Blog di Krugman

Gli uomini da sei mila miliardi di dollari (23 ottobre 2015)

 

Oct 23 12:45 pm

The $6 Trillion Men

So it now appears that Paul Ryan will end up as Speaker of the House; he will continue to furrow his brow and talk very seriously about the need to reduce deficits, while wowing the press with his ability to use PowerPoint. But I have a proposal for any journalists who interview him: ask for his assessment of the tax proposals from Republican presidential candidates.

As Howard Gleckman points out, all of the candidates are proposing to hand out “free stuff” – unfunded tax cuts for the wealthy – on a truly impressive scale. The average budget cost is $6 trillion over the next decade; as it happens, Marco Rubio, who seems to be the most likely survivor of the demolition derby, comes in slightly above that average, at $6.5 trillion.

This is pretty amazing, or would be if you took all that deficit hawkery from 2011 and 2012 seriously. Why, it’s almost as if Republicans never cared about deficits, and were just using the issue to attack Obama and pave the way for cuts in social insurance programs.

 

Gli uomini da sei mila miliardi di dollari

Dunque adesso pare che Paul Ryan finirà con l’essere Speaker della Camera; egli continuerà ad aggrottare le sue ciglia e a parlare molto seriamente della necessità di ridurre i deficit, nel mentre lascerà a bocca parta la stampa per la sua capacità di usare Power Point. Io avrei una proposta per i giornalisti che lo intervisteranno: chiedetegli il suo giudizio sulle proposte in materia di fisco da parte dei candidati presidenziali repubblicani.

Come sottolinea Howard Gleckman, tutti i candidati stanno proponendo di dispensare “roba gratis” – sgravi fiscali senza coperture per i ricchi – in dimensioni veramente impressionanti. Il costo medio per il bilancio sarebbe di sei mila miliardi di dollari per il prossimo decennio; si dà il caso che Marco Rubio, che sembra essere colui che più probabilmente sopravviverà alla gara di demolizione si collochi leggermente sopra quella media, a 6 mila 500 miliardi di dollari.

Questo è abbastanza stupefacente, o meglio lo sarebbe se aveste preso sul serio tutti questi falchi del deficit dal 2011 e 2012. Perché, in pratica è come se i repubblicani non si fossero mai curati dei deficit, e stessero solo utilizzando quel tema per attaccare Obama e preparare la strada a tagli nei programmi della assistenza sociale.

 

 

 

I maggiori perdenti (23 ottobre 2015)

ottobre 25, 2015

 

Oct 23 12:43 pm

The Biggest Losers

How it went yesterday at the Benghazi committee: It was actually pretty incredible. Has any serious presidential candidate had to undergo that kind of grilling, demonstrate that much sheer physical stamina and sustained intellectual discipline? The Republicans wanted to portray Hillary Clinton as a super-villain, and ended up making her look like a superhero.

But the real losers here are the reporters and centrist pundits who let themselves be played, month after month, by Trey Gowdy and company. I mean, anyone who took these chumps seriously has proved himself an ever bigger chump than they are.

 

I maggiori perdenti

Ecco come è andata ieri alla Commissione per Bengasi: è stato effettivamente abbastanza incredibile. Ma davvero un qualunque serio candidato alla Presidenza doveva sottoporsi a quel tipo di terzo grado, dimostrare quella vera e propria resistenza fisica e prolungata disciplina intellettuale? I repubblicani volevano rappresentare Hillary Clinton come una super malvagia ed hanno finito col farla apparire come una super eroina.

Ma in questo caso i veri perdenti sono i giornalisti ed i commentatori centristi che hanno permesso, mese dopo mese, di essere presi per il naso da Trey Gowdy [1] e compagnia. Voglio dire, chiunque abbia preso sul serio questi imbecilli, si è mostrato per suo conto più imbecille di loro.

 

[1] Membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti.

 

 

 

I circoli di Hillary (21 ottobre 2015)

ottobre 23, 2015

 

Oct 21 1:57 pm

Hillary’s Loops

The party primaries have been hell on pundits; on the GOP side, in particular, events have demolished almost every supposed certainty (except for one: if Bill Kristol makes a prediction, you can be sure that it won’t happen). And I (a) claim no special insight (b) have no desire to get into the game.

I would, however, like to give props to Nate Silver, who had a good post a month ago about Hillary Clinton’s “poll-deflating feedback loop” set off by the erroneous Times story about a supposed criminal investigation. He noted that at the time Clinton’s press coverage was almost completely dominated by three kinds of negative stories: emails, declining poll numbers, and Biden speculation. And these stories were mutually reinforcing: weak poll numbers led to more Biden speculation, more negative stories hurt the poll numbers, and — Silver doesn’t say this, but it was obvious — there was a blood-in-the-water effect on the press, which was encouraged to indulge its Clinton derangement syndrome by signs of weakness.

One implication of Silver’s analysis was that the feedback loop could quite easily go into reverse if Clinton was the beneficiary of some positive news, if her poll numbers stopped falling, if Biden chose not to enter the race. And sure enough, that’s exactly what’s happening now. The Benghazi thing is being recognized as the witch hunt it always was, the first debate showed why Clinton was a force to begin with, polling has turned up, Biden is out, and coverage has turned positive.

I wouldn’t count out a resurgence of CDS. And I do have one prediction of my own: most if not all Republican-leaning pundits who have been wringing their hands over the party’s turn away from true conservatism will find ways to decide that Donald Trump really isn’t so bad once he gets the nomination. But at least for now the feedback is working Hillary’s way.

 

I circoli di Hillary

Le primarie di partito sono state un inferno per i commentatori; in particolare per quanto riguarda il Partito Repubblicano, gli eventi hanno demolito quasi tutte le presunte certezze (ad eccezione di una: se Bill Kristol fa una previsione, potete star sicuri che non accadrà). Ed io: (a) non pretendo di avere alcuna particolare illuminazione; (b) non desidero partecipare a quel gioco.

Vorrei, tuttavia, rendere omaggio a Nate Silver, che una mese fa pubblicò un buon post sul “circolo vizioso dei sondaggi che si sgonfiano” di Hillary Clinton, messo in evidenza dalla erronea storia pubblicata sul Times su una presunta inchiesta penale. Egli notava che a quel tempo i servizi giornalistici sulla Clinton erano quasi interamente dominati da racconti negativi di tre categorie: la faccenda delle email, i dati dei sondaggi in declino e le congetture su Biden. E queste storie si rafforzavano reciprocamente: i dati negativi sui sondaggi portavano a maggiori congetture su Biden, ulteriori racconti negativi compromettevano i dati dei sondaggi e – Silver non l’aveva detto, ma era evidente – sulla stampa c’era un effetto di ‘accanimento’ [1], che era incoraggiato ad indulgere alla sua squilibrata sindrome sui Clinton, per effetto di quei segni di debolezza [2].

Una implicazione dell’analisi di Silver era che il circolo vizioso poteva facilmente risolversi nel suo contrario se la Clinton avesse beneficiato di qualche notizia positiva, se i dati dei sondaggi avessero cessato di calare, se Biden avesse scelto di non entrare nella competizione. E, come previsto, è proprio quello che sta accadendo. La faccenda di Bengasi è stata riconosciuta per quello che era, una caccia alle streghe, il primo dibattito ha mostrato intanto perché ella era un candidato forte, i sondaggi sono tornati a salire, Biden è uscito di scena e i resoconti sono tornati positivi.

Non escluderei un ritorno di CDS [3]. E voglio proprio fare una mia previsione: gran parte se non tutti i commentatori che simpatizzano per i repubblicani che si sono torte le mani per l’abbandono del vero conservatorismo da parte dei repubblicani, troveranno i modi per decidere che Donald Trump non è così male, una volta che avrà ottenuta la nomina. Ma almeno per adesso, i commenti stanno funzionando nel senso di Hillary.

 

[1] Traduco così l’espressione idiomatica “blood-in-the-water effect”, che in effetti indica una condizione più complessa (quando, in una situazione di competizione, l’evidenza della vulnerabilità della parte debole, e la conseguente maggiore aggressività della parte forte, incrementano la sensazione di una sconfitta ineluttabile della prima. Siccome credo che all’origine l’idioma derivi dal ‘richiamo’ che il sangue nell’acqua determina su animali predatori (ed esempio pescicani), mi pare che si possa tradurre con generico ‘accanimento’.

[2] Immagino che qua ci si riferisca alla famiglia, ovvero alla soggezione di entrambi i coniugi Clinton ad attacchi scandalistici in genere ingiustificati.

[3] Non sono riuscito a trovare il significato dell’acronimo, a parte le soluzioni che evidentemente non c’entrano niente.

 

 

 

Ancora sulla non-intelligenza artificiale (dal blog di Krugman, 20 ottobre 2015)

ottobre 22, 2015

 

More Artificial Unintelligence

David Beckworth pleads with fellow free-marketeers to stop claiming that low interest rates are “artificial” and comparing them to price controls. No, the Fed isn’t imposing a price ceiling on interest rates, he says; in fact, the zero lower bound is acting like a price floor.

He’s completely right about the economics. Monetary policy, in which the central bank buys and sells securities to change the monetary base, is nothing at all like price controls. Furthermore, we have a very clear model that tells us what interest rates would be in the absence of distortions and rigidities, the Wicksellian natural rate — the rate of interest consistent with an economy subject neither to inflationary overheating nor deflationary excess supply. And with inflation consistently below the generally accepted 2 percent target, this model says that the actual interest rate, at zero, is above the natural rate, not below.

But the question Beckworth should be asking himself is why almost nobody on the right is willing to think clearly about this issue.

It’s important to realize that we’re not just talking about monetary ignoramuses like Rand Paul and George Will. The “low interest rates = price controls” meme is bang-your-head-on-the-table stupid — but it has been made by none other than John Taylor. Clearly, this is a line of argument that people on the right really, really like for reasons that have nothing to do with intellectual coherence, so much so that famous monetary experts who have to know better fall meekly in line.

My take is that someone like Beckworth is trying to take the monetarist, Milton Friedman position, which is basically one of trusting markets to get it right except when it comes to the business cycle, where it becomes necessary to have expansionary monetary policies in slumps. This is a slightly problematic position on logical grounds: you need some kind of market failure to give monetary policy large real effects, and in that case why imagine that this is the only important failure? But more important, at this point, is the fact that this position turns out to be politically unsustainable. “Government is always the problem, not the solution, except when it comes to monetary policy” just doesn’t cut it for modern conservatives.

Nor did it cut it for traditional conservatives. Remember, during the 1930s people like Hayek were liquidationists, with Hayek specifically denouncing expansionary monetary policy during a slump as “the creation of artificial demand.” The era of Friedmanism, of free-market views paired with tolerance for monetary stimulus, was a temporary and unsustainable interlude, and no amount of sensible argumentation will bring it back.

 

Ancora sulla non-intelligenza artificiale

David Beckworth [1] implora i suoi colleghi del libero mercato di smetterla di sostenere che i bassi tassi di interesse siano “artificiali” e di paragonarli alle politiche di controllo dei prezzi. No, egli dice, la Fed non sta imponendo un tetto ai tassi di interesse; di fatto, è il limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse) che sta agendo come base dei prezzi.

Dal punto di vista economico, egli ha completamente ragione. La politica monetaria, nella quale la banca centrale acquista e vende titoli allo scopo di modificare la base monetaria, non è niente affatto simile al controllo dei prezzi. Inoltre, abbiamo un modello molto chiaro che ci dice cosa sarebbero i tassi di interesse in assenza di distorsioni e di rigidità, il tasso di interesse naturale wickselliano – il tasso di interesse coerente con una economia non soggetta né ad un surriscaldamento inflazionistico né ad un eccesso di offerta deflazionistico. E con una inflazione stabilmente al di sotto del generalmente accettato obbiettivo del 2 per cento, questo modello dice che il tasso di interesse effettivo, allo zero, è sopra il tasso di interesse naturale, non sotto.

Ma la domanda, che Beckworth dovrebbe rivolgere a se stesso, è perché quasi nessuno a destra è disponibile a ragionare con chiarezza su questo tema.

É importante comprendere che non stiamo parlando di ignorantoni monetari come Rand Paul e George Will. Il ritornello che replica “bassi tassi di interesse = controllo dei prezzi” è “picchia-la-tua-testa-sul-tavolo, stupido” – ma non è stato creato da altri se non da John Taylor. Chiaramente, si tratta di una argomentazione che alle gente di destra piace smisuratamente per ragioni che non hanno niente a che fare con la coerenza intellettuale, al punto tale che famosi esperti monetari che dovrebbero saperne di più si collocano docilmente in linea.

La mia impressione è che persone del genere di Beckworth stanno cercando di assumere una posizione monetarista, alla Milton Friedman, il che fondamentalmente significa credere che i mercati facciano le cose giuste ad eccezione di quando si giunge ai cicli economici, dove diventa necessario avere politiche monetarie espansive a fronte delle crisi. Su basi logiche, questa è una posizione leggermente problematica: avete bisogno di un fallimento di qualche genere del mercato per dare alla politica monetaria ampi effetti reali, e. in quel caso, perché pensare che questo sia l’unico importante fallimento possibile? Ma, più importante ancora, a questo punto è il fatto che questa posizione risulta politicamente insostenibile. “Il Governo è sempre il problema e non la soluzione, ad eccezione di quando si passa alla politica monetaria” non è una posizione che si attaglia ai conservatori odierni.

E neppure si adattava ai conservatori tradizionali. Si ricordi, durante gli anni ’30 persone come Hayek erano ‘liquidazionisti’, allorquando Hayek esplicitamente denunciava la politica monetaria espansionista durante una crisi come “la creazione di una domanda artificiale”. L’epoca del ‘friedmanismo’, dell’accoppiamento dei punti di vista del libero mercato con la tolleranza verso lo stimolo monetario, fu un interludio temporaneo e non sostenibile, e nessuna dose di argomentazione ragionevole ci riporterà indietro.

 

[1] David Beckworth è un economista, docente in alcune Università americane e ricercatore presso il Cato Institute (una fondazione della destra americana). Il suo post è davvero interessante, ed è pubblicato sul suo blog (“Macroeconomia e altre riflessioni sul mercato”). Si rivolge con toni effettivamente di implorazione verso vari esponenti della destra (compreso Rand Paul) perché considerino con più ragionevolezza che i bassi tassi di interesse non sono una invenzione della Fed, ma una conseguenza della crisi dell’economia. Le sue conclusioni: “Davvero vorrei che persone come George Will, Bill Gross e Rand Paul riconsiderassero i loro punti di vista su questa materia. Sarebbero dei migliori sostenitori del capitalismo, se lo facessero.

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Ripensando al Giappone (dal blog di Kugman, 20 ottobre 2015)

ottobre 22, 2015

 

Rethinking Japan

October 20, 2015 9:11 am

The IMF held a small roundtable discussion on Japan yesterday, and in preparation for the event I thought it was a good idea to update my discussion of Japan – not so much about the question of whether Abenomics is working / will work (unclear, don’t know) as about the current nature of the Japanese problem.

It’s a bit self-centered, but I find it useful to approach this subject by asking how I would change what I said in my 1998 paper on the liquidity trap. Hey, it was one of my best papers; and it has held up pretty well in many respects. But Japan and the world look different now, and trying to pin down that difference may help clarify matters.

It seems to me that there are two crucial differences between then and now. First, the immediate economic problem is no longer one of boosting a depressed economy, but instead one of weaning the economy off fiscal support. Second, the problem confronting monetary policy is harder than it seemed, because demand weakness looks like an essentially permanent condition.

The weaning issue

Back in 1998 Japan was in the midst of its lost decade: while it hadn’t suffered a severe slump, it had stagnated long enough that there was good reason to believe that it was operating far below potential output.

This is, however, no longer the case. Japan has grown slowly for the past quarter century, but a lot of that is demography. Output per working-age adult has grown faster than in the United States since around 2000, and at this point the 25-year growth rates look similar (and Japan has done better than Europe):

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You can even make a pretty good case that Japan is closer to potential output than we are. So if Japan isn’t deeply depressed at this point, why is low inflation/deflation a problem?

The answer, I would suggest, is largely fiscal. Japan’s relatively healthy output and employment levels depend on continuing fiscal support. Japan is still, after all these years, running large budget deficits, which in a slow-growth economy means an ever-rising debt/GDP ratio:

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So far this hasn’t caused any problems, and Japan has clearly been much better off than it would have been if it tried to balance its budget. But even those of us who believe that the risks of deficits have been wildly exaggerated would like to see the debt ratio stabilized and brought down at some point.

And here’s the thing: under current conditions, with policy rates stuck at zero, Japan has no ability to offset the effects of fiscal retrenchment with monetary expansion.

The big reason to raise inflation, then, is to make it possible to cut real interest rates further than is possible at low or negative inflation, allowing monetary policy to take over from fiscal policy.

I’d also add a secondary consideration: the fact that real interest rates are in effect being kept too high by insufficient inflation at the zero lower bound also means that debt dynamics for any given budget deficit are worse than they should be. So raising inflation would both make it possible to do fiscal adjustment and reduce the size of the adjustment needed.

But what would it take to raise inflation?

Secular stagnation and self-fulfilling prophecies

Back in 1998, when I tried to think through the logic of the liquidity trap, I used a strategic simplification: I envisaged an economy in which the current level of the Wicksellian natural rate of interest was negative, but that rate would return to a normal, positive level at some future date. This assumption provided a neat way to deal with the intuition that increasing the money supply must eventually raise prices by the same proportional amount; it was easy to show that this proposition applied only if the money increase was perceived as permanent, so that the liquidity trap became an expectations problem.

The approach also suggested that monetary policy would be effective if it had the right kind of credibility – that if the central bank could “credibly promise to be irresponsible,” it could gain traction even in a liquidity trap.

But what is this future period of Wicksellian normality of which we speak? Japan has awesomely unfavorable demographics:

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Which makes it a prime candidate for secular stagnation. And bear in mind that rates have been very low for two decades, fiscal deficits have been high that whole period, and at no point has there been a hint of overheating. Japan looks like a country in which a negative Wicksellian rate is a more or less permanent condition.

If that’s the reality, even a credible promise to be irresponsible might do nothing: if nobody believes that inflation will rise, it won’t. The only way to be at all sure of raising inflation is to accompany a changed monetary regime with a burst of fiscal stimulus.

And this in turn suggests something counterintuitive: while the goal of raising inflation is, in large part, to make space for fiscal consolidation, the first part of that strategy needs to involve fiscal expansion. This isn’t at all a paradox, but it’s unconventional enough that one despairs of turning the argument into policy (a despair reinforced by yesterday’s meeting …)

Escape velocity

Suppose, bad instincts aside, that we really can go down this road. How high should Japan set its inflation target? The answer is, high enough so that when it does engage in fiscal consolidation it can cut real interest rates far enough to maintain full utilization of capacity. And it’s really, really hard to believe that 2 percent inflation would be high enough.

This observation suggests that even in the best case Japan may face a version of the timidity trap. Suppose it convinces the public that it will really achieve 2 percent inflation; then it engages in fiscal consolidation, the economy slumps, and inflation falls well below 2 percent. At that point the whole project unravels – and the damage to credibility makes it much harder to try again.

What Japan needs (and the rest of us may well be following the same path) is really aggressive policy, using fiscal and monetary policy to boost inflation, and setting the target high enough that it’s sustainable. It needs to hit escape velocity. And while Abenomics has been a favorable surprise, it’s far from clear that it’s aggressive enough to get there.

 

Ripensando al Giappone

 

Il FMI ha organizzato ieri una tavola rotonda sul Giappone e in preparazione dell’evento ho pensato sarebbe stata una buona idea aggiornare il mio punto di vista su quel paese – non tanto sui quesiti se la politica economica di Abe stia funzionando o funzionerà (non è chiaro, non lo so), quanto sulla attuale natura del problema giapponese.

É un po’ centrato su me stesso, ma io trovo utile affrontare questo tema chiedendomi come cambierei quello che affermavo nel mio saggio del 1998 sulla trappola di liquidità. In fondo, fu uno dei miei saggi migliori; e sotto molti aspetti ha funzionato abbastanza bene. Ma oggi il Giappone e il mondo sembrano diversi, e cercare di individuare quella differenza può essere un chiarimento utile.

A me sembra che ci siano due differenze cruciali tra ora ed allora. La prima, il problema economico immediato non è più quello di sostenere un’economia depressa, bensì quello di farle perdere la dipendenza dal sostegno della finanza pubblica. La seconda, il problema cui si trova di fronte la politica monetaria è più difficile di quello che sembrava, perché la debolezza della domanda sembra una condizione essenzialmente permanente.

Il tema del far perdere la dipendenza

Nel passato 1998 il Giappone era nel mezzo del suo decennio perduto: se non aveva subito una depressione grave, il suo ristagno era una ragione sufficiente per far ritenere che stesse operando al di sotto della sua produzione potenziale.

La situazione, tuttavia, non è più quella. Il Giappone è cresciuto lentamente nei passati venticinque anni, ma in gran parte è dipeso dalla demografia. Il prodotto procapite per adulto in età lavorativa, a partire da circa il 2000, è cresciuto più velocemente degli Stati Uniti, e a questo punto i tassi di crescita venticinquennali appaiono simili (e ha avuto un andamento migliore dell’Europa):

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Si può persino avanzare l’ipotesi abbastanza ragionevole che il Giappone sia più vicino alla produzione potenziale di quanto non siamo noi. Dunque, se il Giappone a questo punto non è profondamente depresso, perché ha il problema della bassa inflazione/deflazione?

Suggerirei che la risposta riguarda in buona parte la finanza pubblica. La produzione relativamente sana e i livelli di occupazione del Giappone dipendono dalla prosecuzione del sostegno della spesa pubblica. Dopo tutti questi anni, il Giappone sta ancora gestendo ampi deficit di bilancio, la qualcosa in un’economia in lenta crescita significa un rapporto in continua crescita tra debito e PIL:

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[1]

Sino ad ora questo non ha provocato problemi di sorta, e il Giappone è stato chiaramente meglio di quello che sarebbe stato se avesse cercato di mettere in equilibrio il bilancio. Ma anche quelli tra noi che credono che i rischi dei deficit siano stati enormemente esagerati, ad un certo punto vorrebbero vedere la percentuale del debito stabilizzata ed abbassata.

E qua è il punto: nelle condizioni attuali, con i tassi di riferimento bloccati sullo zero, il Giappone non ha la possibilità di bilanciare gli effetti di una restrizione della finanza pubblica con l’espansione monetaria.

La ragione fondamentale per elevare l’inflazione, dunque, è rendere possibile il taglio dei tassi di interesse oltre quello che è consentito da una inflazione bassa o negativa, consentendo alla politica monetaria di prendere il posto della politica della finanza pubblica.

Aggiungerei anche una considerazione secondaria: il fatto che i tassi di interesse reali siano in effetti tenuti troppo alti dall’inflazione insufficiente al livello inferiore dello zero [2], significa anche che le dinamiche del debito di un qualsiasi dato deficit di bilancio sono peggiori di quello che dovrebbero essere. Dunque, elevare l’inflazione renderebbe possibile sia il realizzare una correzione della finanza pubblica che ridurre le dimensioni della correzione necessaria.

Ma cosa ci vorrebbe per elevare l’inflazione?

La stagnazione secolare e le profezie che si autoavverano.

Nel 1998, quando cercavo di analizzare a fondo la logica della trappola di liquidità, utilizzai una semplificazione strategica: immaginai un’economia nella quale il livello del wickselliano tasso di interesse naturale fosse negativo, ma al tempo stesso immaginai che quel tasso tornasse ad un livello normale e positivo in qualche momento futuro. Questo assunto fornì un modo preciso per fare i conti con l’intuizione secondo la quale l’aumento dell’offerta di moneta, alla fine, deve elevare in proporzione i prezzi della stessa quantità; fu semplice dimostrare che questo concetto si applicava soltanto se l’aumento della moneta veniva percepito come permanente, in modo tale che la trappola di liquidità diventava un problema di aspettative.

Quell’approccio suggerì anche che la politica monetaria sarebbe stata efficace se avesse avuto il grado giusto di credibilità – che se la banca centrale poteva “credibilmente promettere di essere irresponsabile”, poteva ottenere una forza di spinta anche in una trappola di liquidità.

Ma di quale futuro periodo di wickselliana normalità stiamo parlando? Il Giappone ha una demografia straordinariamente sfavorevole:

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[3]

É quello che lo rende un ottimo aspirante alla stagnazione secolare. E si tenga a mente che i tassi sono stati molto bassi per due decenni, i deficit della finanza pubblica sono stati alti per l’intero periodo, e in nessun momento c’è stato un segno di surriscaldamento. Il Giappone sembra un paese nel quale un tasso wickselliano negativo è più o meno una condizione permanente.

Se la realtà è questa, anche una ‘credibile promessa di essere irresponsabili’ non ottiene risultato: se nessuno crede che l’inflazione crescerà, essa non crescerà. Il solo modo per esser certi di una inflazione crescente è accompagnare un cambiamento del regime monetario con uno scoppio di misure di sostegno della finanza pubblica.

E questo a sua volta suggerisce qualcosa di illogico: mentre l’obbiettivo di aumentare l’inflazione ha, in larga parte, lo scopo di fare spazio al consolidamento delle finanze pubbliche, la prima fase di quella strategia include di necessità l’espansione della finanza pubblica. Questo non è affatto un paradosso, ma è sufficientemente anticonvenzionale perché si rinunci a trasformare quel ragionamento in politica (rinuncia rafforzata dall’incontro di ieri …).

Velocità di fuga

Supponiamo, mettendo da parte le sensazioni negative, che davvero si possa scendere per questa strada. Quanto in alto il Giappone dovrebbe fissare il suo tasso di interesse? La risposta è, alto abbastanza da poter, al momento in cui si impegna nel consolidamento finanziario, tagliare i tassi di interesse reali abbastanza a lungo per mantenere la piena utilizzazione della sua capacità produttiva. Ed è davvero difficile credere che una inflazione del 2 per cento sarebbe sufficientemente elevata.

Questa osservazione indica che persino nell’ipotesi migliore il Giappone può trovarsi di fronte ad una versione della trappola della timidezza [4]. Si supponga che esso convinca l’opinione pubblica che realizzerà davvero una inflazione al 2 per cento; allora si impegnerà nel consolidamento finanziario, l’economia andrà in declino e l’inflazione scenderà ben al di sotto del 2 per cento. A quel punto l’intero progetto andrà in fumo – e il danno alla credibilità renderà molto più difficile provarci ancora.

Quello di cui il Giappone ha bisogno (e la stessa sorte può ben toccare a tutti gli altri) è una politica realmente aggressiva, utilizzando la politica della finanza pubblica e monetaria per sostenere l’inflazione, e fissando un obbiettivo sufficientemente elevato da essere sostenibile. Ha bisogno di raggiungere una velocità di fuga. E se la politica economica di Abe è stata una sorpresa positiva, è lungi dall’essere chiaro se essa sia sufficientemente aggressiva per arrivarci.

 

 

 

 

[1] La tabella mostra gli andamenti dell’equilibrio primario dei bilanci come percentuale dei PIL dell’Europa, degli Stati Uniti e del Giappone, corretti in considerazione degli andamenti del ciclo economico.

[2] Penso che si intenda “al livello inferiore dello zero dei tassi nominali”.

[3] Come si vede, il dato è impressionante: il Giappone ha perso circa 9 milioni di cittadini tra i 15 ed i 64 anni (in età lavorativa) in venti anni.

[4] Vedi il post, qua tradotto, del 21 marzo 2014 “Analisi timida (per esperti)”.

 

 

 

 

 

 

 

Le teorie della cospirazione monetaria (17 ottobre 2015)

ottobre 19, 2015

 

Oct 17 10:23 am

Monetary Conspiracy Theories

According to Pollster, there is still no sign of a turn back to establishment Republicans. In fact, the triumvirate of crazy — Trump/Carson/Cruz — has about three times as much support as the combination of Bush, Rubio, and Kasich. It’s amazing.

But why don’t GOP voters realize that these are crazy people? Maybe because the things they say aren’t all that different from what supposedly reasonable Republicans say.

A case in point: The Donald has just come out with a monetary conspiracy theory: the reason the Fed hasn’t raised rates has nothing to do with low inflation and global headwinds, Janet Yellen is just doing Obama a political favor. Crazy, right?

But how different is this, really, from Paul Ryan and John Taylor claiming that quantitative easing wasn’t a good-faith effort to support a weak economy, but an attempt to “bail out fiscal policy”, preventing the fiscal crisis Obama’s policies were supposed to produce?

The difference between establishment Republicans and the likes of Trump, in other words, isn’t so much the substance of what they say as the tone; we’re supposed to consider Jeb Bush, Marco Rubio, or Paul Ryan moderate because they insinuate their conspiracy theories rather than bellowing them and talk voodoo economics with a straight face. But why should we be surprised if the GOP base doesn’t see why this makes them more plausible?

 

Le teorie della cospirazione monetaria

Secondo Pollster [1], non c’è alcun segno di un ritorno ai candidati repubblicani del gruppo dirigente [2]. Di fatto, il triunvirato dei pazzi – Trump/Carson/Cruz – ha un sostegno pari a tre volte la somma di quello di Bush, Rubio e Kasich. É incredibile.

Ma perché gli elettori del Partito Repubblicano non si rendono conto che si tratta di personaggi pazzeschi? Forse perché le cose che dicono non sono così diverse da quelle che dicono i presunti ragionevoli repubblicani.

Un esempio a proposito: “Il Donald” se n’è appena venuto fuori con una teoria della cospirazione monetaria: la ragione per la quale la Fed non ha innalzato i tassi di interesse non ha niente a che fare con la bassa inflazione e con la congiuntura negativa globale, Janet Yellen sta solo facendo un favore politico ad Obama. Da matti, non è così?

Ma, in realtà, che differenza c’è con quello che sostengono Paul Ryan e John Taylor, secondo i quali la ‘facilitazione quantitativa’ non è stata un sforzo un buona fede per sostenere un’economia debole, ma un tentativo di “salvataggio della politica della finanza pubblica”, impedendo la crisi finanziaria che le politiche di Obama si pensava producessero?

La differenza tra i repubblicani dell’apparato e i soggetti alla Trump, in altre parole, non è tanto in quello che dicono, quanto nel tono: si suppone che si consideri Jeb Bush, Marco Rubio o Paul Ryan moderati perché essi insinuano le loro teorie della cospirazione anziché gridarle e parlare di economia voodoo in modo esplicito. Ma perché dovremmo sorprenderci se la base del Partito Repubblicano non vede perché questo le renda più plausibili?

 

[1] “Pollster” (“sondaggista”) mi sembra sia una attività di ricerca sui sondaggi di varie agenzie che opera di questi tempi in particolare sulle primarie, sia repubblicane che democratiche, in collegamento con “Huffpost”. Alla fine del mese di maggio di quest’anno, Donald Trump veniva accreditato, secondo alcune agenzie, di una percentuale del 4%; il 29 di agosto era al 31%; il 15 ottobre era ancora al 29,5%. In seconda posizione, al 15 ottobre, si colloca Benjamin Carson, un neurochirurgo pediatrico di colore. Carson ha un considerevole fama come medico e ricercatore (il primo al mondo ad avere realizzato una separazione di gemelli siamesi); politicamente è un conservatore abbastanza estremo, ma – mi pare – di modi assai più urbani di Trump.

[2] L’espressione, frequente in questi giorni di primarie repubblicane, di “candidato dell’establishment’ deve essere interpretata nel senso che gli apparati, il gruppo dirigente del Partito, sono evidentemente favorevoli a soluzioni più sperimentate (come Jeb Bush o Marco Rubio), rispetto al trumpismo.

 

 

 

Sui conservatori pensosi (16 ottobre 2015)

ottobre 19, 2015

 

Oct 16 9:45 am

On Thoughtful Conservatives

Corey Robin has an annotated response to David Brooks’s lament about how conservatives have lost their way. It is, after all, rather odd to talk about the virtues of conservatism-that-was without giving a single example of someone who embodied those supposed virtues. Who’s the poster child for the intellectually humble, incrementalist, humane creed that Brooks says we’ve lost?

Corey Robin says that there never was such a person — and buttresses his case with many quotations from conservative icons across the past couple of generations.

In a somewhat related observation, Paul Ryan is still posing as the thoughtful conservative of centrist dreams. So it’s worth saying, yet again, that Ryan is not a policy wonk. Leave aside left versus right: Where, in any of his budgets, is there any sign of intellectual curiosity or even minimal technical competence? Where is there any sign that he revels in policy details, as opposed to rattling off some jargon that impresses non-policy types but leaves actual budget experts rolling their eyes?

Look, Hillary Clinton is an actual policy wonk (which may or may not mean she’d be a good president.) When she talks about shadow banking or family leave policies, you can see her trying not to get too much into the weeds, bringing up all the analysis she really, truly has taken on board. Where are her counterparts on the other side? There aren’t any. Wonkery — the real thing, not the simulation — has a well-known liberal bias.

 

Sui conservatori pensosi

Corey Robin dà una risposta argomentata al lamento di David Brooks sui conservatori che hanno perso la loro strada. Alla fine, è piuttosto bizzarro parlare delle virtù del conservatorismo dei tempi andati senza offrire un solo esempio di qualcuno che incarni quelle presunte virtù. Chi sarebbe il l’esponente caratteristico [1] di quella dottrina basata sull’umiltà intellettuale, sul gradualismo e profondamente umana che Brooks sostiene avremmo perso?

Corey Robin dice che una persona del genere non c’è mai stata – e sostiene la sua tesi con molte citazioni da icone del conservatorismo nel corso delle due passate generazioni.

In una osservazione in qualche modo collegata, Paul Ryan sta ancora assumendo atteggiamenti da il conservatore pensoso dei sogni dei centristi. Merita dunque di ripetere che Ryan non è un competente esperto di cose di governo. Lasciamo da parte la sinistra e la destra: dov’è, in una sua qualsiasi proposta di bilancio, un segno qualsiasi di curiosità intellettuale o anche di minima competenza tecnica? Dov’è un segno qualsiasi che egli si esalti nei dettagli di una politica, anziché snocciolare qualche tecnicismo che fa impressione agli individui che non hanno competenza di governo, ma fa alzare gli occhi al cielo agli esperti di bilancio?

Si veda, Hillary Clinton è una effettiva esperta di cose di governo (il che può comportare o no che sia destinata ad essere una buona Presidentessa). Quando parla di sistema bancario ombra o delle politiche per il congedo familiare, vi accorgete che non sta cercando di entrare troppo nei dettagli, che si riferisce ad una analisi complessiva che ella per davvero, concretamente preso in considerazione. Dove sono i suoi omologhi nell’altro schieramento? Non ce n’è uno. É ben noto che la competenza profonda – quella vera, non la simulazione – ha una predilezione per i progressisti.

 

[1] Pare (WordReference, English only, 4 luglio 2012) che l’espressione “poster child” sia nata con l’idea di rappresentare in un manifesto la condizione di un bambino, al fine di rendere efficace una campagna pubblicitaria nella lotta contro particolari malattie. Altrove avevo trovato un riferimento a quei bambini che il secolo scorso venivano utilizzati per fare pubblicità a qualcosa, indossando ‘a tracolla’, due manifesti pubblicitari come un sandwich.

In ogni caso è diventata col tempo indicativa di una immagine, o di un soggetto, esemplare nella rappresentazione di una situazione, di un’idea etc.

 

 

 

Hillary in carne ed ossa (14 ottobre 2015)

ottobre 15, 2015

 

Oct 14 10:25 am

Actually Existing Hillary

The commentariat seems to have turned on a dime. After trashing Hillary Clinton nonstop, they’re all talking her up. And you can see why, given the revelations that (a) the whole Benghazi thing, including the email obsession, was a partisan witch hunt and (b) Clinton herself is smart, articulate, and has a good sense of humor.

But the odd thing about these revelations is that they weren’t at all revelatory. We shouldn’t have needed McCarthy blurting out the obvious for the press to acknowledge that the Benghazi investigations have utterly failed to find any wrongdoing; and Clinton has been in public life a long time, so that her strengths were or should have been well known.

The funny part is that in the end she may benefit from the trashing, which has turned what might, indeed should have been a pretty boring narrative of a strong candidate cruising to the nomination into a comeback story. Just to be clear: she wasn’t at all the horrible figure the usual suspects portrayed, but she’s not the dominant figure you’re reading about today. Actually existing Hillary is a qualified, plausible candidate for president, no more — but given the Republican field, that’s quite a lot.

Anyway, it’s quite sad that after all these years political coverage still treats the momentous issue of who will lead the world’s most powerful nation like a high school popularity contest.

 

Hillary in carne ed ossa

I commenti sembrano aver preso tutt’altra direzione. Dopo averla fatta a pezzi senza interruzione, ora ne stanno tutti parlando favorevolmente. E si comprende il perché, dato che (a) tutta la faccenda stile-Bengasi [1], inclusa l’ossessione sulle email, era una faziosa caccia alle streghe, e (b) la Clinton per suo conto è intelligente, sa esprimersi ed ha un buon senso dell’umorismo.

Ma la cosa curiosa di tutte queste rivelazioni, è che esse non sono state affatto rivelatorie. Non c’era bisogno che McCarthy dicesse senza riflettere ovvietà dinanzi alla stampa, per riconoscere che le inchieste su Bengasi non avevano assolutamente scoperto alcuna cattiva condotta; inoltre la Clinton è stata assai a lungo nella vita pubblica, dunque i suoi punti di forza erano o avrebbero dovuto essere ben noti.

La cosa buffa è che alla fine ella può trarre beneficio dallo scandalismo, che ha trasformato quella che poteva, che in effetti avrebbe dovuto essere la storia abbastanza noiosa di una forte candidata che sta navigando verso la nomination, nel racconto di un rientro in scena. Solo per chiarezza: ella non era quell’orribile figura che i soliti noti dipingevano, ma ella non è quel personaggio dominante del quale si legge oggi. La Hillary in carne ed ossa è una candidata alla presidenza qualificata e plausibile, niente di più – ma dato il campo dei repubblicani, è parecchio.

In ogni caso, è abbastanza triste che dopo tutti questi anni il giornalismo politico tratti il tema del momento di chi guiderà la più potente nazione del mondo, alla stregua di una gara di popolarità di una scuola superiore.

 

[1] Vedi l’articolo sul NYT del 9 ottobre.

 

 

 

Le colombe globali (dal blog di Krugman, 13 ottobre 2015)

ottobre 15, 2015

 

Oct 13 12:48 pm

Global Dovishness

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Tim Duy points us to a striking speech by Lael Brainard, who recently joined the Fed Board of Governors, which takes a notably more dovish line than we’ve been hearing from Yellen and Fischer. Basically, Brainard comes down on the Summers/DeLong/Krugman precautionary principle side of the debate, arguing that given uncertainty about the path of the natural rate of interest, and great asymmetry in the consequences of moving too soon versus too late, rate hikes should be put on hold until you see the whites of inflation’s eyes.

Why does she sound so different from Fischer and Yellen? Duy argues that it is in part a generational thing:

I think these three players are all products of their experience. Yellen received her Ph.D in 1971. Fischer in 1969. Both experienced the Great Inflation first hand. Brainard earned her Ph.D in 1989. Her professional experience is dominated by the Great Moderation.

Maybe, but it’s also worth noting the difference in perspective that comes from having your original intellectual home in international versus domestic macroeconomics. I would say that Brainard’s experience is dominated not so much by the Great Moderation as by the Asian financial crisis and Japan’s stagnation; internationally oriented macro types were aware earlier than most that Depression-type issues never went away. And if you read Brainard’s argument carefully, she devotes a lot of it to the drag America may be facing from weakness abroad and the stronger dollar, which acts as de facto monetary tightening:

There is a risk that the intensification of international cross currents could weigh more heavily on U.S. demand directly, or that the anticipation of a sharper divergence in U.S. policy could impose restraint through additional tightening of financial conditions. For these reasons, I view the risks to the economic outlook as tilted to the downside. The downside risks make a strong case for continuing to carefully nurture the U.S. recovery–and argue against prematurely taking away the support that has been so critical to its vitality.

So does her speech matter? She is, as I indicated, pretty much saying what some of us on the outside have been saying, although she does it very clearly and well; but does it make a difference that someone on the inside is laying down a marker warning that raising rates could be a big mistake? I guess we’ll see.

 

Le colombe globali

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[1]

Tim Duy ci indirizza a un impressionante discorso di Lael Brainard [2], che di recente è diventato membro del Consiglio dei Governatori della Fed, che assume una linea notevolmente più morbida [3] di quella che sentiamo annunciare dalla Yellen e da Fischer. Fondamentalmente, Brainard ricade nello schieramento del principio precauzionale di Summers/DeLong/Krugman, che sostiene che data l’incertezza dell’indirizzo del tasso naturale di interesse, e la grande asimmetria tra il muoversi troppo presto e il muoversi troppo tardi, i rialzi dei tassi dovrebbero essere sospesi sinché non si vede l’inflazione ‘nelle palle degli occhi’.

Perché ella appare così diversa da Fischer e dalla Yellen? Duy sostiene che in parte si tratta di una faccenda generazionale:

“Io penso che questi tre protagonisti sono tutti il prodotto delle loro esperienze. La Yellen ha ricevuto il suo dottorato nel 1971. Fischer nel 1969. La Brainard si è guadagnata il suo nel 1989. La sua esperienza professionale è dominata dalla Grande Moderazione”.

Forse, ma è anche il caso di notare la differenza in prospettiva che deriva dall’avere il proprio originale domicilio intellettuale nella macroeconomia internazionale anziché in quella nazionale. Direi che l’esperienza della Brainard è dominata non tanto dalla Grande Moderazione, quanto dalla crisi finanziaria asiatica e dalla stagnazione del Giappone; gli individui orientati alla macroeconomia internazionale erano consapevoli in anticipo che gran parte del temi depressionari non erano mai scomparsi. E se leggete attentamente l’argomentazione della Brainard, essa la dedica molto all’effetto di trascinamento che l’America si può trovare ad affrontare per la debolezza all’estero e per il dollaro più forte, che agisce di fatto come una restrizione monetaria:

“C’è il rischio che l’intensificazione delle correnti avverse internazionali possa gravare più pesantemente in modo diretto sulla domanda degli Stati Uniti, o che l’anticipazione di una divergenza più netta nella politica degli Stati Uniti possa imporre un vincolo attraverso la restrizione aggiuntiva delle condizioni finanziarie. Per queste ragioni, io considero che i rischi della prospettiva economica tendano verso il lato negativo. I rischi di una congiuntura negativa costituiscono un forte argomento per proseguire ad alimentare in modo scrupoloso la ripresa degli Stati Uniti – e un argomento contrario al togliere prematuramente quel sostegno che è stato così fondamentale per la sua vitalità”.

É dunque importante il suo discorso? Ella, come ho indicato, sta grosso modo dicendo quello che dicono alcuni di noi dall’esterno, sebbene lo dica molto chiaramente e bene; ma fa differenza il fatto che qualcuno dall’interno avanzi un segnale di ammonimento secondo il quale elevare i tassi potrebbe essere un grande errore? Penso che lo vedremo.

 

 

 

[1] La tabella mostra l’andamento del tasso di cambio effettivo degli Stati Uniti che, come si nota, a partire dalla metà del 2014 è sensibilmente cresciuto, con un danno potenziale per la competitività americana che è uno degli argomenti per i quali la Brainard ha assunto una aperta posizione sfavorevole al rialzo dei tassi di interesse.

Krugman definisce “impressionante” il suo discorso, probabilmente, oltre che la fondatezza degli argomenti usati, anche per la chiarezza con la quale ella si è riferita a “due posizioni” all’interno della Fed.

Il titolo del post, che traduciamo con “Le colombe globali”, indica non tanto l’esistenza di uno schieramento globale di colombe, quanto il fatto che quelle posizioni si reggano in buona misura anche su considerazioni sugli andamenti globali dell’economia (debolezza europea e difficoltà della Cina).

[2] Lael Brainard era stata Sottosegretaria al Tesoro per gli Affari Internazionali nella Amministrazione Obama, prima di entrare a far parte del Consiglio dei Governatori della Fed.

Per leggere una sua intervista recente sull’argomento dei tassi di interesse, si vada al sito “Wall Street Italia”.

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[3] I termini “falco” e “colomba”, che si usano frequentemente in politica, hanno un significato anche in termini di politica monetaria; normalmente si riferiscono proprio alla politica sui tassi di interesse (favorevoli a tassi più bassi ed ad una politica “morbida” le colombe, favorevoli a tassi più alti, e dunque ad una politica di restrizione monetaria, i falchi).

 

 

 

Everett Dirksen non abita più qua (13 ottobre 2015)

ottobre 15, 2015

 

Oct 13 11:00 am

Everett Dirksen Doesn’t Live Here Anymore

I see that David Brooks is lamenting the decline of conservatism as he defines it:

By traditional definitions, conservatism stands for intellectual humility, a belief in steady, incremental change, a preference for reform rather than revolution, a respect for hierarchy, precedence, balance and order, and a tone of voice that is prudent, measured and responsible. Conservatives of this disposition can be dull, but they know how to nurture and run institutions.

OK, I guess, although Corey Robin would say that conservatism was never about that — that it was always about preserving power relations. But in any case, that kind of conservatism left the Republican Party a very long time ago. Remember, Ronald Reagan embraced supply-side economics, which was not only a radical doctrine but one rejected by virtually the entire economics profession; was that “intellectual humility”? And remember that Newt Gingrich tried to undermine the constitutional separation of powers with a government shutdown more than 20 years ago.

And on the other hand, by David’s definition Barack Obama is pretty conservative: the Affordable Care Act is a classic example of incremental change, building on the existing system rather than trying a complete overhaul.

My point is that if what you want is traditional conservatism, the only people with real influence with anything like that mindset are Democrats. Actually existing conservatism is a radical doctrine.

 

Everett Dirksen [1] non abita più qua

Vedo che David Brooks si lamenta per il declino del conservatorismo, quello che lui definisce in questo modo:

“Secondo le definizioni tradizionali, il conservatorismo è dalla parte dell’umiltà intellettuale, della preferenza per le riforme rispetto alla rivoluzione, del rispetto delle gerarchia, dell’equilibrio e dell’ordine come priorità, e di un tono di voce prudente, misurato e responsabile. I conservatori con queste attitudini possono essere noiosi, ma sanno come valorizzare e gestire le istituzioni”.

Immagino che sia giusto, sebbene Corey Robin [2] direbbe che il conservatorismo non ha mai riguardato cose del genere – che esso abbia sempre riguardato i conservare posizioni di potere. Ma, in ogni caso, quel genere di conservatorismo ha lasciato il Partito Repubblicano molto tempo fa. Si ricordi, Ronald Reagan abbracciò l’economia dal lato dell’offerta, che non era solo una dottrina radicale ma una posizione respinta sostanzialmente dall’intera disciplina economica; era un caso di “umiltà intellettuale”? E si ricordi che Newt Gingrich cercò di minare la separazione costituzionale dei poteri con un blocco della attività di governo più di 20 anni orsono.

E d’altra parte, secondo la definizione di David [3], Barack Obama è abbastanza conservatore; la Legge sulla Assistenza Sostenibile è un classico esempio di un cambiamento graduale, costruito sul sistema attuale anziché su un completo tentativo di superamento.

La mia opinione è che se quello che si vuole è un conservatorismo tradizionale, le sole persone con reale influenza con qualcosa di simile a quella mentalità sono tra i democratici. Effettivamente, il conservatorismo esistente è una dottrina radicale.

 

 

 

[1] Uno storico dirigente repubblicano degli anni ’60, che contribuì a scrivere ed a approvare – quando i repubblicani erano partito di minoranza – la legislazione ‘johnsoniana’ sui diritti civili. Ma fu anche uno strenuo sostenitore della guerra in Vietnam.

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[2] Corey Robin è un politologo americano, giornalista e professore di Scienze politiche al Brooklyn College e all’Università di New York. É un attento studioso del conservatorismo americano.

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[3] David Brooks, che scrive come Krugman sul New York Times, tradizionalmente rappresentando una posizione moderata e in pratica ‘centrista’, e il cui spunto a questo post è venuto da un articolo pubblicato il 13 ottobre, dal titolo “Il raggruppamento dell’incompetenza dei repubblicani”.

Angus Deaton e le elezioni della Dodd-Frank (dal blog di Krugman, 12 ottobre 2015)

ottobre 13, 2015

 

Oct 12 9:16 am

Angus Deaton and the Dodd-Frank Election

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Political contributions of hedge funds Opensecrets.org

Angus Deaton has won the Nobel, which is wonderful — dogged, careful empirical work at the micro level, tracking and making sense of individual households, their choices, and why they matter.

Oh, and cue the usual complaints that this isn’t a “real” Nobel. Hey, this is just a prize given by a bunch of Swedes, as opposed to the other prizes, which are given out by, um, bunches of Swedes.

Anyway, Deaton is also a fine writer with important things to say about political economy. Cardiff Garcia excerpts a passage in which he explains why we should care about the concentration of wealth at the top:

[T]here is a danger that the rapid growth of top incomes can become self-reinforcing through the political access that money can bring. Rules are set not in the public interest but in the interest of the rich, who use those rules to become yet richer and more influential.

To worry about these consequences of extreme inequality has nothing to do with being envious of the rich and everything to do with the fear that rapidly growing top incomes are a threat to the wellbeing of everyone else.

As if to illustrate his point, this remarkable piece of reporting by Confessore, Cohen, and Yourish documents the remarkable fact that campaign finance this election cycle is dominated by a tiny number of extremely wealthy people — more than half the total from just 158 families. This money is overwhelmingly flowing to Republicans.

Some analysts suggest that this is just because there’s more action on the Republican side, with the field still wide open. But I’m pretty sure that’s nothing like the whole story. The biggest piece of the super-rich-super-donor story is money from the financial sector. And there has, as the chart above shows, been a huge swing of finance capital away from Democrats to Republicans that began in the 2012 election cycle — that is, after the passage of financial reform. Basically, we’re looking at the people who brought you the financial crisis trying to buy the chance to do it all over again.

 

Angus Deaton e le elezioni della Dodd-Frank [1]

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Donazioni elettorali da parte degli ‘hedge funds’. Opensecrets.org [2]

Angus Deaton ha vinto il Nobel, ed è una notizia splendida: un lavoro ostinato, scrupoloso a livello micro, per seguire e interpretare le famiglie singole, le loro scelte e la ragione per la quale sono importanti.

Ed ecco lo spunto per le solite lamentele, secondo le quali questo non sarebbe un “vero” Nobel. Sapete, questo è solo un premio che viene dato da un gruppetto di svedesi, al contrario degli altri premi, che vengono dati, guarda un po’, da gruppetti di svedesi.

In ogni modo, Deaton è anche un bravo scrittore con cose importanti da dire sulla politica economica. Cardiff Garcia sceglie un passaggio nel quale egli spiega perché dovremmo preoccuparci della concentrazione della ricchezza ai livelli più alti:

“(C)’è un pericolo che la rapida crescita dei redditi dei più ricchi possa autoalimentarsi attraverso i collegamenti politici che il denaro può comportare. Le regolo non sono stabilite nel pubblico interesse ma nell’interesse dei ricchi, che usano quelle regole per diventare sempre più ricchi e più influenti.

….

Preoccuparsi di queste conseguenze della ineguaglianza estrema non ha niente a che fare con l’essere invidiosi dei ricchi e ha molto a che fare con la paura che i redditi più elevati che crescono rapidamente siano una minaccia per il benessere di tutti gli altri”.

Quasi ad illustrare questo punto, questo importante servizio di Confessore, Cohen e Yourish [3] documenta il fatto rilevante secondo il quale la campagna di finanziamenti in questo ciclo elettorale è dominato da un numero minuscolo di individui estremamente ricchi – più della metà del totale proviene da sole 158 famiglie. Questi soldi si indirizzano in modo schiacciante verso i repubblicani.

Alcuni analisti suggeriscono che questo dipende soltanto dal fatto che c’è più iniziativa sul versante dei repubblicani, dove la platea dei contendenti è ancora tutta aperta. Ma sono abbastanza sicuro che questa non sia l’intera spiegazione. La parte più grande della vicenda delle donazioni dei super ricchi proviene dal settore finanziario. E c’è, come mostra la tabella sopra, un ampio spostamento del capitale della finanza dai democratici ai repubblicani che è cominciato col ciclo elettorale del 2012 – ovvero, dopo la approvazione della riforma del sistema finanziario. Fondamentalmente, quello che stiamo osservando sono gli individui che ci hanno portati alla crisi finanziaria e che cercano di comprarsi la possibilità di farlo nuovamente.

 

 

[1]  Il premio Nobel per l’economia è stato assegnato all’economista scozzese Angus Deaton. E’ stato premiato per la sua analisi sui consumi, la povertà e il welfare. L’assegnazione del premio Nobel all’economista scozzese, ha spiegato il panel che ha assegnato l’onorificenza, è un riconoscimento a studi ed analisi che hanno portato a una maggiore comprensione dei meccanismi collegati ai consumi e parte dall’assunto secondo il quale “la misurazione e la comprensione del consumo è uno sforzo complesso”. In particolare, il premio è stato conferito per tre differenti ‘conquiste': la creazione di sistemi sulla domanda, i collegamenti fra consumi e reddito, sia a livello micro che macro, e lo studio degli standard di vita e di povertà nei paesi in via di sviluppo. La Royal Academy svedese ha voluto premiare il suo lavoro che riguarda analisi su come i consumatori dividono la spesa fra beni diversi, su quanto spendono e quanto risparmiano. “Collegando scelte individuali a risultati collettivi, la sua ricerca ha aiutato a trasformare i campi della microeconomia, macroeconomia e delle teorie dello sviluppo”, ha spiegato l’Accademia. Nato ad Edimburgo nel 1945, Deaton è attualmente professore di Economia e Affari Internazionali alla Woodrow Wilson School of Public and International Affairs (WWS) e al Dipartimento di Economia a Princeton. (da ANSA Economia)

Nobel ad Angus Deaton

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[2] La Tabella mostra gli andamenti delle ‘donazioni elettorali’ da parte degli hedge fund, ai quali il post in parte si riferisce. Il colore blu indica i democratici, quello rosso i repubblicani. Come si nota, il notevole vantaggio che i democratici avevano negli anni ’90 subì una inversione completa con le elezioni del 2012. Quelle elezioni furono le prime successive alla approvazione della riforma del sistema finanziario denominata, dai nome dei due parlamentari proponenti, Dodd-Frank,

[3] L’articolo, in connessione nel testo inglese, è apparso sul New York Times del 10 ottobre scorso.

 

 

 

Paul Ryan, l’infatuazione centrista (dal blog di Krugman, 10 ottobre 2015)

ottobre 11, 2015

 

Paul Ryan, Centrist Crush

October 10, 2015 11:12 am

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The centrist view of politics

 

If Paul Ryan has any sense of self-preservation — and that is one thing he surely has — he will look for any way possible to avoid becoming Speaker. The hard right is already attacking him, essentially accusing him of not being sufficiently crazy, and they’re right. On policy substance he’s totally an Ayn Rand-loving, reward-the-rich and punish-the-poor guy, but so are lots of other Republicans; what they want is someone willing to go along with kamikaze tactics, and he isn’t. His fall from grace would be swift.

But if Ryan isn’t distinctive in his political positions, why does he loom so large within his party? The answer is that he’s more or less unique among extreme right-wingers in having the approbation of centrists, especially centrist pundits. That is, he’s a big man within the GOP because people outside seem to approve of him. And it’s important to ask why.

What you need to understand about political commentary these days — including the de facto commentary that poses as news analysis, or even reporting — is that most of the people doing it have both a professional and an emotional stake in portraying the two parties as symmetric, equally good or bad on policy issues and general behavior. To stray from this pose of even-handedness is to be labeled a partisan — and to admit that the parties aren’t the same, after all, would mean admitting that you’ve been wrong about the most basic features of the situation for years.

Unfortunately for professional centrists, the parties aren’t remotely symmetric. Compare the policy proposals Hillary Clinton has been releasing with those being put out even by establishment Republican candidates like Rubio and Bush. Whether you like Clinton’s proposals or not, there’s some serious wonkery behind them, and they’re the kind of thing you could easily imagine being put into effect. Meanwhile, even the supposedly moderate GOPers are peddling voodoo, puppies, and rainbows. What’s a professional centrist to do?

The answer is that he or she desperately needs to find conservatives they can take seriously, people who produce policy ideas that, even if you don’t support their priorities, add up and generally make sense. And that’s Paul Ryan’s game: he has put himself forward as the serious, honest conservative of centrists’ dreams, someone they can cite approvingly as a way of showing their centrism and open-mindedness.

And it has been a stunningly successful act. In his heyday, Ryan was the object of an immense, indeed embarrassing, media crush — the word “love” came up a lot.

But Ryan didn’t step into that role by actually being a serious, honest conservative; he just played one on TV. If you knew anything at all about budgeting, you soon realized that his supposedly responsible fiscal proposals were stuffed full of mystery meat. He knew how to game the system, creating the impression that CBO had vetted his plans when it had done no such thing (and in fact hinted broadly that the whole thing was a crock). But there’s never been any indication that he actually knows how to produce a budget — and in any case, giant tax cuts for the rich and fiscal responsibility are fundamentally incompatible.

So Ryan’s current stature is really quite curious, and I’d argue quite fragile. He has been a highly successful con artist, pretending to be the reasonable conservative centrists desperately want to see; he has become a power within his party because of that external achievement. But he’s not a true hero of the crazy right; he’s valued mainly because of his successful con job on the center. So he doesn’t have a reserve of goodwill from the crazies that would let him be, well, not crazy. On the other hand, if he were to be the kind of speaker the crazies want, he would undermine that all-important centrist approbation. Being off to the side, pretending to be dealing thoughtfully with important policy issues, was where he needed to be; moving to the speaker’s chair would be a lose-lose proposition.

 

Paul Ryan, l’infatuazione centrista

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Il punto di vista centrista della politica

 

Se Paul Ryan ha un qualche istinto di autoconservazione – e certamente è qualcosa che possiede – cercherà in ogni modo possibile di evitare di diventare speaker. La destra dura lo sta già attaccando, in sostanza accusandolo di non essere a sufficienza folle, ed ha ragione. Nella sostanza politica egli è anima e corpo un appassionato di Ayn Rand, premiare i ricchi e punire la povera gente, ma tali sono un gran numero di altri repubblicani; quello che la destra vuole è qualcuno che sia disponibile a procedere con tattiche da kamikaze, e lui non è un tipo del genere. La sua caduta in disgrazia sarebbe repentina.

Ma se il tratto distintivo di Ryan non sono le sue posizioni politiche, perché è talmente ingombrante all’interno del suo partito? La risposta è che, tra le persone della destra, egli è più o meno l’unico ad avere l’approvazione dei centristi, specialmente dei commentatori centristi. Ovvero, è una persona importante all’interno del Partito Repubblicano perché, all’esterno, sembra abbia l’approvazione della gente. Ed è importante chiedersi perché.

Quello che c’è bisogno di comprendere nei commenti politici di questi giorni – inclusi i commenti che in sostanza si presentano come analisi di notizie, o persino come resoconti – è che gran parte delle persone che li fanno hanno un interesse sia professionale che psichico nel ritrarre i due partiti come simmetrici, in egual modo buoni o cattivi sui temi della politica o sulla condotta generale. Allontanarsi da questo atteggiamento di imparzialità è destinato ad essere etichettato come fazioso – e ammettere che i partiti non sono gli stessi, dopo tutto, equivarrebbe ad ammettere che si è avuto torto da anni sugli aspetti più rilevanti.

Sfortunatamente per i centristi di professione, i partiti non sono neanche lontanamente simmetrici. Si confrontino le proposte politiche che Hillary Clinton viene rilasciando con quelle rese pubbliche persino dai candidati del gruppo dirigente repubblicano come Rubio e Bush. Che vi piacciano o no le proposte della Clinton, dietro di esse c’è una qualche seria competenza, e si tratta del genere di cose che potete facilmente immaginare siano traducibili in atti. Nel frattempo, anche gli esponenti repubblicani presentati come moderati spacciano “voodoo, cuccioli ed arcobaleni” [1]. Cosa deve fare un centrista di professione?

La risposta è che quel centrista, uomo o donna, ha bisogno disperatamente di trovare conservatori che possano essere presi sul serio, persone che producano idee politiche che, se anche non siete favorevoli alle loro priorità, abbiano una loro logica e in generale abbiano un senso. Ed è quello il gioco di Paul Ryan: egli si propone come il serio, onesto conservatore dei sogni dei centristi, qualcuno che essi possano citare a riprova del loro centrismo e della loro larghezza di vedute.

E quel comportamento ha avuto un successo sbalorditivo. Al suo apice, Ryan è stato oggetto di una immensa infatuazione, persino imbarazzante, da parte dei media – la parola “amore” spuntava in continuazione.

Ma in effetti Ryan non è entrato in quel ruolo come serio ed onesto conservatore; l’ha semplicemente recitato nelle televisioni. Se sapevate qualcosa di bilanci, capivate subito che le sue presunte responsabili proposte di finanza pubblica erano piene zeppe di ingredienti di incerta provenienza. Egli sapeva come prendersi gioco del sistema, creando l’impressione che l’Ufficio Congressuale del Bilancio avesse certificato i suoi programmi quando non aveva fatto niente del genere (di fatto, in termini generali, aveva accennato al fatto che l’intera faccenda era una scemenza). Ma non c’è stata mai alcuna indicazione che egli effettivamente sapesse come produrre un bilancio – e in ogni caso giganteschi sgravi fiscali per i ricchi e responsabilità finanziaria sono due cose fondamentalmente incompatibili.

Dunque la levatura effettiva di Ryan è davvero abbastanza particolare, direi anche abbastanza fragile. Egli è stato un artista dell’inganno di grande successo, fingendo di essere quel ragionevole conservatore che i centristi disperatamente volevano riconoscere; è diventato una potenza all’interno del suo partito a causa di questo risultato esterno. Ma egli non è un vero eroe della destra più stravagante; è apprezzato principalmente per la sua ingannevole prestazione di successo al centro. Dunque egli non gode di una riserva di benevolenza da parte dei pazzi che gli consentirebbe, diciamo così, di non essere pazzo. D’altra parte, se fosse il genere di Presidente della Camera che i pazzi vogliono, manderebbe in frantumi quella indispensabile approvazione centrista. Starsene ai margini, fingendo di misurarsi pensosamente con temi politici importanti, era dove era necessario che si collocasse: spostarsi sulla poltrona di Presidente sarebbe una proposta in pura perdita.

 

[1] “Voodoo” è, come si sa, l’economia voodoo, ovvero principalmente l’idea, da Reagan in poi, che grandi sgravi fiscali ai redditi più alti producano, alla fine, vantaggi per tutti.

I “cuccioli e gli arcobaleni” vengono invece precisamente  da un articolo di Josh Barro sul New York Times del 15 marzo 2015. In quell’articolo, Barro descriveva in tal modo le proposte di sgravi fiscali di Marco Rubio (e del Senatore Mike Lee), in quanto orientate a grandi sgravi fiscali sia sulle famiglie ordinarie che sui redditi più alti. Gli sgravi fiscali sui ceti medi avrebbero facilitato il “regalare un cucciolo ai figli”, quelli sui ricchi avrebbero consentito ai più ricchi di trovare la ‘pentola d’oro’ delle novelle, alle fine dell’arcobaleno.

 

 

 

Memorie di un passato di lavori truffaldini (dal blog di Krugman, 9 ottobre 2015)

ottobre 10, 2015

 

Oct 9 4:53 pm

Memories of Con Jobs Past

As the Paul Ryan clamor gets louder, a public service reminder: he’s a con man.

I don’t mean that I disagree with his policy ideas, although I do. I mean that his reputation as a serious thinker is based on deception, both about what he has actually proposed and how it has or hasn’t been vetted.

Take, for example, the famous “fiscally responsible” budget plan. As I explained way back when, what Ryan did was to present a sort of vague fiscal outline to the Congressional Budget Office that envisioned implausibly large cuts in spending and mysterious increases in revenue, and stipulated for the purpose of the exercise that CBO take those numbers as given. The budget office hinted broadly in its report that it didn’t believe any of it, e.g.:

That combination of other mandatory and discretionary spending was specified to decline from 12 percent of GDP in 2010 to about 6 percent in 2021 and then move in line with the GDP price deflator beginning in 2022, which would generate a further decline relative to GDP. No proposals were specified that would generate that path. [My italics]

But CBO did the numbers as required — and then the Ryan plan was presented as something that the budget office had “vetted”, when it did no such thing.

And as I’ve said, Ryan is to budget analysis as Carly Fiorina is to corporate leadership: he’s brilliant at self-promotion, but there’s no hint that he’s actually able to do the job. There is, in particular, no example I know of where he’s actually been right about anything involving budgets or economics, and some remarkable examples — like his inflation screeds — of being completely wrong, and learning nothing from the experience.

So is this really the GOP can do? And the answer, sad to say, is that it probably is.

 

Memorie di un passato di lavori truffaldini

Nel mentre il clamore attorno a Paul Ryan diventa più alto, un promemoria di pubblica utilità: è un imbroglione.

Non voglio dire che io non sia d’accordo con le sue idee politiche, per quanto non lo sia. Voglio dire che la sua reputazione di serio pensatore è basata su un inganno, sia nel senso di quello che effettivamente propose, che per il modo in cui ciò è stato o non è stato esaminato.

Si prenda per esempio il famoso programma di bilancio “finanziariamente responsabile”. Come spiegai a quei tempi, quello che Ryan fece fu presentare al Congressional Budget Office un vago abbozzo di finanza pubblica che si immaginava ampi tagli non plausibili sulla spesa e misteriosi incrementi delle entrate, e li definiva con il proposito di simulare che il CBO considerasse quei numeri come acquisiti. L’Ufficio del Bilancio nel suo rapporto accennò in termini generali che non credeva a nessuno di quei dati, ad esempio:

“Quella combinazione di altre spese obbligatorie o discrezionali è stata specificata per ottenere una riduzione dal 12% del PIL nel 2010 a circa il 6% del PIL nel 2021, e quindi, a partire dal 2022, muoversi in linea con il deflatore dei prezzi del PIL, la qualcosa avrebbe comportato un ulteriore declino in rapporto al PIL. Non è stata specificata alcuna proposta tale da produrre quell’andamento” (sottolineatura mia).

Ma, come richiesto, il CBO si occupò di quei numeri – e allora il piano Ryan venne presentato come qualcosa che l’Ufficio del Bilancio aveva “esaminato”, mentre non aveva fatto niente del genere.

Come ho detto, Ryan sta all’analisi di bilancio come Carly Fiorina [1] sta alla guida delle società: è un brillante promotore di se stesso, senza la minima parvenza che sappia davvero fare il suo lavoro. Non c’è, in particolare, alcun esempio che io conosca di qualcosa su cui egli abbia avuto ragione a proposito di bilanci o di economia, mentre ci sono considerevoli esempi – come le sue filippiche sull’inflazione – di cose sulle quali ha avuto completamente torto, senza imparare niente dall’esperienza.

É dunque questo ciò che il Partito Repubblicano può offrire? E la risposta, è triste riconoscerlo, è che probabilmente è così.

 

[1] Vedi la nota al post precedente.

 

 

 

La febbre della fandonia (8 ottobre 2015)

ottobre 10, 2015

 

Oct 8 4:57 pm

Flimflam Fever

Apparently desperate Republicans are pleading with Paul Ryan to become Speaker of the House, because he’s “super, super smart.” More than anyone else in his caucus, he has the reputation of being a brilliant policy wonk.

And that tells you even more about the dire state of the GOP. After all, Ryan is to policy wonkery what Carly Fiorina is to corporate management: brilliant at selling himself, hopeless at actually doing the job. Lest we forget, his much-vaunted budget plan proved, on even superficial examination, to be a ludicrous mess of magic asterisks. His big contribution to discussion of economic policy was his stern warning to Ben Bernanke that quantitative easing would “debase the dollar”, that rising commodity prices in early 2011 presaged a surge in inflation. This guy’s delusions of expertise should be considered funny.

Yet he may indeed be the best they have.

Nonetheless, it would be a huge mistake for him personally to take the job. Where he is, he can cultivate his wonk image, with nobody in the press willing to disturb the illusion. In a direct leadership role, he’d have no place to hide.

 

La febbre della fandonia

Gli apparentemente disperati repubblicani stanno implorando Paul Ryan affinché diventi Speaker della Camera, giacché egli è “super, super intelligente”. Più di ogni altro nel suo raggruppamento, ha la reputazione di essere un brillante esperto di politica.

E ciò vi dice persino di più sulla condizione tremenda del Partito Repubblicano. Dopo tutto, Ryan sta alla competenza politica come Carly Fiorina [1] sta alla gestione delle società: brillanti nel rivendersi, inetti nel fare effettivamente il lavoro. Perché non lo si dimentichi, il suo molto sbandierato programma di bilancio si dimostrò essere, ad una valutazione anche di superficie, una ridicola baraonda di magici asterischi [2]. Il suo grande contributo al dibattito di politica economica consistette nella dura messa in guardia di Ben Bernanke, secondo la quale la ‘facilitazione quantitativa’ avrebbe “eroso il valore del dollaro”, e nella affermazione che i prezzi in crescita delle materie prime agli inizi del 2011 facessero presagire un rialzo dell’inflazione. Le pretese di esperienza di questo personaggio dovrebbero essere considerate spiritose.

Tuttavia, è davvero possibile che egli sia il meglio che hanno.

Ciononostante, sarebbe una grande errore, dal suo personale punto di vista, accettare quell’incarico. Nella posizione in cui è, egli può coltivare la sua immagine di persona competente, con nessuno nella stampa che si prenda la briga di disturbare quella illusione. Il un diretto ruolo di guida, non avrebbe alcun posto dove nascondersi.

 

[1] In queste settimane, un’altra candidata alla nomination repubblicana. Ha provocato scalpore, almeno negli ambienti non repubblicani, il suo accreditarsi come manager di valore, a fronte di risultati noti piuttosto scadenti.

[2] I “magici asterischi” erano i “rimandi a piè di pagina” con i quali si dovevano specificare poste di bilancio che avrebbero permesso gli sgravi fiscali nei confronti dei redditi più alti. Sennonché – nel documento di bilancio presentato da Ryan, in qualità di Presidente, sia pure di minoranza, della Commissione Bilancio della Camera – a quegli asterischi non corrispondeva niente, se non rinvii a precisazioni future.

 

 

 

La prudenza è follia (dal blog di Krugman, 8 ottobre 2015)

ottobre 10, 2015

 

Oct 8 10:11 am

Prudence Is Folly

Larry Summers calls for fiscal expansion, and rails (though he doesn’t use the term) against the Very Serious People, denouncing the fixation on structural reform:

Traditional approaches of focusing on sound government finance, increased supply potential and the avoidance of inflation court disaster … It is an irony of today’s secular stagnation that what is conventionally regarded as imprudent offers the only prudent way forward.

Quite. It’s now seven years since I warned that we had entered a world in which

virtue becomes vice, caution is risky and prudence is folly.

And we’re still in that world. I’m really glad to see Larry saying similar things, buttressed by the growing evidence that we’re facing a secular lack of adequate demand. I wish I believed it would matter.

 

La prudenza è follia

Larry Summers si pronuncia per l’espansione della spesa pubblica, e inveisce (sebbene non usi termini del genere) contro le Persone Molto Serie, denunciando la loro fissazione sulle riforme strutturali:

“Gli approcci tradizionali che si concentrano sulla sana finanza pubblica, aumentando il potenziale dell’offerta e l’annullamento dell’inflazione provocano il disastro …. É un’ironia della stagnazione secolare che quello che era convenzionalmente considerato come imprudente offra l’unica prudente strada da percorrere.”

Proprio così. Adesso sono passati sette anni da quanto mettevo in guardia che eravamo entrati in un mondo nel quale:

“la virtù diventa vizio, la cautela è rischiosa e la prudenza è follia.”

E siamo ancora in quel mondo. Sono davvero contento di vedere che Larry dice cose simili, sostenuto dalle prove crescenti che siamo di fronte ad una secolare mancanza di adeguata domanda. Vorrei solo credere che conti qualcosa.

 

 

 

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