Nov 2 10:36 am
Wolfgang Munchau declares that the euro was a mistake, and pinpoints a key illusion. Advocates
knew that, to withstand the rigours of a fixed-exchange system that resembles nothing so much as the gold standard, countries would have to adjust to economic shocks through shifts in wages and prices — a course, they believed, that the euro’s members would be forced to take.
That is, they believed that reforms could create enough flexibility to mainly neutralize Milton Friedman’s warning that in the face of negative shocks, countries with fixed exchange rates would suffer large costs:
If the external changes are deep-seated and persistent, the unemployment produces steady downward pressure on prices and wages, and the adjustment will not have been completed until the deflation has run its sorry course.
But I never believed this would work, and based my skepticism on some real evidence. During the runup to Maastricht, there were a number of studies of the US — a currency union that functions reasonably well. Was that because the US, with its weak unions and competitive labor markets, had more wage and price flexibility than other nations? Not according to Blanchard and Katz, who found that wages played hardly any role in US regional adjustments to shocks, that it was all about labor mobility. So the idea that Europe would find itself able to achieve a kind of flexibility found nowhere in the world — not even the brutal, markets-rule American economy — was just implausible.
What none of us thought about at the time was the further problem of the interaction of deflation and debt — the way attempts to adjust through falling wages would worsen debt problems. But even given what we knew a quarter-century ago, the problems with the euro were obvious.
Illusioni flessibili
Wolfgang Munchau afferma che l’euro è stato uno sbaglio, e puntualizza una illusione fondamentale. I sostenitori
“sapevano che, per resistere ai rigori di una sistema fisso di cambi che non assomiglia a nient’altro che al gold-standard, i paesi avrebbero dovuto adeguarsi agli shock economici attraverso spostamenti nei salari e nei prezzi – un indirizzo, essi credevano, che i membri dell’euro sarebbero stati costretti ad assumere”.
Ovvero, essi credevano che le riforme avrebbero determinato sufficiente flessibilità da neutralizzare in gran parte l’ammonimento di Milton Friedman, secondo il quale di fronte a shock negativi, i paesi con tassi di cambio fissi avrebbero sofferto grandi costi:
“Se i mutamenti esterni sono profondamente radicati e persistenti, la disoccupazione produce una regolare spinta verso il basso di salari e prezzi, e la correzione non sarà stata completata finché la deflazione non avrà fatto il suo spiacevole corso”.
Ma io non ho mai creduto che questo avrebbe funzionato, e basavo il mio scetticismo su qualche prova reale. Durante il periodo precedente a Maastricht, ci furono un certo numero di studi sugli Stati Uniti – un’unione valutaria che funziona ragionevolmente bene. Dipendeva dal fatto che gli Stati Uniti, con i loro deboli sindacati e i mercati del lavoro competitivi, avevano maggiore flessibilità nei salari e nei prezzi delle altre nazioni? Non secondo Blanchard e Katz, che scoprirono che i salari non giocavano quasi alcun ruolo nelle correzioni regionali statunitensi agli shock, che dipendevano tutte dalla mobilità del lavoro. Dunque l’idea che l’Europa si sarebbe ritrovata capace di ottenere un genere di flessibilità che non si era trovata altrove nel mondo – neanche nell’economia brutale e dominata dai mercati dell’America – era soltanto non plausibile.
Quello a cui nessuno di noi pensò fu l’ulteriore problema della interazione di deflazione e debito – il modo in cui i tentativi di correzione attraverso la caduta dei salari avrebbe peggiorato i problemi del debito. Ma anche dato quello che sapevano un quarto di secolo fa, i problemi con l’euro erano evidenti.
novembre 4, 2015
Nov 2 10:20 am
Larry Summers reacts to an offhand post of mine, seeking to draw a distinction between our views. I actually don’t think our views differ significantly now, but he’s right that what he has been saying differs from the approach I took way back in 1998. And I’ve both acknowledged that and admitted that the approach I took then seems inadequate now:
Back in 1998, when I tried to think through the logic of the liquidity trap, I used a strategic simplification: I envisaged an economy in which the current level of the Wicksellian natural rate of interest was negative, but that rate would return to a normal, positive level at some future date. This assumption provided a neat way to deal with the intuition that increasing the money supply must eventually raise prices by the same proportional amount; it was easy to show that this proposition applied only if the money increase was perceived as permanent, so that the liquidity trap became an expectations problem.
The approach also suggested that monetary policy would be effective if it had the right kind of credibility – that if the central bank could “credibly promise to be irresponsible,” it could gain traction even in a liquidity trap.
But what is this future period of Wicksellian normality of which we speak?
Japan now looks like an economy in which a negative natural rate is a more or less permanent condition. So, increasingly, does Europe. And the US may be in the same boat, if only because persistent weakness abroad will lead to a strong dollar, and we will end up importing demand weakness.
And if we are in a world of secular stagnation — of more or less permanent negative natural rates — policy becomes even harder.
Trappole di liquidità provvisorie e permanenti
Larry Summers risponde ad un mio improvvisato post [1], cercando di tracciare una distinzione tra i nostri punti di vista. Per la verità io non penso che i nostri punti di vista siano significativamente diversi adesso, ma egli ha ragione a dire che ciò che viene affermando differisce dall’approccio che io assunsi nel passato 1998. Ed io l’ho riconosciuto [2], così come ho ammesso che l’approccio di allora sembra oggi inadeguato:
“Nel 1998, quando cercavo di analizzare a fondo la logica della trappola di liquidità, utilizzai una semplificazione strategica: immaginai un’economia nella quale il livello del wickselliano tasso di interesse naturale fosse negativo, ma al tempo stesso immaginai che quel tasso tornasse ad un livello normale e positivo in qualche momento futuro. Questo assunto fornì un modo preciso per fare i conti con l’intuizione secondo la quale l’aumento dell’offerta di moneta, alla fine, deve elevare in proporzione i prezzi della stessa quantità; fu semplice dimostrare che questo concetto si applicava soltanto se l’aumento della moneta veniva percepito come permanente, il modo tale che la trappola di liquidità diventava un problema di aspettative.
Quell’approccio suggerì anche che la politica monetaria sarebbe stata efficace se avesse avuto il grado giusto di credibilità – che se la banca centrale poteva “credibilmente promettere di essere irresponsabile”, poteva ottenere una forza di spinta anche in una trappola di liquidità”
Ma quale è questo periodo futuro di wickselliana normalità del quale parliamo?
Il Giappone adesso sembra un’economia nella quale un tasso naturale negativo è più o meno una condizione permanente. Tale sembra anche, sempre di più, l’Europa. E gli stati Uniti può darsi che siano nella stessa barca, se solo a causa della persistente debolezza all’estero ci dirigeremo verso un dollaro forte, e finiremo con l’importare la debolezza della domanda.
E se siamo in un mondo di stagnazione secolare – o di tassi naturali più o meno permanentemente negativi – la politica diventa persino più difficile.
[1] Si tratta del post dal titolo “Dell’esser stati contrari alla stagnazione secolare, prima di diventare favorevoli” del 31 ottobre 2015, qua tradotto. In effetti quel post era un po’ scherzoso, pur non essendo privo di tendenziosità. Come si legge nell’articolo di Summers appena tradotto, quest’ultimo ha però colto l’occasione per puntualizzare ed approfondire alcune passate differenze, in via di composizione.
L’interesse di questi due interventi mi pare consista anche nello spaccato di ‘relazioni’ tra due principali economisti che essi mostrano; non si sarà dimenticato che non molto tempo fa Krugman prese una netta posizione contraria alla possibile nomina di Summers alla Presidenza della Fed (del resto, una posizione implicitamente contraria a tale nomina fu anche quella di Joseph Stiglitz, mentre una posizione apertamente favorevole fu assunta da Brad DeLong). Dopo la loro importante convergenza sul tema della stagnazione secolare (che avvenne in occasione del convegno promosso nell’agosto del 2014 da Vox.EU. Gli interventi di entrambi sono qua tradotti), pare che si stia superando un clima di reciproca diffidenza. In genere, è interessante la franchezza, sia pure nel notevole rispetto reciproco, di queste ‘relazioni'; essa consente contrasti anche aspri assieme ad una seria attenzione alle rispettive ricerche ed alla crescente convergenza di analisi.
[2] Il riferimento è al post “Ripensare il Giappone” del 20 ottobre 2015, qua tradotto.
novembre 4, 2015
Nov 1 12:40 pm
Brad DeLong is bemused by the way Tyler Cowen makes very heavy going of the simple concept of the natural rate of interest. I will say that this kind of gratuitous complexification is somewhat characteristic.
Look, all we’re talking about is the rate of interest at which the economy would be more or less at full employment, which in turn implies that inflation will be more or less stable. Yes, you can raise some questions about the price-stability interpretation if the long-run Phillips curve isn’t vertical at low inflation, but that’s a fairly minor twiddle.
And to raise the old “equilibrium interest rates must be positive because capital is productive” line at this point — after two decades of Japanese experience and 7 years at the zero lower bound here in America — suggests a strange sort of out-of-touchness. As Brad says, the required rate of return on safe assets and the marginal product of capital are separated by a major wedge.
Anyway, what we need here isn’t a priori arguments or discussions of intellectual history, except insofar as they inform the question at hand: is there any reasonable case that interest rates are being kept “artificially” low given the macroeconomic realities? And there isn’t.
Confusione naturale
Brad DeLong è sconcertato per il modo in cui Tyler Cowen costruisce un percorso molto complesso per il semplice concetto del tasso naturale di interesse. Direi che questo genere di gratuita complicazione è qualcosa di caratteristico.
Si badi, stiamo parlando del tasso di interesse al quale l’economia sarebbe più o meno in condizioni di piena occupazione, il che a sua volta comporta che l’inflazione sarebbe più o meno stabile. É vero, si possono sollevare alcune domande riguardo all’interpretazione della stabilità dei prezzi se la curva di Phillips [1] di lungo periodo non risulta verticale con la bassa inflazione, ma questo è un trastullo relativamente secondario.
Ed avanzare a questo punto la vecchia affermazione secondo la quale “i tassi di interesse di equilibrio [2] debbono essere positivi perché il capitale è produttivo” – dopo due decenni di esperienza giapponese e, qua in America, dopo sette anni al limite inferiore dello zero – indica uno strano modo di essere fuori dalla realtà. Come dice Brad, il tasso richiesto di rendimento di un asset sicuro e il prodotto marginale del capitale sono separati da un bel cuneo.
In ogni modo, quello di cui abbiamo bisogno in questo caso non sono argomentazioni deduttive o dibattiti sulla storia intellettuale, se non nella misura in cui essi forniscono informazioni sulla domanda in questione: c’è qualche ipotesi ragionevole per la quale i tassi di interesse siano tenuti “artificialmente” bassi, data la realtà macroeconomica? E non c’è.
[1] Si vedano le note sulla traduzione.
[2] Tasso naturale o tasso di equilibrio sono la stessa cosa.
novembre 4, 2015
[1] La connessione indica che la fonte della Tabella è la Federal Reserve di St. Louis. La tabella mostra l’evoluzione degli occupati negli Stati Uniti nel settore privato sotto le due Presidenze di George Bush e di Obama, la linea orizzontale indica i mesi delle due amministrazioni.
novembre 4, 2015
Oct 31 12:56 pm
As a public service, some background to Marco Rubio’s latest campaign coup. As the Times reports, Paul Singer — a huge contributor to Republican causes — has thrown his support behind Rubio.
What it doesn’t mention are two facts about Paul Singer that are, I think, relevant.
First, he’s most famous for his practice of buying up distressed debt of Third World governments, then suing to demand full repayment.
Second, he’s an inflation truther — with an unusual twist. Inflation truthers in general insist that the government is understating the true rate of inflation, even though independent measure like the Billion Prices index closely track the CPI. The trick, usually, is to pick and choose items whose price has gone up a lot — e.g., beef — while ignoring those whose price has gone down — e.g., gasoline.
But Singer has taken a different tack: he knows, just knows, that inflation is running away because of what it’s doing to the prices of the things he cares about:
Check out London, Manhattan, Aspen and East Hampton real estate prices, as well as high-end art prices, to see what the leading edge of hyperinflation could look like.
But remember, Rubio is a regular guy in touch with the concerns of ordinary Americans.
Il sostegno dell’iperinflazione di Hamptons [1]
Alcuni retroscena – come servizio di pubblica utilità – sul colpo più recente di Marco Rubio. Come riferisce il Times, Paul Singer – un grande contribuente delle cause repubblicane – ha rimesso il suo sostegno a favore di Rubio.
Quello che il giornale non riferisce sono due fatti a proposito di Paul Singer, che a mio giudizio sono rilevanti.
Il primo, egli è soprattutto famoso per la sua attività di compratore di titoli sul debito precario degli Stati del Terzo Mondo, per poi avviare azioni giudiziarie con la richiesta dell’intera restituzione [2].
Il secondo, egli è un sostenitore delle tesi sul complotto sull’inflazione – con una particolare torsione. I sostenitori del complotto di solito insistono che il Governo stia sottostimando il tasso effettivo di inflazione, anche se misurazioni indipendenti come quelle dell’indice Billion Prices seguono da vicino l’indice ufficiale dei prezzi al consumo. Di solito il trucco consiste nell’estrarre a scelta oggetti i cui prezzi sono molto saliti – ad esempio, la carne bovina – nel mentre si ignorano quelli i cui prezzi sono scesi – ad esempio, la benzina.
Ma Singer ha un approccio differente: egli sa, sa senza alcun dubbio, che l’inflazione è fuori controllo, perché è quello che sta accadendo ai prezzi degli oggetti dei quali egli si occupa:
“Controllate i prezzi immobiliari a Londra, a Manhattan, ad Aspen e nell’East Hampton, oltre ai prezzi degli oggetti artistici di lusso, per vedere a cosa potrebbe assomigliare l’avanguardia dell’iperinflazione”.
Ma si ricordi: Rubio è un individuo normale, in sintonia con le preoccupazioni degli americani ordinari.
[1] Un quartiere di estremo lusso di New York.
[2] Si riferisce alla pratica in uso da parte di vari personaggi della finanza titolari di parte di quei debiti, di ostacolare (di solito con successo) iniziative di revisione del debito di paesi in condizioni di fallimento, opponendosi presso Tribunali nazionali statunitensi alle soluzioni concordate. É un tema del quale si parla nell’articolo qua tradotto di Stiglitz e Guzman del 15 giugno 2015.
novembre 3, 2015
Oct 31 10:57 am
OK, nobody told me that this was being released. I am, however, grateful for the reminder that I have indeed lost weight.
More substantively, what’s interesting about that debate is that I was essentially making the case for secular stagnation, while Larry Summers was making the case against. That’s not a criticism! Changing your views in the face of evidence is what you’re supposed to do, and kudos to Larry both for being willing to revise his views and for being so effective in laying out his new case.
And that was a pretty good debate — unlike, say, this one.
Dell’essere stati contrari alla stagnazione secolare, prima di diventare favorevoli.
Ebbene, nessuno mi aveva detto che questo dibattito [1] sarebbe stato pubblicato. Ciononostante, ne sono grato, perché ricorda che in effetti sono un po’ dimagrito.
Andando più alla sostanza, quello che è interessante in questo dibattito è che io fondamentalmente sostenevo la tesi della stagnazione secolare, mentre Larry Summers sosteneva la tesi contraria. Questa non è una critica! Cambiare i vostri punti di vista rispetto ai fatti è ciò che si suppone facciate, e complimenti a Larry per essere stato disponibile a rivisitare i suoi punti di vista ed essere stato così efficace nell’esporre i suoi nuovi argomenti.
E quello fu una dibattito abbastanza buono – diversamente, ad esempio, da quest’altro [2].
[1] Si tratta di un dibattito presso la associazione canadese “The Munk debate”, che ora è pubblicato in un libro. Partecipano alla discussione: Larry Summers, David Rosenberg, Paul Krugman e Ian Bremmer. Nel corso del dibattito, Krugman e Rosenberg avevano condiviso l’analisi della stagnazione strutturale, mentre Summers e Bremmer si erano espressi in senso opposto. Evidentemente deve trattarsi di un confronto di alcuni anni orsono.
[2] In connessione, un altro confronto a quattro in materia di tasse sui ricchi (tra gli altri, Krugman, Papandreu, Gingrich e Leffer).
novembre 3, 2015
October 31, 2015 10:43 am
And now for something completely different — or anyway not the kind of thing I’ve been writing about lately. But I have been keeping my eye on the ongoing debate over the world trade slowdown, and wanted to weigh in on one issue.
For those who don’t know about it, there seems to have been a break in the trend of world trade. Between 1990 and the 2008 crisis, trade grew much more rapidly than world GDP; this “hyperglobalization” brought trade shares of income to levels unprecedented in previous history. Trade then plunged, as was to be expected, in the slump — most trade these days consists of durable goods, which are very cyclical. It bounced back when the world started to recover. But while it’s more or less at the pre-crisis level relative to GDP, it hasn’t gone beyond, suggesting that hyperglobalization has reached some kind of limit. And many of us are talking about things like supply chains, logistics, and so on to explain why.
But a new piece from the Bank of England suggests a seemingly simpler explanation: it’s just a composition effect, as world output shifts toward countries that have relatively low income elasticities of demand for imports. So is that really the story?
I’d say no, because I don’t believe that the income elasticity of imports is a structural parameter. You need to look underneath to the underlying economic logic — and this pushes you back to stories about supply chains etc..
The notion that income elasticities in trade aren’t structural is one I’ve been pushing for a very long time. Way back when I noted that there seems to be a systematic relationship between estimated income elasticities and national growth rates, what I called the 45-degree rule, which suggested that we were really looking at supply-side, not demand-side effects; a lot of later research seems to support that suggestion.
So how should we think about income elasticities for the purpose of understanding the trade slowdown? I’d argue that other things equal, we should expect trade to grow at the same rate as the world economy. If it grows faster, that’s something to explain with changes in trade policy, transportation costs, and so on. To a first approximation, this says that for any one country we’d expect to see a relationship along the lines
Trade growth = GDP growth + x
where x is the common factor — containerization, say — causing overall world trade to grow faster than income.
This in turn says that the “income elasticity” — actually just the ratio of trade growth to GDP growth, not necessarily a structural parameter — should look like this:
Elasticity = Trade growth / GDP growth = 1 + x/GDP growth
So fast-growing countries should appear to have low income elasticities, but that’s not saying anything about the underlying causes of trade growth.
Let’s take the data on elasticities and growth given in the BoE analysis, and plot it:
That’s China in the lower left corner. It looks pretty good to me. And the clear implication is that China isn’t really a “low trade elasticity” economy. It’s just a fast-growing economy, which more or less mechanically means that it has a low ratio of trade growth to GDP growth. And its rising share of world trade should not be viewed as an explanatory factor in the trade slowdown.
I still think it’s about those supply chains.
Spiegare la debolezza del commercio (per esperti)
Ed ora qualcosa di completamente diverso – o in ogni caso non il genere di cose sulle quali vengo scrivendo di recente. Ma sto tenendo d’occhio il perdurante dibattito sul rallentamento del commercio mondiale, ed avevo intenzione di intervenire su un aspetto.
Per coloro che non sanno di cosa si tratta, sembra esserci stata una interruzione nelle tendenze del commercio mondiale. Tra il 1990 e la crisi del 2008, il commercio è cresciuto più rapidamente del PIL mondiale; questa “iperglobalizzazione” ha portato le quote del commercio sul reddito a livelli che non hanno precedenti nella storia recente. Con la crisi il commercio è crollato, come c’era da aspettarsi – in tali periodi, gran parte del commercio consiste in beni durevoli, che sono molto ciclici. C’è stato un rimbalzo quando nel mondo è cominciata la ripresa. Ma se il commercio è più o meno, in relazione al PIL, al livello precedente la crisi, non è andato oltre, indicando che la iperglobalizzazione ha raggiunto una sorta di limite. E molti di noi stanno parlando di cose come le catene dell’offerta, la logistica ed altro per spiegarne le ragioni.
Ma un nuovo articolo da parte della Banca di Inghilterra suggerisce una spiegazione più semplice: si tratta soltanto di un effetto di composizione, dal momento che la produzione mondiale si sposta verso paesi che hanno relativamente basse elasticità di reddito, quanto a domanda per le importazioni. E’ dunque quella spiegazione vera?
Direi di no, perché non credo che l’elasticità di reddito delle importazioni sia un parametro strutturale. É necessario guardare al di sotto, alla sottostante logica economica – e questo vi riporta a storie che riguardano le catena dell’offerta etc. .
Il concetto che le elasticità di reddito nel commercio non siano strutturali è stato da me avanzato da molto tempo. Quando nel passato osservai che sembrava esserci una relazione tra le elasticità di reddito stimate e i tassi nazionali della crescita, quella che io chiamai la “regola dei 45 gradi”, ciò mi suggerì che eravamo realmente dinanzi ad effetti dal lato dell’offerta e non dal lato della domanda; una grande quantità di ricerche successive sembrano sostenere tale indicazione.
Come dovremmo dunque ragionare delle elasticità di reddito allo scopo di comprendere il rallentamento del commercio? Direi che a parità delle altre condizioni, dovremmo aspettarci che il commercio cresca allo stesso tasso dell’economia mondiale. Se esso cresce più rapidamente, c’è qualcosa da spiegare in ordine alla politica commerciale, ai costi di trasporto, e così via. Ad una prima approssimazione, questo ci dice che dovremmo aspettarci una relazione su queste linee:
Crescita del commercio = crescita del PIL + x
laddove x è il fattore comune – ad esempio la containerizzazione – che fa crescere il commercio complessivo mondiale più velocemente del reddito.
Questo a sua volta ci dice che “l’elasticità del reddito” – effettivamente solo il rapporto tra crescita del commercio e crescita del PIL, e non necessariamente un parametro strutturale – dovrebbe apparire in questo modo:
Elasticità = crescita del commercio/crescita del PIL = 1 + x/crescita del PIL
Dunque dovrebbe apparire che i paesi a rapida crescita hanno basse elasticità del reddito, ma ciò non ci direbbe niente sulle cause sottostanti della crescita del commercio.
Consentitemi di utilizzare i dati della analisi della Banca di Inghilterra su elasticità e crescita, e di tracciarli su un diagramma:
Quella nell’angolo basso a sinistra è la Cina. Mi sembra abbastanza corretto. E la chiara implicazione è che la Cina non è un’economia a “bassa elasticità di commercio”. É solo un’economia a rapida crescita, che in modo più o meno meccanico significa che ha una basso rapporto tra crescita del commercio e crescita del PIL. E la sua quota crescente nel commercio mondiale non dovrebbe essere considerata come un fattore che spiega il rallentamento commerciale.
Continuo a pensare che esso dipenda da quelle catene dell’offerta.
novembre 2, 2015
Oct 30 7:58 am
David Brooks writes a pro-Marco-Rubio column, and in passing says this:
At this stage it’s probably not sensible to get too worked up about the details of any candidate’s plans. They are all wildly unaffordable. What matters is how a candidate signals priorities.
It won’t surprise you to learn that I disagree deeply. My experience is that the best way to figure out a candidate’s true priorities — and his or her character — is to look hard at policy proposals.
My view here is strongly influenced by the story of George W. Bush. Younger readers may not know or remember how it was back in 2000, but back then the universal view of the commentariat was that W was a moderate, amiable, bluff and honest guy. I was pretty much alone taking his economic proposals — on taxes and Social Security — seriously. And what I saw was a level of dishonesty and irresponsibility, plus radicalism, that was unprecedented in a major-party presidential candidate. So I was out there warning that Bush was a bad, dangerous guy no matter how amiable he seemed.
How did that work out?
So now we have candidates proposing “wildly unaffordable” tax cuts. Can we start by noting that this isn’t a bipartisan phenomenon, that it’s not true that everyone does it? Hillary Clinton isn’t proposing wildly unaffordable stuff; Bernie Sanders hasn’t offered details about how he’d pay for single-payer, but you can be sure that he would propose something. And proposing wildly unaffordable stuff is itself a declaration of priorities: Rubio is saying that keeping the Hair Club for Growth happy is more important to him than even a pretense of fiscal responsibility. Or if you like, what we’ve seen is a willingness to pander without constraint or embarrassment.
Also, his insistence that the magic of supply-side economics would somehow pay for the cuts is a further demonstration of priorities: allegiance to voodoo trumps all.
At a more general level, I’d argue that it’s a really bad mistake to wave away policy silliness with a boys-will-be-boys attitude. Policy proposals tell us a lot about character — and the history of the past 15 years says that journalists who imagine that they can judge character from the way people come across on TV or in personal interviews are kidding themselves, and misleading everyone else.
Politica e carattere
David Brooks scrive un articolo a favore di Marco Rubio e, di passaggio, scrive questo:
“In questa fase è probabilmente irragionevole agitarsi troppo per i dettagli dei programmi di ciascun candidato. Sono tutti estremamente inaffidabili. Quello che conta è come un candidato segnala le priorità”.
Non sarete sorpresi di apprendere che non sono per nulla d’accordo. La mia esperienza è che il modo migliore per comprendere le vere priorità di un candidato – ed il carattere di lui o di lei – è guardare con impegno alle proposte politiche.
In questo caso il mio punto di vista è fortemente influenzato dalla storia di George W. Bush. I lettori più giovani possono non sapere o non ricordare come stavano le cose nel 2000, ma in quel momento l’opinione universale dei commentatori era che W era una modesta, affabile finzione, nonché un individuo onesto. Rimasi quasi solo nel prendere sul serio le sue proposte economiche – sulle tasse e sulla Previdenza Sociale. E quello che constatai fu un livello di disonestà e di irresponsabilità, in aggiunta al radicalismo, che era senza precedenti in un candidato alla Presidenza di un partito principale. Dunque, in quel caso fui fuori dal coro nel mettere in guardia che Bush era un personaggio negativo e pericoloso, a prescindere da quanto apparisse affabile.
Come andò a finire?
Dunque, adesso abbiamo candidati che propongono sgravi fiscali “estremamente inaffidabili”. Possiamo cominciare coll’osservare che non si tratta di un fenomeno bipartisan, che non è vero che lo fanno tutti? Hillary Clinton non sta proponendo cose estremamente inaffidabili, Bernie Sanders non ha offerto dettagli su come coprirebbe la spesa per un sistema (sanitario) con un unico centro di spesa, ma si può star certi che avrebbe qualcosa da proporre. E proporre cose estremamene inaffidabili è di per sé una dichiarazione di priorità: Rubio sta dicendo che tenersi contenti i “Club (dei capelli) per la crescita” [1] è per lui più importante persino di una finta responsabilità in materia di finanza pubblica. Oppure, se preferite, ciò a cui ci troviamo di fronte è una disponibilità a servire gli interessi di qualcuno senza limiti o senza imbarazzo.
Inoltre, la sua insistenza che l’economia magica dal lato dell’offerta in qualche modo ripagherebbe gli sgravi è una ulteriore dimostrazione delle sue priorità: la fedeltà al voodoo è più forte di tutto.
Ad un livello più generale, direi che è davvero un grande errore liquidare la stupidità politica con l’attitudine a fare ragazzate. Le proposte politiche ci dicono molto sul carattere – e la storia dei 15 anni passati dice che i giornalisti che si immaginano di poter giudicare il carattere dal modo in cui la gente si mostra nelle televisioni o nelle interviste personali, si prendono in giro da soli, e ingannano tutti gli altri.
[1] I “Club per la Crescita” sono in realtà una associazione di movimenti della destra, fondata nel 1999 da Stephen Moore, per il sostegno di candidati repubblicani. Di recente essa è coinvolta in una polemica molto aspra con Donald Trump, perché sostiene i candidati ‘di apparato’ (Jeb Bush e Rubio) e attacca le posizioni del miliardario.
Come sia accaduto che sia nata questa ironia – tra club per la crescita e club per la crescita dei capelli – non so dirlo, ma non si tratta di una invenzione di Krugman, giacché si trova anche altrove.
novembre 2, 2015
Oct 30 7:37 am
It is, as Antonio Fatas notes, almost seven years since the Fed cut rates to zero. The era of lowflation-plus-liquidity-trap now rivals in length the 70s era of stagflation, and has been associated with much worse real economic performance. So where, asks Fatas, is the rethinking of economic theory and policy?
I asked the same question a couple of years ago. I’d add, as I did in that earlier piece, that some of us anticipated much though not all of what has gone wrong. Fatas says,
But my guess is that even those who agreed with this reading of the Japanese economy would have never thought that we would see the same thing happening in other advanced economies. Most thought that this was just a unique example of incompetence among Japanese policy makers.
Actually, though, I did write a 1999 book titled The Return of Depression Economics, basically warning that Japan might be a harbinger for the rest of us. True, I never expected policy to be so bad that Japan ends up looking like a role model.
Anyway, the point is that by now we should have expected at least as major a rethink as happened in the 70s; in fact, we’ve seen almost no rethinking. Economists who wrote that “inflation is looming” in 2009 continued to warn about looming inflation five years later.
And that’s the professional economists. As Josh Barro notes, conservatives who imagine themselves intellectuals have increasingly turned to Austrian economics, which explicitly denies that empirical data need to be taken into account; although of course they would have claimed vindication if the inflation they were predicting had actually materialized.
Back to Fatas: how long will it take before the long stagnation has the kind of intellectual impact that stagflation did? Indeed, how long will it be before people stop holding up the 1970s as the ultimate cautionary tale, even as we live in the midst of a continuing disaster that makes the 70s look mild?
I don’t know the answer, but it’s clear that we have to understand this phenomenon in terms of politics and sociology, not logic.
Un episodio che non insegna niente
Sono quasi sette anni, come osserva Antonio Fatas, dal momento in cui la Fed ha tagliato i tassi sino allo zero. L’epoca della bassa inflazione, in aggiunta alla trappola di liquidità, eguaglia in durata la stagflazione degli anni ’70, ed è andata di pari passo con una andamento economico molto peggiore. Dunque, si chiede Fatas, dov’è il ripensamento della teoria e della politica economica?
Posi la stessa domanda un paio di anni fa. Dovrei aggiungere, come feci in quell’articolo precedente, che alcuni di noi avevano anticipato molto, se non tutto, di quello che è andato storto. Dice Fatas:
“La mia supposizione è che persino coloro che avevano concordato con questa lettura dell’economia giapponese, non avrebbero mai pensato che avremmo visto le stesse cose accadere nelle economie avanzate. In maggioranza pensarono che questo era soltanto un episodio singolo di incompetenza tra gli operatori pubblici del Giappone”.
Per la verità, però, nel 1999 io scrissi un libro dal titolo Il ritorno dell’economia della depressione, fondamentalmente mettendo in guardia che il Giappone poteva essere un presagio per tutti gli altri. É vero che non mi sarei mai aspettato che la politica fosse talmente negativa da far sembrare il Giappone alla stregua di un modello guida.
In ogni modo, il punto è che adesso avremmo dovuto attenderci un ripensamento almeno altrettanto importante di quello che ci fu negli anni ’70; di fatto, non abbiamo assistito quasi a nessun ripensamento. Gli economisti che scrivevano che “l’inflazione incombe” nel 2009 hanno continuato a mettere un guardia su una inflazione che incombe dopo cinque anni.
E questo vale per gli economisti di professione. Come osserva Josh Barro, i conservatori che si reputano intellettuali si sono sempre più indirizzati verso la teoria economica ‘austriaca’ [1], la quale nega esplicitamente che i dati empirici debbano essere considerati: sebbene, ovviamente, avrebbero sostenuto di essere stati pienamente confermati, se l’inflazione che avevano previsto si fosse materializzata.
Tornando a Fatas: quanto tempo ci vorrà prima che la lunga stagnazione abbia quel genere di impatto intellettuale che ebbe la stagflazione? In sostanza, quanto tempo ci vorrà prima che la gente smetta di sostenere che gli anni ’70 furono l’ultimo episodio di ammonimento, anche se viviamo nel mezzo di un disastro continuo che fa apparire gli anni ’70 come qualcosa di leggero?
Non conosco la risposta, ma è chiaro che dobbiamo capire il fenomeno in termini di politica e di sociologia, non di logica.
[1] Vedi alle note sulla traduzione.
ottobre 29, 2015
Oct 28 10:34 am
Via Mark Thoma — whom everyone interested in today’s economic debates should check out daily — Thomas Laubach and John C. Williams of the Fed have a new paper updating their estimates of the natural real rate of interest. For those new to the term, the natural rate is a standard economic concept dating back a century; it’s the rate of interest at which the economy is neither depressed and deflating nor overheated and inflating. And it’s therefore the rate monetary policy is supposed to achieve.
Laubach and Williams find that the natural rate has plunged in recent years, and is now very, very low. The particular statistical method they use is reasonable, but in any case — as they document — the result pops out for pretty much any plausible methodology. Basically, we’ve had multiple years of very low rates, with no hint of a runaway boom or an inflationary takeoff, so any reasonable estimate is going to say that these low, low rates are close to (and maybe above) the natural rate.
L-W attribute the decline in the natural rate largely to the slowing of potential output, which in turn reflects demography and what looks like a slowdown in technological progress. That’s more speculative. But the low natural rate is as solid a result as anything in real time can be.
This in turn tells you several things. It says that all the complaints that the Fed is artificially keeping rates low are nonsense; rates are low because that’s what the real economy wants, and the Fed’s only alternative would be to create a depression.
It also casts even more doubt on the wisdom of the Fed’s urge to raise rates. Nothing in the economic situation suggests that rates are too low right now. And don’t tell us that we need to start “normalizing”: all indications are that “normal” has changed a lot since 2008, and trying to set interest rates as if the old normal were still valid is a recipe for very bad outcomes.
Finally, if the natural real rate is zero or less, a 2 percent inflation target gives very little room for interest rate cuts to fight recessions. The case for raising the target — which means not raising rates if and when inflation finally creeps up to 2 percent — just keeps getting stronger.
In any case, the message about what the Fed should do now is clear: nothing.
Date uno sguardo ai nostri davvero bassi tassi di interesse (naturali)
Per il tramite di Mark Thoma – che coloro che sono interessati ai dibattiti economici odierni dovrebbero visitare tutti i giorni [2] – Thomas Laubach e John C. Williams della Fed presentano un nuovo studio che aggiorna le loro stime sul tasso di interesse naturale. Per coloro per i quali tale espressione risulti nuova, il tasso di interesse naturale è un consueto concetto economico che risale ad un secolo fa; è il tasso di interesse al quale l’economia non è né depressa e deflazionata, né surriscaldata e inflazionata. Ed è di conseguenza il tasso di interesse che si suppone la politica monetaria persegua.
Laubach e Williams scoprono che il tasso di interesse naturale è precipitato negli anni recenti ed è oggi davvero molto basso. Il particolare metodo statistico da loro utilizzato è ragionevole, ma in ogni caso – come documentano – il risultato viene fuori sostanzialmente da ogni plausibile metodologia. Fondamentalmente, abbiamo avuto vari anni di tassi di interessi molto bassi, con nessun accenno di un boom fuori controllo o di un decollo dell’inflazione, cosicché ogni ragionevole stima è destinata a dire che questi bassissimi tassi sono vicini (o forse superiori) al tasso di interesse naturale.
Laubach e Williams attribuiscono il declino del tasso di interesse naturale in gran parte al rallentamento della produzione potenziale, che a sua volta riflette l’andamento demografico e quello che appare come un rallentamento tecnologico. Ma il basso tasso di interesse naturale è un risultato così univoco come possono essere i fenomeni nella realtà.
A sua volta, questo ci dice varie cose. Dice che tutte le lamentele secondo le quali la Fed sta tenendo artificialmente bassi i tassi di interesse sono un nonsenso; i tassi sono bassi perché è quello che l’economia vuole, e l’unica alternativa della Fed sarebbe creare una depressione.
Esso getta dubbi anche più grandi sulla saggezza del bisogno della Fed di elevare i tassi. Niente nella situazione economica in questo momento indica che i tassi siano troppo bassi. E niente ci dice che abbiamo bisogno di dare il via ad una “normalizzazione”: tutte le indicazioni sono che il concetto di “normale” è mutato dal 2008, e provare a fissare i tassi di interesse come se la vecchia norma fosse ancora valida è una ricetta per risultati molto negativi.
Infine, se il tasso naturale è 0 o inferiore, un obbiettivo del 2 per cento di inflazione offre molto poco spazio per tagli ai tassi di interesse al fine di combattere le recessioni. La tesi di un elevamento dell’obbiettivo di inflazione – che comporta di non elevare i tassi se non e finché alla fine l’inflazione non si avvicini al 2 per cento – continua semplicemente a diventare più forte.
In ogni caso, il messaggio su quello che la Fed dovrebbe ora fare è chiaro: niente.
[1] Come si nota, secondo le stime dei due ricercatori della Fed il tasso di interesse naturale era già in discesa contenuta dal 2001 al 2007; è crollato nel periodo della Grande Recessione 2007-2009; ha continuato a scendere – sino a valori negativi – negli anni successivi.
[2] Il sito di Thoma – “Economist’s view” – fornisce una amplissima sintesi quotidiana dei principali interventi, post, articoli, interviste del dibattito economico statunitense.
ottobre 29, 2015
Oct 28 10:15 am
Two stories you should read in tandem.
First, it’s now very clear that Exxon has been spending millions of dollars to prevent public action against a slow-motion catastrophe it itself was well aware was on its way. The company’s own research pointed to global warming as a serious problem almost 40 years ago — but it has gone all out to confuse the issue, basically trying to get itself another few decades of profits at humanity’s expense. The cynicism is remarkable.
Meanwhile, David Roberts has a piece pointing out the McCarthyite tactics the House science committee has been using to persecute and intimidate scientists, especially but not only those working on climate.
If we fail to grapple with climate change in time to avoid catastrophe — which seems ever more likely — it won’t be because we didn’t have the knowledge to realize the problem, or the tools to fix it. It will because of cynicism and greed that, given the stakes, rise to the level of evil.
I cattivi del clima
Due storie che dovreste leggere una di seguito all’altra.
La prima: ora è molto chiaro che la Exxon è venuta spendendo milioni di dollari per impedire una iniziativa pubblica contro la catastrofe al rallentatore che era ben consapevole fosse sul suo percorso. Le ricerche in proprio della società avevano indicato quasi 40 anni orsono il riscaldamento globale come un serio problema – ma essa ha fatto tutto il possibile per confondere quella tematica, fondamentalmente nel tentativo di procurarsi alcuni altri decenni di profitti a spese dell’umanità. Il cinismo è considerevole.
Nel frattempo, David Roberts [1] pubblica un articolo che indica le tattiche maccartiste che il comitato “scienza” della Camera ha utilizzato per perseguitare ed intimidire scienziati, in particolare ma non soltanto quelli che lavorano sul clima.
Se non riusciremo a combattere il cambiamento del clima in tempo per evitare la catastrofe – la qualcosa sembra sempre più probabile – non sarà perché non abbiamo avuto le conoscenze per comprendere il problema, o gli strumenti per porvi rimedio. Dipenderà dal cinismo e dall’avidità che, dati gli interessi in gioco, si elevano al livello della malvagità pura.
[1] L’articolo pubblicato sul sito VOX del 26 ottobre è impressionante. In particolare si scopre che quella Commissione (“Scienza, tecnologia e spazio” !) ha utilizzato più che in tutti i decenni precedenti il potere di “citazione in giudizio” contro vari scienziati.
ottobre 29, 2015
Oct 27 4:00 pm
In his interview with Martin Wolf, Ben Bernanke expresses exasperation with claims that quantitative easing is a giveaway to the rich (at the same time that it hurts savers — go figure):
This is the fourth or fifth argument against quantitative easing after all the other ones have been proven to be wrong.
It is, indeed, kind of amazing. In the eyes of critics, QE is the anti-Veg-O-Matic: it does everything bad, slicing and dicing and pureeing all good things. It’s inflationary; well, maybe not, but it undermines credibility; well, maybe not but it it causes excessive risk-taking; well, maybe not but it discourages business investment, which I think is a new one.
Brad DeLong spends what may be too much time on the latest; it’s an argument that doesn’t make any sense, deployed to explain something that isn’t happening (business investment isn’t any lower than you’d expect given the relatively slow recovery). I’m not surprised to see Kevin Warsh going down this road: he’s both a permahawk, who used to warn about inflation but simply changed arguments when the inflation failed to materialize. When Brad complains that there is no coherent argument offered in the article — not a bad argument, but no argument at all — it’s pretty much what one might have expected from Warsh. Back in 2010, I reacted to one of his speeches thus:
So what we’ve got here is an assertion that bad things will happen if you do certain things, without either any evidence to that effect or any explanation of why those things should happen. Yes, maybe bond markets will punish us if we don’t slash spending right now; also, maybe we’ll have bad luck if we step on cracks, or fail to turn aside when Basement Cat crosses our path. But why does this pass for judicious policy discussion?
What I don’t understand is why Mike Spence wants to associate himself with this sort of thing.
But let me say, as I have before, that this whole aversion to easy money, on grounds that keep shifting and don’t seem to have much to do with any coherent economic argument, evidently has deep roots in the conservative psyche — and it’s in the id, not the rational mind.
Facilitazione Quantitativa, l’anti Veg-O-Matic [1]
Nella sua intervista a Martin Woolf, Ben Bernanke appare esasperato per le affermazioni secondo le quali la facilitazione quantitativa sarebbe un regalo ai ricchi (e nello stesso tempo, pensate un po’, danneggia i risparmiatori):
“Questo è il quarto o quinto argomento contro la facilitazione quantitativa, dopo che tutti gli altri si sono mostrati sbagliati”.
In effetti, è strabiliante. Agli occhi dei critici, la facilitazione quantitativa è l’anti Veg-O-Matic: fa tutte le cose sbagliate, affetta, tagliuzza e riduce in poltiglia tutte le cose buone. É inflazionistica; ebbene, forse no, ma indebolisce la credibilità; ebbene, forse no, ma provoca una assunzione eccessiva di rischi; ebbene, forse no, ma scoraggia gli investimenti delle imprese, e questa, credo, sia proprio nuova [2].
Sull’ultimo aspetto, Brad DeLong spende forse troppo tempo: è un argomento che non ha alcun senso, avanzato per spiegare qualcosa che non sta succedendo (gli investimenti delle imprese non sono in alcun modo più bassi di quello che ci si aspetta, data la ripresa relativamente lenta). Non sono sorpreso di constatare che Kevin Warsh [3] si incammina su questa strada: lui è sia un falco della prim’ora, che era solito mettere in guardia sull’inflazione, sia uno di quelli che ha semplicemente cambiato argomenti quando l’inflazione non si è materializzata. Quando Brad si lamenta che l’articolo non offre alcun argomento coerente – non un cattivo argomento, ma nessun argomento in assoluto – è più o meno quello che ci si sarebbe potuti aspettare da Warsh. Io reagii in questo modo, nel 2010, ad uno dei suoi discorsi:
“Dunque, quello che abbiamo appreso in questo caso è che possono accadere cose spiacevoli se si compiono alcuni atti, senza nessuna prova di tale effetto né alcuna spiegazione del perché dovrebbero accadere cose del genere. Sì, forse i mercati dei bond ci puniranno se non abbattiamo immediatamente la spesa pubblica; forse anche potremmo essere sfortunati se camminiamo su un sentiero sconnesso, o non riuscire a scansarci quando il Gatto Nero della cantina si mette di traverso. Ma in che senso cose del genere vengono scambiate per un ragionevole dibattito politico?”
Quello che non capisco è per quale ragione Mike Spence si associ ad una cosa del genere.
Ma lasciatemi dire, come ho fatto prima, che tutta questa avversione per la moneta facile, su basi che continuano a spostarsi e paiono non avere molto a che fare con un qualche coerente argomento economico, evidentemente ha radici profonde nella psiche dei conservatori – e riguarda l’Es, non il pensiero razionale.
[1] Si tratta di una serie di congegni di cucina assai famosi in America, dovuti alle invenzioni e allo spirito imprenditoriale di Ron Popeil. Oggetti, per dare una idea, che hanno fatto fortuna con pubblicità di questo genere: “Potrete tagliare un cipolla senza più versare una lacrima!”. Ecco il prototipo principale:
[2] La tesi è contenuta in un articolo di Kevin Warsh e Michael Spence apparso sul Wall Street Journal. Questo spiega la finale frase sulla sorprendente adesione di Spence a tale tesi.
[3] Kevin Maxwell Warsh (nato il 13 Aprile del 1970), finanziere, docente ed avvocato americano.
ottobre 25, 2015
Oct 24 9:58 am
For countries, getting trendy on Wall Street, and worse yet becoming part of a catchy acronym, is like finding yourself on the cover of BusinessWeek or Fortune: it’s a sure sign of big trouble ahead. So we should have known that the BRICs were heading for a nasty fall; and sure enough, emerging markets have gone from heroes to dogs in practically no time.
But what are the implications for the world economy? Emerging markets are out, but advanced countries are in again, so isn’t it a wash? Unfortunately not, because there is an important asymmetry here.
What is true is that all commodity exporters are being hit:
But they are responding differently. Look, for example, at monetary policy in Brazil versus Canada:
Canada has kept interest rates low; it might even do some fiscal stimulus if the economy continues to weaken. But Brazilian policy is reinforcing the slump, with interest rates going up and fiscal tightening in prospect.
This is not because the Brazilians are stupid. It’s partly because they came in with a relatively high inflation rate, so that they aren’t as relaxed about currency depreciation as the Canadians can afford to be. But it’s also because emerging markets still suffer to some extent from original sin — underdeveloped capital markets and a tendency to borrow in foreign currency. This sin isn’t nearly as strong as it was 15 years ago, when Barry Eichengreen and Ricardo Haussman coined the term, but corporate dollar-denominated borrowing after 2008 brought it partially back.
The result is that as markets lose faith in emerging economies, these economies are pushed into contractionary policies; meanwhile, the advanced economies receiving the capital inflows aren’t responding with expansionary policies. So the overall effect of the new emerging markets disillusion is a global turn toward contraction. I still think it’s not enough to produce a global recession, but am less sure than I was a few months ago.
Oh, and a US interest rate hike, which would not just hit the US economy but also, via a stronger dollar, hit the emerging markets via balance sheets, would do a lot to make things even worse.
Il peccato originale e la stagnazione globale
Per i paesi, diventare alla moda a Wall Street, e peggio ancora andare a comporre un acronimo orecchiabile, è come ritrovarsi sulla copertina di Business Week o di Fortune: è il segno sicuro di un gran guaio in arrivo. Dunque, dovevamo sapere che i BRIC stavano andando verso un autunno difficile; ed era certo che i mercati emergenti, praticamente in un nonnulla, stavano diventando da eroi a canaglie.
Ma quali sono le implicazioni per l’economia mondiale? I mercati emergenti sono in crisi ma i paesi avanzati sono di nuovo sulla scena, non è dunque una pulizia? Sfortunatamente no, perché in questo caso c’è un’importante asimmetria.
Quello che è vero è che tutti gli esportatori di materie prime stanno prendendo un colpo:
Ma essi stanno rispondendo in modo diverso. Si veda, ad esempio, la politica monetaria del Brasile a confronto di quella del Canada:
Il Canada ha mantenuto tassi di interesse bassi; potrebbe persino assumere misure di sostegno tramite la spesa pubblica se l’economia continuasse ad indebolirsi. Ma la politica brasiliana sta accentuando la crisi, con i tassi di interesse che stanno salendo e la finanza pubblica che in prospettiva si sta restringendo.
Questo non dipende dal fatto che i brasiliani sono stupidi. Dipende in parte dal fatto che essi sono giunti a questo punto con un tasso di inflazione relativamente elevato, cosicché essi non sono altrettanto tranquilli su una svalutazione monetaria come possono permettersi di essere i canadesi. Ma dipende anche dal fatto che i mercati emergenti soffrono ancora in qualche misura di un peccato originale – mercati dei capitali sottosviluppati e una tendenza a indebitarsi in moneta estera. Questo peccato non è neanche lontanamente così forte come era 15 anni orsono, quando Barry Eichengreen e Ricardo Haussmann coniarono quella espressione, ma dopo il 2008 l’indebitamento delle società espresso in dollari li ha parzialmente riportati indietro.
Il risultato è che i mercati perdono la fiducia nelle economie emergenti e che queste economie sono sospinte verso politiche restrittive; nel frattempo le economie avanzate che ricevono i flussi dei capitali non stanno reagendo con politiche espansive. Dunque l’effetto complessivo della nuova disillusione dei mercati emergenti è una svolta globale verso la restrizione. Io penso ancora che non sia sufficiente a produrre una recessione globale, ma ne sono meno sicuro di alcuni mesi fa.
Inoltre, un rialzo del tasso di interesse statunitense, che non colpirebbe soltanto l’economia americana ma anche, attraverso un dollaro più forte, colpirebbe i mercati emergenti nell’aspetto degli equilibri patrimoniali, potrebbe avere un notevole effetto nel rendere le cose anche peggiori.
ottobre 25, 2015
Oct 24 9:43 am
Sometimes you almost have to feel sorry for Mitt Romney. He has one great achievement in life: the Massachusetts health reform, which acted as a template for the Affordable Care Act. If he were a member of a sane political party, he’d be boasting about that record. But he wanted to be president, which meant having to accommodate himself to his party; and in Iowa, 81 percent of Republicans say that Ben Carson’s statement that Obamacare is the worst thing since slavery makes him more attractive as a candidate. So he has to trash the best thing he’s done.
Sometimes, it turns out, he can’t maintain the facade. The other day he took credit for setting the stage for Obamacare. Then he tried desperately to walk it back, claiming that Obamacare has failed — which is literally and figuratively the party line.
Which raises the question, if this is a failure, what would policy success look like?
Obamacare has led to a rapid drop in the number of uninsured, especially in states that have fully implemented its provisions. It hasn’t covered everyone, but it wasn’t expected to: it doesn’t cover undocumented immigrants, and the relative complexity of the program always meant that some eligible people would fall through the cracks. The original CBO estimates were that eventually 92 percent of non-elderly residents would have coverage, and in Medicaid expansion states we’re getting there.
Meanwhile, the whole thing has come in well below projected costs; insurance premiums will rise for 2016, but after two years of remarkably small rises that still leaves things cheaper than expected. And overall health care spending has come in far below expectations.
None of the other terrible things that were supposed to happen — job loss, destruction of full-time employment, a surge in the budget deficit — have happened either.
But to be a good Republican you have to insist that it has been a disaster. And Mitt Romney is therefore in the position of trashing his own life’s work. Sad. But he has nobody but himself to blame.
Illusioni di fallimento
Certe volte si resta quasi dispiaciuti per Mitt Romney. Ha avuto nella sua vita un grande risultato: la riforma sanitaria del Massachusetts, che ha funzionato secondo lo schema della Legge sulla Assistenza Sostenibile. Se fosse stato in un partito politico savio, si starebbe vantando di quel risultato. Ma voleva diventare Presidente, il che comportava che doveva uniformarsi al suo partito; e nell’Iowa, l’81 per cento dei repubblicani dice che la dichiarazione di Ben Carson [2] secondo la quale la riforma della assistenza di Obama è la cosa peggiore dalla schiavitù, lo rende più attraente come candidato. Dunque, ha dovuto buttare nella spazzatura la cosa migliore che aveva fatto.
Si scopre che, talvolta, egli non riesce a mantenere quella finzione. L’altro giorno ha rivendicato il merito di aver gettato le basi per la riforma di Obama. Poi ha cercato disperatamente di fare marcia indietro, sostenendo che la riforma della sanità di Obama ha fallito – che è letteralmente e sostanzialmente la linea del Partito.
Il che solleva la domanda: se questo è un fallimento, cosa dovrebbe essere una politica di successo?
La riforma della assistenza di Obama ha portato ad una rapida caduta nel numero dei non assicurati, in particolare negli Stati che hanno completamente messo in atto le sue previsioni. Non ha dato a tutti assistenza, ma non era quello che ci si aspettava: essa non copre gli immigrati senza documenti, e la relativa complessità del programma ha inevitabilmente comportato che qualche persona che ne aveva diritto si è persa nelle pieghe. Le stime originarie dell’Ufficio Congressuale del Bilancio erano che alla fine il 92 per cento dei residenti non anziani sarebbero stati coperti, e negli Stati che hanno accolto l’espansione di Medicaid ci stiamo arrivando.
Nel frattempo, l’intera faccenda è venuta a costare molto meno di quanto previsto; le polizze assicurative per il 2016 cresceranno, ma dopo due anni di aumenti considerevolmente modesti, questo lascia la situazione più conveniente di quello che ci si aspettava. E la spesa complessiva per l’assistenza sanitaria è risultata molto al di sotto delle aspettative.
Non è neppure accaduta nessuna delle cose terribili che ci si aspettava accadessero – perdita di posti di lavoro, distruzione dell’occupazione a tempo pieno, rialzo del deficit di bilancio.
Ma per essere un buon repubblicano si deve insistere che è stata un disastro. E Mitt Romney è di conseguenza nella situazione di buttare alla ortiche il lavoro della sua stessa vita. Triste, ma non deve dar la colpa a nessuno se non a se stesso.
[1] La tabella mostra i risultati della riforma sanitaria nei due grandi comparti: degli Stati che l’hanno messa integralmente in atto (consentendo la espansione di Medicaid, che peraltro era a carico del Governo federale) e negli Stati che l’hanno sostanzialmente boicottata. Come si vede, la riduzione del tasso dei non assicurati è stata del 44% nel primo caso, e del 28% nel secondo.
[2] Candidato nelle primarie repubblicane.
ottobre 25, 2015
Oct 23 3:49 pm
Eric Lipton and Jennifer Steinhauer, in an impressive piece of investigative reporting, find that the various PACs encouraging what Greg Sargent calls the Freedom Fraud caucus are basically in it for the money; the bulk of what they raise ends up as consultants’ fees and the like, paid to the same people organizing the drives.
The thing to realize is how broad a phenomenon this is. As Rick Perlstein pointed out several years ago, the modern conservative movement is in large part a “strategic alliance of snake-oil vendors and conservative true believers” with “a cast of mind that makes it hard for either them or us to discern where the ideological con ended and the money con began.”
So goldbuggism, for example, is intimately tied to direct-marketing schemes for gold coins and gold certificates. I’ve been getting mail from the American Seniors Association, which bills itself as a conservative alternative to the AARP; sure enough, it’s a for-profit enterprise whose goal is to sell me insurance. And so on.
This is surely a much more important part of our political story than almost anyone acknowledges. I don’t think you can understand the depth of Obama- and Hillary-hatred without understanding just how much of it is generated by scammers out to make a buck off the racism and misogyny of some — sad to say, fairly many — older white men.
Sono un imbroglio
Eric Lipton e Jennifer Steinhauer, in un impressionante articolo di giornalismo di inchiesta, scoprono che i vari Comitati di Iniziativa Politica che incoraggiano quello che Greg Sargent definisce il “raggruppamento per la libertà di imbroglio” siano fondamentalmente della partita per ragioni di soldi; il grosso di quello che raccolgono finisce in parcelle a consulenti e simili, pagati alle stesse persone che organizzano le campagne.
Quello che si deve comprendere è quanto questo fenomeno sia ampio. Come mise in evidenza anni orsono Rick Perlstein, il movimento conservatore contemporaneo è in gran parte “una alleanza strategica tra venditori di pozioni miracolose e veri e propri credenti conservatori” con “un modo di pensare che rende difficile per loro stessi e per noi di discernere dove finisca l’imbroglio ideologico e dove cominci quello finanziario”.
Così, ad esempio, l’ideologia monetaria basata sull’oro è intimamente legata ai diretti schemi di promozione sul mercato delle monete e dei certificati aurei. Sto ricevendo mail dalla Associazione degli Americani Anziani, che si pubblicizza come una alternativa conservatrice alla Associazione Americana dei Pensionati (AARP); di certo si tratta di una impresa a scopo di lucro il cui obbiettivo è di vendermi una assicurazione. E così via.
Si tratta sicuramente di una parte della nostra storia politica più importante di quello che quasi tutti riconoscono. Non penso che si possa comprendere la profondità dell’odio verso Obama ed Hillary se non ci si rende conto di quanto esso sia generato da truffatori in circolazione allo scopo di far soldi sul razzismo e sulla misoginia di alcuni bianchi anziani – triste a dirsi, abbastanza numerosi.
[1] Il diagramma mostra – se capisco bene – quanta parte del finanziamento speso dal gruppo dirigente del Tea Party vada direttamente ai candidati presidenziali, e quanta parte vada ai non candidati, ovvero ai soggetti che a qualsiasi titolo fanno soldi sulle campagna elettorali (che dunque ricevono ben l’86 per cento).
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