Oct 8 10:01 am
Remember the dire threat posed by our financial dependence on China? A few years ago it was all over the media, generally stated not as a hypothesis but as a fact. Obviously, terrible things would happen if China stopped buying our debt, or worse yet, started to sell off its holdings. Interest rates would soar and the U.S economy would plunge, right? Indeed, that great monetary expert Admiral Mullen was widely quoted as declaring that debt was our biggest security threat. Anyone who suggested that we didn’t actually need to worry about a China selloff was considered weird and irresponsible.
Well, don’t tell anyone, but the much-feared event is happening now. As China tries to prop up the yuan in the face of capital flight, it’s selling lots of U.S. debt; so are other emerging markets. And the effect on U.S. interest rates so far has been … nothing.
Who could have predicted such a thing? Well, me. And not just me: anyone who seriously thought through the economics of the situation, with the world awash in excess saving and the U.S. in a liquidity trap, quickly realized that the whole China-debt scare story was nonsense. But as I said, this wasn’t even reported as a debate; the threat of Chinese debt holdings was reported as fact.
And of course those who got this completely wrong have learned nothing from the experience.
Il fiasco del debito della Cina
Ricordate la tremenda minaccia costituita dalla nostra dipendenza finanziaria dalla Cina? Pochi anni fa era su tutti i media, di solito affermata non come una ipotesi ma come un dato di fatto. Sarebbero ovviamente accadute cose terribili se fosse accaduto che la Cina avesse cessato di acquistare il nostro debito, o peggio ancora se avesse cominciato a vendere quello che possedeva. I tassi di interesse sarebbero schizzati alle stelle e l’economia americana sarebbe crollata, non era così? In effetti, quel grande esperto monetario dell’ammiraglio Mullen [2] era ampiamente citato per la sua dichiarazione secondo la quale il debito era la più grande minaccia alla nostra sicurezza. Chiunque suggerisse che non dovevamo preoccuparci di una grande svendita da parte della Cina veniva considerato bizzarro e irresponsabile.
Ebbene, non ditelo a nessuno, ma il tanto temuto evento si sta consumando. Nel mentre la Cina cerca di sostenere lo yuan a fronte della fuga dei capitali, essa sta vendendo grandi quantità di titoli sul debito statunitense; lo stesso stanno facendo i mercati emergenti. E gli effetti sui tassi di interesse degli Stati Uniti, sinora, sono stati ….. nulli.
Chi poteva prevedere una cosa del genere? Ebbene, il sottoscritto. E non solo il sottoscritto: chiunque avesse seriamente riflettuto ai fondamentali aspetti economici della situazione, con il mondo inondato da un eccesso di risparmi e gli Stati Uniti in una trappola di liquidità, avrebbe compreso che tutta la terribile storia de debito di proprietà della Cina era un nonsenso. Ma, come ho detto, quella non era nemmeno presentata come una discussione; la minaccia del possesso cinese dei titoli sul debito era presentata come un fatto.
E naturalmente coloro che non avevano capito un accidente, non hanno imparato niente dall’esperienza.
[1] Il diagramma mostra l’andamento degli acquisti stranieri di titoli del Tesoro (obbligazioni sul debito americano a interesse costante e a maturazione più che decennale), in milioni di dollari. Il crollo degli acquisti è evidente, anche se è anche evidente che nel giro di due anni si è assistito prima ad un crollo, poi ad una ripresa, infine ad un crollo anche maggiore. Non capisco, invece, cosa distingua gli “acquisti ufficiali” da quelli “non-ufficiali” (forse i primi sono effettuati direttamente da banche centrali straniere?). E neanche mi è chiaro se il diagramma sia indicativo anche di una vendita di titoli precedentemente posseduti.
[2] Michael Glenn Mullen è un ammiraglio statunitense, Capo di Stato Maggiore dal 2007 al 2012.
ottobre 8, 2015
Oct 7 9:20 am
I’m only part way into Ben Bernanke’s book, but I wanted to play devil’s advocate about the book’s central thesis — not to criticize BB, or question the job he did, but as a way to provoke thought about what lessons we should learn from the crisis of 2008.
Bernanke’s basic theme is that the shocks of 2008 were bad enough that we could have had a full replay of the Great Depression; the reason we didn’t was that in the 30s central banks just sat immobilized while the financial system crashed, but this time they went all out to keep markets working. Should we believe this?
It’s not a hard story to tell — and I very much agree with BB that pulling out all the stops was the right thing to do. You don’t play games at such times.
But I’m not persuaded that the real difference between 2008 and 1930-31 (which is when the Depression turned Great) lies in central bank action, or related bailouts.
It’s true that the 30s were marked by a big financial disruption; one measure (which I learned from Bernanke’s academic work) is the soaring spread between slightly risky corporate bonds and government debt:
But there was also a big financial disruption in 2008-2009, in fact comparable in size by this measure:
It didn’t last as long, but that may be as much effect as cause of the failure to experience a full-blown depression.
Why was the disruption so large despite the bailouts and emergency lending? Well, banks by and large didn’t collapse, but shadow banking rapidly shriveled up, with repo and other alternatives to bank financing shrinking very fast; liquidity for everything but the safest of assets disappeared even though the big financial firms remained in being.
And if we’re looking for effects of the tightening in credit conditions, remember that credit policy usually exerts its biggest effects through housing — and housing investment fell more than 60 percent as a share of GDP:
Even a total collapse of home lending couldn’t have subtracted more than a point or two more off aggregate demand.
So really, was putting a limit on the financial crisis the reason we didn’t do a full 1930s? Or was it something else?
And there is one other big difference between the world in 2008 and the world in 1930: big government. Not so much deliberate stimulus, although that helped, as automatic stabilizers: the U.S. budget deficit widened much more in 2007-2010 than it did in 1930-33, even though the slump was much milder, simply because taxing and spending were much bigger as a share of GDP. And that budget deficit was a good thing, supporting demand at a crucial time.
Again, Bernanke and company were right to step in forcefully. But I’d argue that the fiscal environment was probably more important than monetary actions in limiting the damage.
Oh, and since 2010 officials everywhere, but especially in Europe, have been doing all they can to undo the favorable effects of automatic stabilizers. And the result is that in Europe economic performance is at this point considerably worse than it was at this point in the 1930s.
La Fed ha salvato il mondo?
Sono arrivato soltanto ad un certo punto del libro di Ben Bernanke, ma volevo fare la parte del diavolo sulla tesi centrale del libro – non per criticare Bernanke, o per avanzare dubbi sul lavoro che ha fatto, ma come un modo per provocare una riflessione sulle lezioni che dovremmo apprendere dalla crisi del 2008.
Il tema di fondo di Bernanke è che i traumi del 2008 erano sufficientemente negativi da farci rischiare una completa riedizione della Grande Depressione; la ragione per la quale non l’avemmo è che le banche centrali degli anni ’30 semplicemente restarono immobili nel mentre il sistema finanziario crollava, ma questa volta hanno fatto di tutto perché i mercati continuassero a funzionare. É un cosa alla quale dovremmo credere?
Non è una storia difficile da raccontare – ed io sono molto d’accordo con Bernanke che usare tutte le risorse disponibili era la cosa giusta da fare. In tempi come quelli non c’è spazio per giocare.
Ma non sono persuaso che la vera differenza tra il 2008 ed il 1930-31 (gli anni nei quali la Depressione si scoprì Grande) consista nella iniziativa della banca centrale, o nei connessi salvataggi.
É vero che gli anni ’30 furono segnati da un grande disordine finanziario; una misura (che ho appreso dallo studio accademico di Bernanke) è la differenza tra i bond delle società leggermente rischiosi e il debito pubblico, che salì alle stelle [1]:
Ma un grande disordine finanziario c’era anche nel 2008-2009, di una ampiezza di fatto confrontabile con tale dato:
Nel secondo caso non durò altrettanto a lungo, ma questo potrebbe essere sia un effetto che una causa del fatto che non si ebbe una completa esperienza di una depressione.
Perché il disordine fu così ampio nonostante i salvataggi e i prestiti di emergenza? Ebbene, le banche in generale non arrivarono al collasso, ma il sistema bancario ombra rapidamente si prosciugò, con i repo e le altre alternative ai finanziamenti bancari che si restrinsero molto velocemente; scomparve ogni genere di liquidità, ad eccezione degli asset più sicuri, anche se le grandi imprese finanziarie rimasero in essere.
Ma se quello che stiamo osservando sono gli effetti delle restrizioni nelle condizioni del credito, si tenga a mente che la politica del credito solitamente esercita i suoi effetti più grandi attraverso il settore immobiliare – e gli investimenti immobiliari caddero di più del 60 per cento come quota del PIL:
Persino un collasso totale dei prestiti sugli alloggi non avrebbe potuto sottrarre più di un punto o due della domanda aggregata.
Dunque, in realtà, la ragione per la quale non avemmo una riedizione completa degli anni ’30 fu l’aver posto un limite alla crisi finanziaria? O fu qualcosa d’altro?
E c’è un’altra grande differenza tra il mondo nel 2008 e il mondo nel 1930: l’ampiezza delle funzioni statali. Non tante le deliberate misure di sostegno, per quanto abbiano contribuito, quanto gli stabilizzatori automatici: il deficit di bilancio degli Stati Uniti si ampliò molto di più nel 2007-2010 che non nel 1930-1033, anche se la crisi fu molto più leggera, semplicemente perché le tasse e la spesa pubblica erano molto più grandi come percentuale del PIL. E quel deficit di bilancio fu una buona cosa, sostenendo la domanda in un momento cruciale.
Ancora, Bernanke e colleghi ebbero ragione nell’intervenire energicamente. Ma, nel limitare il danno, direi che il contesto della finanza pubblica fu probabilmente più importante delle iniziative monetarie.
Inoltre, a partire dal 2010 le autorità pubbliche, dappertutto ma particolarmente in Europa, hanno fatto tutto quello che potevano per disfare i favorevoli effetti degli stabilizzatori automatici. E il risultato è che le prestazioni economiche dell’Europa sono a questo punto considerevolmente peggiori di quello che a quel punto [2] erano negli anni ’30.
[1] Il diagramma mostra l’evoluzione nel rapporto tra i rendimenti sulle obbligazioni delle società e quelle sul debito pubblico; quel rapporto crebbe molto a vantaggio dei rendimenti nel settore privato negli anni dal 1930 al 1933 (con una punta a metà del 1932) e si ridusse successivamente. Il diagramma successivo mostra una evoluzione analoga negli anni 2008-2009 e successivi. In entrambi i casi, ci si riferisce alle obbligazioni sul debito pubblico di lungo termine, o di durata decennale.
[2] Si intende, alla stessa distanza di anni dallo scoppio della crisi finanziaria.
ottobre 8, 2015
Oct 6 1:35 pm
I’ve described myself as a lukewarm opponent of the Trans-Pacific Partnership; although I don’t share the intense dislike of many progressives, I’ve seen it as an agreement not really so much about trade as about strengthening intellectual property monopolies and corporate clout in dispute settlement — both arguably bad things, not good, even from an efficiency standpoint. But the WH is telling me that the agreement just reached is significantly different from what we were hearing before, and the angry reaction of industry and Republicans seems to confirm that.
What I know so far: pharma is mad because the extension of property rights in biologics is much shorter than it wanted, tobacco is mad because it has been carved out of the dispute settlement deal, and Rs in general are mad because the labor protection stuff is stronger than expected. All of these are good things from my point of view. I’ll need to do much more homework once the details are clearer.
But it’s interesting that what we’re seeing so far is a harsh backlash from the right against these improvements. I find myself thinking of Grossman and Helpman’s work on the political economy of free trade agreements, in which they conclude, based on a highly stylized but nonetheless interesting model of special interest politics, that
An FTA is most likely to politically viable exactly when it would be socially harmful.
The TPP looks better than it did, which infuriates much of Congress.
TPP, versione seconda
Mi sono definito un oppositore tiepido all’accordo di Cooperazione del Trans-Pacifico; sebbene io non condivida la forte avversione di molti progressisti, l’ho considerato non tanto come un accordo sul commercio, quanto sul rafforzamento dei monopoli delle proprietà intellettuali e della potenza delle società nel regolamento dei contenziosi – entrambe probabilmente cose negative, tutt’altro che buone anche dal punto di vista dell’efficienza. Ma il sito della Casa Bianca mi informa che l’accordo appena raggiunto è significativamente diverso da quello di cui avevamo sentito parlare, e la reazione arrabbiata dell’industria e dei repubblicani sembra confermarlo.
Cosa so sino a questo punto: l’industria farmaceutica è fuori di sé perché i diritti di proprietà sui genere biologici è molto minore di quello che voleva, quella del tabacco è indignata perché è stata tagliata fuori dall’accordo sul regolamento dei contenziosi e più in generale i repubblicani sono furiosi perché gli aspetti della protezione del lavoro sono più forti di quello che ci si aspettava. Dal mio punto di vista tutte queste cose sono positive. Una volta che i dettagli saranno più chiari, dovrò lavoraci su molto di più.
Ma è interessante che stiamo sino a questo punto assistendo ad un’aspra reazione negativa da parte della destra contro questi miglioramenti. Mi ritrovo a riflettere sul lavoro di Grossman e Helpman sulla politica economica degli accordi sul libero commercio, nel quale, basandosi su un modello assai sommario e nondimeno interessante degli interessi politici particolari, essi concludono che:
“Un accordo sul libero commercio è più probabile che sia politicamente fattibile esattamente quando è socialmente dannoso”.
Il TPP sembra migliore di accordi del genere, la qualcosa fa infuriare una buona parte del Congresso.
ottobre 6, 2015
Oct 6 9:35 am
But not in Germany.
If you want to feel despair about Europe’s prospects, first look at this recent presentation from Peter Praet, the chief economist of the ECB, then read this op-ed from the chief economist of the German finance ministry. Praet offers a portrait of a continent crippled by inadequate demand, with a strong deflationary downdraft; Ludger Schuknecht declares that we need to stop stimulus and reduce debt. In effect, he says that everyone should be like Germany, and run a huge trade surplus.
If there’s one thing we surely should have learned from the experience of the past seven years, it’s that adding up really matters. My spending is your income, your spending is my income, so if everyone slashes spending and tries to pay down debt at the same time, incomes fall and debt problems probably get worse. Europe’s debt to GDP ratio isn’t rising at this point because it’s spending more than it did during the good years; the overall structural deficit of the euro area is now very small, much lower than it was in 2005-2007, but low growth and inflation mean that GDP is going nowhere.
But German officials see this all as a tale of their virtue versus everyone else’s lack thereof. This means that nobody will change course aside from the ECB, which is in the process of finding out just how limited monetary policy really is when interest rates are already very low and fiscal policy is pulling in the wrong direction.
L’Europa che non impara niente
Se volete provare disperazione sulle prospettive dell’Europa, osservate dapprima questa recente presentazione di Peter Praet, capo economista della BCE, e poi questo articolo da parte del capo economista del Ministero delle Finanze tedesco [1]. Praet offre un ritratto di un continente paralizzato da una domanda insufficiente, con un forte movimento discendente deflazionistico; ; Ludger Schuknecht dichiara che dobbiamo bloccare le misure di sostegno e ridurre il debito. In sostanza, dice che tutti dovrebbero fare come la Germania e gestire un ampio surplus commerciale.
Se c’è una cosa che sicuramente dovremmo aver appreso dall’esperienza dei sette anni passati, è che fare le somme è realmente importante. La mia spesa è il tuo reddito, la tua spesa è il mio reddito, dunque se ognuno abbatte la spesa e cerca di restituire i suoi debiti contemporaneamente, i redditi calano e probabilmente i problemi del debito diventano peggiori. Il rapporto tra debito e PIL dell’Europa a questo punto non sta crescendo perché essa sta spendendo di più di quello che faceva negli anni buoni; il deficit strutturale complessivo dell’area euro è oggi molto piccolo, molto più basso di quanto fosse negli anni 2005-2007, ma la crescita e l’inflazione basse hanno come conseguenza che il PIL non si muove.
Ma i dirigenti tedeschi considerano tutto questo come un racconto sulla loro virtù, a confronto con la mancanza di virtù di tutti gli altri. Questo comporta che nessuno cambierà indirizzo, a parte la BCE, che è al punto di scoprire quanto sia davvero limitata la politica monetaria quando i tassi di interesse sono già molto bassi e la politica della spesa pubblica spinge nella direzione sbagliata.
[1] Entrambe le connessioni nel testo in inglese.
ottobre 6, 2015
Oct 3 2:06 pm
Peter Gourevitch has a followup on politics and economics that leaves me, if anything, more puzzled about what’s going on.
He notes that
The fundamental point is that the Federal Reserve is not a seminar. It is not only about being “serious” or “smart” or “finding the right theory” or getting the data right. It is about a political game of balancing between multiple forces of pressure: the people inside the Fed Committee; Congress and the president, who make appointments and set budget and powers; political parties aggregating various ideas and interests to capture political office; interest groups who lobby hard one way or another; the media which helps or hurts one side or another, markets which respond with their various forms of power, foreign governments and countries.
But how does that differ from what I’ve been saying? If you read the column that I think motivated his original piece, it was all about trying to understand the political economy of a debate in which the straight economics seems to give a clear answer, but the Fed doesn’t want to accept that answer. I asked who has an interest in tighter money, and has ways to influence monetary policy; my answer is that bankers have the motive and the means.
And when he says that “his ideas about this broader context enter his columns perhaps once every six months,” I guess I have to conclude that he isn’t reading the columns very carefully. I talk all the time about interests and political pressures; the “device of the Very Serious People” isn’t about stupidity, it’s about how political and social pressures induce conformity within the elite on certain economic views, even in the face of contrary evidence.
Am I facing another version of the caricature of the dumb economist who knows nothing beyond his models? Or is all this basically a complaint that I haven’t cited enough political science literature?
I remain quite puzzled.
Disorientato da Peter Gourevitch
Peter Gourevicth ha un seguito sulla politica e l’economia [1] che mi lascia, se possibile, ancora più perplesso su cosa sta accadendo.
Egli osserva che:
“La questione fondamentale è che la Federal Reserve non è un seminario. Non si tratta soltanto di essere “seri” o “intelligenti” o di trovare le teoria giusta o di intendere i dati correttamente. Si tratta di un gioco politico di bilanciamento tra molteplici forze di pressione: gli individui all’interno del Comitato della Fed; il Congresso e il Presidente, che stabiliscono gli appuntamenti e fissano il bilancio ed i poteri; i partiti politici che aggregano svariate idee e interessi per conquistare incarichi politici; i gruppi di interesse che in un modo o nell’altro con durezza perseguono i loro interessi lobbistici; i media che aiutano oppure danno contro ad uno schieramento o all’altro, i mercati che rispondono con le loro varie forme di potere, i Governi ed i paesi stranieri”.
Ma in cosa questo differisce da quello che stavo sostenendo? Se leggete l’articolo che penso abbia motivato il suo pezzo originario, esso riguardava per intero il cercar di comprendere la politica economica di un dibattito nel quale le normali teorie economiche sembrano dare una risposta chiara, ma la Fed non vuole accettare quella risposta. Io mi sono domandato chi ha un interesse ad una politica monetaria più restrittiva, ed ha i modi per influenzare la politica monetaria; la mia risposta è che i banchieri hanno i motivi ed i mezzi per farlo.
E quando egli dice che “le sue idee sui contesti più generali entrano nei suoi articoli forse una volta ogni sei mesi”, mi chiedo se devo concludere che egli non legga gli articoli in modo molto scrupoloso. Io parlo in continuazione degli interessi e delle pressioni politiche: l’ “espediente delle Persone Molto Serie” non riguarda scemenze, riguarda il modo in cui le spinte politiche e sociali inducano le classi dirigenti all’allineamento su certi punti di vista economici, persino a fronte di prove contrarie.
Mi trovo dinanzi ad un’altra versione della caricatura dell’economista sciocco che non conosce niente oltre ai suoi modelli? Oppure tutta questa è fondamentalmente una lamentela perché non ho fatto sufficienti citazioni di letteratura di scienza politica?
Resto abbastanza disorientato.
[1] L’articolo è sul Washington Post del 2 ottobre.
ottobre 6, 2015
Oct 3 9:59 am
Steven Pearlstein has a very nice profile of Olivier Blanchard, a world-class macroeconomist who went on to become an even more towering figure as chief economist at the IMF. (Full disclosure: Olivier and I were in grad school together — we worked out the analytics of anticipated shocks on the lunchroom table together — then were colleagues at MIT for many years.) Under Olivier’s leadership the IMF research department became a huge source of important work that was both intellectually bracing and extremely relevant to policy. And I thought I might add a bit to the profile by talking briefly about one line of that work, the IMF’s ground-breaking empirical analysis of fiscal policy.
Back in early 2010 policymakers in Europe, and some politicians in the United States, went all in for the notion of “expansionary austerity”, the belief that slashing spending in a depressed economy would actually increase demand by inspiring confidence. This view was allegedly supported by statistical evidence, although it was fairly obvious that this evidence was weak, that the statistical procedures being used to identify episodes of austerity and stimulus didn’t actually work. But the world badly needed a careful examination of the facts.
The IMF delivered, showing that the measures of austerity used in expansionary austerity papers were indeed badly flawed; the Fund used actual changes in policy, and found that austerity has indeed been contractionary.
How contractionary? Initial estimates suggested a multiplier of around 0.5, and that’s what the Fund went with in much of its policy analysis, even though many of us warned from the beginning that the multiplier was probably much larger with interest rates at the zero lower bound. When the slumps in debtor countries proved much deeper than forecast, Blanchard and colleagues, enormously to their credit, revisited the issue and concluded that they had understated the adverse effects of fiscal contraction. This was a wonderful thing to see, especially in a world where almost nobody ever admits having been wrong about anything. And it came in time to have a useful effect on policy, if policymakers had listened, which they didn’t.
But doesn’t government spending crowd out investment, so that austerity may be bad in the short run but good in the long run? No, said the IMF in yet another crucial analysis, which said that fiscal policy appears to produce crowding in, not crowding out — an economy weakened by austerity will invest less, not more.
And there’s more, like the IMF’s use of interwar data to assess the chances for successful debt reduction via austerity. (Not good.)
I’m sure I’m missing stuff. But the point should be clear: the Blanchard era at the IMF was one of unprecedented data-driven analysis of policy problems, done with consummate skill.
L’impronta di Blanchard
Steven Pearlstein ha fornito un profilo molto bello di Olivier Blanchard, un economista di prim’ordine che ha proseguito sino al punto di diventare una personalità ancora più eminente come capo economista al FMI (rivelazione di prima mano: Olivier e il sottoscritto eravamo assieme al corso di laurea specialistico – lavoravamo assieme alla analitica degli shock attesi sul tavolo della mensa – poi fummo colleghi al MIT per molti anni). Sotto la guida di Olivier il dipartimento di ricerca del FMI è diventato una vasta fonte di importanti lavori, che sono stati sia stimolanti intellettualmente che estremamente significativi per la politica. Ho pensato che avrei potuto aggiungere qualcosa a quel profilo parlando brevemente su un aspetto di quel lavoro, l’analisi empirica pionieristica del FMI sulla politica della finanza pubblica.
Nel passato 2010 gli operatori pubblici di rilievo [1] in Europa, ed alcuni uomini politici negli Stati Uniti, si giocarono tutto con il concetto di “austerità espansiva”, la convinzione che abbattere la spesa pubblica in una economia depressa avrebbe effettivamente aumentato la domanda, ispirando fiducia. Si pretendeva che questo punto di vista fosse supportato da prove statistiche, sebbene fosse abbastanza evidente che queste prove erano fragili, che le procedure statistiche che vengono utilizzate per identificare episodi di austerità e politiche di sostegno effettivamente non avevano funzionato. Eppure il mondo aveva bisogno di un esame scrupoloso dei fatti.
Il FMI internazionale lo portò a termine, mostrando che le misure di austerità utilizzate negli studi sulla austerità espansiva erano in effetti seriamente difettose; il Fondo utilizzò i mutamenti effettivi nelle politiche, e scoprì che in effetti l’austerità aveva prodotto contrazione.
Quanta ne aveva prodotta? Le stime iniziali suggerivano un moltiplicatore di circa 0,5, ed è con quello che il Fondo procedette nella sua analisi politica, anche se molti di noi mettevano in guardia che, con i tassi di interesse allo zero, il moltiplicatore fosse probabilmente molto più ampio. Quando le recessioni nei paesi debitori si mostrarono molto più profonde del previsto, Blanchard ed i suoi colleghi, a loro straordinario credito, rivisitarono la tematica e conclusero che avevano sottostimato gli effetti negativi della contrazione della spesa pubblica. Questo fu un episodio magnifico, in particolare in un mondo nel quale quasi nessuno ammette mai di aver avuto torto su nulla. Ed avvenne in tempo per avere effetti utili sulla politica, se gli operatori pubblici avessero inteso, la qual cosa non fecero.
Ma se la spesa pubblica non ‘spiazza’ l’investimento, allora l’austerità può essere negativa nel breve periodo ma positiva in quello lungo? No, disse il FMI in un’altra cruciale analisi, con la quale affermò che la politica della finanza pubblica pare produca un effetto di accumulo, non di esclusione – un’economia indebolita dall’austerità, investirà di meno, non di più.
E c’è di più, come l’uso da parte del FMI dei dati nei periodi tra le due guerre per stimare le possibilità di un successo nella riduzione del debito attraverso l’austerità (risultata negativa).
Di certo sto dimenticando qualcosa. Ma il punto dovrebbe essere chiaro: l’epoca di Blanchard al FMI è stata quella di una analisi senza precedenti, guidata dai dati, dei problemi della azione politica, condotta con consumata competenza.
[1] I “policymakers” non sono gli “uomini politici”; alcuni (tutto sommato, pochi) di loro lo sono, molti altri non lo sono. Ma “policymakers” – ovvero coloro che fanno la politica delle cose reali, pensano e realizzano i programmi – sono anche, solo per fare un esempio, i dirigenti delle banche centrali. Per questo, ‘rilevanti operatori pubblici’ mi pare la soluzione più precisa. Si noti che Krugman, in questo caso, parla di “policymakers” in Europa e di “politicians” negli USA. Non è affatto casuale: i sostenitori della ‘austerità espansiva’ negli USA, a suo giudizio, furono più gli uomini politici del centro e della destra, che non gli ‘operatori pubblici’ del Governo e della politica monetaria.
ottobre 2, 2015
Oct 2 10:23 am
Jason Furman of the Council of Economic Advisers gave an illuminating talk on the sources of weak business investment, largely aimed at refuting the “Ma! He’s looking at me funny!” school, which attributes US economic weakness to the way the Obama administration has created uncertainty, or hurt businessmen’s feelings, or something. As Furman shows, it’s a global slowdown, very much consistent with the “accelerator” model in which the level of investment demand depends on the rate of growth of overall demand.
It seems worth pointing out, or actually reiterating, several implications of this analysis that go beyond Obama-bashing and its discontents.
First, if weak demand leads to lower investment, which it does, and if fiscal austerity is contractionary, which it is, then in a depressed economy deficit spending doesn’t crowd investment out — it crowds investment in. Or to be more explicit, austerity policies don’t release resources for private investment — they lead to lower private investment, and reduce future capacity in addition to causing present pain. Conversely, stimulus in times of depression supports, not hinders, long-run growth.
Second, secular stagnation — persistent difficulties in achieving full employment — is a real concern if potential growth is slowing due to a combination of demography and weak technological progress, which seems to be happening. Lower growth means lower investment demand, so getting the private sector to spend enough gets harder.
Finally, an extreme case of this arises in China, where the exhaustion of the reserve of underemployed peasants plus, perhaps, a slowdown in the rate of technological catchup means that the very high investment rates of the past can’t be sustained. Look out below.
L’acceleratore degli investimenti e i guai del mondo
Jason Furman del Comitato dei Consiglieri Economici ha tenuto un discorso illuminante sulle radici dei deboli investimenti delle imprese, in buona parte rivolto a confutare la scuola del “Mamma, mi guarda male!” [1], ovvero le teorie che attribuiscono la debolezza dell’economia statunitense al modo in cui l’Amministrazione Obama avrebbe creato incertezza, o ferito i sentimenti degli impresari, o cose del genere. Come Furman dimostra, si tratta di un rallentamento globale, molto coerente con il modello dell’ “acceleratore”, nel quale il livello della domanda di investimenti dipende dal tasso di crescita della domanda in generale.
Sembra utile sottolineare, o effettivamente reiterare, alcune implicazioni di questa analisi che vanno oltre le presunte stroncature di Obama e il relativo presunto malcontento.
Anzitutto: se la debole domanda porta ad investimenti più bassi, come fa, e se la austerità della finanza pubblica ha effetti di contrazione, come ha, allora la spesa pubblica in deficit in una economia depressa non spiazza gli investimenti (privati) – semmai li richiama. O, per essere più espliciti, le politiche di austerità non liberano risorse per gli investimenti privati – conducono ad investimenti privati più bassi e riducono la capacità produttiva futura oltre a provocare la sofferenza presente. Di converso, le misure di sostegno in tempi di depressione aiutano, non ostacolano, la crescita di lungo periodo.
In secondo luogo, la stagnazione secolare – le persistenti difficoltà ad ottenere la piena occupazione – è una preoccupazione reale se la crescita potenziale rallenta a seguito della demografia e di un debole progresso tecnologico, il che è quanto sembra stia accadendo. Una crescita più bassa comporta una domanda di investimenti più bassa, cosicché ottenere che il settore privato spenda a sufficienza diventa più difficile.
Infine, una caso limite di tutto questo si presenta in Cina, dove l’esaurimento della riserva di contadini sottooccupati in aggiunta, forse, ad un rallentamento del ritmo nella acquisizione delle tecnologie più avanzate, comporta che i tassi di investimento molto elevati del passato non possono essere sostenuti. Attenti al seguito.
[1] É l’espressione da mesi coniata da Krugman per indicare gli attacchi della destra e di settori dell’imprenditoria, specialmente finanziaria, ad Obama per alcune sue critiche ai comportamenti, soprattutto precedenti alla crisi, di vari soggetti privati. Una sorta di atteggiamento offeso, di lamentela, infantile proprio come un fanciullo ricorre alla mamma per essere difeso dagli sguardi malevoli altrui.
ottobre 2, 2015
Oct 2 10:08 am
I’ve been arguing that a major source of the urge to hike interest rates despite low inflation is the self-interest of bankers, whose profits suffer in a low-rate environment. Right on cue, the BIS has a new paper documenting that relationship. The key argument:
The “retail deposits endowment effect” derives from the fact that bank deposits are typically priced as a markdown on market rates, typically reflecting some form of oligopolistic power and transaction services. If the markdown becomes smaller as interest rates decline, then monetary policy tightening will increase net interest income. The endowment effect was a big source of profits at high inflation rates and when competition within the banking sector and between banks and non-banks was very limited, such as in many countries in the late 1970s. It has again become quite prominent, but operating in reverse, post-crisis, as interest rates have become extraordinarily low: as the deposit rate cannot fall below zero, at least to any significant extent, the markdown is compressed when the policy rate is reduced to very low levels.
This is pretty much what I said in the linked piece. The chart shows the paper’s estimate of the effect of higher short-term rates on bank profits (the partial derivative); it’s strongly positive at low rates.
So it really is in bankers’ interest to demand monetary tightening, even when it’s inappropriate given the state of the economy.
Perchè i banchieri vogliono il rialzo del tasso
Stavo sostenendo che una importante ragione dell’urgenza di alzare i tassi di interesse nonostante la bassa inflazione è l’interesse stesso dei banchieri, i cui profitti soffrono in un contesto di basso tasso. Nemmeno a farlo apposta, la Banca dei Regolamenti Internazionali ha un nuovo studio che documenta quella relazione. L’argomento principale:
“L’ ‘effetto di dotazione dei depositi al dettaglio’ deriva dal fatto che i depositi bancari sono tipicamente prezzati al ribasso rispetto ai tassi di mercato, riflettendo in modo caratteristico una qualche forma di potere oligopolistico ed i servizi di transazione. Se la riduzione diventa minore nel mentre i tassi di interesse declinano, allora la restrizione della politica monetaria aumenterà il reddito dell’interesse netto. L’effetto di dotazione è stato una grande fonte di profitti ad alti tassi di inflazione e quando la competizione all’interno del settore bancario e tra le banche e le non-banche era molto limitata, come in molti paesi negli ultimi anni ’70. Nel periodo successivo alla crisi esso è diventato nuovamente del tutto notevole, ma operando nel senso opposto, quando i tassi di interesse sono diventati straordinariamente bassi: mentre il tasso sui depositi non può scendere al di sotto dello zero, almeno non in misura significativa, la riduzione è compressa quando il tasso di riferimento è ridotto a livelli molto bassi.”
Questo è più o meno quello che avevo scritto nel mio articolo [1]. Il diagramma mostra la stima dello studio dell’effetto dei più alti tassi a breve termine sui profitti delle banche (la derivata parziale); a tassi bassi esso è fortemente positivo.
Dunque, chiedere una restrizione monetaria è realmente nell’interesse dei banchieri, anche quando, dato lo stato dell’economia, esso è inappropriato.
[1] Vedi il post del 19 settembre scorso (“Rabbia sui tassi”).
ottobre 1, 2015
Oct 1 1:52 pm
Matt O’Brien recalls Michael Kinsley’s pronouncement, five years ago, that inflation was coming, and his doubling down two years later. Kinsley, it turns out, remains unrepentant and very annoyed at the people who said that he didn’t know what he was talking about.
It’s really quite sad. Kinsley is a very smart guy, who also happens to have given me my big break into journalism by hiring me to write for Slate. But now he’s a prisoner of derp.
I’ve seen this a number of times, mainly in economics, although it happens in other fields (especially climate science) too. Somebody with a reputation for cleverness looks at, say, macroeconomics, and imagines himself smart enough to weigh in — not realizing that there is a technical discipline here, and that he, well, has no idea what he’s talking about.
And he chooses the wrong side, for whatever reason. I think Kinsley was, more than anything else, motivated by that TNR/Slate “counterintuitive” thing — hey, Bernanke and Krugman act like experts, but I’ll show my cleverness by taking the opposite position. For someone like Cliff Asness, it was more likely affinity fraud: the inflationistas sounded like his sort of people, and he didn’t realize that they were peddling derp.
So what do you do when it becomes clear that you did, indeed, pick the wrong side? You could pull a Kocherlakota — admit that you were wrong, and revise your world view. But that’s very rare. The great majority of people who find themselves having made an indefensible argument respond as Kinsley has, by doubling down trying to defend the indefensible — and by getting angrier and angrier at the people who warned them that they were getting it wrong.
Sad.
Prigionieri del “Derp” [1]
Matt O’Brien rammenta il pronunciamento di cinque anni fa di Michael Kinsley, secondo il quale l’inflazione era in arrivo e sarebbe raddoppiata entro due anni. Si viene a sapere che Kinsley è irriducibile e molto infastidito dalle persone che hanno sostenuto che non sapeva di cosa stava parlando.
É davvero assai triste. Kinsley è un individuo molto intelligente, che per combinazione mi diede anche l’occasione di entrare nel giornalismo assumendomi per scrivere su Slate. Ma adesso è prigioniero del “derp”.
L’ho visto accadere un certo numero di volte, principalmente in economia, sebbene avvenga anche in altri campi (in particolare sulla scienza del clima). Qualcuno con una certa reputazione di intelligenza si rivolge, ad esempio, alla macroeconomia, e si immagina di essere abbastanza sveglio da dire la sua – non comprendendo che in questo caso esiste una disciplina tecnica e che, diciamolo, non ha alcuna idea di quello di cui sta parlando.
E, per una ragione qualsiasi, sceglie la parte sbagliata. Io penso che Kinsley fosse, più che altro, motivato dalla caratteristica di TNR/Slate ad andare in “controtendenza” – vedete, Bernanke e Krugman si atteggiano ad esperti, ma io mostrerò la mia intelligenza prendendo la posizione opposta. Per individui del genere di Cliff Asness [2], si è trattato più probabilmente della cosiddetta ‘frode di affinità’ [3] : i fissati dell’inflazione gli sembravano gente del suo genere, e non comprendeva che stavano mettendo in circolazione del “derp”.
Cosa fare, dunque, quando diventa chiaro che, in effetti, avete scelto la parte sbagliata? Dovreste tirar fuori una attitudine come quella di Kocherlakota [4] – ammettere che avete avuto torto e rivedere la vostra concezione del mondo. Ma è molto raro. La maggior parte delle persone che si ritrovano ad aver avanzato un argomento indifendibile rispondono come ha fatto Kinsley, reiterano la posizione e cercano di difendere l’indifendibile – e diventano sempre più irritate con coloro che li avevano messi in guardia dall’errore che stavano facendo.
Triste.
[1] “Derp” è uno dei curiosi personaggi dei fumetti di South Park, che fece la sua comparsa con una immagine nella quale si batteva un martello in testa, quasi ad ammettere una condizione di confusione mentale. Il termine è diventato sinonimo di tante cose, ad esempio si dice “derp” per rispondere ad una affermazione sciocca o ovvia. Il sostantivo corrispondente potrebbe essere “ottusità”. Per Krugman, da mesi, “derp” sta a significare la abitudine – in particolare in economia – a sbagliare tutte le previsioni ma a procedere come se niente fosse.
Questa volta ci pare giustificata l’eccezione, e dunque lo lasciamo in lingua madre.
[2] Un analista finanziario, cofondatore di AQR Capital Management.
[3] Ovvero, un reato espressamente previsto dalle leggi statunitensi, che consiste nel truffare altre persone sfruttando una condizione di ‘affinità’ con le stesse (perché si fa parte di uno stesso ambiente, si dichiarano i medesimi obbiettivi o ideali, si finge di perseguire gli stessi risultati sociali etc.). Se posso dir così, una sorta di plagio multiplo. É stato uno dei capi di accusa nei confronti di Bernie Madoff, vicenda che ha fatto scalpore sia per la notorietà di vari personaggi truffati, sia per l’esito di una condanna più che secolare al truffatore.
[4] Narayana Kocherlakota è un dirigente della Fed. Si veda su di lui il post qua tradotto del 14 gennaio 2014.
settembre 30, 2015
Sep 30 9:24 am
“I think the left wants slow growth because that means people are more dependent upon government,” Bush told Fox Business’ Maria Bartiromo.
Remember, this is the establishment candidate for the GOP nomination — and he thinks he’s living in Atlas Shrugged.
Jeb diventa Galt
Questa è formidabile:
“Io penso che la sinistra voglia una crescita lenta perché essa comporta che la gente è più dipendente dal Governo”, ha detto Bush a Maria Bartiromo di Fox Business.
Si ricordi che questo è il candidato alla nomination repubblicana del gruppo dirigente del Partito Repubblicano – e penso di star vivendo in Atlas Shrugged. [1]
[1] É il titolo del famigerato libro di Ayn Rand che è oggetto di culto della destra americana (si può tradurre “Atlante scrollò le spalle”). E uno dei protagonisti di quel racconto è il Galt che compare nel titolo del post; un imprenditore antiburocratico/antitotalitario che ingaggia un vera e propria lotta di resistenza contro le forze del male che sono ostili agli istinti animali del capitalismo americano.
In sintesi, la storia è la seguente: John Galt è il figlio di un meccanico americano che lavora in un garage dell’Ohio; studia con profitto e ottiene due lauree (fisica e filosofia), dopodiché inventa un nuovo motore rivoluzionario nella società nella quale ha trovato lavoro come ingegnere. Ma i proprietari di quella società decidono di dirigere la stessa sulla base del criterio socialista “Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni”. Galt si rifiuta di aderire a questa impostazione socialista/burocratica/totalitaria e va a lavorare altrove, nel mentre cerca di organizzare la resistenza ed uno sciopero di tutte le personalità “creative” del mondo, inclusi inventori, artisti ed impresari. In mezzo si colloca una relazione sentimentale con una erede delle prima società. Galt viene arrestato per le sue idee e per il suo progetto di ribellione, ma alla fine viene salvato dagli scioperanti e dalla signorina medesima. Galt torna alla sua base, una località segreta nelle montagne del Colorado, da dove prepara la ricostruzione del mondo, che intanto procede verso il collasso per via dell’incompetente ideologia socialistoide dominante.
Scegliamo, dalla iconografia galtiana, questa immagine non priva di interesse sull’eclettismo assai bizzarro del racconto (il disperato ‘Atlante’, i grattacieli, un mondo nuovo che sorge etc. etc.). Si consideri che l’autrice, Ayn Rand, americana di origini russe, nacque nel 1905 a San Pietroburgo, mentre il libro è del 1957:
settembre 30, 2015
Sep 30 9:04 am
Trying to drag myself back to the real world — although my head still feels stuffed full of cotton. But I did want to weigh in on a Wonkblog piece from a couple of days ago about the possible virtues of tontines — retirement schemes in which the payouts go only to surviving members of a group. The article does reference a Simpsons episode; but surely we can’t tackle this subject without mentioning the movie The Wrong Box, with a plot that hinges on two brothers who are the sole survivors of a tontine. Here’s how the rest of the group went:
Una spiegazione dei “tontini” [1]
Sto cercando di rientrare nel mondo reale – sebbene il capo mi sembri ancora come riempito di cotone. Ma da un paio di giorni volevo intervenire su un articolo di Wonkblog sulle possibili virtù dei ‘tontini’ – che sono schemi pensionistici nei quali le restituzioni vanno soltanto ai componenti del gruppo che sopravvivono. L’articolo fa menzione di un episodio dei Simpson; ma di certo non possiamo trattare questo tema senza ricordare il film “La scatola sbagliata”, un complotto che si incentra su due fratelli che sono gli unici sopravvissuti di un ‘tontino’. Ecco come andò per il resto del gruppo:
[1] Divertente scoprire (lo spiega l’articolo in connessione del blog del Washington Post, Wonkblog) che non ci si deve dar pena di trovare un equivalente in lingua italiana di “tontines”, perché il termine è italianissimo e deriva dal signor Lorenzo de Tonti, che nel XVII secolo propose – in qualità di esperto di finanze – un “tontino” a Luigi XIV. Il de Tonti finì alla Bastiglia, ma la sua idea ebbe grandi sviluppi cento anni fa in America, dove venne usata come un meccanismo per garantire ed accrescere i benefici previdenziali. In pratica, se ho ben capito, il trucco consiste nel mettere in comune i propri risparmi pensionistici con varie altre persone, e nel trarre vantaggio – coloro che sopravvivevano – dalla prima o poi inevitabile morte di quote di coloro che partecipavano all’impresa; la scomparsa dei deceduti potenziava il risparmio dei sopravvissuti. É rilevante che, agli inizi del Novecento, il mercato dei “tontini” rappresentasse i due terzi del mercato assicurativo (nove milioni di polizze, su una nazione allora di 18 milioni di famiglie). Successivamente, i ‘tontini’ finirono fuori legge, a seguito di una serie di scandali. Rimase la fama sgradevole di un meccanismo finanziario, in fondo, basato sul decesso di una parte dei partecipanti.
Ma adesso un certo numero di economisti e di legali si sta chiedendo se non sia il caso di tornare ai ‘tontini’. In effetti, i ‘tontini’ andarono in crisi, oltre che per gli scandali, per il maturare di un sistema pensionistico più moderno, incardinato sulle imprese nelle quali si era trascorsa la propria attività lavorativa. Quel sistema, negli USA, mostra segni di difficoltà, e gli americani hanno mantenuto una certa passione per la ‘scommessa’.
In questo caso, però, la scommessa si basa sul principio “mors tua, vita mea”, e quel principio – come mostrato dalla foto tratta dal film – può essere sottoposto a meccanismi di ‘accelerazione’!
settembre 30, 2015
Sep 30 9:16 am
Does anyone remember the heyday of the inflationistas, when they were berating Ben Bernanke for debasing the dollar? One of their key arguments was that commodity prices were rising, and that this was a harbinger of soaring overall inflation.
So now, the same people are worried about deflation, and urging Janet Yellen to keep her pedal to the metal. Right? Right?
Funny how that doesn’t happen.
Le materie prime e gli stravaganti
Si ricorda qualcuno del momento di pieno fulgore dei patiti dell’inflazione, quando se la prendevano con Ben Bernanke con l’accusa di svalutare il dollaro? Uno dei loro argomenti chiave era che i prezzi delle materie prime stavano salendo, e che questo era un preludio di una inflazione complessiva che sarebbe salita alle stelle.
Dunque adesso, le stesse persone sono preoccupate della deflazione, e spingono Janet Yellen a spingere sull’acceleratore a tavoletta. Non è così? Non è così?
É buffo quanto non sia accaduto. [1]
[1] Come si vede, la linea verde, relativa ai prezzi energetici, indica un crollo dei prezzi che nell’ultimo anno ha guidato (linea nera) l’andamento generale; mentre gli altri prezzi non energetici hanno un calo assai più modesto.
La polemica alla quale Krugman si riferisce riguardò anche il fatto che si usasse la stima della “headline inflation” – ovvero dell’inflazione complessiva di tutti i prezzi – per stimare le tendenze inflattive, ovvero che si usasse la stima della “core inflation”, che esclude dal computo le materie prime che hanno andamenti dei prezzi assai volatili. Krugman e la Fed sostenevano questo secondo criterio, il che consentiva loro di giudicare che l’inflazione non era affatto in forte crescita, trattandosi di fenomeni provvisori destinati a rientrare. Su questo aspetto, egli ebbe una polemica assai aspra con Lorenzo Bini Smaghi, allora membro del comitato direttivo della Banca Centrale Europea. Dove fosse la ragione è evidente.
settembre 29, 2015
Sep 29 10:21 am
Well, predictions of full recovery were premature — that is, of my recovery from the nasty cold of the past few days. Hence no posting: microbe economics overwhelmed macroeconomics.
But I do want to weigh in for a minute on Donald Trump’s tax plan — which would, surprise, lavish huge cuts on the wealthy while blowing up the deficit. That’s in contrast to Jeb Bush’s plan, which would lavish huge cuts on the wealthy while blowing up the deficit, and Marco Rubio’s plan, which would lavish huge cuts on the wealthy while blowing up the deficit.
At this point there are no Republican candidates deviating at all from the usual pattern. Why, it’s almost as if nobody in the party ever cared about deficits except as an excuse to slash social spending, and is totally committed to redistributing income upward.
And there is, of course, no evidence — zero, nada, zilch — that cutting taxes on the rich will yield large economic benefits.
What we’re seeing here is a party completely incapable of reforming …
E poi non ci rimase nessuno
Ebbene, le previsioni di una completa ripresa erano premature – voglio dire, della mia ripresa dal brutto raffreddore dei giorni passati. Da ciò il blocco nella pubblicazione di posts: l’economia dei microbi ha sconfitto la macroeconomia.
Voglio però intervenire per un minuto sul programma fiscale di Donald Trump – secondo il quale si elargirebbero ampi sgravi fiscali ai ricchi, tali da ingigantire il deficit. Questo in contrasto con il programma di Jeb Bush, secondo il quale si elargirebbero ampi sgravi fiscali ai ricchi in modo da ingigantire i deficit, e con il programma di Marco Rubio, secondo il quale si elargirebbero ampi sgravi fiscali ai ricchi in modo da ingigantire i deficit.
A questo punto non ci sono candidati repubblicani che si spostano d’un millimetro dallo schema consueto. Perché è quasi come se nessuno nel partito si fosse mai preoccupato dei deficit se non per abbattere la spesa sociale, come se tutti fossero interamente impegnati alla redistribuzione dei redditi verso l’alto.
E naturalmente non c’è alcuna prova – zero, nada, niente di niente – che tagliare le tasse ai ricchi genererà ampi benefici economici.
Siamo dinanzi ad un partito completamente incapace di correggersi ….
settembre 26, 2015
Sep 26 10:32 am
Sorry about lack of music. I was traveling while suffering from a cold, and the combination of congestion and pressure changes was really, really unpleasant. OK now, I think.
I’m at EconEd; here are my slides for later today. The theme of my talk is something I’ve emphasized a lot over the past few years: basic macroeconomics has actually worked remarkably well in the post-crisis world, with those of us who took our Hicks seriously calling the big stuff — the effects of monetary and fiscal policy — right, and those who went with their gut getting it all wrong. (Matt O’Brien has been reminding us of Michael Kinsley’s insistence that inflation was coming — and his refusal to conclude from the experience that people like me might, you know, actually know something.)
One thing I do try is to concede that one piece of the conventional story hasn’t worked that well, namely the Phillips curve, where the “clockwise spirals” of previous protracted large output gaps haven’t materialized. Maybe it’s about what happens at very low inflation rates.
What’s notable about the Fed’s urge to raise rates, however, is that Fed officials, including Janet Yellen, are acting as if they have high confidence in their models of inflation dynamics –which is the one thing we really haven’t done well at recently. I really fear that we’re looking at incestuous amplification here.
Teoria economica: cos’è andato bene
Spiacente per aver mancato il mio appuntamento musicale [1]. Ero in viaggio con un raffreddore, e la combinazione della congestione e degli sbalzi di pressione è stata proprio spiacevole. Ora va bene, penso.
Sono a EconEd [2], e in questa connessione i miei slides per dopodomani. Il tema della mia conferenza è qualcosa su cui ho molto posto l’accento negli anni passati: la macroeconomia di base ha funzionato davvero egregiamente negli anni successivi alla crisi, con quelli tra noi che avevano preso sul serio gli insegnamenti di Hicks che si sono pronunciati in modo giusto sulle cose importanti – gli effetti della politica monetaria e della finanza pubblica – e quelli che avevano seguito i propri istinti che hanno sbagliato tutto (Matt O’Brien ci ricorda l’insistenza di Michael Kinsley sull’inflazione alle porte – e il suo rifiuto di concludere, da quella esperienza, che le persone come me potevano, guarda un po’, davvero aver dato prova di intendersene un tantino).
Una cosa che provo ad ammettere è che un pezzo della spiegazione convenzionale non ha funzionato bene, precisamente la curva di Phillips, laddove le “spirali che si muovono in senso orario” dei precedenti prolungati ampi differenziali della produzione non si sono manifestate. Forse è quello che accade quando i tassi di inflazione sono molto bassi.
Quello che è notevole, tuttavia, sulla urgenza della Fed di elevare i tassi, è che i dirigenti della Fed, inclusa Janet Yellen, stanno agendo come se avessero una grande fiducia nei loro modelli sulla dinamica dell’inflazione – che è l’unica cosa che in realtà non ci ha prodotto buoni risultati di recente. Ho davvero il timore che siamo in presenza di una eccessiva confidenza degli addetti ai lavori (sui loro modelli) [3].
[1] Per ragioni evidenti non traduco il post settimanale del venerdì di Krugman, appassionato anche di un genere di musica americana. Ma confermo che da anni è un appuntamento fisso.
[2] É una conferenza annuale che si tiene a San Antonio, Texas. In particolare ha per oggetto l’economia e il suo insegnamento.
[3] Letteralmente sarebbe “amplificazione incestuosa”. Non so se l’inequivocabile termine ‘incestuoso’ abbia spesso tale significato un po’ paradossalmente generale in lingua inglese. Altre volte ho notato che tale uso – diciamo, la tendenza a sopravvalutare le proprie ragioni, quando esse derivano da valutazioni interessate, ovvero ‘familiari’ – pare essere stata un’invenzione di ambienti militari statunitensi, che usarono il termine “amplificazioni incestuose” per descrivere la tendenza dei quartieri generali americani a prevedere azioni di successo in Iraq, anche quando la realtà era tutt’altro che favorevole.
settembre 23, 2015
September 23, 2015 10:29 am
China is clearly in economic trouble. But how worried should we be about spillovers from China’s woes to the rest of the world economy? I have in general been telling people “not very”, although it’s a bigger issue for Japan and Korea. But Citi’s Willem Buiter suggests that it could be a quite big deal, leading to a global recession. And Willem is a very smart guy; read his “Alice in Euroland“, from 1998 (!), warning of the dangers of EMU’s “lender of last resort vacuum.” So could he be right?
Let me start with the case for not worrying too much, which comes down to the fact that China’s economy, while big, is still a small fraction of the global economy — about 15 percent at market exchange rates, which both Buiter and I consider the relevant number.
Now, we have a very old but still useful way to think about the simple economics of interdependence: the foreign trade multiplier. Imagine a world of two countries, A and B, in which A has a recession. This will cause A’s imports from B to fall, with a contractionary effect on B. B’s contraction leads to a fall in imports from A, leading to a further slump in A’s economy, leading to still lower imports from B, and so on.
This may sound like an explosive process, but given realistic numbers it’s actually convergent, and in fact the later-round effects should be trivial. Chinese imports from the rest of the world are less than 3 percent of the ROW’s GDP. Suppose China experiences a 5 percent slump in its own GDP; given an income elasticity of 2, which is reasonable, this would mean a 10 percent fall in imports — but that’s a shock to the rest of the world of just 0.3 percent of GDP. Not nothing, but not that big a deal.
My sense, however, from episodes like the 1997-98 Asian crisis, is that we often see a lot more contagion of economic crisis than this kind of model can explain. So what else might go on?
One possibility is to focus on prices as well as volumes: it’s possible that a Chinese slump could, via its impact on commodity prices, do a lot more harm to some other emerging markets than the above analysis suggests. I’m still working on this, although so far I don’t seem to be finding much there.
Another possibility is an international version of the financial accelerator. As Buiter points out, many emerging markets seem to be vulnerable thanks to private-sector foreign currency debt (which was so deadly in 1997-98). So you can imagine that a China-driven slump in exports leads to currency depreciation, which leads to financial troubles, which leads to much sharper declines in GDP than a direct export multiplier would have suggested.
Maybe, also, we could see some version of the financial contagion so obvious in the 1990s. Troubles in Brazil might make investors leery of other emerging markets, driving up interest spreads and forcing fiscal austerity that worsens the downturn. Or for matter, to the extent that the same hedge funds have been buying assets in a number of emerging nations, losses in one place could force them to liquidate assets elsewhere, causing a sort of global debt deflation. That was a popular story in the 1990s, and might apply again.
Overall, I’m not convinced of the Buiter thesis; China still seems to me not big enough to bring down the rest of the world. But I’m not rock-solid in that conviction, largely because we’ve seen so much contagion in the past. Stay tuned.
Ripercussioni dalla Cina
La Cina è chiaramente in una difficoltà economica. Ma quanto dovremmo essere preoccupati sulle ripercussioni dei guai economici cinesi nel resto del mondo? In generale l’opinione che ho espresso in giro è stata: “non molto”, sebbene per il Giappone e la Corea sia un problema più grande. Ma Willem Buiter di Citi suggerisce che sarebbe una affare piuttosto serio, che porterà ad una recessione globale. E Willem è una persona molto acuta; leggete il suo “Alice in Eurolandia”, che nel 1998 (!) sosteneva i pericoli della “mancanza di un prestatore di ultima istanza” nell’Unione Monetaria Europea. Potrebbe dunque aver ragione?
Fatemi prender le mosse dall’argomento per il quale non ci si dovrebbe preoccupare molto, che discende dal fatto che l’economia della Cina, per quanto grande, è ancora una piccola frazione dell’economia globale – circa il 15 per cento ai tassi di cambio di mercato, il dato che sia io che Buiter consideriamo pertinente.
Ora, abbiamo un modo antico ma ancora utile per ragionare della semplice economia dell’interdipendenza: il moltiplicatore del commercio con l’estero. Si immagini un mondo con due paesi, A e B, dei quali A è in recessione. Questo spingerà A a diminuire le importazioni da B, con un effetto di contrazione su B. La contrazione di B porterà ad una caduta delle importazioni da A, portando ad importazioni ancora più basse da B, e così via.
Potrebbe sembrare un processo esplosivo, ma dati i numeri realistici esso è effettivamente convergente, e di fatto gli effetti al giro successivo dovrebbero essere banali. Le importazioni cinesi dal resto del mondo sono meno del 3 per cento del PIL del resto del mondo [1]. Si supponga che la Cina conosca una recessione pari al 5 per cento del suo PIL; data una elasticità del reddito pari a 2, che è ragionevole, questo comporterebbe una caduta del 10 per cento nelle importazioni – ma quello sarebbe uno shock per il resto del mondo di solo lo 0,3 per cento del PIL. Non è pari a niente, ma non è neanche una grande faccenda.
La mia sensazione, tuttavia, a seguito di episodi come quello della crisi asiatica del 1997-98, è che spesso osserviamo un contagio molto maggiore da un crisi economica di quello che un modello di quel genere può spiegare. Dunque, cos’altro può accadere?
Una possibilità sarebbe di concentrarsi sui prezzi oltre che sui volumi: è possibile che una recessione cinese possa, attraverso il suo impatto sui prezzi delle materie prime, fare molto più danno ad altri mercati emergenti di quelli che la mia analisi precedente indica. Sto ancora lavorando su questo, sebbene sinora non sembra che stia trovando molto in quella direzione.
Un’altra possibilità è una versione internazionale dell’acceleratore finanziario. Come Buiter mostra, molti mercati emergenti sembrano essere vulnerabili grazie al debito in valuta estera del settore privato (che fu fatale nel 1997-98). Dunque si può supporre che una crisi provocata dalla Cina nelle esportazioni comporti guai finanziari, che porterebbero a declini molto più bruschi nei PIL di quello che un diretto moltiplicatore dell’export suggerirebbe.
Forse potremmo anche osservare qualche versione del contagio finanziario che fu così evidente negli anni ’90. Le difficoltà in Brasile potrebbero rendere gli investitori diffidenti degli altri mercati emergenti, spingendo in alto i differenziali degli interessi e costringendo ad una austerità delle finanze pubbliche che peggiorerà il declino. O altrimenti, nella misura in cui gli stessi hedge fund hanno acquistato asset in un certo numero di nazioni emergenti, le perdite in un luogo potrebbero costringerli a liquidare gli asset dappertutto, provocando una sorta di deflazione totale da debito. Questa, negli anni ’90, fu una spiegazione popolare, e potrebbe ripetersi.
In generale, io non sono convinto della tesi di Buiter; la Cina non mi sembra ancora grande abbastanza da portare al crollo il resto del mondo. Ma non sono irremovibile in questa convinzione, soprattutto perché abbiamo visto tanti episodi di contagio nel passato. Restate in collegamento.
[1] ROW è l’acronimo di “Rest of World”.
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