto bene il “Super Martedì”, con tutti quegli Stati meridionali che votano. In questo momento, ad esempio, non vedo nessun altro che possa vincere in Georgia, se non Trump o Carson. Più probabilmente Trump.
9 – E a proposito dell’idea che il gruppo dirigente del Partito Repubblicano si coalizzi contro di lui o si unisca dietro un altro candidato come Rubio, è almeno altrettanto probabile che essa si ritorca contro, anziché funzionare. E anche se funzionasse, cosa può impedire a Trump di correre come indipendente?
Proprio così. C’è un partito la cui agenda politica consiste nel gridare “tribunali della morte!” [1], la cui agenda di politica estera consiste nel gridare “Bengasi!” [2], e ora ci si aspetterebbe che la sua basa comprenda che Trump non è serio. O, per metterla un po’ diversamente, la definizione che di questi tempi viene fornita di un candidato del gruppo dirigente del Partito Repubblicano è quella di uno che ci sappia fare con gli imbrogli, e sappia che i suoi colleghi stanno dicendo cosa prive di senso. Ci si aspetta che gli elettori delle primarie si attengano a questo?
[1] É una delle accuse verso la riforma sanitaria, che darebbe ai burocrati della sanità il potere di interrompere le cure più estreme.
[2] Questa è invece la propaganda contro la Clinton, ritenuta responsabile dell’atto di terrorismo che accadde nella cittadina libica, con l’uccisione del Console degli Stati Uniti.
novembre 24, 2015
Nov 21 3:50 pm
For those of us who worried a lot about Japan in the late 1990s and now find the whole advanced world facing similar problems, deja vu comes so often that we get deja vu about getting deja vu. A case in point is the rise and fall of European bank-blaming — that is, the argument that the weakness of banks is what’s holding European recovery back.
At FtAlphaville, Matthew Klein looks at the evidence, and is surprised to find that there’s little support for the bad-banks-did-it story, even though everyone repeats it. But look back at my 1998 BPEA on Japan, which is more or less where I came in. Back then it was almost universally insisted that the failure of monetary base expansion to filter through into bank lending showed that a dysfunctional banking system was the core of Japan’s problem. But I argued (154-158) that the nonresponse of monetary aggregates was exactly what you should expect in a liquidity trap, and that there was little evidence (174-177) that banking problems were actually central to the economy’s weakness.
So, deja vu all over again, all over again.
Sono le banche il problema dell’Europa?
Per coloro tra noi che si preoccupavano molto del Giappone sulla fine degli anni ’90 ed ora trovano che l’intero mondo avanzato sta di fronte a problemi simili, il deja vu si presenta così spesso, che abbiamo dei deja vu riguardo all’avere i deja vu. Un caso del genere è l’ascesa e la caduta del dare la colpa alle banche europee – ovvero, l’argomento secondo il quale la debolezza delle banche è quella che sta trattenendo la ripresa europea.
Sul blog Alphaville del Financial Times, Matthew Klein esamina le prove, ed è sorpreso di scoprire che c’è poco sostegno al racconto secondo il quale ‘le cattive banche sono responsabili di tutto’, anche se ognuno lo ripete. Ma si legga il mio studio per i Brookings Paper del 1998 sul Giappone, che è più o meno l’occasione nella quale avanzai le mie tesi [1]. Prima di allora si pretendeva quasi universalmente che l’incapacità della espansione della base monetaria a filtrare nei prestiti bancari dimostrava che il malfunzionante sistema bancario era il cuore del problema giapponese. Ma io sostenevo (pagine 154-158) che la mancata risposta degli aggregati monetari era esattamente quello che ci si doveva aspettare in una trappola di liquidità, e che c’erano poche prove (pagine 174-177) che i problemi bancari fossero effettivamente centrali nella debolezza dell’economia.
Dunque, deja vu ancora una volta, da capo.
[1] Penso che “came in” stia per “entrai in gioco”. I Brookings paper, in questo caso, fu la presentazione di un ampio studio di Krugman, in un dibattito nel quale esso venne commentato, tra gli altri, da Kenneth Rogoff.
novembre 21, 2015
Nov 20 12:32 pm
The doctrine of expansionary austerity — the proposition that cuts in government spending would actually cause higher growth despite their direct negative impact on demand, thanks to the confidence fairy — was all the rage in policy circles five years ago. But it brutally failed the reality test; instead, the evidence pointed overwhelmingly to the continued existence of something very like the old-fashioned Keynesian multiplier.
But expansionary austerity was and is such a convenient doctrine politically that, like insistence on the magical effects of tax cuts, it has proved unkillable. Every economic uptick in an economy that practiced austerity in the past is trumpeted as proof that Keynesians were wrong and the austerians were right; never mind distinctions between levels and rates of change, or the fact that even the most Keynesian economists never asserted that fiscal policy is the *only* determinant of growth. (Animal spirits, anyone?) And in a predictable case of projection, anyone presenting the evidence gets accused of cherry-picking the data.
It’s never going to be possible to kill this zombie once and for all. But mainly for my own sake, I decided to provide a somewhat new take on the evidence.
The figure above covers the period from 2007 to 2015. This is a break from my previous efforts, which tended to start from 2009, just before the big austerity drive began.
On the horizontal axis I show an estimate of fiscal tightening, as measured by the IMF’s estimate of the cyclically adjusted primary balance (i.e., excluding interest payments) as a percentage of GDP. I have some doubts about that measure; in particular, the Fund’s method for estimating potential GDP tends to make pre-crisis economies look much more overheated than they probably were, and hence to make their structural budget position look worse; I think this is especially distorting in the case of Ireland, which has not in reality done more austerity than Greece. But in the interest of clarity, I’m just using the numbers as given.
Meanwhile, on the vertical axis I show, not the raw change in GDP, but the deviation of real GDP from what the IMF was projecting before the crisis. I derive the latter from the economic projections in the April 2008 World Economic Outlook, which went out to 2013; I assumed that projected growth 2007-2013 was expected to continue for two more years to get 2015 estimates.
What you see is a clear negative relationship between austerity and growth — actually an implied multiplier of almost 2. You also see some countries clearly experiencing other issues besides the effects of austerity. Ireland has done badly, but not as badly as you might have expected given the measured fiscal tightening (but see the discussion above.) Finland has done very badly despite mild austerity; the collapse of Nokia and the problems of forest products did the job there. The same is true of Spain, afflicted by the collapse of its mammoth housing bubble.
But the data continue to show an overwhelmingly Keynesian effect of fiscal policy. It take a lot of effort to see anything different in the evidence.
Lo Zombi dell’austerità espansiva
La dottrina dell’austerità espansiva – il concetto che i tagli alla spesa pubblica provocherebbero effettivamente una crescita più elevata nonostante il loro diretto effetto negativo sulla domanda, grazie alla ‘fata della fiducia’ – cinque anni fa era di gran moda. Ma inciampò brutalmente sulla verifica di realtà; i fatti, piuttosto, indicarono in modo schiacciante la perdurante esistenza di qualcosa di molto simile al moltiplicatore keynesiano di vecchia concezione.
Ma l’austerità espansiva era ed è una dottrina politicamente così conveniente che, al pari della insistenza sugli effetti magici degli sgravi fiscali, si è dimostrata insopprimibile. Ogni lieve rialzo in un’economia che aveva messo in pratica l’austerità è stato strombazzato come la prova che i keynesiani avevano torto e i filoausteri ragione; non contava la distinzione tra livelli e tassi di cambiamento, o il fatto che persino gli economisti più keynesiani non avevano mai sostenuto che la politica della finanza pubblica fosse l’unica determinante della crescita (ricorda qualcuno gli “spiriti animali”?) [1]. E in un caso prevedibile di previsione, chiunque presentasse le prove veniva accusato di scegliere artatamente i dati.
Ammazzare questi zombi una volta per tutte, non è destinato ad accadere. Ma principalmente per mia soddisfazione, ho deciso di fornire un qualche nuovo punto di vista sulle prove.
La tabella sopra riguarda il periodo tra il 2007 ed il 2015. Si tratta di un cambiamento rispetto i miei sforzi precedenti, che tendevano a partire dal 2009, proprio prima della entrata in funzione della grande austerità.
Sull’asse orizzontale mostro una stima della restrizione della finanza pubblica in percentuale sul PIL, così come misurata dalle valutazioni del FMI sull’equilibrio primario corrette per il ciclo economico (ovvero, con l’esclusione del pagamento degli interessi). Io ho qualche dubbio su quella misurazione; in particolare, il metodo del Fondo per la stima del PIL potenziale tende a far apparire le economie prima della crisi molto più surriscaldate di quello che probabilmente erano, e di conseguenza a far apparire peggiore la loro condizione strutturale di bilancio; io penso che questo sia in particolare nel caso dell’Irlanda, che in realtà non ha avuto maggiore austerità della Grecia. Ma, nell’interesse della chiarezza, sto solo utilizzando i dati come forniti.
Nel contempo, mostro sull’asse verticale non il mutamento grezzo del PIL, ma la deviazione del PIL reale da ciò che il FMI prevedeva prima della crisi. Derivo quest’ultima dalle previsioni economiche dell’aprile 2008 del World Economic Outlook, che arrivavano sino al 2013; ho assunto che ci si aspettasse che la crescita prevista 2007-2013 continuasse per due anni ulteriori, per ottenere le stime del 2015.
Quello che osservate è una chiara relazione negativa tra austerità e crescita – che effettivamente implica un moltiplicatore pari circa a 2. Vedete anche che alcuni paesi stanno chiaramente facendo esperienza di altri temi, oltre agli effetti dell’austerità. L’Irlanda ha avuto risultati negativi, ma non così negativi come ci si sarebbe aspettati sulla base della restrizione accertata della finanza pubblica (ma si veda il chiarimento precedente). La Finlandia ha avuto risultati molto negativi nonostante una leggera austerità; il collasso di Nokia e i problemi del settore forestale, in questo caso, provocano quell’effetto. Lo stesso è vero per la Spagna afflitta dal collasso della sua gigantesca bolla immobiliare.
Ma i dati continuano a mostrare uno schiacciante effetto keynesiano della politica della finanza pubblica. Ci vuole molto sforzo per leggere qualcosa di diverso nelle prove.
[1] Mi pare che voglia dire che neanche per i keynesiani si tratta semplicemente e soltanto di quantità della spesa pubblica; contano certamente anche le aspettative, che Keynes non attribuiva alle fate della fiducia, ma alla intraprendenza produttiva e istintiva dei capitalisti.
novembre 21, 2015
Nov 20 12:01 pm
The good people at Vox EU are engaged in a laudable effort to clear the ground for euro reform, starting with the formulation of a “consensus narrative” about the origins of the euro crisis. This is a very good idea: How you think about the past plays a very large role in how you think about what should be done next.
Furthermore, their narrative looks very right to me. No, the EZ crisis wasn’t about fiscal irresponsibility, or failure to undertake structural reforms, or the debilitating effects of the welfare state, or any of the other stories floated by motivated reasoners. It was a “sudden stop” crisis, in which vast capital flows into peripheral economies came to an abrupt halt, precipitating severe hardship largely thanks to the ; fiscal issues were a consequence, not a cause, of this financial harrowing.
But can they actually get the consensus they seek? It’s definitely worth trying. It’s obvious, however, that a lot of people inside and outside the eurozone have strong vested interests in other narratives. Will German officials stop insisting that it’s all about fiscal profligacy? Will Osborne & Co., or for that matter U.S. fiscal scolds, accept a narrative in which membership in the euro was a crucial element of the debacle, undermining their warnings that the UK or the US will turn into Greece, Greece I tell you unless we adopt austerity now now now?
I have my doubts, to say the least.
Disperatamente alla ricerca di un consenso
La brava gente di Vox EU è impegnata in uno sforzo lodevole per chiarire le basi di una riforma dell’euro, partendo con la formulazione di un “consenso narrativo” sulle origini della crisi dell’euro. Questa è un’ottima idea: il modo in cui si riflette sul passato gioca un ruolo molto grande sul modo in cui si riflette su ciò che dovrebbe essere fatto prossimamente.
Inoltre, la loro narrativa mi sembra molto giusta. No, la crisi dell’eurozona non riguardò l’irresponsabilità nella finanza pubblica, o il non aver intrapreso le riforme strutturali, o gli effetti debilitanti degli stati assistenziali, o tutte le altre storie che sono state proposte da pensatori interessati. É stata la crisi da “blocco improvviso”, nella quale ampi flussi di capitali verso le economie periferiche arrivarono ad un brutale arresto, precipitando in gravi difficoltà in gran parte grazie a ciò; i temi della finanza pubblica furono una conseguenza, di questa esperienza finanziaria tormentosa.
Ma potranno effettivamente ottenere il consenso che cercano? Certamente, merita provarci. É evidente, tuttavia, che un quantità di altre persone dentro e fuori l’eurozona hanno forti interessi personali ad altri racconti. I dirigenti tedeschi la smetteranno di ribadire che si è trattato soltanto di sperpero delle finanze pubbliche? Osborne & compagnia, o nello stesso senso la Cassandre della finanza pubblica degli Stati Uniti, accetteranno un racconto per il quale l’appartenenza all’euro fu una componente cruciale della debacle, scalzando i loro ammonimenti secondo i quali il Regno Unito o gli Stati Uniti sarebbero diventati nientedimeno che come la Grecia, se non avessero adottato l’austerità senza un minuto da perdere?
Il minimo che posso dire è che ho i miei dubbi.
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