Blog di Krugman

Energico Voodoo (9 settembre 2015)

 

Sep 9 9:10 pm

Dynamic Voodoo

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We have a first score on the Jeb! tax plan — in answer to Matt O’Brien, I think we refer to this as the Bush! tax! cuts! It’s $3.4 trillion in lost revenue. But most of this will be made up through higher growth, Bush’s advisers, led by Glenn Hubbard, assure us.

And that’s highly credible, right? After all, Hubbard was a big booster of the Bush (as opposed to Bush!) tax cuts, which he assured everyone would lead to much faster growth and 300,000 jobs a month. He was especially proud of the 2003 tax cut.

And just look at the chart above, which compares private sector job creation after that pro-growth tax cut and after the job-killing 2013 Obama tax hike. As you can see — hmm, that doesn’t seem to go the right way, does it?

It’s almost pathological how Jeb! seems to have learned nothing from what didn’t work under Bro! Why, next thing he’ll be saying that he’s leaning on W’s advice for dealing with the Middle East. Oh, wait.

9 settembre 2015

 

Energico Voodoo

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Ho dato un primo punteggio al programma fiscale di “Bush!” [1] – in risposta a Matt O’Brien penso che possiamo riferirci a quel programma come “Bush! Sgravi! Fiscali!”. Si tratta di 3,4 migliaia di miliardi di entrate perse. Ma la maggioranza di quelle perdite sarà compensata da una crescita più elevata, ci assicurano i consiglieri di “Bush!”, guidati da Glenn Hubbard.

Ed è del tutto credibile, non è così? Dopo tutto Hubbard fu un grande sostenitore degli sgravi fiscali di Bush (da non confondersi con “Bush!”), che assicurava avrebbero portato ad una crescita molto più veloce e a 300.000 posti di lavoro al mese. Egli era particolarmente orgoglioso degli sgravi fiscali del 2003.

Potete dare appena un’occhiata alla tabella sopra, che confronta la creazione di posti di lavoro dopo gli sgravi fiscali a favore della crescita e quella dopo il rialzo delle tasse di Obama del 2013 [2], che doveva distruggere posti di lavoro. Come potete notare … non sembra che la cosa sia andata nel modo giusto, non è vero?

É quasi patologico come “Bush!” sembra non aver imparato niente da quello che non funzionò con il suo “Fratello!”, la prossima cosa che ci dirà sarà che egli fa affidamento sui consigli di “Walker!” [3] nell’occuparsi del Medio Oriente. Basta aspettare.

 

 

[1] Come qualcuno ricorderà, Krugman scrive Jeb Bush con l’aggiunta di un punto esclamativo perché intende ironizzare sul logo del candidato repubblicano (in realtà, il logo e solo “Jeb!”), che si presenta in quel modo, forse, per indicare la sua indifferenza al cognome, che pure gli crea qualche problema. Per non spiegarlo tutte le volte, direi che posso evitare il punto esclamativo. Ma non in questo post, nel quale sulla questione dell’esclamazione ci sono ironie ripetute.

[2] L’andamento della creazione dei posti di lavoro nel settore privato nel periodo di Obama è espresso dalla linea blu; quello del periodo di Bush fratello dalla linea rossa.

[3] Che sarebbe il secondo nome di George W. Bush, il fratello.

 

 

 

Jeb l’impreparato (8 settembre 2015)

settembre 8, 2015

 

Sep 8 10:50 pm

Jeb The Unready

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I’m on the other side of the world, talking Abenomics — but I can’t help noticing that Jeb Bush has now come out with the highly original proposal that we give rich people and corporations big tax cuts. A different kind of Republican! And he’s hoping to “jump-start his campaign” by winning the endorsement of … Stephen Moore, Larry Kudlow, and Steve Forbes.

This is getting surreal.

On substance, the supply-siders have covered themselves in, well, whatever is the opposite of glory since 2008 — predicting runaway inflation and soaring interest rates, disaster from tax hikes both nationally and in Jerry Brown’s California, triumph in Brownback’s Kansas, and on and on.

But what really gets me is that Bush imagines that these are the endorsements he needs. Do Republican base voters care what Stephen Moore says? Do they even know who he is? Endorsements from the supply-siders may matter for big-money donations, but Jeb! already has plenty of those, and his hundred million is doing him no good at all.

Truly, this is pathetic.

 

Jeb l’impreparato (1)

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Sono dall’altra parte del mondo a parlare della politica economica di Shinzo Abe – ma non posso fare a meno di notare che Jeb Bush se n’è venuto fuori con la proposta altamente originale di regalare ai ricchi ed alle società grandi sgravi fiscali. Un repubblicano d’altro genere! E sta sperando di “dare il colpo d’avvio” alla sua campagna elettorale” aggiudicandosi l’appoggio di ….. Stephen Moore, Larry Kudlow e Steve Forbes.

Sta diventando surreale.

In sostanza, gli esponenti dell’economia dal lato dell’offerta si sono ricoperti, diciamo così, di tutto ciò che è agli antipodi della gloria a partire dal 2008 – prevedendo una inflazione fuori controllo e tassi di interesse che schizzavano alle stelle, un disastro per gli aumenti delle tasse sia a livello nazionale che nella California di Jerry Brown, un trionfo nel Kansas di Brownback. E così via dicendo.

Ma quello che veramente mi colpisce è che Bush immagini che sia questo il genere di appoggi di cui ha bisogno. Gli elettori della base repubblicana si curano di quello che dice Stephen Moore? Sanno chi sia? I sostegni da parte degli esponenti dell’economia dal lato dell’offerta possono avere un peso per i contributi elettorali dei grandi ricchi, ma Jeb ha già fatto il pieno di queste donazioni, ed il suo centinaio di milioni non gli sta facendo bene per nulla.

Questa è davvero patetica.

 

 

(1) La tabella mostra gli andamenti dell’occupazione nei due Stati simbolo delle poltiche economiche dei democratici e dei repubblicani, la California e il Kansas. Gli ‘esperti’ di economia dai quali Jeb Bush sta ottenendo sostegno, avevano in sostanza previsto il crollo della California del Governatore Jerry Brown ed il grande successo della politica degli sgravi fiscali sui ricchi nel Kansas del Governatore Brownback. Come si nota, sta succedendo il contrario.

Affinità e inflazione (7 settembre 2015)

settembre 7, 2015

 

Sep 7 5:13 pm

Affinity and Inflation

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Brad DeLong marvels at Peter Schiff insisting to Josh Barro that US inflation is far higher than the official statistics acknowledge, and hence that the economy is actually shrinking. Incidentally, the independent Billion Prices index — which is internet-based, and places a higher weight on goods as opposed to services including housing — is actually showing deflation right now.

Brad — picking up on me, I think — suggests that it’s about affinity fraud. The picture above is from my slides for the Festival of Dangerous Ideas. The figure on the left, for those not familiar with the classics, is Snidely Whiplash, the enemy of Dudley Do-Right; I use him to symbolize the notion that bad economic ideas are propounded by people with an interest in having the government pursue bad policies. On the right is Bernie Madoff, but I’m not thinking of Madoff as much as his followers, who trusted him because they thought he was one of them. That’s what affinity fraud is all about.

I’ve been arguing for a while that inflation paranoia is best understood in affinity fraud terms. It’s true that some people benefit from deflation, but it’s hard to make a general case that this is what’s driving the phenomenon. And all the CNBC and Zero Hedge followers have been losing money if they believe what they’re hearing. To quote myself:

So who are the people who feel a deep affinity with a crotchety crank? Um, crotchety white guys feeling cranky. The whiteness is, I believe, an important part of the story, as I’ll explain in a minute.

The basic mindset of the kind of people who pay Ron Paul for his economic advice is pretty clear: they’ve made some money over the course of their lives, they believe that all of it reflects their own virtue, and they think they know from that experience what it takes to create wealth. They hear that the Fed is printing money, and it sounds to them like a violation of both the laws of economics and morality — and they surely think of it as a plot to take away their completely earned gains and give them to Those People (hence the whiteness issue).

You can try as hard as you like to tell such people that monetary policy is mainly a technical problem, that the Fed isn’t giving money away, and that predictions of runaway inflation have been utterly wrong; it will make no difference. You can point out that they would have done a much better job of investing if they had listened to the MIT gang; sorry, we’re just not their kind of people.

This stuff will never go away.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Affinità e Inflazione

Brad DeLong si meraviglia che Peter Schiff insista con Josh Barro su una inflazione che sarebbe molto più alta di quanto riconoscano le statistiche ufficiali, e di conseguenza su un’economia che in realtà si starebbe restringendo. Tra parentesi, l’indipendente Billion Prices Index – che si basa su Internet, e colloca un peso maggiore sui beni rispetto ai servizi, compreso quello immobiliare – sta per la verità, in questo momento, mostrando una deflazione.

Brad – attingendo, suppongo, al sottoscritto – indica che si tratta del cosiddetto ‘reato di affinità’ [1]. L’immagine in alto proviene dalle mie diapositive per il Festival delle Idee Pericolose. La figura sulla sinistra, per coloro che non hanno dimestichezza con i classici, è Snidely Whiplash, il nemico di Dudley Do-right; lo uso come simbolo del concetto che le cattive idee in economia sono proposte da persone che hanno un interesse nell’avere governi che perseguono cattive politiche. Quello sulla destra è Bernie Madoff, ma io non sto pensando a Madoff come buona parte dei suoi seguaci, che credevano in lui perché pensavano che fosse uno di loro. É a quello che si riferisce il ‘reato di affinità’.

Ho sostenuto per un certo periodo che la paranoia dell’inflazione fosse meglio comprensibile in termini di ‘reato di affinità’. É vero che alcune persone traggono beneficio dalla deflazione, ma è arduo sostenere in generale che sia questo quello che sta provocando il fenomeno. E tutti i seguaci della CNBC e di Zero Hedge [2] stanno buttando via soldi se credono in quello che sentono. Per citare me stesso:

“Dunque, chi sono le persone che si sentono profondamente affini con un capriccioso eccentrico [3]? Ebbene, capricciosi individui di pelle bianca che si sentono eccentrici. Il colore della pelle, credo, sia una componente importante della storia, come spiegherò subito.

La mentalità di base delle persone che pagano Ron Paul per i suoi consigli economici è abbastanza chiara: hanno fatto un po’ di soldi durante la loro esistenza, credono che tutto ciò rifletta i loro meriti e pensano di sapere per esperienza cosa serve per creare ricchezza. Sentono dire che la Fed sta stampando moneta e quella gli sembra una violazione sia delle leggi dell’economia che della moralità – e sicuramente pensano sia in atto un complotto per portar via i loro guadagni interamente sudati e per consegnarli a Quella Gente (è da qui che viene la questione del colore della pelle).

Potete provare con tutto l’impegno che volete a raccontare a quelle persone che la politica monetaria è principalmente un problema tecnico, che la Fed non sta loro togliendo denaro e che le previsioni di una inflazione fuori controllo sono state completamente errate; non farà alcuna differenza. Potete mettere in evidenza che avrebbero fatto un miglior affare se avessero ascoltato la ‘squadra del MIT’; semplicemente non siamo persone che fanno per loro.

Sono cose che non passeranno mai.

 

[1] Ovvero, un reato espressamente previsto dalle leggi statunitensi, che consiste nel truffare altre persone sfruttando una condizione di ‘affinità’ con le stesse (perché si fa parte di uno stesso ambiente, si dichiarano i medesimi obbiettivi o ideali, si finge di perseguire gli stessi risultati sociali etc.). Se posso dir così, una sorta di plagio multiplo. É stato uno dei capi di accusa nei confronti di Bernie Madoff, vicenda che ha fatto scalpore sia per la notorietà di vari personaggi truffati, sia per l’esito di una condanna più che secolare al truffatore.

[2] Una televisione finanziaria ed un blog che si occupano di investimenti e di risparmi e che hanno sostenuto con continuità varie previsioni rivelatesi infondate.

[3] In quel post, Krugman se la prendeva con Ron Paul, un personaggio del gruppo dirigente repubblicano che si occupa anche di consulenza finanziaria nei confronti dello stesso pubblico di conservatori.

 

 

 

Produttività e compensi (dal blog di Krugman, 6 settembre 2015)

settembre 6, 2015

 

Sep 6 6:42 pm

Productivity and Pay

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Still in Sydney (next stop Tokyo), where it’s much too beautiful a day to sit inside blogging. But I did want to flag an excellent report by Josh Bivens and Larry Mishel on the productivity-pay gap.

The divergence between pay and productivity — a lot of productivity gains, almost total failure to trickle down — is one of the most striking features of American economics these past 40 (!) years. It’s also the subject of endless attempts at debunking, of claims that the divergence is somehow a statistical artifact. What Bivens and Mishel do is take on these arguments carefully, not dismissing them completely, but showing that they explain only a fraction of what we see. Rising benefits are mainly a pre-1979 issue, explaining almost nothing since then; the “terms of trade” — consumer prices rising faster than the prices of U.S. output — is also mostly pre-1979, and in any case only a fractional concern. And so on.

One thing they don’t say explicitly, but is important: the next time you hear someone claiming that middle-class families have, in fact, seen a big rise in living standards, you should know that to the extent that this is true (which is less than claimed), it’s mainly about working more hours. Pay really has almost stagnated despite rising productivity.

 

Produttività e compensi

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[1]

Sono ancora a Sidney (prossima tappa a Tokio), ed è una giornata troppo bella per stare al chiuso dinanzi al blog. Ma volevo segnalare un eccellente resoconto di Josh Bivens e Larry Mishel sul differenziale tra produttività e paghe.

La differenza tra produttività e paghe – grandi incrementi nella produttività, una assenza quasi totale di ricadute di questi guadagni verso il basso – è una delle caratteristiche più sorprendenti dell’economia americana di questi ultimi 40 (!) anni. É anche l’occasione per ininterrotti tentativi di demistificazione, per pretese secondo le quali tale divergenza sarebbe in qualche modo un artificio statistico. Quello che Bivens e Mishel fanno è un intervento scrupoloso su questi argomenti, non liquidandoli per intero, ma dimostrando che essi spiegano solo una frazione di ciò che stiamo vedendo. I sussidi sociali in crescita sono principalmente un tema precedente al 1979 e da allora non spiegano quasi niente; anche i “rapporti di scambio” – l’aumento più rapido del prezzi al consumo e i prezzi della produzione degli Stati Uniti – sono anch’essi in gran parte precedenti al 1979, e in ogni caso sono una preoccupazione solo marginale. E via dicendo.

C’è una cosa che essi non dicono esplicitamente ma che è importante: la prossima volta che sentirete dire da qualcuno che le famiglie di classe media hanno, di fatto, conosciuto un grande incremento nei livelli di vita, dovreste sapere che nella misura in cui questo è vero (ed è meno vero di quanto si sostiene), esso dipende principalmente dall’aver lavorato ore in più. Le paghe in realtà sono rimaste quasi stagnanti nonostante la crescita della produttività.

 

 

 

 

[1] Le varie linee indicano: quella in blu, l’incremento netto della produttività; quella sottostante, i reali compensi medi orari, laddove per “reali” si intende in quel caso deflazionati sulla base del deflatore della produzione interna; quella più in basso, i diversi reali compensi medi orari, laddove in questo caso per reali si intende deflazionati sulla base del deflatore al consumo (ovvero, suppongo, sulla base della variazione dei prezzi dei beni prodotti all’interno ed all’estero); l’intervallo tra le due linee suddette si spiega, dunque, in conseguenza della variazione dei “rapporti di scambio”; l’ultima linea in celeste chiaro, esprime i valori reali dei compensi mediani.

I valori mediani non sono i valori ‘medi’, ovviamente. Diciamo che sono i valori centrali di una serie. I valori medi sono deformati dalla ineguaglianza (se i redditi superiori crescono di molto, essi trainano anche i valori medi, ma in realtà chi sta nelle posizioni medio basse non se ne accorge). E questo è stato appunto il fenomeno che si è manifestato con particolare chiarezza negli Stati Uniti: (1) la produttività è cresciuta molto di più dei compensi, ma (2) i compensi medi sono cresciuti molto di più degli effettivi compensi “mediani”, che praticamente sono rimasti fermi.

Si noti, infine, che il fenomeno riguarda il periodo dal 1974 in poi (Krugman estrapola quel periodo dallo studio di Bivens e Mishel, ma se si legge direttamente quello studio si osserva che i valori mediani dei compensi – nel periodo dal 1948 al 1974 – erano cresciuti praticamente nello stesso modo della produttività). Non riesco a trasferire l’intera tabella dello studio nel testo, ma si consideri che – ponendo al livello 0 i dati della produttività e dei compensi mediani (ovvero, di un lavoratore normale) nel 1948 – essi erano arrivati entrambi ad un livello 100 nel 1974; nei decenni successivi la produttività è schizzata al livello 238, i compensi sono rimasti al livello 100 (circa).

 

 

 

La Fed dovrebbe ricordarsi degli anni ‘90 (4 settembre 2015)

settembre 4, 2015

 

Sep 4 8:15 pm

The Fed Should Remember the 90s

I’m (a) having a good time (b) jet-lagged to the point of madness, so posting limited. But I do want to weigh in on the latest job report and the Fed.

Headline unemployment, at 5.1 percent, is now quite low by historical standards, and the baying for a rate increase is louder than ever. But inflation is subdued, indeed below target, and wages are still going nowhere. Should the Fed be raising rates in the name of “normalization”?

Well, consider the situation in 1997, when the unemployment rate dropped through 5 percent. The Fed did raise rates a quarter point, but then stopped, waiting for inflation to become a problem — which it never did, even though unemployment continued to fall, eventually to 4 percent.

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The lesson is that the Fed really doesn’t know what level of U3 constitutes full employment, and should be very cautious about acting preemptively absent any signs of inflation problems.

Why is this time different? Many people seem to think that the case for raising rates is made stronger by the fact that we’re currently at zero, which seems weird and unnatural. But if you actually think through the logic, it’s the other way around. When the Fed funds rate was 5 percent, there was room to cut if a rate hike turned out to be premature — that is, the risks of moving too soon and moving too late were more or less symmetrical. Now they aren’t: if the Fed moves too late, it can always raise rates more, but if it moves too soon, it can push us into a trap that’s hard to escape.

Hiking rates now is still a really bad idea — and the arguments for that bad idea just keep getting worse.

 

La Fed dovrebbe ricordarsi degli anni ‘90

Anzitutto me la sto passando bene, e in secondo luogo patisco il fuso orario sino al limite dell’indecenza, cosicché i post sono limitati. Ma non rinuncio ad intervenire sull’ultimo rapporto sui posti di lavoro e sulla Fed.

La disoccupazione complessiva, al 5,1 per cento, adesso è abbastanza bassa per la serie storica, e gli ululati per un rialzo del tasso di interesse sono più rumorosi che mai. Ma l’inflazione è smorzata, in effetti al di sotto dell’obbiettivo, ed i salari non stanno ancora andando da nessuna parte. La Fed dovrebbe alzare i tassi nel nome della “normalizzazione”?

Ebbene, consideriamo la situazione nel 1997, quando il tasso di disoccupazione scese al 5 per cento. La Fed elevò il tasso di un quarto di punto, ma poi si fermò, aspettando che l’inflazione diventasse un problema – la qualcosa non accadde, anche se il tasso di disoccupazione continuò a scendere, alla fine sino al 4 per cento.

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La lezione è che la Fed realmente non sa quale livello di U3 [1] rappresenti la piena occupazione, e dovrebbe essere molto cauta ad agire preventivamente in assenza di alcun segno di problemi di inflazione.

Perché questa volta sarebbe diverso? Molte persone sembrano pensare che l’argomento per rialzare i tassi sia reso più forte dal fatto che siamo attualmente a zero, la qualcosa sembra strana e innaturale. Ma se usate la logica, è esattamente il contrario. Quando il tasso di interesse sui finanziamenti della Fed era al 5 per cento, c’era spazio per fare tagli se un rialzo nei tassi risultava essere prematuro – ovvero, i rischi del muoversi troppo presto o troppo tardi erano più o meno asimmetrici. Oggi non è così: se la Fed si muove troppo tardi si può sempre alzare di più i tassi, ma se si muove troppo presto, essa può spingerci in una trappola dalla quale si verrebbe fuori difficilmente.

Alzare i tassi oggi è davvero una cattiva idea – e gli argomenti per tale cattiva idea stanno proprio diventando peggiori.

 

[1] Suppongo sia il tasso di disoccupazione, secondo le modalità di misurazione in uso negli Stati Uniti (ovvero, sono disoccupati coloro che non hanno lavoro, che l’hanno attivamente cercato nelle quattro settimane prevedenti alla rilevazione, che sono al momento disponibili per un posto di lavoro.

 

 

 

Il lavaggio delle bolle (2 settembre 2015)

settembre 2, 2015

 

Sep 2 8:17 pm

Bubblewashing

Almost 15 years have passed since I warned about media “balance” that involved systematically abdicating the journalistic duty of informing readers about simple matters of fact. As I said way back when,

If a presidential candidate were to declare that the earth is flat, you would be sure to see a news analysis under the headline ”Shape of the Planet: Both Sides Have a Point.” After all, the earth isn’t perfectly spherical.

So have things improved? In some ways, they may have gotten even worse. These days, media balance often seems to involve retroactively rewriting history to avoid telling readers that one side of a policy debate got things completely wrong.

In particular, when you see reports on monetary disputes, you often see characterizations of what the Fed’s right-wing critics have been saying that go something like this, in the WaPo:

Among the criticisms: The Fed was keeping interest rates artificially low and fueling speculative bubbles. The helicopter-drop of money known as quantitative easing did little more than inflate stock markets and fund Washington’s deficit spending. The bailout of big banks left them bigger than ever.

Um, no. The people who gathered at the anti-Jackson-Hole event weren’t warning about bubbles and too-big-to-fail. They warned, in apocalyptic terms, that runaway inflation was just around the corner. Here’s Ron Paul; here’s Peter Schiff.

Why would a reporter credit the Fed’s critics with warnings they didn’t give, and fail to mention what they actually said? The answer, pretty obviously, is that if you were to say “Ron Paul has been predicting runaway inflation ever since the Fed began its expansionary policies”, that would make it clear that he has been completely wrong. And conveying that truth — even as a matter of simple factual reporting — is apparently viewed as taking sides.

So what we get instead is a whitewashing of the intellectual history, in which Fed critics are portrayed as making arguments that haven’t been shown to be ridiculous. It’s a pretty sorry spectacle.

 

Il lavaggio delle bolle

Sono passati una quindicina d’anni da quando misi in guardia sull’ “equilibrio” dei media che comportava l’abdicare sistematico dal dovere giornalistico di informare i lettori sui semplici dati di fatto. Come dissi allora:

“Se un candidato presidenziale dovesse dichiarare che la Terra è tonda, state sicuri che avreste analisi del tipo ‘La forma del Pianeta: entrambi gli schieramenti prendono posizione’. Dopo di tutto, la Terra non è esattamente sferica”.

Dunque, le cose sono migliorate? Da alcuni punti di vista, sono diventate persino peggiori. In questi giorni, l’equilibrio dei media sembra comportare la riscrittura retroattiva della storia, in modo da evitare di raccontare ai lettori che una parte politica fece tutto in modo sbagliato.

In particolare, quando leggete resoconti sui dibattiti monetari, spesso constatate descrizioni di quello che i critici di destra della Fed sono venuti dicendo, grosso modo su queste righe (dal Washington Post):

“Tra le critiche: la Fed ha tenuto i tassi di interesse artificialmente bassi, innescando bolle speculative. La distribuzione dei soldi dall’elicottero conosciuta come facilitazione quantitativa ha ottenuto poco di più che inflazionare i mercati azionari e finanziare la spesa in deficit di Washington. Il salvataggio delle grandi banche le ha lasciate più grandi che mai”.

Beh, no. Le persone che si sono riunite all’evento in contrapposizione a Jackson-Hole (1)  non stavano ammonendo sulle bolle o sulle banche ‘troppo grandi per fallire’. Stavano ammonendo, in termini apocalittici, su una inflazione fuori controllo proprio dietro l’angolo. Queste le connessioni con Ron Paul e con Peter Schiff.

Perché un giornalista dovrebbe attribuire ai critici della Fed ammonimenti che non hanno espresso, e non fare menzione di quello che hanno effettivamente detto? La risposta, abbastanza evidente, è che se si fosse dovuto dire “Ron Paul ha predetto una inflazione fuori controllo sin da quando la Fed avviò le sue politiche espansive”, sarebbe stato chiaro che egli ha sempre avuto completamente torto. Comunicare una tale verità – persino nella forma di una semplice resoconto fattuale – viene apparentemente considerato come uno schierarsi.

Dunque, quello che invece abbiamo è una imbiancatura della storia delle idee, nella quale i critici della Fed vengono presentati come se avessero utilizzato argomenti che non si sono dimostrati ridicoli. É uno spettacolo abbastanza spiacevole.

 

 

(1) Nei giorni scorsi, in occasione del consueto convegno che la Fed tiene ogni anno nella località di Jackson-Hole, si è tenuto, nella stessa località,  un contro-convegno di politici e commentatori di cose economiche della destra americana (al quale era stata annunziata anche la presenza del vecchio Presidente della Fed Alan Greenspan).

 

 

 

Il trionfo dell’economia retrograda (dal blog di Krugman, 1 settembre 2015)

settembre 1, 2015

 

Sep 1 2:03 pm

The Triumph of Backward-Looking Economics

We don’t get to do many controlled experiments in economics, so history is mainly what we have to go on. Unfortunately, many people who imagine that they know how the economy works go with what they think they heard about history, not with what actually happened. And I’m not just talking about the great unwashed; quite a few well-known economists seem not to have heard about FRED, or at least haven’t picked up the habit of doing a quick scan of the actual data before making assertions about facts.

And there’s one decade in particular where people are weirdly unaware of the realities: the 1980s. A lot of this has to do with Reaganolatry: the usual suspects have repeated so often that it was a time of extraordinary, incredible success that I often encounter liberals who believe that something special must have happened, that somehow the events were at odds with what the prevailing macroeconomic models of the time said would happen.

But nothing special happened, aside from the unexpected willingness of the Fed to impose incredibly high unemployment in order to bring inflation down.

What did orthodox salt-water macroeconomists believe about disinflation on the eve of the Volcker contraction? As it happens, we have an excellent source document: James Tobin’s “Stabilization Policy Ten Years After,” presented at Brookings in early 1980. Among other things, Tobin laid out a hypothetical disinflation scenario based on the kind of Keynesian model people like him were using at the time (which was also the model laid out in the Dornbusch-Fischer and Gordon textbooks). These models included an expectations-augmented Phillips curve, with no long-run tradeoff between inflation and unemployment — but expectations were assumed to adjust gradually based on experience, rather than changing rapidly via forward-looking assessments of Fed policy.

This was, of course, the kind of model the Chicago School dismissed scathingly as worthy of nothing but ridicule, and which was more or less driven out of the academic literature, even as it continued to be the basis of a lot of policy analysis.

So here was Tobin’s picture:

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Here’s what actually happened:

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Unemployment shot up faster than in Tobin’s simulation, then came down faster, because the Fed didn’t follow the simple rule he assumed. But the basic shape — a clockwise spiral, with inflation coming down thanks to a period of very high unemployment — was very much in line with what standard Keynesian macro said would happen. On the other hand, there was no sign whatsoever of the kind of painless disinflation rational-expectations models suggested would happen if the Fed credibly announced its disinflation plans.

So how does the decade of the 1980s end up being perceived as a defeat for Keynesians? To see it that way you have to systematically misrepresent both what happened to the economy and what people like Tobin were saying at the time. In reality, Tobinesque economics looks very good in the light of events.

 

Il trionfo dell’economia retrograda [1]

In economia non riusciamo a fare molti esperimenti controllati, cosicché la storia è principalmente quella con cui dobbiamo procedere. Sfortunatamente, molte persone che si immaginano di conoscere come l’economia funzioni, si accompagnano a quello che pensano di aver sentito dire sulla storia, non a quello che è effettivamente accaduto. E non sto parlando della gente comune; un buon numero di economisti ben noti sembra non aver mai sentito parlare dell’archivio dei dati economici della Fed (FRED), o almeno di non aver preso l’abitudine di dare una rapida scorsa ai dati effettivi prima di avanzare giudizi sui fatti.

E se c’è un decennio, in particolare, nel quale le persone erano curiosamente inconsapevoli dei dati reali, quello furono gli anni ’80. Molto di questo ha a che fare con la “Reaganolatria”: i soliti noti hanno ripetuto così spesso che quella fu un’epoca di straordinario, incredibile successo che io spesso incontro progressisti che credono che qualcosa di speciale deve essere successo, che in qualche modo gli eventi furono opposti a quello che i prevalenti modelli macroeconomici di quel tempo dicevano sarebbe accaduto.

Ma non accadde niente di speciale, ad eccezione dell’inattesa determinazione della Fed di imporre una disoccupazione incredibilmente alta allo scopo di abbassare l’inflazione.

Cosa credettero i macroeconomisti ortodossi della scuola dell’ “acqua dolce” all’epoca della contrazione di Volcker? Si dà il caso che possediamo una eccellente fonte documentaria: il saggio di James Tobin “La politica della stabilizzazione, dieci anni dopo”, presentato al Brookings nei primi anni ’80. Tra le altre cose, Tobin propose un ipotetico scenario di disinflazione basato sul tipo di modello keynesiano che persone come lui stavano utilizzando in quei tempi (che era anche il modello predisposto nei libri di testo di Dornbusch-Fischer e di Gordon). Questi modelli includevano una curva di Phillips potenziata per le aspettative, senza alcuno scambio di lungo periodo tra inflazione e disoccupazione – ma le aspettative erano assunte allo scopo di fare correzioni graduali basate sull’esperienza, piuttosto che modificarle rapidamente attraverso valutazioni sul futuro della politica della Fed.

Questo era, ovviamente, il genere di modello che la Scuola di Chicago criticava aspramente, come immeritevole di nient’altro se non di ironia, e che era più o meno dedotto dalla letteratura accademica, pur continuando ad essere la base di molte analisi politiche.

Dunque, ecco il diagramma di Tobin [2]:

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Ed ecco quello che effettivamente accadde:

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La disoccupazione si impennò più velocemente che non nella simulazione di Tobin, perché la Fed non seguì la semplice regole che aveva ipotizzato. Ma la forma fondamentale – una spirale in senso orario, con l’inflazione che scende giù grazie ad un periodo di disoccupazione molto alta – era davvero molto coerente con quello che la normale macroeconomia keynesiana affermava sarebbe accaduto. D’altra parte, non ci fu alcun segno di un qualsiasi tipo di disinflazione indolore che i modelli delle aspettative razionali indicavano sarebbe accaduto, se la Fed avesse credibilmente annunciato i suoi programmi di disinflazione.

Come accadde, dunque, che il decennio degli anni ’80 finì con l’essere percepito come una sconfitta per i keynesiani? Per leggerlo in quel modo si deve sistematicamente falsare sia quello che accadde all’economia che quello che persone come Tobin stavano dicendo in quegli anni. In realtà, alla luce degli eventi, l’economia di Tobin appare eccellente.

 

 

 

[1] Suppongo che in questo caso “retrogrado” sia il significato che si vuole esprimere – ovvero, un giudizio sui modelli economici usati da Tobin che il post illustra, e non semplicemente una economia “che guarda indietro”. In altre parole, “retrogrado” è il giudizio sulla economia Keynesiana che veniva espresso in quei tempi dagli economisti della Scuola di Chicago.

[2] Può essere utile notare che entrambi i diagrammi simulano l’andamento congiunto per l’inflazione e la disoccupazione, nel primo caso secondo il modello keynesiano, nel secondo caso quello che realmente si ebbe. Sull’asse verticale sono riportati i dati della crescita annua dell’inflazione, su quello orizzontale quelli relativi alla disoccupazione. Di conseguenza, la disoccupazione sale quando la linea si sposta a destra e l’inflazione scende quando la linea si sposta verso il basso. Ovviamente, quando il dato della disoccupazione scende, la curva ‘torna indietro’ verso i valori inferiori che sono collocati alla sinistra; quando il dato dell’inflazione cresce (come nelle ultime rilevazioni degli anni ’90) la curva torna verso l’alto.

 

 

 

I moltiplicatori: quello che dovremmo aver saputo (dal blog di Krugman, 1 settembre 2015)

settembre 1, 2015

 

Sep 1 9:19 am

Multipliers: What We Should Have Known

There’s a very nice interview with Olivier Blanchard, who is leaving the IMF, in which among other things Olivier says the right thing about changing one’s mind:

With respect to outside, the issue I have been struck by is how to indicate a change of views without triggering headlines of “mistakes,’’ “Fund incompetence,’’ and so on. Here, I am thinking of fiscal multipliers. The underestimation of the drag on output from fiscal consolidation was not a “mistake’’ in the way people think of mistakes, e.g., mixing up two cells in an excel sheet. It was based on a substantial amount of prior evidence, but evidence which turned out to be misleading in an environment where interest rates are close to zero and monetary policy cannot offset the negative effects of budget cuts. We got a lot of flak for admitting the underestimation, and I suspect we shall continue to get more flak in the future. But, at the same time, I believe that we, the Fund, substantially increased our credibility, and used better assumptions later on. It was painful, but it was useful.

Indeed. There are a lot of people out there whose idea of a substantive argument is “you used to say X, now you say Y” — never mind the reasons why you changed your view, and whether it was right to do so.It’s important not to fall into the trap of being afraid to let new evidence or analysis speak.

One thing I would say, however, is that on this particular issue the Fund should have known better. Olivier says that the evidence “turned out to be misleading in an environment where interest rates are close to zero and monetary policy cannot offset the negative effects of budget cuts”, but didn’t we know that? I certainly did.

And let me also beat one of my favorite drums: the prediction that multipliers would be much larger in a liquidity trap came out of IS-LMish macro (or, to be fair, New Keynesian models) and has been overwhelmingly confirmed by experience. So this was yet another victory for Keynesian analysis, the success story nobody will believe.

 

I moltiplicatori: quello che dovremmo aver saputo

C’è una intervista molto bella ad Olivier Blanchard, che sta lasciando il FMI, nella quale tra le altre cose Olivier dice la cosa giusta a proposito del cambiare la propria opinione:

“Con rispetto verso chi opera all’esterno del Fondo, il tema che mi ha colpito è quello di come indicare un mutamento di punti di vista senza innescare titoli di giornale sugli “errori”, sulla “incompetenza del Fondo”, e così via. In questo caso sto pensando ai moltiplicatori della finanza pubblica. La sottostima dell’effetto di trascinamento sulla produzione del consolidamento della finanza pubblica non è stato un “errore” nel senso in cui le persone pensano agli errori, ad esempio confondendo due celle in un foglio di ‘excel’. Esso era basato su una significativa quantità di precedenti testimonianze, sennonché si è scoperto che tali testimonianze sono fuorvianti in un contesto nel quale i tassi di interesse sono vicini a zero e la politica monetaria non può compensare gli effetti negativi dei tagli ai bilanci. Abbiamo avuto una grande quantità di critiche per aver ammesso quella sottostima, ed ho il sospetto che continueremo ad avere maggiori critiche nel futuro. Ma, nello stesso tempo, io credo che noi, il Fondo, abbiamo sostanzialmente accresciuto la nostra credibilità, e da quel momento in poi abbiamo utilizzato presupposti migliori. É stato doloroso, ma è stato utile.”

Proprio così. Ci sono molte persone in giro la cui idea di un argomento solido è del tipo: “Una volta dicevi X, ora dici Y” – non contano le ragioni per le quali si è cambiata idea, né se sia stato giusto farlo. É importante non cadere nella trappola di aver timore di far parlare le nuove prove o analisi.

Una cosa che direi, tuttavia, è che su questo tema il Fondo avrebbe dovuto conoscere le cose meglio. Olivier sostiene che “si è scoperto che tali testimonianze sono fuorvianti in un contesto nel quale i tassi di interesse sono vicini a zero e la politica monetaria non può compensare gli effetti negativi dei tagli ai bilanci”, ma non lo sapevamo? Io di sicuro lo sapevo.

E consentitemi anche di insistere su un mio tema preferito: la previsione che i moltiplicatori sarebbero stati molto più ampi veniva dalla macroeconomia del tipo del modello IS-LM (o, per esser giusti, dai modelli neokeynesiani) ed è stata confermata dai fatti in modo indiscutibile. Questa, dunque, è un’altra vittoria della analisi keynesiana, quella storia di successo alla quale non crederà nessuno.

 

 

 

 

Gravitazione (dal blog di Krugman, 1 settembre 2015)

settembre 1, 2015

 

Gravity

September 1, 2015 8:59 am

Now that’s fun: Adam Davidson tells us about trade in the ancient Near East, as documented by archives found in Kanesh — and reports that the volume of trade between Kanesh and various trading partners seems to fit a gravity equation: trade between any two regional economies is roughly proportional to the product of their GDPs and inversely related to distance. Neat.

But what does the seemingly universal applicability of the gravity equation tell us? Davidson suggests that it’s an indication that policy can’t do much to shape trade. That’s not where I would have gone, and it’s not where those who have studied the issue closely have gone.

Here’s my take: Think about two cities with the same per capita GDP — we can relax that assumption in a minute. They will trade if residents of city A find things being sold by residents of city B that they want, and vice versa.

So what’s the probability that an A resident will find a B resident with something he or she wants? Applying what one of my old teachers used to call the principle of insignificant reason, a good first guess would be that this probability is proportional to the number of potential sellers — B’s population.

And how many such desirous buyers will there be? Again applying insignificant reason, a good guess is that it’s proportional to the number of potential buyers — A’s population.

So other things equal we would expect exports from B to A to be proportional to the product of their populations.

What if GDP per capita isn’t the same? You can think of this as increasing the “effective” population, both in terms of producers and in terms of consumers. So the attraction is now the product of the GDPs.

Is there anything surprising about the fact that this relationship works pretty well? A bit. Standard pre-1980 trade theory envisaged countries specializing in accord with their comparative advantage — England does cloth, Portugal wine. And these models suggest that how much countries trade should have a lot to do with whether they are similar or not. Cloth exporters shouldn’t be selling much to each other, but should instead do their trading with wine exporters. In reality, however, there’s basically no sign of any such effect: even seemingly similar countries trade about as much as a gravity equation says they should.

Calibrated models of trade have long dealt with this reality, somewhat awkwardly, with the so-called Armington assumption, which simply assumes that even the apparently same good from different countries is treated by consumers as a differentiated product — a banana isn’t just a banana, it’s an Ecuador banana or a Saint Lucia banana, which are imperfect substitutes. The new trade theory some of us introduced circa 1980 — or as some now call it, the “old new trade theory” — does a bit more, and possibly better, by introducing monopolistic competition and increasing returns to explain why even similar countries produce differentiated products.

And there’s also a puzzle about both the effect of distance and the effect of borders, both of which seem larger than concrete costs can explain. Work continues.

Does any of this suggest the irrelevance of trade policy? Not really. Changes in trade policy do have obvious effects on how much countries trade. Look at what happened when Mexico opened up starting in the late 1980s, as compared with Canada, which was fairly open all along — and which, like Mexico, mainly trades with the US:

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So what does gravity tell us? Simple Ricardian comparative advantage is clearly incomplete; the process of international trade is subtler, with invisible as well as visible costs. Not trivial, but not too unsettling. And gravity models are very useful as a benchmark for assessing other effects.

 

Gravitazione

Questa è divertente: Adam Davidson ci racconta del commercio nell’antico Vicino Oriente [1], come documentato dagli archivi ritrovati a Kanesh [2] – e ci informa che il volume di commerci tra Kanesh e vari partner commerciali sembra essere coerente con una equazione gravitazionale: il commercio tra due qualsiasi economie regionali è grosso modo proporzionale ai loro prodotti interni lordi e inversamente connesso con la distanza. Fantastico.

Ma cosa ci dice questa apparentemente universale applicazione della equazione gravitazionale? Davidson suggerisce che essa è una indicazione secondo la quale la politica può fare molto nel modellare i commerci. Non è questa la conclusione alla quale io sarei pervenuto, né è quella alla quale pervennero coloro che studiarono il tema da vicino.

Ecco la mia posizione: si pensi a due città con lo stesso PIL procapite – tra un attimo potremo attenuare quell’assunto. Tra esse ci saranno commerci se i residenti della città A trovano cose di loro gradimento che vengono vendute dai residenti della città B, e viceversa.

Quale è dunque la probabilità che un residente A trovi un residente B con qualcosa di suo gradimento? Applicando quello che un mio vecchio insegnante era solito definire come il principio della ragione irrilevante, una prima buona ipotesi sarebbe che questa probabilità sia proporzionale al numero dei potenziali venditori – la popolazione di B.

E quanti acquirenti in tal modo interessati ci saranno? Applicando ancora il principio della ragione irrilevante, una buona ipotesi è che essi siano proporzionali al numero dei potenziali acquirenti – la popolazione di A.

Dunque, a parità delle altre condizioni, ci dovremmo aspettare che le esportazioni da B ad A siano proporzionali ai prodotti delle loro popolazioni.

Cosa accadrà se il PIL procapite non è lo stesso? Questo aspetto può essere riflettuto nei termini di un accrescimento della popolazione “effettiva”, in termini sia di produttori che di consumatori. Dunque, adesso l’attrazione è il prodotto dei due PIL.

C’è qualcosa di sorprendente nel fatto che questa relazione funzioni abbastanza bene? Sì, essa è un po’ sorprendente. La teoria standard del commercio precedente al 1980 riteneva che i paesi si specializzassero in coerenza con i loro vantaggi comparativi – l’Inghilterra produce tessuti, il Portogallo vino [3]. E questi modelli indicano che quanto i paesi commerciano dovrebbe avere molto a che fare con il fatto che essi siano più o meno simili. Gli esportatori di tessuti non dovrebbero vendere molto gli uni con gli altri, dovrebbero invece fare i loro commerci con gli esportatori di vino. Tuttavia, nella realtà non c’è alcun segno di un tale effetto: persino paesi apparentemente simili commerciano più o meno quanto l’equazione gravitazionale dice che dovrebbero.

Per lungo tempo modelli calibrati del commercio si sono misurati con questa realtà, talvolta in modo problematico, con il cosiddetto assunto di Armington, che semplicemente considera che persino quello che sembra uno stesso bene proveniente da paesi diversi, è trattato dai consumatori come un prodotto differenziato – una banana non è solo una banana, è una banana dell’Ecuador o una banana di Santa Lucia, che sono tra loro sostituti imperfetti. La nuova teoria commerciale che alcuni di noi introdussero attorno al 1980 – o, come qualcuno la chiama, la “vecchia nuova teoria del commercio” – fa un po’ di più, e forse meglio, introducendo la competizione monopolistica e i rendimenti decrescenti per spiegare perché persino paesi simili producano prodotti differenziati.

E c’è anche un mistero sia sull’effetto della distanza che su quello dei confini, che sembrano entrambi più ampi di quello che i costi concreti possono spiegare. Il lavoro continua.

Tutto questo indica l’irrilevanza della teoria del commercio? Niente affatto. I mutamenti nelle politiche del commercio hanno davvero effetti evidenti su quanto quei paesi commerciano. Si osservi quello che accadde quando il Messico aprì a partire dagli ultimi anni ’80, a confronto con il Canada, che era stato discretamente aperto sin dall’inizio – e che, come il Messico, principalmente commercia con gli Stati Uniti:

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Dunque, cosa ci dice la teoria della gravitazione? Ci dice che il semplice vantaggio comparativo ricardiano è chiaramente insufficiente; il processo del commercio internazionale è più sottile, con costi sia invisibili che visibili. Non è banale, ma neanche troppo preoccupante. E i modelli gravitazionali sono molto utili come punti di riferimento per valutare tali ulteriori effetti.

 

 

 

[1] Vicino Oriente è un’espressione che propriamente andrebbe usata per indicare la regione geografica oggi per lo più arabofona che si estende dalla sponda orientale del Mar Mediterraneo all’Iran e alla Penisola Arabica.

Corrispondentemente, il termine Medio Oriente spetterebbe propriamente ai paesi dell’area ancora più a est: Afghanistan, Pakistan (è ad essa che tuttora fa spesso riferimento l’espressione francese Moyen Orient e quella inglese Middle East).

Il più delle volte, però, per pervasiva influenza giornalistica anglo-americana, l’area tendenzialmente arabofona (allargabile quindi a occidente, fino a includere il Marocco), viene chiamata “Middle East” Medio Oriente ma quest’uso crea inevitabilmente confusione, perché l’uso del termine “medio” o “lontano” Oriente presuppone, per pura logica, che ne esista uno “vicino”. (Wikipedia)

[2] Il sito archeologico di Kültepe – che era la capitale dell’antico regno Assiro di Kanesh e il centro di una rete complessa di colonie commerciali assire nel II millennio prima di Cristo – è situato a 20 chilometri di distanza dalla odierna città di Kayseri. Il luogo, per la sua collocazione geografica, divenne un centro di scambi culturali e commerciali tra Anatolia, Sirua e Mesopotamia.

[3] L’esempio dell’Inghilterra e del Portogallo deriva dalla spiegazione che fornì Ricardo della teoria del vantaggio comparativo.

 

 

 

Il debito zombi della Cina (31 agosto 2015)

agosto 31, 2015

 

Aug 31 9:02 am

The China Debt Zombie

Matthew Klein notes that Very Serious People are now worried that China’s troubles, which have caused it to switch rather suddenly from a buyer of Treasuries to a seller, will cause U.S. interest rates to spike. He rightly finds this unconvincing. What he doesn’t note is we’re looking at another instance of an economic zombie in action.

For the new concern about China is, in economic terms, the same as the old concern – that the Chinese could destroy our economy by cutting off funding, either for political reasons or out of disgust over our budget deficits. This always reflected a fundamental failure to understand the economic logic, as was pointed out many times not just by yours truly (and much earlier here)but also by people like Dan Drezner. But scare stories about our supposed financial dependence on China just keep shambling along, propounded by people who don’t even realize that there are other views, let alone that they’re talking nonsense.

 

Il debito zombi della Cina

Matthew Klein osserva che adesso le Persone Molto Serie sono preoccupate che i guai della Cina, che l’hanno costretta a spostarsi all’improvviso da acquirente a venditrice di Buoni del Tesoro, provocheranno un’impennata nei tassi di interesse degli Stati Uniti. Giustamente egli lo trova non convincente. Quello che non nota è che siamo in presenza di un altro esempio di uno zombi economico in azione.

Perché la nuova preoccupazione sulla Cina, in termini economici, è la medesima preoccupazione del passato – che i cinesi potrebbero distruggere la nostra economia tagliando i finanziamenti, sia per ragioni politiche che per ripugnanza sui nostri deficit di bilancio. In ogni modo questo riflette una incapacità di fondo di capire la logica economica, come molte volte venne messo in evidenza dal sottoscritto (e molto prima in questa connessione) [1], ma anche da persone come Dan Drezner. Ma le storie terribili sulla nostra presunta dipendenza dalla Cina semplicemente continuano a vagare, proposte da individui che nemmeno si immaginano che ci siano altri punti di vista, a parte il fatto che dicono cose prive di senso.

 

[1] Le due connessioni nel testo inglese sono con i post di Krugman del 18 ottobre 2013, qua tradotto (“La sindrome del debito della Cina”) e del 15 marzo 2010 (“La pistola ad acqua della Cina”).

 

 

 

Ottusità artificiale (dal blog di Krugman, 29 agosto 2015)

agosto 29, 2015

 

Aug 29 9:17 am

Artificial Unintelligence

In the early stages of the Lesser Depression, those of us who knew a bit about the macroeconomic debates of the 1930s, and realized how relevant the hard-won insights of Keynes and Hicks were to the post-financial crisis world, often felt a sense of despair. Everywhere you looked, people who imagined themselves sophisticated and possessed of deep understanding were resurrecting 75-year-old fallacies and presenting them as deep insights.

A lot of water has passed under the bridge since then, and I at least no longer feel the same sense of despair. Instead, I feel an even deeper sense of despair — because people are still rolling out those same fallacies, even though in the interim those of us who remembered and understood Keynes/Hicks have been right about most things, and those lecturing us have been wrong about everything.

So here’s William Cohan in the Times, declaring that the Fed should “show some spine” and raise rates even though there is no sign of accelerating inflation. His reasoning:

The case for raising rates is straightforward: Like any commodity, the price of borrowing money — interest rates — should be determined by supply and demand, not by manipulation by a market behemoth. Essentially, the clever Q.E. program caused a widespread mispricing of risk, deluding investors into underestimating the risk of various financial assets they were buying.

Oh dear.

Cohan’s theory of interest rates is basically the old notion of loanable funds: the interest rate is determined by the supply of and demand for credit. As Keynes and Hicks explained three generations ago, this is a completely inadequate story — because it misses the reality that the level of income isn’t fixed, and changes in income affect the supply and demand for funds. So loanable funds doesn’t determine the interest rate; all it does is define a relationship between interest rates and income, the IS curve of the IS-LM model:

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What determines where we end up on that curve? Monetary policy. The Fed sets interest rates, whether it wants to or not — even a supposed hands-off policy has to involve choosing the level of the monetary base somehow, which means that it’s a monetary policy choice.

And how would you know if the Fed is setting rates too low? Here’s where Hicks meets Wicksell: rates are too low if the economy is overheating and inflation is accelerating. Not exactly what we’ve seen in the era of zero rates and QE:

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OK, there are arguments that the Fed should be willing to abandon its inflation target so as to discourage bubbles. I think those arguments are wrong — but in any case they have nothing to do with the notion that current rates are somehow artificial, that we should let rates be determined by “supply and demand”.

The worrying thing is that, as I’ve suggested, crude misunderstandings along these lines are widespread even among people who imagine themselves well-informed and sophisticated. Eighty years of hard economic thinking, and seven years of overwhelming confirmation of that hard thinking, have made no dent in their worldview. Awesome.

 

Ottusità artificiale

Nei primi stadi della Depressione Minore [1] coloro tra noi che conoscevano qualcosa dei dibattiti economici degli anni ‘30 e avevano compreso quanto rilievo avessero le preziose intuizioni di Keynes e di Hicks nel mondo della crisi post-finanziaria, provavano spesso un senso di sgomento. Dovunque si guardasse, individui che si immaginavano sofisticati e in possesso di una intelligenza profonda risuscitavano gli errori di 75 anni prima e li presentavano come grandi intuizioni.

Da allora è passata molta acqua sotto i ponti, e almeno io non sento più la stessa sensazione di sgomento. Ne sento, piuttosto, una ancora più profonda – perché la gente continua a mettere in circolazione gli stessi sbagli, anche se nel frattempo chi come noi ricordava ed aveva compreso Keynes/Hicks ha avuto ragione sulla maggioranza dei fatti, e coloro che ci davano lezioni hanno avuto torto quasi su tutto.

Ecco dunque William Cohan sul Times [2], che dichiara che la Fed dovrebbe “mostrare di avere un po’ di carattere” ed elevare i tassi anche se non c’è alcun segno di una accelerazione dell’inflazione. Questo il suo ragionamento:

“L’argomento per elevare i tassi è semplice: come ogni materia prima, il prezzo del prendere denaro a prestito – i tassi di interesse – dovrebbe essere determinato dall’offerta e dalla domanda, non dalla manipolazione di un gigante del mercato. In sostanza, l’intelligente programma della ‘facilitazione quantitativa’ ha provocato una generale cattiva valutazione del rischio, illudendo gli investitori in una sottostima del rischio di vari asset finanziari che stavano acquistando”.

Dio mio!

La teoria di Cohan dei tassi di interesse è fondamentalmente il vecchio concetto dei fondi mutuabili: il tasso di interesse è determinato dall’offerta e dalla domanda di credito. Come Keynes e Hicks spiegarono tre generazioni orsono, questa è una spiegazione completamente inadeguata – perché trascura il dato di fatto secondo il quale il livello del reddito non è fisso, e i mutamenti nel reddito influiscono sull’offerta e sulla domanda di finanziamenti. Dunque i finanziamenti mutuabili non determinano i tassi di interesse; tutto quello ch3e definiscono è una relazione tra tassi di interesse e reddito, la curva IS del modello IS-LM:

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Cos’è che stabilisce dove si va a finire su quella curva? La politica monetaria. La Fed stabilisce i tassi di interesse, che lo voglia o no – persino una presunta politica di non intervento deve in qualche modo includere la scelta del livello della base monetaria, il che significa che è una scelta di politica monetaria.

E come si potrebbe capire se la Fed sta fissando tassi troppo bassi? Qui è il punto nel quale Hicks incontra Wicksell: i tassi sono troppo bassi se l’economia si sta surriscaldando e l’inflazione sta accelerando. Non è proprio quello a cui abbiamo assistito in quest’epoca di tassi a zero e di facilitazione quantitativa:

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É vero, ci sono gli argomenti secondo i quali la Fed dovrebbe essere disponibile ad abbandonare il suo obbiettivo di inflazione in modo da scoraggiare le bolle. Io penso che tali argomenti siano sbagliati – ma in ogni caso essi non hanno niente a che fare con il concetto secondo il quale i tassi attuali sarebbero in qualche modo artificiali, e che dovremmo consentire ai tassi di essere determinati “dall’offerta e dalla domanda”.

L’aspetto preoccupante è che, come ho indicato, i banali fraintendimenti di questa natura sono generalizzati persino tra le persone che si reputavano ben informate e sofisticate. Ottant’anni di faticoso pensiero economico e sette anni di completa conferma di quel pensiero, non hanno per niente scalfito la loro concezione del mondo. Terribile.

 

 

 

[1] É una definizione della crisi del 2008, che più frequentemente viene chiamata Grande Recessione. Ovviamente, come ‘depressione’ è minore rispetto a quella degli anni ’30 (ma non per tutti i paesi), che come si sa viene chiamata “Grande Depressione”, mentre come ‘recessione’ si può definire ‘grande’ perché la recessione è un fenomeno meno intenso della depressione.

[2] In questo caso con Times si intende il New York Times, ovvero lo stesso giornale dove scrive Krugman, pagina dei commenti.

 

 

 

Il timore dell’asimmetria (28 agosto 2015)

agosto 28, 2015

 

Aug 28 9:57 am

Fear of Asymmetry

David Roberts has a very nice essay on American politics, framed as an analysis of what nerds don’t get; but it’s not just nerds who seem weirdly blind to the reality here.

One problem with the essay, however, is that Roberts never really explains why people who pride themselves on their ability to think things through slide into lazy cliches when it comes to politics. And that’s important: just lecturing Silicon Valley types on the need to get serious about politics won’t work if there are deeper reasons smart people get stupid when politics enters the picture.

Here’s how I see it: it’s about self-image. Tech types like to imagine themselves above the fray, operating on a higher plane than those grubby political types. But if you get serious about US politics, you realize that this is actually an irresponsible pose. As Roberts says, the parties are not symmetric, and wisdom does not lie somewhere between the extremists on both sides. In fact, policies that the tech elite support, like carbon taxes, are supported only by the left wing of the Democratic Party; the entire Republican Party is controlled by climate denialists, and anti-science types more broadly. And in general the modern GOP is basically anti-rational analysis; it’s at war not just with the welfare state but with the Enlightenment.

But for an ubernerd to acknowledge this reality would be to sound, horrors, partisan. And so they refuse to go there; all their belief in data and careful analysis gets set aside when it comes to politics, because the political data — and there really are a lot of data on all this — tell you what they don’t want to hear.

As readers might guess, I face some personal frustration here. When it comes to economics, I try to base what I say on evidence and on models that have stood the test of confrontation with evidence; but I often encounter people who assume that I’m just a left-wing version of Stephen Moore. Why do they believe that? Have they actually looked at my analysis and track record? No, they just know that I’m much more critical of the right than of the left, and they assume that this means ipso facto that I’m biased. But what if in modern America the right is much more wrong than the left? Not a possibility they’re willing to contemplate.

So are efforts to change this futile? I hope not. Roberts may well have the right approach: keep stressing the evidence of political asymmetry. Maybe, maybe, someone will listen.

 

Il timore dell’asimmetria

David Roberts pubblica un saggio molto bello sulla politica americana, inserito in una analisi di quello che fanatici delle tecnologie non capiscono; ma non sono solo quegli esperti un po’ secchioni, in questo caso, che sembrano curiosamente ciechi dinanzi alla realtà.

Un problema in quello studio, tuttavia, è che Roberts in realtà non spiega mai perché le persone che si inorgogliscono della loro capacità di analizzare a fondo le cose, scivolino su pigri cliché quando si passa alla politica. E c’è questo di importante: soltanto le lezioncine dei soggetti alla Silicon Valley sul bisogno di diventare seri in politica non funzioneranno, se ci sono ragioni più profonde per le quali le persone intelligenti diventano stupide quando la politica entra a far parte del quadro.

Ecco come io la vedo: si tratta della considerazione che si ha di se stessi. Gli individui che operano con le tecnologie credono di essere sopra la mischia, di operare su un piano più elevato di quei soggetti sgradevoli della politica. Ma se si affronta seriamente la politica degli Stati Uniti, si comprende che questo è effettivamente un atteggiamento irresponsabile. Come osserva Roberts, i partiti non sono simmetrici, e il buonsenso non si colloca in qualche punto tra le ali estreme di ambedue gli schieramenti. Di fatto, le politiche che gli esperti di tecnologie sostengono, come le tasse sul carbonio, sono sostenute solo dall’ala sinistra del Partito Democratico; l’intero Partito Repubblicano è sotto il controllo dei negazionisti del cambiamento climatico, e più in generale di individui ostili alla scienza. In generale il Partito Repubblicano si riduce fondamentalmente ad una analisi anti-razionale; è in lotta non solo contro lo stato assistenziale, ma con l’Illuminismo.

Ma per un superesperto, riconoscere questa realtà corrisponderebbe ad apparire partigiano in modo ripugnante. In tal modo essi rifiutano di collocarsi in tale posizione; quando si passa alla politica, tutta la loro fede nei dati viene messa da parte; perché i dati della politica – e in realtà in tutto questo c’è una grande quantità di dati – vi dicono quello che non volete sentir dire.

Come i lettori possono ben supporre, in questo caso io mi trovo dinanzi ad una frustrazione anche personale. Quando si tratta di economia, io mi sforzo di basare quello che dico sulle prove e su modelli che hanno retto la prova del confronto con i fatti; ma spesso incontro gente che suppone che io sia soltanto una versione di sinistra di Stephen Moore. Perché lo credono? Hanno effettivamente prestato attenzione alla mia analisi e alla mia storia intellettuale? Niente affatto, sanno soltanto che io sono molto più critico verso la destra che verso la sinistra, e suppongono che questo di per sé significhi che io abbia dei pregiudizi. Ma cosa fare se nell’America dei nostri tempi la destra ha molto più torto della sinistra? É una possibilità che non sono disponibili a contemplare.

Dunque, gli sforzi per cambiare tutto questo sono inutili? Io spero di no. É certamente possibile che Roberts abbia l’approccio giusto: continuare a mettere in rilievo le prove della asimmetria della politica. Qualcuno può darsi che alla fine ascolti.

 

 

Il 1998 nel 2015 (dal blog di Krugman, 28 agosto 2015)

agosto 28, 2015

 

Aug 28 9:32 am

1998 in 2015

David Beckworth has a good if possibly over-elaborate discussion of China’s flirtation with crisis. What I find striking is the extent to which China has managed to put itself into something like the situation many of its neighbors faced in the late 1990s. The renminbi “wants” to depreciate, partly because of a slowing economy and monetary easing, partly because of a crisis of confidence and capital flight. But Chinese authorities aren’t willing to let it drop all the way, perhaps because of fears of trade conflict but also perhaps because the private sector and state-owned enterprises now have a lot of foreign-currency debt.

What happened in 1997-1998 was that Asian depreciations turned into balance-sheet disasters, because domestic firms were highly leveraged and had lots of dollar debt. This debt soared as a share of GDP, not because of massive new borrowing, but because the denominator crashed as currencies plunged:

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International Monetary Fund

I and others wrote about this at the time; you can see, by the way, why I get annoyed at assertions that economists paid no attention to debt until the 2008 crisis, but also why I’m annoyed at myself for not realizing how a housing crash could produce balance-sheet stress just as currency crashes did in 1998 Asia.

Anyway, it looks like time to dust off the extensive analysis that took place back then. Obviously there are some important differences between China 2015 and Indonesia 1998, including huge foreign exchange reserves but also what looks like a much bigger and more problematic overhang of internal debt. But we do have a lot of material to draw on; no need to reinvent everything from scratch.

 

Il 1998 nel 2015

David Beckworth discute in modo interessante, anche se forse troppo elaborato, sulle ‘prove’ di crisi della Cina. Quello che io trovo sorprendente è la misura nella quale la Cina ha operato per finire in qualcosa di simile alla situazione che molti dei suoi vicini conobbero negli ultimi anni ’90. Il renmimbi “esige” una svalutazione, in parte per il rallentamento dell’economia e la facilitazione quantitativa, in parte per una crisi di fiducia ed una fuga dei capitali. Ma le autorità cinesi non sembrano disponibili a lasciarlo cadere completamente, forse per i timori di un conflitto commerciale, ma forse anche perché adesso il settore privato e le imprese di proprietà statale hanno una gran quantità di debito in valuta straniera.

Quello che accadde nel 1997-1998 fu che le svalutazioni asiatiche si trasformarono in disastri degli equilibri patrimoniali, perché le imprese nazionali erano altamente indebitate ed avevano una gran quantità di debiti in dollari. Come quota del PIL, questo debito salì alle stelle non per un massiccio nuovo indebitamento, ma perché il denominatore precipitò con il crollo delle valute [1]:

z 913

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fondo Monetario Internazionale

 

A quel tempo, assieme ad altri, scrissi su questo tema; per inciso potete capire perché sono infastidito dai giudizi secondo i quali gli economisti non avrebbero fatto attenzione al debito sino alla crisi del 2008, ma anche da me stesso, perché non avevo compreso che un crollo del settore immobiliare poteva produrre una tensione negli equilibri patrimoniali proprio come il crollo delle valute l’aveva provocata  nell’Asia del 1998.

In ogni modo, sembra sia il momento di dare una rispolverata all’ampia analisi che si impose allora. Ovviamente, ci sono importanti differenze tra la Cina del 2015 e l’Indonesia del 1998, comprese le vaste riserve di cambio straniere, ma anche quello che appare come un molto più grande e problematico eccesso del debito interno. Ma abbiamo molto materiale a cui attingere; non c’è bisogno di reinventare ogni cosa partendo da zero.

 

 

[1] La tabella mostra in particolare l’incremento del debito verso l’estero come percentuale del PIL nei paesi dell’Est asiatico che furono coinvolti nella crisi del 1997-1998.

 

 

 

L’anima reazionaria (26 agosto 2015)

agosto 26, 2015

 

Aug 26 7:13 am

The Reactionary Soul

Frank Bruni marvels at polls indicating that Donald Trump, with his multiple marriages and casinos, is the preferred candidate among Republican evangelicals. Others are shocked to see a crude mercantilist make so much headway in the alleged party of free markets. What happened to conservative principles?

Actually, nothing — because those alleged principles were never real. Conservative religiosity, conservative faith in markets, were never about living a godly life or letting the invisible hand promote entrepreneurship. Instead, it was all as Corey Robin describes it: Conservatism is

a reactionary movement, a defense of power and privilege against democratic challenges from below, particularly in the private spheres of the family and the workplace.

It’s really about who’s boss, and making sure that the man in charge stays boss. Trump is admired for putting women and workers in their place, and it doesn’t matter if he covets his neighbor’s wife or demands trade wars.

The point is that Trump isn’t a diversion, he’s a revelation, bringing the real motivations of the movement out into the open.

 

L’anima reazionaria

Frank Bruni si meraviglia dei sondaggi che indicano Donald Trump, con i suoi molteplici matrimoni e le sue case da gioco, come il candidato preferito tra i repubblicani evangelici. Altri sono stupiti di constatare che un rozzo mercantilista faccia tanti progressi in un partito che si vanta di essere a favore dei liberi mercati. Cosa è successo ai principi conservatori?

Per la verità niente, perché quei pretesi principi non sono mai stati reali. La religiosità dei conservatori, la fiducia dei conservatori nei mercati, non hanno mai avuto a che fare con esistenze devote o con il consentire che la ‘mano invisibile’ dei mercati promuova lo spirito imprenditoriale. Piuttosto, si è trattato di quello che Corey Robin descrive in questo modo. Il conservatorismo è:

“un movimento reazionario, una difesa del potere e del privilegio contro le sfide democratiche che vengono dal basso, in particolare nelle sfere private della famiglia e del posto di lavoro.”

In realtà la faccenda riguarda chi comanda, e il rendere indiscutibile che l’uomo di turno continui a comandare. Trump è ammirato perché mette le donne e i lavoratori al loro posto, e non ha importanza se concupisce la moglie del vicino o chiede guerre commerciali.

Il punto è che Trump non è una diversione, è una rivelazione, che porta allo scoperto le reali motivazioni del movimento.

 

Ossessioni innaturali (dal blog di Krugman, 25 agosto 2015)

agosto 25, 2015

 

Aug 25 10:56 am

Unnatural Obsessions

One enduring constant of the world economy since 2008 is the chorus of sober-sounding people declaring that the Fed must act responsibly and raise rates. A few years back, rising commodity prices and a flood of money into emerging markets were proof that low rates were dangerously inflationary and must be hiked. Now we have plunging commodity prices and a flood of money out of emerging markets; clearly, this shows that the Fed must do the right thing, and raise rates.

The underlying claim in all such demands is that the low interest rates we’ve had since 2008 are “unnatural” or “artificial”. So it’s probably worth repeating that while very low rates may seem strange, they also seem fully justified by the economic situation. The original Wicksellian concept of the natural rate of interest defined that rate as the rate consistent with stable prices, with an economy that was neither too hot nor too cold. If we had had an unnaturally low rate these past 7 years, we should have seen accelerating inflation; we haven’t.

Quantitative easing, by the way, is just more of the same. If you are claiming that the Fed has created artificially easy credit, you have to explain how it can do that year after year without producing inflation or an overheating economy. Nobody has ever produced a coherent story about how Fed policy can drive interest rates below their natural level without inflationary effects.

So even if you believe that a low-rate environment is helping to feed a series of bubbles, you have to ask how it can possibly make sense to raise rates when the underlying problem is overall economic weakness, which a rate hike would make worse.

One last point: many people have noted the resemblances between current events and the market instability of 1998. However, few have pointed out that the volatility of 1998 followed a long period in which long-term interest rates never dropped below 5 percent. Hot money doesn’t need ultra-low rates to be subject to enthusiasms and sudden losses of confidence.

 

Ossessioni innaturali

Una perdurante costante dell’economia mondiale dal 2008 è il coro delle persone che danno l’impressione di essere misurate, che dichiarano che la Fed deve agire responsabilmente ed elevare i tassi. Pochi anni fa, i prezzi crescenti delle materie prime ed una inondazione di capitali nei mercati emergenti erano la prova che i bassi tassi erano inflazionistici e dovevano essere rialzati. Oggi abbiamo i prezzi delle materie prime che crollano e flussi di capitali dai mercati emergenti; questo dimostrerebbe, senza ombra di dubbio, che la Fed deve fare la stessa cosa: alzare i tassi.

L’argomento implicito in tali richieste è che i bassi tassi che abbiamo a partire dal 2008 sono “innaturali” o “artificiali”. Dunque, forse è il caso di ripetere che se i tassi molto bassi possono sembrare strani, essi sembrano anche pienamente giustificati dalla situazione economica. L’originaria concezione wickselliana del tasso naturale di interesse [1] lo definisce come il tasso coerente con prezzi stabili, nel contesto di un’economia che non è né troppo surriscaldata né troppo fredda. Se avessimo avuto tassi innaturalmente bassi nei sette anni passati, avremmo dovuto avere una inflazione in accelerazione; non è quello che abbiamo.

Per inciso, per quanto concerne la ‘facilitazione quantitativa’, è più o meno la stessa cosa. Se state sostenendo che la Fed ha creato artificialmente un credito facile, dovete spiegare come ha potuto farlo anno dopo anno senza produrre inflazione o surriscaldamento dell’economia. Nessuno ha mai fornito una spiegazione coerente su come la politica della Fed possa condurre i tassi di interesse sotto il loro livello naturale, senza effetti inflattivi.

Così, anche se credete che un contesto di bassi tassi stia contribuendo ad alimentare una serie di bolle, dovete chiedervi come mai possa aver senso alzare i tassi quando il problema sottostante è quello di una generale debolezza dell’economia, che un rialzo dei tassi renderebbe peggiore.

Un ultimo punto: molte persone hanno notato le somiglianze tra gli eventi attuali e l’instabilità del mercato nel 1998. Tuttavia, pochi hanno messo in evidenza che la volatilità del 1998 faceva seguito ad un lungo periodo nel quale i tassi di interesse a lungo termine non erano mai scesi sotto il 5 per cento. I capitali vaganti non hanno bisogno di tassi ultra-bassi per essere soggetti ad entusiasmi ed a improvvise perdite di fiducia.

 

[1] Per una comprensione migliore del concetto di tasso di interesse naturale di Wicksell, si veda il post del 7 luglio 2014, dal titolo “Non è Knut”, qua tradotto.

 

 

 

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