Blog di Krugman

Sta diventando più stretta (25 agosto 2015)

 

Aug 25 9:21 am

It’s Getting Tighter

When thinking about the market madness and its possible real effects, here’s something you — where by “you” I mean the Fed in particular — really, really need to keep in mind: the markets have already, in effect, tightened monetary conditions quite a lot.

First of all, if break-evens (the difference between interest rates on ordinary bonds and inflation-protected bonds) are any guide, inflation expectations have fallen sharply:

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Second, while interest rates on Treasuries are down, rates on private securities viewed as even moderately risky are up quite a lot:

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So real borrowing costs are up sharply for many private borrowers. This is a significant headwind for the U.S. economy, which was hardly growing like gangbusters in any case.

A Fed hike now looks like an even worse idea than it did a few days ago.

 

 

Sta diventando più stretta

Quando pensate alla follia del mercato ed ai suoi possibili effetti reali, ecco qualcosa che voi dovreste proprio fissare nella vostra mente (e per “voi” mi riferisco in particolare alla Fed): in effetti, i mercati hanno già ristretto un bel po’ le condizioni monetarie.

Prima di tutto, se i break-even (la differenza tra i tassi di interesse sui bond ordinari e quelli sui bond protetti dall’inflazione) offrono una qualche indicazione, le aspettative di inflazione sono cadute bruscamente:

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In secondo luogo, mentre i tassi di interesse sui buoni del Tesoro sono scesi, quelli sui titoli privati considerati anche moderatamente rischiosi sono saliti non poco [1]:

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Dunque, i costi reali dell’indebitamento sono bruscamente saliti per molti debitori privati. Per l’economia americana questo è un significativo fattore negativo, ed essa difficilmente in ogni caso ha avuto un successo strepitoso.

In rialzo da parte della Fed sembra adesso un’idea persino peggiore di quanto non fosse pochi giorni fa.

 

 

[1] Per “private securities” si intende le azioni di imprese non ancora ‘riconosciute pubblicamente”, ovvero inserite nell’elenco di una Borsa. Gli investitori in “private securities” sono in genere compensati quando l’impresa privata: 1) viene riconosciuta ‘pubblicamente’; 2) viene venduta o si fonde con un’altra impresa; 3) viene ricapitalizzata. Di conseguenza si tratta di titoli altamente illiquidi.

Come si nota, le due tabelle indicano i valori in due periodo dell’anno (gennaio e luglio). Le considerazioni di Krugman, dunque, si riferiscono in particolare alle evoluzioni dei dati relativi al gennaio ed al luglio 2015: in calo per i Buoni del Tesoro ed in crescita per le “private securities”.

 

 

 

 

Stupidi racconti sulla Cina (24 agosto 2015)

agosto 24, 2015

 

Aug 24 8:15 pm

Stupid China Stories

So a stock crash in China triggered a big decline around the world, while I was trying to have a personal life (and succeeding, actually). Leaving aside whether this really made sense, why should events in China matter for the rest of us?

Well, you and I might think that it’s because China is a pretty big economy — a huge buyer of commodities and a significant importer of manufactured inputs too. So when China slumps, you can and should expect knock-on effects elsewhere.

But trust the Republican field to declare that it’s all Obama’s fault. Scott Walker wants Obama to cancel a state dinner with Xi; Donald Trump says that it’s because Obama has let China “dictate the agenda” (no, I have no idea what he thinks he means). And Chris Christie says that it’s because Obama has gotten us deep into China’s debt.

Actually, let’s play a bit with that last one, OK? You could, conceivably, tell a story in which America becomes dependent on Chinese loans; then, when China gets in trouble, it demands repayment, pushing us into crisis too. But any story along those lines has a corollary: we should be seeing a spike in US interest rates as our credit line gets pulled. What you actually see is falling rates:

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10-year Treasury Bloomberg News

Oh, why am I even bothering?

But remember: all the experts said that the GOP had an unusually strong field, a very deep bench, a lot of talent running for president.

 

Stupidi racconti sulla Cina

Dunque un crollo azionario in Cina ha innescato un grande declino in tutto il mondo, mentre io stavo cercando di curare un po’ la mia vita privata (e con successo, in effetti). Lasciando da parte se tutto questo abbia avuto senso, perché gli eventi in Cina dovrebbero avere importanza per tutti gli altri?

Ebbene, potreste pensare che dipenda dal fatto che la Cina è un’economia abbastanza grande – un grande acquirente di materie prime ed un significativo importatore di prodotti manifatturieri primari. Dunque, quando la Cina va in crisi, si può e ci si dovrebbe aspettare effetti a catena dappertutto.

Ma prendete in parola lo schieramento repubblicano, che sostiene che è tutta colpa di Obama. Scott Walker vuole che Obama cancelli una cena di Stato con Xi; Donald Trump dice che dipende dal fatto che Obama ha permesso alla Cina di “dettare l’agenda” (non ho proprio idea di cosa intenda). E Chris Christie dice che è perché Obama ci ha coinvolti troppo nel debito della Cina.

In effetti, se siete d’accordo, possiamo giocare un po’ con quest’ultima. Potreste concepibilmente raccontare una storia nella quale l’America diventa dipendente dai prestiti cinesi; poi, quando la Cina finisce nei guai, ci chiede di rientrare, spingendo anche noi nella crisi. Ma ogni storia del genere ha un corollario: dovremmo vedere una risalita nei tassi di interesse degli Stati Uniti quando la nostra linea di credito viene rimossa. Per la verità, quello che si vede sono tassi in discesa:

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Buoni del Tesoro decennali. Bloomberg News

 

Suvvia, perché mai sto perdendo il mio tempo?

Eppure, tenetelo a mente: tutti gli esperti hanno detto che il Partito Repubblicano era disposto in campo in modo inusualmente efficace, con una panchina molto ricca, una quantità di talenti che corrono per la presidenza.

 

La febbre del rialzo dei tassi (dal blog di Krugman, 24 agosto 2015)

agosto 24, 2015

 

Aug 24 7:48 am

Rate Hike Fever

 

Larry Summers argues that a Fed rate hike would be a big mistake; I completely agree. Yet he also suggests that the Fed “seems set” to do this foolish thing. Why?

What’s odd about this debate is that it’s not like debating monetary policy with conservatives whose doctrine tells them that fiat money will turn us into Zimbabwe any day now, and are impervious to evidence. The Fed chair is Janet Yellen; the vice chair is Stan Fischer; both are, as Brad DeLong emphasizes, salt-water economists whose underlying macro worldview is surely very much like Larry’s, or mine, not least because we studied under Stan himself. So why the difference on policy?

Surely it has something to do with where people are sitting; something about being on the inside is making the Fedsters more rate-hike prone than those of us on the outside. It might be regular contact with Wall Street types — but Larry actually has plenty of that too. I don’t think it’s extra information: basically the Fed knows no more than anyone keeping reasonably close tabs on the economy, whatever snippets of supposed inside info it may get, and I believe that Janet and Stan are smart and level-headed enough to get that.

Pressure from the usual suspects — the constant sniping against easy money — may play a role. But I also suspect that a lot has to do with the urge to resume a conventional central-banker role. The whole culture of central banks involves saying no to stuff people want, taking away the punch bowl as the party gets going, having the courage to do unpopular things; everyone wants to be Paul Volcker. The Fed is really, really eager to return to that position — and is, I fear, engaging in wishful thinking, believing much too readily that a return to normalcy is appropriate.

It’s not. I’m with Larry here: this attitude has the makings of a big mistake. Think Japan 2000; think ECB 2011; think Sweden. Don’t do it.

 

La febbre del rialzo dei tassi

Larry Summers sostiene che il rialzo dei tassi da parte della Fed sarebbe un grande sbaglio; sono del tutto d’accordo. Eppure egli suggerisce anche che la Fed “sembra pronta” a fare questa sciocchezza. Perché?

Quello che è curioso in questo dibattito è che esso non è come discutere di politica monetaria con i conservatori, la dottrina dei quali afferma che emettere valuta ci trasformerà un giorno o l’altro nello Zimbabwe, e che sono impermeabili ai fatti. La Presidentessa della Fed è Janet Yellen, il Vicepresidente è Stan Fischer; entrambi, come mette in rilievo Brad DeLong, sono economisti della scuola dell’ “acqua salata” [1], il cui implicito orientamento macroeconomico di sicuro è molto simile a quello di Larry, o al mio, se non altro perché abbiamo avuto Stan medesimo come docente. Perché, dunque, questa diversità sulle scelte da assumere?

Sicuramente, essa ha qualcosa a che fare con la collocazione delle persone; una cosa per la quale essere tra gli addetti si lavori rende gli uomini della Fed più inclini al rialzo dei tassi, rispetto a quelli che come noi sono all’esterno. Può trattarsi dei rapprti costanti con i soggetti di Wall Street – ma in effetti anche Larry ne ha una gran quantità. Né penso si tratti di informazioni aggiuntive: fondamentalmente la Fed non ne sa di più di chiunque si tenga ragionevolmente vicino ai tabulati sull’economia, qualsiasi ritaglio di presunte informazioni interne possa ottenere, e credo che Janet e Stan siano abbastanza svegli ed assennati da rendersene conto.

La pressione da parte dei soliti noti – il costante prendere di mira la cosiddetta politica della moneta facile – può esercitare un peso. Ma io ho anche il sospetto che tutto ciò abbia a che fare con il bisogno di riassumere un ruolo convenzionale da banchiere centrale. La cultura complessiva delle banche centrali include il saper dire dei no alle cose che vuole la gente, togliendo di mezzo la tazza del punch quando la festa comincia a riscaldarsi [2], avendo il coraggio di fare cose impopolari; tutti vogliono essere dei Paul Volcker. La Fed ha un grandissimo desiderio di tornare a quella condizione – e io temo che si stia facendo condizionare da ragionamenti ottimistici, credendo con troppa facilità che la cosa appropriata sia un ritorno alla normalità.

Non è così. In questo caso sono d’accordo con Larry: questa attitudine ha tutti gli ingredienti di un errore grave. Si pensi al Giappone del 2000; si pensi alla Banca Centrale Europea del 2011; si pensi alla Svezia. Non fatelo.

 

[1] Vedi per le teorie e le scuole economiche “fresh-water” e “salt-water”, le note sulla traduzione.

[2] Ovvero, restringendo la politica monetaria quando l’economia comincia a girare, a riprendersi. Come in una festa, nella quale si tolgono gli alcolici quando c’è troppa allegria.

 

 

 

Nessuno lo poteva prevedere, versione tassi di interesse (23 agosto 2015)

agosto 23, 2015

 

Aug 23 5:55 pm

Nobody Could Have Predicted, Interest Rates Edition

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Sorry about sparsity of posts; on the road for family reasons, with real life getting in the way of digital. But I did see a number of people praising remarks from Charlie Munger declaring himself “flabbergasted” by low interest rates, with a sideswipe at anyone who claims to have had some inkling:

I think everybody’s been surprised by it, including all the people who are in the economics profession who kind of pretend they knew it all along. But I think practically everybody was flabbergasted. I was flabbergasted when they went low; when they went negative in Europe – I’m really flabbergasted.

Well, negative rates were a big shock; I had thought they were ruled out by the possibility of holding cash, and hadn’t thought the mechanics through. But this kind of “nobody saw it coming” remark is, if you ask me, a big dodge, an evasion of responsibility.

For sure, nobody saw negative rates coming, and few predicted that rates would stay this low this long. But there were different degrees of wrongness here. Read that WSJ piece, or anything just about everyone on the “Eek! Deficits!” side was saying, and compare it with, say, what I had to say. One reveals a world-view that has been utterly refuted by events; the other looks pretty good in the light of experience.

Pretending that everyone was equally flummoxed may make those who really were clueless feel better, but it’s not the truth.

 

Nessuno lo poteva prevedere, versione tassi di interesse

REVIEW & OUTLOOK
I GUARDIANI DEI BOND

Ritornano gli inflessibili attori della politica degli Stati Uniti

29 maggio 2009, ore 12,01

Spiacente per la scarsità dei post; sono in giro per ragioni familiari, con la vita reale che si mette di mezzo a quella digitale. Ma ho notato che un certo numero di persone elogiano le osservazioni di Charlie Munger [1], il quale si dichiara “stupefatto” per i bassi tassi di interesse, con una frecciata verso chiunque sostenga di averne avuto una qualche percezione:

“Penso che tutti ne siano rimasti sorpresi, inclusi quegli economisti di professione che in qualche modo pretendono di averlo saputo sin dall’inizio. Ma io penso che praticamente tutti siano rimasti stupiti. Io lo fui quando i tassi si abbassarono; da quando sono entrati in territorio negativo, in Europa, sono davvero sbigottito.”

Ebbene, i tassi negativi sono stati un grande shock; io avevo pensato che essi fossero esclusi per la possibilità di detenere contante, e non avevo riflettuto completamente sui meccanismi. Ma questa faccenda del “nessuno l’aveva previsto”, se volete la mia opinione, è un grande espediente, un modo per eludere le proprie responsabilità.

Di certo, nessuno aveva previsto che si arrivasse ai tassi negativi e in pochi avevano previsto che i tassi sarebbero rimasti bassi così a lungo. Ma ci sono stati gradi diversi di errore. Leggete l’articolo del Wall Street Journal [2], oppure quello che praticamente tutti, nello schieramento dell’ “Oddio, il deficit!”, sostenevano, e confrontatelo con quello che io ebbi a dire [3]. Uno rivela una concezione del mondo che è stata completamente smentita dai fatti; l’altro, alla luce dell’esperienza, sembra abbastanza soddisfacente.

Pretendere che tutti siano rimasti sconcertati nello stesso modo può far apparire migliori quelli che non avevano la minima idea, ma non è la verità.

 

[1] E’ il Vicepresidente di Berkshire Hathaway, novantunenne.

[2] Il titolo dell’articolo e riprodotto in cima al post.

[3] Il riferimento è ad un post di Krugman del 2 maggio 2009, dal titolo “Preferenza per la liquidità, fondi mutuabili e Niall Ferguson”.

 

 

 

Carter, Reagan e Machiavelli (21 agosto 2015)

agosto 21, 2015

 

Aug 21 3:28 pm

Carter, Reagan, and Machiavelli

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Rex Nutting has a very nice article about the reality of Jimmy Carter’s presidency, which has been distorted out of recognition by the myth of Saint Reagan. As he points out, Carter presided over faster average job growth and lower unemployment than Reagan; unfortunately for Carter, his timing was bad, with vigorous growth for most of his presidency but a recession at the end.

Or to be more specific: the Federal Reserve put the US economy through the wringer from 1979 to 1982 in order to bring inflation down. Carter presided over the first part of that double-dip recession, and got wrongly blamed for it; Reagan presided over the second part, and wrongly got credit for the later recovery.

What you see in all this is the remarkable political dominance of recent rates of change over even medium-term comparisons. The chart shows real median family income, which rose a lot through 1979, and was still far from having returned to that peak by the end of Reagan’s first term. Nonetheless, Carter was booted from office amid derision — “are you better off now than you were four years ago?” (actually yes), while Reagan won a landslide as a triumphant economic savior.

But Machiavelli knew all about this:

Hence it is to be remarked that, in seizing a state, the usurper ought to examine closely into all those injuries which it is necessary for him to inflict, and to do them all at one stroke so as not to have to repeat them daily.

Make sure that the bad stuff happens early in your rule; then you can claim credit when things get better, even if you leave the nation in a worse condition than it was when you arrived.

 

Carter, Reagan e Machiavelli

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Rex Nutting ha un articolo molto bello sulla realtà della presidenza di Jimmy Carter, che venne radicalmente distorta dal mito di San Reagan. Come egli mette in evidenza, Carter fu Presidente in un periodo di crescita media dei posti di lavoro più rapida e di disoccupazione minore che Reagan; sfortunatamente per Carter, la sua tempistica fu negativa, con una crescita vigorosa per gran parte della sua presidenza ma con una recessione alla fine.

Oppure, per essere più precisi: la Federal Reserve mise a dura prova l’economia americana dal 1979 al 1982 allo scopo di abbassare l’inflazione. Carter presiedette nella prima parte di quella recessione a due punte [1], e venne erroneamente incolpato per questo; Reagan presiedette nella seconda parte, ed erroneamente ottenne il merito della successiva ripresa.

Quello che in tutto questo si osserva è la considerevole prevalenza dei tassi più recenti di cambiamento, rispetto ai confronti di medio periodo. Il diagramma mostra il reddito reale mediano di una famiglia, che salì molto nel corso del 1979, ed era ancora lontano da tornare a quel picco alla fine del primo mandato di Reagan. Ciononostante, Carter fu mandato a casa in mezzo alla derisione (“state meglio ora, rispetto a come eravate quattro anni orsono?” – per la verità, sì), mentre Reagan ottenne una vittoria schiacciante alla stregua di un trionfale salvatore dell’economia.

Ma di queste cose Machiavelli sapeva tutto:

“Quindi, deve essere sottolineato che, nell’impadronirsi di uno Stato, l’usurpatore dovrebbe esaminare attentamente tutte quelle ingiurie che è indispensabile che egli infligga, e arrecarle tutte in un colpo, in modo da non doverle ripetere quotidianamente.”

Assicuratevi che le cose negative accadano agli inizi del vostro incarico; dopodiché potete vantare credito quando le cose vadano meglio, anche se lasciate la nazione in una condizione peggiore di quella in cui era quando siete arrivati.

 

 

 

 

[1] Ovvero, un periodo nel quale ad una prima recessione ne seguì una seconda a breve termine, al punto di configurarsi in pratica come un fenomeno economico unitario.

 

 

 

Follie classificatorie (21 agosto 2015)

agosto 21, 2015

 

Aug 21 2:00 pm

Classification Follies

The Clinton email “scandal” goes on — still no sign that she broke any rules, no sign that she sent or received anything labeled “classified”, but she may have received and even forwarded items that were later classified or “should” have been classified. By normal human standards this is a big nothing; but Clinton Rules apply, under which malign behavior is the default assumption and where there’s smoke there must be fire even if everyone knows that the usual suspects are operating big smoke machines. How many people still think that there really was a Whitewater scandal, or for that matter that Hillary is the subject of a criminal investigation?

But Jeffrey Toobin adds a further twist: to the extent that some things may have been classified after the fact, it’s a very good guess that they shouldn’t have been — because the government classifies everything.

I know a bit about this from first-hand, if very old, experience. I was the senior international economist at the Council of Economic Advisers in 1982-83. (Yes, Reagan was president, but it was a technocratic post. The senior domestic economist was a guy named Lawrence Summers. Whatever happened to him?) And I received a lot of reports labeled SECRET NOFORN NOCONTRACT PROPIN ORCON (maybe out of date — no foreign nationals, no contractors, proprietary information, origin controlled). I can’t remember a single document so labeled with information that was remotely sensitive — or for that matter, with stuff that you couldn’t read in the Times or the Post.

Pretty soon, by the way, I got casual. We had a security officer who would come through offices at night, and if he found classified material left out he would take it away, put it in the safe, and issue a demerit. Luckily, the chairman got even more black marks than I did.

Of course, I wasn’t working in an area of genuine security concerns. But that’s kind of the point.

 

Follie classificatorie [1]

Lo scandalo delle mail della Clinton va avanti – non c’è ancora alcun segno che ella abbia violato nessuna regola, nessun segno che abbia spedito o ricevuto niente di etichettato come “classificato”, ma essa può aver ricevuto o anche inviato comunicazioni che successivamente sono state classificate, o ‘dovrebbero’ essere state classificate. Secondo le regole delle persone normali questo corrisponde ad un niente assoluto; ma qua si applicano le Regole dei Clinton, secondo le quali un comportamento diffamante è la premessa di una inadempienza e dove c’è del fumo ci deve essere anche dell’arrosto, pur sapendo tutti che i soliti noti sono al lavoro con le macchine fumogene. Quante persone stanno ancora pensando che ci sia stato effettivamente uno scandalo Whitewater, oppure che per quel motivo Hillary sia soggetta ad una inchiesta penale.

Ma Jeffrey Toobin aggiunge un ulteriore colpo di scena: nella misura in cui alcune cose possono essere classificate a cose fatte, si può ben supporre che esse non avrebbero dovuto essere fatte, dato che il Governo classifica ogni cosa.

Conosco un po’ di queste faccende per esperienza personale, sebbene una esperienza abbastanza antica. Negli anni 1982-83 ero l’esperto di economia internazionale senior presso il Consiglio dei consulenti Economici [2] (sì, Reagan era Presidente, ma il mio era un incarico tecnico. L’esperto di economia nazionale era un tizio di nome Lawrence Summer. Cosa caspita gli è successo?) Ricevetti una quantità di rapporti etichettati SECRET NOFORN NOCONTRACT PROPIN ORCON (forse un linguaggio datato. Sta per: esclusi cittadini stranieri, esclusi collaboratori, informazione protetta, provenienza controllata). Non mi riesce di ricordare nessun documento etichettato in questo modo che contenesse informazioni neanche lontanamente sensibili – ovvero, per dirla tutta, informazioni che non si potessero leggere sul Times o sul Post.

Per inciso, abbastanza presto smisi di curarmene. Avevamo un dirigente della sicurezza che passava negli uffici di notte, e se trovava materiale classificato fuori posto, l’avrebbe sequestrato, messo al sicuro ed emessa una nota di biasimo. Fortunatamente, il Presidente del Consiglio ebbe note di biasimo persino maggiori delle mie.

Ovviamente, non stavo lavorando in un’area con reali preoccupazioni di sicurezza. Ma questo è il genere di problema.

 

[1] Proviamo anzitutto a chiarire questa questione della “classificazione”, senza di che è difficile comprendere il post. La signora Clinton è accusata nientedimeno che di aver usato il suo personale indirizzo di posta elettronica per spedire o ricevere mail, quando era Segretario di Stato. La colpa, o addirittura il reato, sarebbe quello di aver compromesso la segretezza di informazioni riservate. Ma la Clinton ha chiarito di non aver mai né trasmesso né ricevuto niente che fosse classificato come riservato. Verrebbe da aggiungere che questo accade in un mondo nel quale le cose massimamente riservate non possono esserlo, dato che Wikileaks provvede a renderle pubbliche!

Ora il problema sta diventando il seguente: se quello che la Clinton sapeva non essere classificato come riservato, lo fosse diventato successivamente, per effetto di ‘classificazioni’ più severe? E se addirittura niente praticamente sia non riservato, perché la prassi della burocrazia americana è quella, prima o poi, di classificare come riservato tutto?

In sostanza, uno scandalo piuttosto pretestuoso.

[2] Ovvero, l’organo di consulenza del quale si avvale il Presidente degli Stati Uniti.

 

 

 

Racconti di fate (21 agosto 2015)

agosto 21, 2015

 

Aug 21 10:14 am

Fairy Tales

Brad DeLong is searching for the origins of the phrase “confidence fairy”. I’m pretty sure — you can never be completely sure, because things can stick in your mind — that it was an original coinage on my part, a snappy way to characterize the deep implausibility of the Alesina-Ardagna stuff that was sweeping Brussels and other corridors of power in 2010. Since then, a lot of further evidence has come in — and all of it confirms the original critique.

But confidence-fairy type arguments and critiques of the same go back a long way, of course. And there’s a reason. As Mike Konczal, channeling Kalecki, pointed out some time ago, arguments rejecting Keynes and declaring that only business confidence can achieve full employment serve a very useful political purpose: they empower plutocrats and big business, while rendering populists impotent.

This is the story of Greece right now. Euro membership — and the unwillingness of Tsipras and co to take the risks of a plan B — have left Syriza with no policy tools, nothing it can do except try to placate investors, which means not just macro punishment but the forced adoption of policies like privatization.

And this speaks to the wider point of the politicization of macroeconomics. Why did freshwater macroeconomists refuse to learn from the lessons of the Volcker recession and recovery, which clearly refuted their approach and supported some kind of Keynesian view on monetary policy? Why has the overwhelming recent evidence for a Keynesian view of fiscal policy been ignored? You might think that business, at least, would welcome policies that boost sales; but the ideology of confidence must be defended.

 

Racconti di fate

Brad DeLong è alla ricerca delle origini della espressione “fata della fiducia”. Sono abbastanza sicuro – non si può essere mai completamente sicuri, perché talvolta ci sono cose che si fissano nella mente – che il neologismo fu una mia invenzione, un modo brillante per caratterizzare la profonda improbabilità della presunta teoria di Alesina-Ardagna che stava dilagando a Bruxelles e in altri corridoi del potere nel 2010. Da allora, sono intervenute una quantità di ulteriori testimonianze – e confermano tutte la critica originaria.

Ma, ovviamente, gli argomenti del genere di quello della ‘fata della fiducia’ e le critiche dello stesso genere risalgono a molto addietro. Come un po’ di tempo fa mise in evidenza Mike Konczal, rimettendo in circolazione Kalecki, le tesi che rigettano Keynes e affermano che soltanto la fiducia delle imprese può realizzare la piena occupazione servono ad un proposito politico molto conveniente: rafforzano i plutocrati e le grandi imprese, mentre rendono impotenti coloro che si battono per gli interessi della gente [1].

Questa è la storia della Grecia in questo momento. I membri dell’euro – e la indisponibilità di Tsipras e compagni di assumersi i rischi di un Piano B – hanno lasciato Syriza senza alcun strumento politico, niente che possa utilizzare se non cercare di placare gli investitori, il che significa non solo una punizione da un punto di vista macroeconomico, ma la obbligata adozione di politiche come la privatizzazione.

E questo la dice lunga sul tema più ampio della politicizzazione della macroeconomia. Perché i macroeconomisti dell’ “acqua dolce” [2] si rifiutano di imparare le lezioni della recessione e della ripresa di Volcker, che confuta con evidenza il loro approccio ed offre in qualche modo sostegno al punto di vista keynesiano sulla politica monetaria? Perché la schiacciante recente evidenza del punto di vista keynesiano sulla politica della spesa pubblica è stato ignorata? Potreste pensare che le imprese, come minimo, saluterebbero con favore politiche che incoraggiano le vendite; ma l’ideologia della fiducia deve essere salvaguardata.

 

[1] Come si è notato varie volte, il termine “populist”, nel linguaggio politico americano, non ha affatto necessariamente una valenza negativa, perché sta a indicare una posizione che semplicemente si ispira a interessi e bisogni diffusi della popolazione, senza alcun complesso di ‘correttezza’ politica. In pratica, è impossibile tradurlo con “populista”.

[2] Per una migliore comprensione di questa ‘scuola’ di economisti americani, vedi le note sulla traduzione.

 

 

 

Il lato negativo della mobilità del lavoro (dal blog di Krugman, 14 agosto 2015)

agosto 14, 2015

 

The Downside of Labor Mobility

August 14, 2015 11:49 am

The theory of optimum currency areas is one of those old-fashioned pieces of macroeconomics — like IS-LM, the concept of the liquidity trap, and the theory of secular stagnation — that has turned out to be extremely relevant and useful to the world since 2008. So this is a version of Mark Thoma’s dictum that new economic thinking involves reading old books (or in this case articles). Still, we do learn some new things. And what we’ve learned lately, I’d argue, is that labor mobility — which was supposed to be good, and a prerequisite for currency union — is actually much more problematic than we knew.

In my somewhat stylized intellectual history, we owe OCA theory to three main players: Robert Mundell, Ron McKinnon, and Peter Kenen. All three assumed, realistically, that wages and prices are sticky, so that fixing your exchange rate or adopting a shared currency imposes costs in the form of making it harder to adjust to “asymmetric shocks” that depress your economy relative to trading partners. These costs must be set against the benefits of making business across borders easier and more certain. The question then becomes how the characteristics of an economy affect that tradeoff.

In Mundell’s original version the key question was labor mobility: if workers moved freely and rapidly from slumping to booming regions, asymmetric shocks became a much smaller problem. One of the arguments American euroskeptics used to make was that Europe was less suited to a single currency because it lacked America’s extremely high interstate mobility of labor.

McKinnon offered a different criterion — the share of tradables in output; basically that required relative price adjustments would be smaller in very open economies, and also that having more transactions would increase the benefits of a common currency.

Finally, Kenen argued that fiscal integration or the lack thereof was crucial, that it mattered a great deal whether depressed regions would be cushioned by paying less in taxes and receiving more in benefits from the core.

So what have we learned? I’d say that we’ve learned that Kenen trumps Mundell — that in the absence of effective fiscal integration, labor mobility makes a currency union worse, not better.

I’ve said this before, but it seems worth emphasizing again in the light of this FT report on Portugal’s “perfect demographic storm.” The debt crisis in Portugal, it turns out, looks alarmingly like the trigger for an economic death spiral: a depressed economy is leading to large-scale emigration of working age Portuguese (also lower fertility, although this will take longer to matter), undermining the tax base, making an exit from crisis even harder. It’s not easy to see how this ends before you’re left with a rump nation of old people with no resources to care for them.

Regional economies in the US are less vulnerable to this sort of thing, although our imperfect fiscal integration means that it can still happen to some degree: Puerto Rico is also in a sort of death spiral of emigration and fiscal stress, but the degree of hardship is much less thanks to the national safety net.

But the point is that the Single European Act, which was among other things supposed to prepare the ground for a shared currency, may actually have interacted with the failure to integrate fiscal matters in such a way as to create a whole new kind of catastrophe.

Your cheery euro-thought of the day.

 

Il lato negativo della mobilità del lavoro

La teoria dell’area valutaria ottimale è una di quelle parti della macroeconomia che un tempo andavano per la maggiore – come il modello IS-LM, il concetto di trappola di liquidità e la teoria della stagnazione secolare – che si è rivelata estremamente rilevante e utile per il mondo a partire dal 2008. Dunque, è una versione della massima di Mark Thoma, secondo la quale il nuovo pensiero economico riguarda la lettura di vecchi libri (o, come in questo caso, di articoli). Eppure, è indubbio che impariamo cose nuove. E quello che abbiamo imparato di recente, questo è il mio giudizio, è che la mobilità del lavoro – che si pensava fosse una cosa buona e un prerequisito per una unione valutaria – è effettivamente molto più problematica di quello che sapevamo.

Secondo una mia specie di stilizzata storia intellettuale, noi siamo debitori dell’Area Valutaria Ottimale a tre principali protagonisti: Robert Mundell, Ron McKinnon e Peter Kenen. Tutti e tre considerarono, realisticamente, che i prezzi ed i salari sono tendenzialmente rigidi, cosicché tener fisso il tasso di cambio o adottare una valuta condivisa impone dei costi, nella forma di rendere più difficile la correzione degli “shock asimmetrici” [1] che deprimono un’economia in relazione ai suoi partner commerciali. Questi costi possono essere riconosciuti, a fronte dei benefici del rendere le attività economiche da una parte e dall’altra dei confini più facili e certe. La domanda allora diventa quella di come la caratteristiche di un’economia influenzano quello scambio.

Nell’originale versione di Mundell, la questione chiave era quella della mobilità del lavoro: se i lavoratori si muovono liberamente e rapidamente dalle regioni in crisi a quelle in espansione, gli shock asimmetrici diventano un problema molto minore. Uno degli argomenti che gli euroscettici americani erano soliti avanzare, era che l’Europa era molto meno adatta ad una singola valuta perché essa non aveva la mobilità del lavoro estremamente elevata dell’America.

Un diverso criterio venne offerta da McKinnon – il peso nella produzione dei beni scambiabili; fondamentalmente il fatto che le necessarie correzioni ai prezzi relativi sarebbero state minori in economie molto aperte, ed anche che le maggiori transazioni avrebbero aumentato i benefici di una valuta comune.

Infine, Kenen sosteneva che l’integrazione delle finanze pubbliche, o la sua mancanza, sarebbe stata cruciale, che avrebbe avuto una grande importanza se (le difficoltà economiche in) regioni depresse fossero state attenuate dal pagare minori tasse e ricevere più sussidi dal centro.

Dunque, cos’è che abbiamo imparato? Direi che abbiamo imparato che Kenen ha battuto Mundell – che in assenza di una effettiva integrazione della finanza pubblica, la mobilità del lavoro peggiora le condizioni di un’unione valutaria, non le migliora.

L’ho detto in passato, ma sembra utile insisterci ancora oggi alla luce di questo rapporto del Financial Times [2] “sulla tempesta demografica perfetta” del Portogallo. Si scopre che la crisi del debito in Portogallo appare, in modo allarmante, come l’innesco di una spirale fatale nell’economia: una economia depressa sta portando ad una emigrazione dei portoghesi in età lavorativa su larga scala (anche ad una più bassa fertilità, per quanto questa richieda più tempo per manifestarsi), mettendo in crisi la base fiscale e rendendo ancora più difficile un’uscita dalla crisi. Non è facile accorgersi dell’effetto finale di tutto questo, finché non si resta con una nazione superstite di persone anziane, senza risorse per accudirle.

Le economie regionali negli Stati Uniti sono meno vulnerabili da questo genere di fenomeni, sebbene la nostra imperfetta integrazione delle finanze pubbliche comporti che ciò in una qualche misura possa ancora accadere: Porto Rico rappresenta anche una sorta di spirale fatale dell’emigrazione e della pressione finanziaria, ma il grado di difficoltà è molto minore grazie alla rete nazionale di sicurezza sociale.

Ma il punto è che l’Atto Unico Europeo [3], che tra le altre cose si supponeva preparasse il terreno per una moneta unica, può effettivamente aver interagito con gli aspetti della mancata integrazione delle finanze pubbliche in un modo che ha determinato un genere di catastrofe interamente nuova.

Il vostro allegro euro-pensiero del giorno.

 

[1] Come si intuisce, per “shock asimmetrico” si intende semplicemente la conseguenza di fenomeni – ad esempio una perdita di competitività, l’effetto di un ritardo nella tecnologia, l’effetto di un ritardo nella dotazione di infrastrutture o nei costi energetici, andamenti molto diversi nelle bilance commerciali etc. – che finiscono col mettere in difficoltà un paese in relazione agli altri paesi che si avvalgono della stessa moneta.

[2] L’articolo sul rapido declino demografico del Portogallo è apparso il 12 agosto su Financial Times, a cura di Peter Wise.

[3] L’Atto Unico Europeo fu la prima importante revisione del Trattato di Roma del 1957. Venne siglato a Lussemburgo e all’Aia, rispettivamente il 16 ed il 28 febbraio del 1986, ed entrò in funzione con la Commissione Delors il 1 luglio 1987.

 

 

 

La Cina del 2015 non è quella del 2010 (dal blog di Krugman, 13 agosto 2015)

agosto 13, 2015

 

Aug 13 10:09 am

China 2015 Is Not China 2010

If there is a central policy theme to Donald Trump’s candidacy other than immigration — actually, there isn’t, but there are some particular things he bellows about — it’s China-bashing. The unifying principle is probably xenophobia; but anyway, China’s currency moves are about to become a US political issue. And pretty soon, I expect, people will point out that some liberals also used to complain about Chinese currency manipulation.

But that was a while ago — mainly in 2010. And the underlying situation has changed, a lot.

First of all, China has experienced a very large real appreciation since 2011, partly due to higher inflation than in its trading partners, partly because its dollar peg means that it has tagged along with the rising dollar (which was supposed to plunge due to QE, but never mind):

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It’s true that China’s real exchange rate has trended upward for a long time, and that this didn’t lead to a loss of competitiveness until recently — mainly because of Balassa-Samuelson and other effects of rising productivity. But with Chinese growth slowing and the pace of appreciation rising — and with rising competition from other emerging markets — the past five years almost surely have brought a major reduction in competitiveness. It’s perfectly consistent to believe that China was destructively undervalued in 2010 but overvalued now.

Meanwhile, China’s domestic economy has clearly weakened, creating a clear case for looser monetary policy. It’s nothing like the situation in 2010, when China was struggling to contain an overheating economy.

We might also note that America is in a different situation too. I still believe it would be a big mistake for the Fed to raise rates, but the fact that we’re even close enough that it’s on the table means that we’re not as deep in the liquidity trap, and hence as vulnerable to foreign currency manipulation, as we were back then.

So if The Donald occasionally sounds like me five years ago, bear in mind that stuff has happened over those five years; I’ve noticed, but he probably hasn’t.

 

La Cina del 2015 non è quella del 2010

Se c’è un tema politico centrale nella candidatura di Donald Trump oltre a quello dell’immigrazione – in effetti non c’è, ma ci sono alcune cose sulle quali egli strepita – è quello del colpire la Cina. Il principio unificante è probabilmente quello della xenofobia; ma in ogni caso, le mosse valutarie della Cina sono destinate a diventare un tema politico per gli Stati Uniti. E tra non molto, mi aspetto qualcuno metterà in evidenza che anche alcuni progressisti erano soliti lamentarsi della manipolazione valutaria cinese [1].

Ma questo avveniva un po’ di tempo fa – in particolare nel 2010. E la situazione sottostante è molto cambiata.

Prima di tutto, la Cina a partire dal 2011 ha conosciuto una rivalutazione reale molto ampia, in parte dovuta ad una inflazione più alta dei suoi partner commerciali, in parte perché il suo ancoraggio al dollaro comporta che essa ha dovuto tallonare un dollaro in ascesa (che si pensava crollasse a seguito della ‘facilitazione quantitativa’, ma lasciamo perdere):

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É vero che il tasso di cambio reale della Cina ha teso a salire per un lungo tempo, e che questo non ha portato sino ad un periodo recente ad una perdita di competitività – principalmente a seguito dell’ipotesi Balassa-Samuelson [2] e di altri effetti della produttività crescente. Ma con la crescita cinese che rallenta e il ritmo della rivalutazione che sale – e con una crescente competizione da parte degli altri mercati emergenti – i cinque anni passati quasi sicuramente hanno comportato una importante riduzione nella competitività. É perfettamente coerente ritenere che la Cina avesse svalutato in modo distruttivo nel 2010 ma sia sopravvalutata oggi.

Nel frattempo, l’economia nazionale cinese si è chiaramente indebolita, creando una chiara situazione per una politica monetaria più blanda. Non c’è niente di simile alla situazione del 2010, quando la Cina stava lottando per contenere una economia surriscaldata.

Potremmo inoltre notare che anche l’America è in una situazione diversa. Io credo ancora che sarebbe un grande errore per la Fed elevare i tassi, ma il fatto che ci siamo talmente vicini al punto che tale ipotesi è sul tavolo, significa che non siamo così profondamente nella trappola di liquidità, e di conseguenza così vulnerabili alla manipolazione valutaria straniera, come eravamo allora.

Dunque, se “il Donald” pare assomigli al sottoscritto di cinque anni orsono, si tengano a mente le cose che sono successe in questi cinque anni; io me ne sono accorto, lui probabilmente no.

 

 

[1] Il riferimento di Krugman è anche a se stesso, considerato che in varie occasioni si era pronunciato a favore di una posizione più decisa del Governo statunitense sulla politica valutaria cinese. In connessione, infatti, un suo post del 14 marzo 2010.

[2] Che su Wikipedia viene descritta in connessione con due fattori collegati: l’osservazione secondo la quale i prezzi al consumo nei paesi più ricchi sono sistematicamente più alti che in quelli più poveri (il cosiddetto “effetto Penn”); l’assunto secondo il quale per un paese la produttività varia maggiormente nei settori dei beni oggetto di scambi internazionali che non negli altri settori (l’ipotesi Balassa-Samuelson).

 

 

 

 

La mania della moneta internazionale (dal blog di Krugman, 12 agosto 2015)

agosto 12, 2015

 

Aug 12 12:56 pm

International Money Mania

China is claiming that it’s not devaluing the renminbi to gain competitive advantage, it’s adding flexibility to prepare for the yuan as an international reserve currency, becoming part of the basket in the IMF’s SDRs and all that. That’s highly implausible as a story about what’s happening right now; but it may be true that China’s urge to loosen capital controls is driven in part by its global-currency ambitions.

But why, exactly, should China be eager to manage an international reserve currency?

I mentioned one of Charlie Kindleberger’s aphorisms earlier today, about taking the first bite of the cherry; another was that “Anyone who spends too much time thinking about international money goes a bit mad.” What he meant by that is that there’s something about the subject of reserve currencies that makes people want to believe that it’s a really important issue — that the dollar’s special role is an important part of American power. So you have spectacles like John Kerry and Barack Obama declaring that one big risk from rejecting an Iran deal (which I very much support) would be a threat to the role of the dollar. Um, no — it wouldn’t, and anyway who cares?

What does America gain from the dollar’s special role? You often find people declaring that it’s only thanks to the special role of the dollar that the United States has been able to run persistent trade deficits — you see, people have to take our money. But even a quick glance at international balance of payments statistics shows you that countries whose currencies play no special role whatever are perfectly capable of running deficits over a long time; all that matters is that they be perceived as reliable debtors who offer good investment opportunities. Look at Australia, which is a much more consistent large-deficit country than we are:

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So what are the advantages of owning a reserve currency? You do get to borrow in your own currency — but then, so do others; again, it’s about reliability rather than a special role. There’s nothing in the data suggesting that you can borrow more cheaply than other safe borrowers.

What you’re left with, basically, is seigniorage: the fact that some people outside your country hold your currency, which means that in effect America gets a zero-interest loan corresponding to the stash of dollar bills — or, mainly $100 bills — held in the hoards of tax evaders, drug dealers, and other friends around the world. In normal times this privilege is worth something like $20-30 billion a year; that’s not a tiny number, but it’s only a small fraction of one percent of GDP.

The point is that while reserve-currency status may have political symbolism attached, it’s essentially irrelevant as an economic goal — and definitely not worth distorting policy to achieve. Someone needs to tell the Chinese, you shall not crucify this country on a cross of SDRs.

 

La mania della moneta internazionale

La Cina sta sostenendo che non sta svalutando il renmimbi per guadagnare vantaggio competitivo, sta aumentando la flessibilità per preparare lo yuan al ruolo di moneta di riserva internazionale, andando a far parte del paniere dei ‘diritti speciali di prelievo’ [1] del FMI ed altre cose del genere. Questo è molto poco plausibile come racconto di quanto sta accadendo in questo momento; ma può esser vero che il bisogno della Cina di allentare i controlli sui capitali sia in parte provocato dalle sue ambizioni verso una valuta globale.

Ma perché, esattamente, la Cina dovrebbe essere ansiosa di gestire una valuta di riserva internazionale?

Ho ricordato in prima mattina un aforisma di Charles Kindleberger, sul portar via solo un morso da una ciliegia; un altro era che “tutti quelli che spendono troppo tempo nel pensare alla valuta internazionale diventano un po’ matti”. Quello che voleva dire è che c’è qualcosa nel tema delle valute di riserva che fa credere alle persone che si tratti di un tema davvero importante – che il ruolo speciale del dollaro sia una componente importante del potere americano. Si hanno così gli spettacoli come quello di John Kerry e Barack Obama che dichiarano che un grande rischio dal rigetto dell’accordo con l’Iran (che io appoggio caldamente) sarebbe la minaccia che ne deriverebbe per il ruolo del dollaro. Ebbene, no – non lo sarebbe, e in ogni caso a chi importa?

Cosa guadagna l’America dal ruolo speciale del dollaro? Si trovano di frequente individui che dichiarano che è solo grazie al ruolo speciale del dollaro che gli Stati Uniti sono stati capaci di gestire persistenti deficit commerciali – sapete, le persone devono usare la nostra moneta. Ma persino un rapido sguardo alle statistiche della bilancia internazionale dei pagamenti vi mostra che i paesi le cui valute non giocano alcun ruolo speciale che dir si voglia, sono perfettamente capaci di gestire deficit nel lungo periodo; tutto quello che conta è che essi siano percepiti come debitori affidabili che offrono buone opportunità di investimenti. Si guardi all’Australia, che è un paese con un ampio deficit molto più costante del nostro:

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Quali sono, dunque, i vantaggi del possedere una valuta di riserva? Certamente vi indebitate nella vostra valuta – d’altra parte, così fanno gli altri; di nuovo, è una questione di affidabilità piuttosto che un ruolo speciale. Non c’è niente nei dati che indichi che vi potete indebitare più convenientemente che altri debitori sicuri.

Quello che vi resta, fondamentalmente, è il ‘signoraggio’: il fatto che alcune persone fuori dal vostro paese detengano vostra valuta, il che significa che l’America in effetti ottiene un prestito a interesse zero corrispondente alle riserve di banconote da un dollaro – o, principalmente, di banconote da cento dollari – detenute nelle scorte degli evasori fiscali, dei commercianti di droga e di altri personaggi simili a giro per il mondo. In tempi normali questo privilegio vale qualcosa come 20-30 miliardi di dollari all’anno; che non è un numero minuscolo, ma è solo una piccola frazione dell’1 per cento del PIL.

Il punto è che mentre lo status di valuta di riserva può essere collegato con un simbolismo politico, esso è essenzialmente irrilevante come un obbiettivo economico – e certamente non merita stravolgere una politica per un tale risultato. C’è bisogno che qualcuno lo dica ai cinesi, non dovete crocifiggere il vostro paese ad una croce di Diritti Speciali di Prelievo.

 

 

[1] I Diritti Speciali di Prelievo (abbreviato DSP, in inglese Special Drawing Rights o SDRs) sono un particolare tipo di valuta. Si tratta dell’unità di conto del FMI (Fondo Monetario Internazionale), il cui valore è ricavato da un paniere di valute nazionali, rispetto alle quali si calcola una sorta di “comune denominatore”: il risultato è il valore dei DSP. Scopo precipuo dei DSP era rimpiazzare l’oro nelle transazioni internazionali: per questo i Diritti Speciali di Prelievo sono definiti anche paper gold. Fino al 1999 (anno di introduzione dell’Euro come unità di conto), le valute che costituivano il paniere erano: dollaro statunitense, marco tedesco, franco francese, sterlina britannica e yen giapponese. Dal 1999 l’euro ha sostituito il marco ed il franco (il valore approssimativo di 1 euro è pari a 0,76 DSP). Le ultime valutazioni dei DSP in rapporto al dollaro sono consultabili dal sito dell’FMI, aggiornato quotidianamente. (Wikipedia)

 

 

 

 

La Cina morde la ciliegia (dal blog di Krugman, 12 agosto 2015)

agosto 12, 2015

 

Aug 12 8:56 am

China Bites The Cherry

Are you star(t)ing to have the feeling that when it comes to economic policy Xi-who-must-be-obeyed has no idea what he’s doing?

China’s decision to devalue the renminbi had some economic logic behind it. As David Beckworth rightly points out, it’s not just about gaining a competitive advantage. China clearly has a weakening economy, whatever the official numbers may say, and would like to use monetary stimulus. But monetary autonomy and a fixed exchange rate don’t go well together; China’s capital controls give it some leeway, but it is nonetheless suffering from a lot of capital flight — and it wants to liberalize the capital account in pursuit of reserve-currency status. (A foolish goal, but that’s a subject for another day.)

So it would make sense on purely economic grounds for China to move to a free float, and gain the freedom to use monetary policy that, say, Japan has.

But it’s important to understand how that works. When Japan loosens money, it creates an incentive to move funds abroad, causing the yen to fall. This process only stops once the yen has fallen enough that investors consider it undervalued, and are willing to buy Japanese securities in the expectation of a future yen rise. Exchange rate overshooting is an essential part of the story.

China, however, did not let the renminbi float, nor did it devalue by enough to persuade investors that any future move was likely to be up. Instead, it only devalued a little.

This is what Charlie Kindleberger used to call “taking the first bite of the cherry”. (Nobody takes just one bite out of a cherry.) China has now demonstrated that its currency peg is no longer solid; but it has come nowhere near to devaluing enough to create expectations of future appreciation. This is a recipe for convincing investors that the future direction of the currency is down — which means that capital flight will accelerate (and apparently already has.)

Now what? China could just let the renminbi float; given the current state of the Chinese economy, that would surely mean a large depreciation. But this would greatly increase trade tensions and pose problems for foreign policy. Maybe that’s a tradeoff worth accepting, but nothing in events so far suggests that China’s leadership was prepared to take that step. Instead, they went for a small move that was sufficient to destabilize expectations while producing trivial benefits.

A reminder, then, of the lack of wisdom with which the world is governed.

 

La Cina morde la ciliegia

Cominciate ad avere la sensazione che quando si arriva alla politica economica, Xi-a-cui-si-deve-obbedire non abbia idea di quello che sta facendo?

La decisione della Cina di svalutare il renminbi aveva una qualche logica economica, non riguardando soltanto il guadagno di un vantaggio competitivo. Chiaramente la Cina ha un’economia che si sta indebolendo, qualsiasi cosa dicano i dati ufficiali, e vorrebbe usare lo stimolo monetario. Ma l’autonomia monetaria ed il tasso di cambio fisso non vanno d’accordo; il controllo dei capitali da parte della Cina le dà qualche margine, ciononostante essa sta soffrendo di una notevole fuga di capitali – e vuole liberalizzare il conto capitale per conseguire lo status di valuta di riserva (un obbiettivo sciocco, ma questo è un tema per un altro intervento).

Dunque, su basi puramente economiche, avrebbe senso spostarsi verso una libera fluttuazione, ed ottenere la libertà di utilizzare la politica monetaria che, ad esempio, ha il Giappone.

É però importante capire come tutto ciò funzioni. Quando il Giappone libera moneta, crea un incentivo per spostare i capitali all’estero, provocando una caduta dello Yen. Il processo si interrompe soltanto una volta che lo yen è caduto a sufficienza da venir considerato sottovalutato dagli investitori, e da invogliarli a comperare titoli giapponesi nella aspettativa di una futura risalita dello yen. Una parte essenziale di quella storia è il fenomeno di un tasso di cambio che finisce per collocarsi sopra l’obbiettivo.

La Cina, tuttavia, non ha consentito al renminbi di fluttuare, né lo ha svalutato abbastanza da persuadere gli investitori che ogni futuro spostamento è probabile che sia al rialzo. Piuttosto, l’ha svalutato solo un po’.

Questo è quello che Charlie Kindleberger [1] era solito chiamare come il “portar via solo un morso della ciliegia” (nessuno si accontenta di un solo morso da una ciliegia). La Cina ha adesso dimostrato che l’ancoraggio della sua valuta non è più solido; ma non si è avvicinata in alcun modo a svalutarla abbastanza da creare aspettative di un futuro apprezzamento. Questa è la ricetta per convincere gli investitori che la futura direzione della valuta è verso il basso – il che significa che la fuga dei capitali subirà una accelerazione (e sembra lo stia già facendo).

E adesso? La Cina potrebbe semplicemente far fluttuare il renminbi; il che sicuramente comporterebbe una ampia svalutazione. Ma questo aumenterebbe grandemente le tensioni commerciali e porrebbe problemi alla politica estera. Forse si tratta di uno scambio che varrebbe la pena di accettare, ma niente in quello che è accaduto sin qua indica che la dirigenza della Cina fosse pronta a fare quel passo. Piuttosto, si sono indirizzati ad un piccolo movimento che è stato sufficiente a destabilizzare le aspettative nel mentre ha prodotto benefici banali.

Dunque, un promemoria della mancanza di saggezza con la quale il mondo è governato.

 

[1] Charles Poor “Charlie” Kindleberger è stato un importante storico americano dell’economia, deceduto nel 2003. Autore di molti libri, in particolare ha ricostruito i fenomeni delle bolle speculative nei mercati finanziari (molto noto il suo libro “Manias, Panics e Crashes” del 1978). In italiano è stato tradotto presso Donzelli Editore “I primi del mondo”, uno studio sui fenomeni delle supremazie economiche mondiali dal 1500 al 1990.

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Competitività e conflitto di classe (dal blog di Krugman, 11 agosto 2015)

agosto 11, 2015

 

Aug 11 1:53 pm

Competitiveness and Class Warfare

For reasons not entirely clear to me, recently I found myself thinking about Lester Thurow’s Head to Head: The Coming Economic Battle Among Japan, Europe, and America. For those too young, or who don’t remember, Thurow’s book was a monster best-seller in the early 1990s; it resonated with many people who feared that America was losing its economic edge, that Japan was an unstoppable juggernaut, and so on. And it also played into the general notion of global economics as a struggle for competitive advantage, which is a perennial popular favorite.

I was pretty critical of that notion at the time, arguing that economic success or failure had little to do with international competition. But what I found myself thinking about was the question of who really did best in the decades that followed Thurow’s book. And the answer is … nobody.

The chart shows real GDP per working-age adult (15-64) in France, Japan, and America since 1990. The demographic correction is important: Japan has lagged economically, but a lot of that is just demography.

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OECD

What’s striking here is how similar the three look. Japan lagged in the late 1990s and early 2000s, but recovered. France has lagged since 2010, largely thanks to the eurozone crisis and its misguided austerity policies. But given how much rhetoric there is about structural problems here and there, what’s striking is how little divergence there has been among advanced countries.

What this tells you, I think, isn’t just that international competition is far less important than legend has it. It also suggests that economic growth is pretty insensitive to policy: France and the US are at the extremes of advanced-country regimes, yet there’s not much difference in their long-term performance.

But does this say that policy doesn’t matter? Not at all. For while there is not, repeat not, anything like the zero-sum competition among nations so beloved of business types, there really is the question of who gets the gains. U.S. economic growth has been OK these past 25 years; US family incomes, not so much, because such a large share of growth goes to the very top.

International competition is a mostly bogus notion; class warfare is very, very real.

 

Competitività e conflitto di classe

Per ragioni che non mi sono del tutto chiare, di recente mi sono ritrovato a pensare al libro di Lester Thurow “Scontro diretto: la battaglia economica in arrivo tra il Giappone, l’Europa e l’America”. Per coloro che sono troppo giovani, o che non si ricordano, il libro di Thurow fu un enorme best-seller agli inizi degli anni ’90; era in sintonia con molte persone che avevano paura che l’America stesse perdendo il suo vantaggio economico, che il Giappone fosse una forza inarrestabile, e così via. Esso inoltre ebbe un ruolo nel concetto generale di una economia globale come una battaglia per il vantaggio competitivo, che in tutte le epoche è un tema che gode di ampio consenso popolare.

A quel tempo io fui abbastanza critico su quel concetto, sostenendo che il successo o il fallimento economico hanno poco a che fare con la competizione internazionale. Ma quello su cui mi sono ritrovato a riflettere è stata la domanda su chi si comportò effettivamente nel modo migliore nei decenni che seguirono il libro di Thurow. E la risposta è … nessuno.

Il diagramma mostra il PIL reale per adulto in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni) in Francia, Giappone e America. Il fattore correttivo della demografia è importante: il Giappone è rimasto indietro da un punto di vista economico, ma in gran parte questo è dipeso dalla demografia.

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OCSE

Quello che in questo diagramma è sorprendente è quanto le tre nazioni appaiano simili. Il Giappone rimase indietro negli ultimi anni ’90 e nei primi anni 2000, ma si riprese. La Francia è rimasta indietro a partire dal 2010, grazie alla crisi dell’eurozona ed alle fuorvianti politiche dell’austerità. Ma, considerata quanta retorica c’è dappertutto sui problemi strutturali, quello che è sorprendente è quanto sia stata modesta la divergenza tra i paesi avanzati.

Quello che questo ci dice, io penso, non è soltanto che la competizione internazionale è molto meno importante di quanto dica la leggenda. Esso indica anche che la crescita economica è abbastanza insensibile alla politica: la Francia e gli Stati Uniti sono due soluzioni estreme quanto a regimi socio-assistenziali, eppure non c’è molta differenza nei loro andamenti a lungo termine.

Ma questo significa che la politica non è importante? Niente affatto. Perché mentre non c’è niente, ripeto niente, di simile alla tanto amata (tra i soggetti del mondo economico) competizione a somma-zero tra le nazioni, resta la domanda reale su chi abbia avuto i vantaggi. Nei 25 anni passati la crescita economica negli Stati Uniti è stata favorevole; i redditi delle famiglie americane non altrettanto, perché una considerevole ampia quota delle crescita è andata ai più ricchi.

La competizione internazionale è fondamentalmente un concetto fasullo; il conflitto di classe è verissimo.

 

 

 

 

 

Il Tea Party e il ‘trumpismo’ (11 agosto 2015)

agosto 11, 2015

 

Aug 11 11:57 am

Tea and Trumpism

Memo to pollsters: while I’m having as much fun as everyone else watching the unsinkable Donald defy predictions of his assured collapse, what I really want to see at this point is a profile of his supporters. What characteristics predispose someone to like this guy, as opposed to accepting the establishment candidates?

The reason I’d like to see such a poll is that I suspect that both conservative and liberal pundits are still getting the Trump phenomenon wrong. And yes, that’s the kind of statement — hey, left and right both wrong! — that I usually hate when other pundits do it. But in my case it’s not knee-jerk centrism, it’s an informed guess based on some related evidence.

Right now, the conservative explanation of the GOP’s onset of DTs is, as best I can figure, that base voters are victims of celebrity; what they really want is a true conservative, but they’re being hijacked and hoodwinked by someone who makes good TV.

Meanwhile, the liberal version, as I’ve seen it, seems to be that Trump is appealing to resentment that ultimately rests on economic failure: working-class whites have been left behind by soaring inequality, but they mistakenly blame immigrants taking their jobs.

But are Trumpists being hoodwinked? Are they members of the suffering working class who don’t understand why they’re hurting? OK, here’s my guess: they look a lot like Tea Party supporters. And we do know a fair bit about that group.

First of all, Tea Party supporters are for the most part not working-class, at least in the senses that group is often defined. They’re relatively affluent, and not especially lacking in college degrees.

So what is distinctive about them? Alan Abramowitz:

While conservatism is by far the strongest predictor of support for the Tea Party movement, racial hostility also has a significant impact on support.

So maybe Trump’s base is angry, fairly affluent white racists — sort of like The Donald himself, only not as rich? And maybe they’re not being hoodwinked?

Now, you might ask why angry racists are busting out of the channels the GOP constructed to direct their rage. But there, surely, we have to take account of two things: the real changes in America, which is becoming more socially and culturally diverse, plus the Fox News effect, which has created an angry white guy feedback loop.

Again, this is just guesswork until we have a real profile of typical Trump supporter. But for what it’s worth, I think the Trump phenomenon is much more grounded in fundamentals than the commentariat yet grasps.

 

Il Tea Party e il ‘trumpismo’

Promemoria per i sondaggisti: nel mentre mi sto divertendo come tutti nell’osservare l’inaffondabile Donald sfidare le previsioni del suo crollo garantito, quello che a questo punto vorrei vedere è un profilo dei suoi sostenitori. Quali caratteristiche predispongono chicchessia a gradire un soggetto del genere, anziché accettare i candidati della classe dirigente del partito?

La ragione per la quale vorrei vedere un sondaggio del genere è che ho il sospetto che sia i commentatori conservatori che quelli progressisti intendano il fenomeno Trump nel modo sbagliato. Ed è vero, questo è il genere di giudizio – badate, la sinistra e la destra sbagliano entrambe! – che in genere non sopporto, quando altri commentatori ne fanno uso. Ma nel mio caso non è una forma di centrismo istintivo, è una congettura ragionata sulla base di qualche testimonianza connessa.

In questo momento, la spiegazione conservatrice dell’offensiva dei seguaci di Donald Trump è, nel caso migliore che posso immaginare, che gli elettori della base siano vittime della celebrità; quello che essi realmente vogliono è un conservatore vero, ma sono deviati e raggirati da qualcuno che ‘buca’ gli schermi.

Contemporaneamente, la versione progressista, per come la intendo, sembra essere che Trump risulta attraente per un risentimento che in sostanza si regge sugli insuccessi dell’economia: i lavoratori bianchi sono stati lasciati indietro dall’ineguaglianza che cresce, ma erroneamente incolpano gli immigrati di prendere i loro posti di lavoro.

Ma sono i ‘trumpisti’ ad essere raggirati? Sono loro i membri di una classe lavoratrice sofferente che non capisce perché la stanno offendendo? Va bene, ecco la mia ipotesi: costoro assomigliano molto ai sostenitori del Tea Party. E di quel gruppo sappiamo non poche cose.

Prima di tutto, i sostenitori del Tea Party non fanno parte della classe lavoratrice; almeno nel senso in cui quel gruppo è solitamente definito. Sono relativamente benestanti, e non difettano particolarmente di titoli di studio universitari.

Quali sono, dunque, i loro tratti distintivi? Scrive Alan Abramowitz:

“Se agli effetti del sostegno del movimento del Tea Party, il conservatorismo è di gran lunga il fattore predittivo più forte, su quel sostegno ha anche un impatto significativo l’ostilità razziale.”

Dunque, forse la base di Trump sono razzisti bianchi infuriati e discretamente ricchi – qualcosa di simile a ‘il Donald’ medesimo, soltanto non altrettanto ricchi? E forse non sono raggirati?

Ora, potreste chiedervi perché razzisti bianchi stiano uscendo fuori dai canali che il Partito Repubblicano ha costruito per indirizzare la loro rabbia. Ma a tale proposito dobbiamo sicuramente tener conto di due osservazioni: i reali cambiamenti in un’America che sta diventando socialmente e culturalmente diversificata, e in aggiunta l’effetto di Fox News, che ha creato un circuito informativo per i bianchi arrabbiati.

Ancora, questo è soltanto un lavoro di congetture, finché non avremo un vero profilo del tipico sostenitore di Trump. Ma per quello che vale, io penso che il fenomeno Trump sia molto più basato su fattori di fondo di quanto i commentatori ancora comprendano.

 

 

 

 

Le radici del culto di Reagan (7 agosto 2015)

agosto 7, 2015

 

Aug 7 3:08 pm

Roots of Reaganolatry

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Noah Smith suggests that Reagan worship reflects a misunderstanding of how the economy works — that those who idolize Reagan believe in the Green Lantern theory of presidential power, that presidents can make stuff happen, in the economy and elsewhere, though sheer force of will.

But the truth is that the cult of Reagan is much stranger and more disreputable than that. For the fact is that Reagan’s objective achievements weren’t all that great.

In terms of the economy, his record is trumped by Bill Clinton’s on every front: GDP growth, job creation, family incomes. For that matter, as Bill McBride points out, the average monthly rate of private-sector job creation under Jimmy Carter was faster than the average rate under Reagan. Carter just had the bad luck to preside over a recession at the end of his term, while Reagan’s was at the beginning.

We might also note that Reagan’s attempt to change the nature of the US welfare state was, in the light of history, a failure. Remember, he once crusaded against Medicare as a program that would destroy freedom; he came into office with the intention of dismantling Social Security. But he left with both programs intact (thanks, in part, to a big increase in payroll taxes during his time in office) — and now we have a more or less universal health insurance system.

So right-wing Reagan-worship requires a heavy dose of historical ignorance. But that’s not the only weird thing about the way today’s Republicans pledge their devotion to his legacy: Remember, Reagan was elected 35 years ago. That’s a long time: the election of 1980 is as distant from us now as the election of 1944 was when he was running. The America of Reagan’s triumph was in many ways another country — a country of still-powerful unions and bad coffee, with no internet or cell phones, in which a plurality of voters disapproved of interracial marriage. It’s quite remarkable that the right can’t find any more contemporary role models.

But Reagan has become an icon that never fades. Republicans will probably still be invoking his legacy in 2036, when Democrats will have nominated their first android — and Republicans will have nominated another white male.

 

 

Le radici del culto di Reagan

Noah Smith suggerisce che il culto di Reagan rifletta una incomprensione su come funziona l’economia – ovvero che quelli che idolatrano Reagan credono nella ‘teoria della Lanterna Verde’ [1] del potere presidenziale, secondo la quale il Presidente può realizzare ogni cosa, in economia e negli altri campi, attraverso la semplice forza della volontà.

Ma la verità è che il culto di Reagan è molto più strano e riprovevole. Perché il punto è che le obbiettive realizzazioni di Reagan non furono così rilevanti.

Dal punto di vista economico, le sue prestazioni sono surclassate su ogni fronte da Bill Clinton: la crescita del PIL, la creazione di posti di lavoro, i redditi delle famiglie. Del resto, come sottolinea Bill McBride, il tasso medio mensile di creazione dei posti di lavoro nel settore privato sotto Jimmy Carter fu più veloce del tasso medio sotto Reagan. Carter ebbe la mala sorte di essere in carica durante una recessione alla fine del suo mandato, mentre a Reagan accadde agli inizi.

Potremmo anche osservare che il tentativo di Reagan di cambiare la natura dello stato assistenziale americano fu, alla luce della storia, un fallimento. Si ricordi che egli a quel tempo si impegnò in una crociata contro Medicare, alla stregua di una programma che avrebbe distrutto la libertà; egli entrò in carica con l’intenzione di smantellare la Previdenza Sociale. Ma lasciò entrambi i programmi intatti (grazie, in parte, ad un grande incremento durante il suo mandato delle tasse sui redditi da lavoro) – e adesso abbiamo un sistema di assicurazione sanitaria più o meno universalistico.

Dunque, il culto di Reagan della destra richiede una dose cospicua di ignoranza storica. Ma non è quella l’unica cosa bizzarra del modo in cui ancora oggi i repubblicani offrono la loro devozione alla sua eredità: si ricordi, Reagan fu eletto 35 anni orsono. É un periodo lungo: le elezioni del 1980 sono di un’epoca altrettanto distante da noi, della elezioni del 1944 quand’egli stava governando. Il trionfo dell’America di Reagan riguardava in molti sensi un altro paese – un paese di sindacati ancora potenti e di pessimo caffè [2], senza internet ed i telefoni cellulari, nel quale una maggioranza relativa di elettori disapprovavano i matrimoni interrazziali.

Eppure Reagan è diventato un’icona che non svanisce mai. I repubblicani probabilmente staranno ancora invocando la sua eredità nel 2036, quando i democratici avranno scelto per le presidenziali il loro primo androide – e i repubblicani avranno scelto un ennesimo maschio bianco.

 

[1] L’espressione è stata coniata dal politologo americano Brendan Nyhan e indica “la convinzione che il Presidente può realizzare ogni obbiettivo politico e programmatico se solo ci mette impegno sufficiente ed usa le tattiche più adatte”.

[2] Non saprei dire perché il ‘cattivo caffè’ è considerato un tratto distintivo di un’epoca. Ma dando una scorsa ad internet si scopre un filone di articoli sul caffè scadente, al confronto con il buon caffè (europeo, se non italiano). Può darsi che sia un tema sensibile.

 

 

 

Sfuma il tema dell’economia (7 agosto 2015)

agosto 7, 2015

 

Aug 7 9:55 am

The Economy Vanishes

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There was almost no discussion of the economy in last night’s debate, which is actually weird if you consider the Republican self-image. These guys portray themselves as high priests of growth, the people who know how to bring prosperity. And remember all the crowing about how Obama was presiding over the worst recovery ever?

But now, not so much. The chart shows private-sector job gains after two recessions — the 2001 recession, and the 2007-2009 Great Recession — ended, in thousands. You can argue that the economy should have bounced back more strongly from the deeper slump; on the other hand, 2008 was a huge financial crisis, which tends to leave a bad hangover. Anyway, once the right is arguing that Obama’s better recovery wasn’t really his doing, it has already lost the argument.

Now, am I claiming that Obama caused all that job creation? No — policy was pretty much hamstrung from 2010 on. But the right confidently predicted that Obama’s policies, especially his “job-killing” health reform, would, well, kill jobs; as Matt O’Brien notes, The Donald confidently predicted that unemployment would go above 9 percent. None of that happened — nor did any of the other predicted Obama disasters.

Recovery should have been much faster, and I believe that there is still more slack than the unemployment rate suggests. But if President Romney were presiding over this economy, Republicans would be hailing it as the second coming of Ronald Reagan. Instead, they’re trying to talk about something else.

 

Sfuma il tema dell’economia

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Nel dibattito dell’altra notte non c’è stata quasi alcuna discussione sui temi economici, il che è effettivamente bizzarro se si considera l’immagine che i repubblicani hanno di se stessi. Questi personaggi si dipingono come sommi sacerdoti della crescita, persone che sanno come portare prosperità. E si ricorda tutto quel clamore sul fatto che Obama fosse stato in carica durante la peggiore ripresa economica di sempre?

Ma ora non è più così chiaro. Il diagramma mostra gli incrementi in migliaia di posti di lavoro nel settore privato dopo che terminarono due recessioni – la recessione del 2001 e la Grande Recessione del 2007-2008. Si può sostenere che l’economia avrebbe dovuto rimbalzare più fortemente dopo una recessione più profonda; d’altra parte, il 2008 fu una grande crisi finanziaria, che tende a lasciare strascichi negativi. In ogni modo, nel momento in cui la destra sostiene che la migliore ripresa di Obama non è stata realmente opera sua, essa ha già perso l’argomento.

Sto adesso sostenendo che Obama ha provocato tutta quella creazione di posti di lavoro? No – la politica è stata resa praticamente inefficace a partire dal 2010. Ma la destra aveva previsto con certezza che le politiche di Obama, specialmente la sua riforma sanitaria che doveva distruggere posti di lavoro, avrebbero, proprio così, distrutto posti di lavoro; come nota Matt O’Brien, ‘il Donald’ aveva previsto con certezza che la disoccupazione sarebbe stata sopra il 9 per cento. Non è accaduto niente del genere – né si è avverato alcuno degli altri previsti disastri di Obama.

La ripresa avrebbe dovuto essere molto più veloce, ed io credo che ci sia ancora più fiacchezza di quanto il tasso di disoccupazione indica. Ma se ci fosse stato il Presidente Romney a governare questa economia, i repubblicani lo esalterebbero come una reincarnazione di Ronald Reagan. Invece, stanno cercando di parlare d’altro.

 

 

 

 

 

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