Jul 23 7:26 pm
It’s been a rough few weeks, so I’ve been taking refuge in the past: I brought Adrian Goldsworthy’s The Fall of Carthage along on recent travels. And I found it revelatory; it shook some views I’ve long held about history.
You see, I have or had a pretty firm, cynical but I thought well-grounded model of pre-industrial civilization. All pre-industrial societies, I thought, were Malthusian, with the bulk of the population living at the edge of subsistence. The fruits of civilization went only to a small elite, 5 or 10 percent of the population at most, which essentially lived on resources extorted from the peasantry. For everyone else, it didn’t matter who ruled or how; politics, national or cultural concerns, whatever, were internal squabbles among the extractive classes.
This model still seems to me to be pretty good for the Roman Empire. But at least as Goldsworthy describes it, the Roman Republic at the time of the Punic Wars was something very different. It beat Carthage not so much through military prowess as through social solidarity: not only had Rome managed to assimilate many peoples and turn them into citizens or very loyal allies, it seems to have inspired strong commitment from a large fraction of the population. This gave it a huge advantage over Carthage in terms of military manpower, and also the durability that allowed it to absorb terrible defeats and keep on fighting.
Are there any other examples in history like this? And how did they do it? What was special about the Roman political and/or social system that produced this kind of solidarity?
Of course, it didn’t last — the very conquests made possible by the virtus of the Republic eventually produced vast latifundia worked by slaves and undermined all the old values; Rome became a more or less standard preindustrial empire. But it wasn’t always. Why?
SPQR e tutto il resto [1]
Sono state settimane agitate, cosicché mi sto rifugiando nel passato: ho portato con me nei viaggi recenti La caduta di Cartagine di Adrian Goldsworthy [2]. E l’ho trovato rivelatore; ha scosso alcuni punti di vista che mi portavo dietro da tanto tempo sulla storia.
Vedete, io ho o avevo un modello piuttosto fermo, cinico ma supponevo ben fondato, sulle civiltà preindustriali. Pensavo che tutte le società pre-industriali fossero maltusiane, con il grosso della popolazione che viveva al limite della sussistenza. I frutti della civilizzazione andavano soltanto ad un ristretta élite, al massimo il 5 o il 10 per cento della popolazione, che viveva in sostanza sulle risorse estorte ai contadini. Per tutti gli altri, non contava chi era al comando o come; la politica, gli interessi nazionali o culturali, ogni altra cosa, erano controversie interne alle classi sfruttatrici.
Questo modello mi sembrava essere abbastanza utile per comprendere l’Impero Romano. Ma, almeno per come Goldsworthy la descrive, la Repubblica Romana al tempo delle guerre puniche era qualcosa di molto diverso. Essa sconfisse Cartagine non tanto attraverso il valore militare quanto attraverso la solidarietà sociale: non solo Roma riuscì ad assimilare molti popoli e a trasformarli in cittadini o in alleati molto leali, sembra che abbia anche ispirato un forte impegno in un’ampia parte della popolazione. Questo le diede un grande vantaggio su Cartagine in termini di forza lavoro militare, ed anche quella resistenza che le consentì di assorbire terribili sconfitte e di continuare a combattere.
Ci sono altri esempi nella storia simili a questo? E come ottennero quel risultato? Che cosa ci fu di particolare nel sistema politico e/o sociale romano che produsse quel genere di solidarietà?
Naturalmente, non durò a lungo – proprio le conquiste rese possibili dalla virtus della Repubblica alla fine produssero vasti latifondi dove lavoravano gli schiavi e che scardinarono tutti i vecchi valori; Roma divenne più o meno un normale impero pre-industriale. Ma non fu così sempre. Perché?
[1] Come si sa, SPQR è l’acronimo di Senatus PopulusQue Romanus. Ma alcuni lo ricorderanno anche come acronimo di “Sono Pazzi questi Romani”, dell’Obelix di René Goscinny.
[2] Il libro di Adrian Goldsworthy:
luglio 23, 2015
Jul 23 7:05 pm
So, over the weekend we were told that our pass the popcorn moment — I mean, our long national nightmare — was over: Donald Trump would implode now that he had dared to question John McCain’s heroism.
But lo and behold, he’s still hanging on to front-runner status for the Republican nomination. How is that possible?
The short answer, surely, is that the inside-the-Beltway crowd — not for the first time — confused its own perceptions with those of actual voters.
Inside the Village, McCain is a sacred figure; he is still, after all these years of being a conventional ideologue, perceived as being McCain the Maverick; he is still seen as a wise man on national security despite his warmongering; he’s virtually a constant presence on the Sunday talk shows. So the villagers expected everyone to recoil in horror when Trump ridiculed his war record — you’re only supposed to do that to Democrats.
But the Republican base really doesn’t care very much. Whatever they may say, its members don’t really care about military heroism — it’s not just the treatment of John Kerry, think about how little they seemed to care when we finally did get Osama. And they really, really don’t care about some old guy who lost an election.
Trump surely hurt himself a bit with his McCain attack, but he still embodies the base’s id in a way the Village doesn’t seem to understand.
Il Villaggio, la base e Saint John [1]
Dunque, nel corso del fine settimana ci è stato spiegato che il modo in cui eravamo rimasti ipnotizzati, come con il popcorn in mano [2] – voglio dire, il nostro lungo incubo nazionale – è terminato: Donald Trump, ora che ha osato mettere in dubbio l’eroismo di John McCain, starebbe implodendo.
Eppure, guarda un po’, egli resta ancora in lizza come favorito alla nomination repubblicana. Come è possibile?
La risposta in breve è che, di sicuro, le gente di Washington [3] – non per la prima volta – ha confuso le proprie sensazioni con quelle degli effettivi elettori.
All’interno del Villaggio [4], McCain è una figura sacra; egli è ancora percepito, dopo tutti questi anni passati come un ideologo convenzionale, come il McCain Anticonformista; è ancora considerato come una persona saggia in materia di sicurezza nazionale nonostante il suo bellicismo; ed è praticamente una presenza costante ai talk show della domenica. Cosicché i membri del ‘Villaggio’ si aspettavano che tutti avrebbero avuto un sobbalzo di orrore quando Trump ha messo in ridicolo le sue prestazioni belliche – si pensava che lo potessero fare solo i democratici.
Ma in realtà la base repubblicana non se ne cura molto. A prescindere da quello che possono dire, non si occupano granché di eroismo militare – non si tratta solo del modo in cui hanno trattato John Kerry [5], si pensi a quanto poco sono sembrati interessati quando finalmente abbiamo preso Osama. E poi, soprattutto, essi non si curano di una vecchio personaggio che è uscito sconfitto da una elezione.
Trump certamente si è fatto un certo danno con il suo attacco a McCain, ma egli ancora incarna l’identità di una base che il Villaggio non sembra comprendere.
[1] Il post chiarisce cosa si intenda per “Villaggio”; quanto a Saint John egli è evidentemente John McCain.
[2] È l’interpretazione che trovo su English Language Learners. Vale a dire che il “passaggio del/dal momento del popcorn” allude alla situazione nella quale dei consumatori di popcorn rimangono come bloccati/ipnotizzati da un film o da una spettacolo televisivo, dinanzi a qualcosa che li avvince o li inquieta. Che sarebbe la reazione del pubblico americano dinanzi alla notizia recente delle buone chances di Donald Trump nella nomination repubblicana.
[3] All’interno della “beltway” significa all’interno della circonvallazione di Washington, ovvero nella capitale politica degli Stati Uniti (che è poi anche la capitale giornalistica, ed anche lobbistica. Ovvero l’area centrale di Washington nella quale sono collocate il complesso delle strutture e associazioni che seguono le vicende governative e parlamentari).
[4] In questo caso, per Villaggio suppongo si intenda la comunità degli attori e dei commentatori della politica nazionale.
[5] Da Wikipedia si apprende che John Kerry, l’attuale Segretario di Stato degli Stati Uniti, si arruolò “ volontario nell’ottobre del 1966 nella Marina degli Stati Uniti; dopo un anno di addestramento fu mandato come ufficiale ad operare in Vietnam, specificamente nel Golfo del Tonchino e sul delta del Mekong, dove si distinse in numerose azioni. Rimasto ferito più volte, è stato pluridecorato con la Bronze Star, la Silver Star e un Purple Heart”.
Ciononostante, questi suoi meriti militari non hanno mai emozionato la base repubblicana.
luglio 23, 2015
Jul 23 7:31 pm
Olivier Blanchard, who has to have been one of the most influential chief economists ever at the IMF, is retiring; Maury Obstfeld will be his replacement. Intellectually, there’s a lot of continuity: one New Keynesian MIT PhD I know very well replaced with another New Keynesian MIT PhD with whom I co-authored a text now in 10th edition. Still, I hope people are interested in Maury’s contributions to economics. And it seems to me that there are two papers in particular that are very relevant.
First is his work on self-fulfilling currency crises. The early currency-crisis literature, which I founded back in 1979, was about countries trying to peg their currency while following policies that would ultimately make that peg unsustainable; the question then became when speculators would force the inevitable. Maury, however, inspired by the ERM crisis of 1992-3, argued that crises could come out of a clear blue sky — that countries could face a speculative attack that would force them off a peg that would otherwise have been indefinitely sustainable.
By the way, I was at first very skeptical of this argument. But the events of the Asian crisis a few years later convinced me that I was wrong and Maury was right. And here’s the thing: the Obstfeld approach seems highly relevant to the troubles of eurozone countries, and also helps explain why Mario Draghi’s “whatever it takes” worked so well.
Second was his work with Ken Rogoff on open-economy macro, basically bringing New Keynesian modeling to floating exchange rates. One really important aspect of this work, as it turned out, was that in building a bridge to the classic literature here, O-R considered the effects of fiscal as well as monetary policy. As a result, those of us who were well versed in open-economy macroeconomics were fully prepared when issues of fiscal stimulus arose, and didn’t fall into the traps of incomprehension we saw from so many domestic-economy macro types.
There is, of course, much more in the Obstfeld canon. But those two seminal papers seem to me to illustrate why he’s so perfect for this job, and why one can expect Maury to give very good advice, whether policymakers take it or not.
Il fondamentale Obstfeld
Olivier Blanchard, che probabilmente è stato uno dei più influenti capoeconomisti che il FMI abbia mai avuto, sta andando in pensione; Maury Obstfeld prenderà il suo posto [1]. Da un punto di vista intellettuale, c’è molta continuità: un neokeynesiano che ha conseguito il dottorato al MIT e che io ben conosco, viene sostituito da una altro neokeynesiano con dottorato al MIT, con il quale sono stato coautore di un libro di testo che adesso è alla decima edizione. Tuttavia, spero che si sia interessati ai contributi di Maury all’economia. E a me sembra che in particolare esistono due studi che sono molto rilevanti.
Il primo è il suo lavoro sulle crisi valutarie che si autoavverano. La prima letteratura sulle crisi valutarie, che fondai io stesso nel 1979, era relativa ai paesi che cercano di ancorare il loro cambio ad una moneta nel mentre perseguono politiche che alla fine rendono insostenibile tale ancoraggio; la domanda allora diventa quando gli speculatori costringeranno all’esito inevitabile. Tuttavia Maury, ispirato dalla crisi del Meccanismo Del Tasso di Cambio Europeo del 1992-1993 [2], sostenne che le crisi potevano manifestarsi a ciel sereno – che i paesi potevano trovarsi dinanzi ad un attacco speculativo che li avrebbe costretti ad uscire da un ancoraggio che altrimenti sarebbe stato sostenibile a tempo indeterminato.
Per inciso, all’inizio io ero molto scettico su questo argomento. Ma gli eventi della crisi asiatica di pochi anni dopo mi convinsero che avevo torto, mentre Maury aveva ragione. E qua è il punto: l’approccio di Obstfeld sembra molto rilevante per i guai dei paesi dell’eurozona, e contribuisce anche a spiegare perché l’affermazione “qualsiasi cosa sia necessaria” di Mario Draghi abbia funzionato così bene.
Il suo secondo lavoro con Ken Rogoff riguardò la macro di un’economia aperta, fondamentalmente adattando modelli neokeynesiani a tassi di cambio fluttuanti. Un aspetto davvero importante di questo lavoro, si scoprì che consisteva nel realizzare per tale aspetto un ponte verso l’economia classica, Obstfeld e Rogoff considerarono gli effetti della politica della finanza pubblica come di quella monetaria. Il risultato fu che quelli di noi che erano molto competenti nella macroeconomia di una economia aperta, risultarono del tutto preparati quando emersero i temi delle misure di sostegno della finanza pubblica, e non caddero nelle trappole di incomprensione che abbiamo constatato in tanti soggetti della macroeconomia dell’economia interna.
Naturalmente, nella formazione di Obstfeld c’è molto di più. Ma quei due saggi fondamentali mi sembra dimostrino perché egli sia così per questo incarico, e perché ci si può aspettare che Maury dia ottimi consigli, a prescindere dal fatto che gli operatori politici li utilizzino o meno.
[1] Ecco un’immagine di Maurice Obstfeld:
[2] Il 12 settembre del 1992 (il “mercoledì nero”) il Governo conservatore britannico fu costretto a ritirare la sterlina dal Meccanismo del tasso di cambio europeo (ERM), dopo che si era mostrato incapace di mantenere la sterlina sopra il limite inferiore che era stata concordato. Lo speculatore più noto che operò in quella vicenda fu George Soros.
luglio 22, 2015
Jul 22 11:22 am
Are there good arguments against the proposition that the creation of the euro was an epic mistake? Maybe. But the arguments I’ve been hearing lately are really bad. And they’re also deeply annoying.
One argument I keep seeing is that economist critics like myself don’t understand that the euro was a political and strategic project, not merely a matter of economic costs and benefits. Yes, I’m a dumb uncouth economist, completely unaware of the role of politics and international strategy in policy decisions, who never heard of the European project and its origins in the effort to put Europe’s legacy of war behind it, not to mention strengthen democracy in the Cold War.
Well, actually I do know all about that. The point, however, is that while the European project has at every stage combined economic objectives with broader political goals – it’s about peace and democracy through integration and prosperity – the project can’t be expected to work unless the economic measures are a good idea in and of themselves, or at least a non-catastrophic idea. What happened in the march to the euro was that European elites, in love with the symbolism of a single currency, closed their minds to warnings that currency union – unlike the removal of trade barriers – was at best ambiguous in its economic logic, and arguably, even ex ante, a very bad idea indeed.
An alternative argument, which we’re hearing from depressed European economies like Finland, is that the short-term costs of inflexibility are outweighed by the supposedly huge gains from greater integration. But where’s the evidence for these huge gains? In this article, they’re said to be demonstrated by Finland’s strong growth before the recent crisis. But is it plausible to give credit for the Nokia boom to the single currency?
Well, the chart shows a comparison I find interesting, between Finland and its neighbor Sweden, where a referendum in 2003 rejected euro membership. (I remember that vote: Swedish friends who shared my worries about the euro phoned me in the middle of the night to celebrate.) For both countries I use 1989 as a baseline; that was the year before the great Scandinavian slump of the 1990s, brought on by runaway banks and a huge housing bubble.
Total economy database
After that slump, Finland experienced a long stretch of solid economic growth. But so did Sweden, and it’s hard to see any real difference in their degrees of success. There’s certainly nothing there to indicate that euro membership was crucial to growth. Since 2008, on the other hand, Sweden has – despite bobbling its monetary policy – done much better.
As I said, maybe there are good arguments against the proposition that the euro was a mistake. But pointing out that politics matters, and economies grow, doesn’t cut it; these aren’t the factoids you’re looking for.
Gli irritanti apologeti dell’euro
Esistono buoni argomenti da opporre all’idea che la creazione dell’euro si stata un errore epico? Forse sì. Ma gli argomenti che sto ascoltando sono del tutto scadenti. E sono anche profondamente irritanti.
Un argomento che continuo a osservare è che gli economisti che, come me, avanzano critiche non capiscono che l’euro è stato un progetto politico e strategico, non una mera faccenda di costi e di vantaggi economici. Sì, io sono un economista tardivo e rozzo, del tutto inconsapevole del ruolo della politica e della strategia internazionale nelle decisioni pubbliche, che non ha mai sentito parlare del progetto europeo e delle sue origini, nello sforzo dell’Europa di mettersi alle spalle l’eredità della guerra, per non dire di rafforzare la democrazia durante la Guerra Fredda.
Ora, per la verità sono tutte cose che conosco. Il punto, tuttavia, è che mentre il progetto europeo ad ogni suo stadio ha combinato obbiettivi economici con più generali obbiettivi politici – esso riguarda la pace e la democrazia, in un percorso di integrazione e di prosperità – non ci si può aspettare che quel progetto funzioni se le misure economiche non sono per loro conto una buona idea, o almeno un’idea non catastrofica. Quello che accadde nel percorso verso l’euro fu che le classi dirigenti europee, innamorate dalla carica simbolica della valuta unica, si rifiutarono di intendere gli ammonimenti secondo i quali l’unione valutaria – diversamente dalla rimozione delle barriere commerciali – era, nella sua logica economica, nel migliore dei casi un’idea ambigua, e probabilmente, persino ex ante, davvero scorretta.
Un argomento alternativo, che ascoltiamo provenire dalle economie depresse europee come la Finlandia, è che i costi a breve termine dell’inflessibilità sono bilanciati da supposti grandi vantaggi che vengono da una maggiore integrazione [1]. Ma dove sono le prove di questi grandi vantaggi? In questo articolo, si dice che quei vantaggi sono dimostrati dalla forte crescita della Finlandia dopo la crisi recente. Ma è possibile accreditare alla moneta unica il boom della Nokia? [2]
Ebbene, il diagramma mostra un confronto che io trovo interessante, tra la Finlandia e la sua vicina Svezia, dove un referendum nel 2003 respinse la adesione all’euro (mi ricordo di quel voto: amici svedesi che condividevano le mie preoccupazioni mi telefonarono nel mezzo della notte per festeggiare il risultato). Per entrambi i paesi utilizzo il 1989 come dato di partenza; quello fu l’anno precedente al grande declino scandinavo degli anni ’90, provocato da banche che uscirono dal controllo e a una vasta bolla immobiliare.
Banca dati di Total economy.
Dopo quel declino la Finlandia ha conosciuto un lungo periodo di solida crescita economica. Ma lo stesso accadde per la Svezia, ed è arduo vedere una qualche reale differenza nelle dimensioni del loro successo. Certamente non c’è niente che indica che la partecipazione all’euro fu cruciale per la crescita. D’altra parte, a partire dal 2008, la Svezia è andata assai meglio – nonostante le oscillazioni della sua politica monetaria.
Come ho detto, può darsi che ci siano buoni argomenti contro il concetto che l’euro fu un errore. Ma mettere l’accento sul fatto che conta la politica, e che le economie crescono, non risolve la questione; non è a questi luoghi comuni che si deve guardare.
[1] L’articolo al quale ci si riferisce nella connessione è di Neil Irwin, ed è apparso il 20 luglio sul New York Times.
[2] Nokia Oyj è una multinazionale finlandese, produttrice di apparecchiature per telecomunicazioni. Il 3 settembre 2013 viene annunciato ufficialmente un accordo dal valore di 5,44 miliardi di euro (7,17 miliardi di dollari), con il quale Microsoft si aggiudica la divisione Devices & Services di Nokia, i marchi Lumia, Asha e PureView, 8.500 brevetti permanenti, 30.000 brevetti in licenza per 10 anni e 32.000 dipendenti. (Wikipedia)
Ovviamente, gli andamenti economici di tale multinazionale hanno di recente influenzato in modo notevole le prestazioni finlandesi. Ciononostante le difficoltà sono evidenti.
luglio 22, 2015
July 22, 2015 11:18 am
What about Ireland? That’s what some people have been asking me; they’re under the impression that Ireland is a success story for austerity, and that this success is somehow a refutation of the broadly Keynesian account of the economy I’ve been giving. So I guess some clarification is in order.
As it happens, Simon Wren-Lewis has recently taken this very question on, and in a way I don’t have much to add. But maybe it will help to say more or less the same thing, but differently.
First of all, Ireland is a success only in a relative sense. Yes, it has done better than Greece, but it suffered a prolonged, very severe slump. It is growing again, finally — but that doesn’t undo the reality of a large price paid to get to this point.
Still, it is growing, and fairly fast at this point. Isn’t this something that wasn’t supposed to happen? Actually, no. If you apply a textbook Keynesian model – literally, the one in the best-selling international text, which happens to be Krugman, Melitz, and Obstfeld – it tells a story that looks a lot like Irish experience.
That textbook model can be described with the three equations shown, in which all variables are shown as deviations from their long-run equilibrium. First, the output gap y is determined via a multiplier effect by the structural budget balance B and the level of net exports NX. Second, net exports are determined by the real exchange rate; if we take the nominal exchange rate as given (e.g., if you’re on the euro), and also take foreign prices as given, this is determined by the domestic price level p. Finally, we have a rudimentary Phillips curve, in which the rate of inflation depends on the output gap.
Taken together, these imply the fourth equation, which shows how output self-corrects over time. In words: if the economy is depressed, it will experience deflation, perhaps absolute but in any case relative to its trading partners; this will gradually improve competitiveness, causing next exports to rise and the economy to converge back to normal. The rate of convergence will depend on three parameters: the multiplier, the sensitivity of the trade balance to the real exchange rate, and the sensitivity of inflation to the output gap.
I’ve written down some plausible guesses about these three parameters; they imply that the process of internal devaluation will, left to itself, correct 22.5 percent of an output gap over the course of a year. Alternatively, they imply that the half-life of a deviation of output from potential will be a little over three years.
But, you say, we’re more than 5 years into the euro crisis. Shouldn’t it be mostly gone? No, because austerity wasn’t put into effect all at once. Instead, countries faced several years of fiscal consolidation before there was a pause that permitted growth to resume.
The figure shows a hypothetical example that is meant as a sort of stylized Ireland. I assume that a fiscal tightening equal to 6 percent of potential GDP takes place over the course of three years; the cyclically adjusted balance then stabilizes, with no further tightening. What you see is a large economic downturn as long as the screws are being tightened, but a significant recovery once this stops. Again, this is just standard Keynesian open-economy macro: over time a depressed economy gains competitiveness, so that in the long run recovery happens. But in the long run …
I ‘tempi di dimezzamento’ degli altri (per esperti)
Che dire dell’Irlanda? È quello che alcuni mi stanno chiedendo: sono rimasti impressionati dal fatto che l’Irlanda sia una storia di successo dal punto di vista dell’austerità, e che questo successo sia in qualche modo una confutazione del generale resoconto keynesiano sull’economia che io vengo proponendo. Penso dunque sia il caso di qualche chiarimento.
Si dà il caso che Simon Wren-Lewis di recente si sia fatto carico di questa domanda [1], peraltro in termini ai quali non ho molto da aggiungere. Ma forse può essere utile dire più o meno la stessa cosa, in modi diversi.
Prima di tutto, l’Irlanda è una storia di successo solo in senso relativo. È vero, è andata meglio che in Grecia, ma essa ha patito un declino prolungato e molto serio. Sta tornando a crescere, finalmente – ma ciò non annulla la realtà del grande prezzo pagato per arrivare a questo punto.
Eppure, a questo punto sta crescendo, ad anche abbastanza velocemente. Si tratta di qualcosa che non si pensava accadesse? Per la verità, non è così. Se utilizzate un modello da un libro di testo keynesiano – precisamente il testo più diffuso a livello internazionale, che si dà il caso sia quello di Krugman, Melitz e Obstfeld – esso racconta una storia che sembra del tutto simile all’esperienza irlandese.
Quel modello da libro di testo può essere descritto con le tre equazioni sotto riprodotte, nelle quali tutte le variabili sono mostrate come deviazioni dal loro equilibrio di lungo termine. In primo luogo, il differenziale di produzione “y” è determinato attraverso un effetto di moltiplicatore dall’equilibrio strutturale di bilancio “B” e dal livello delle esportazioni nette “NX”. In secondo luogo le esportazioni nette sono determinate dal tasso di cambio reale; se assumiamo che il tasso di cambio reale è dato (ad esempio, se si fa parte dell’euro), e se anche assumiamo come dati i prezzi esteri, questo (il tasso di cambio) è determinato dal livello dei prezzi interno “p”. Infine abbiamo una rudimentale curva di Phillips [2], nella quale il tasso di inflazione dipende dal differenziale della produzione.
Prese assieme, queste equazioni ne implicano una quarta, che mostra come la produzione corregge se stessa nel corso del tempo. Esprimendolo in parole: se l’economia è depressa, essa conoscerà la deflazione, forse in termini assoluti ma comunque in relazione ai suoi partner commerciali; questo aumenterà gradualmente la sua competitività, provocando una successiva crescita delle esportazioni e una convergenza dell’economia verso la precedente normalità. Il tasso della convergenza dipenderà da tre parametri: il moltiplicatore, la sensibilità della bilancia commerciale al cambio di tasso reale, e la sensibilità dell’inflazione al differenziale della produzione.
Ho annotato alcune stime plausibili su questi tre parametri; esse implicano che il processo della svalutazione interna, lasciato a se stesso, correggerà il 22,5 per cento del differenziale della produzione nel corso di un anno. Alternativamente, esse implicano che il periodo di dimezzamento di una deviazione della produzione dal suo potenziale avverrà un poco sopra i tre anni.
Ma, direte, è 5 anni che siamo nella crisi dell’euro. Non dovrebbe (quella deviazione) essersene in gran parte andata? No, perché l’austerità non è stata messa in pratica tutta in una volta. I paesi hanno, invece, affrontato vari anni di consolidamento delle finanze pubbliche prima che ci fosse una pausa che ha consentito alla crescita di ripartire.
La figura mostra un esempio ipotetico che ha il significato di una specie di stilizzazione del caso irlandese. Considero che una restrizione della finanza pubblica pari al 6 per cento del PIL potenziale avvenga nel corso di tre anni; successivamente l’equilibrio corretto sulla base del ciclo economico si stabilizza, senza alcuna ulteriore restrizione. Quello che potete osservare è un ampio declino economico per tutto il tempo nel quale la restrizione è all’opera, ma una significativa ripresa una volta che questa si interrompe. Occorre aggiungere che questa è soltanto una normale macroeconomia keynesiana in condizioni di mercati aperti: nel corso del tempo una economia depressa guadagna competitività, cosicché nel lungo periodo si dà la ripresa. Ma nel lungo periodo ….
[1] Il riferimento è al post “Irlanda e Grecia” di Wren-Lewis del 19 luglio, tradotto su questo blog.
[2] Vedi le note sulla traduzione.
luglio 20, 2015
Jul 20 9:26 am
Remember when the likes of Paul Ryan accused Ben Bernanke of printing too much money, solemnly intoning that “There is nothing more insidious that a country can do to its citizens than debase its currency”? A big part of the justification for this fear-mongering was that commodity prices were rising sharply from their 2009 low, which the usual suspects claimed was a harbinger of rising overall inflation.
So, look at what’s been happening to commodity prices, including gold, recently.
Does this mean that deflation looms? Is it time to demand that Janet Yellen roll the printing presses?
I mean, it could be that the inflation hawks have learned their lesson, that they realize that volatile commodity prices aren’t a very good guide to policy, and that it makes sense to focus on core inflation. But I’ve seen no sign of a rethink.
Or it could be that inflation phobia is deep pure and simple, and no evidence will shake the state of perm-fear.
Rimettere in discussione la svalutazione del dollaro
Ricordate quando individui come Paul Ryan accusavano Ben Bernanke di stampare troppa moneta, dichiarando solennemente che “Non c’è niente di più insidioso che un paese possa fare per i suoi cittadini che ridurre il valore della valuta”? In buona misura la giustificazione per questo allarmismo era che i prezzi delle materie prime stavano crescendo bruscamente dai loro minimi del 2009, la qualcosa per i soliti noti era l’annuncio di una crescente inflazione generale.
Dunque, guardate cosa sta accadendo di recente ai prezzi delle materie prime, compreso l’oro:
Questo significa una deflazione incombente? È il momento di chiedere a Janet Yellen di mettere in movimento le macchine per stampare le banconote?
Voglio dire, potrebbe darsi che i falchi dell’inflazione abbiano imparato la lezione, che comprendano che i prezzi volatili delle materie prime non sono davvero una buona guida per la politica, e che la cosa sensata è concentrarsi sulla inflazione sostanziale. Ma non ho visto alcun segno di un ripensamento.
Oppure potrebbe darsi che la fobia dell’inflazione sia puramente e semplicemente un fenomeno profondo, e che nessuna prova scuoterà la condizione di permanente paura.
luglio 19, 2015
Jul 19 4:27 pm
One theme I’ve returned to often in this blog is that far from failing in the crisis, more or less conventional Hicks/Keynes macroeconomics — whether or not you dress it up in New Keynesian algebra — has performed very well. The quiescence of interest rates and inflation despite large budget deficits and huge increases in the monetary base, the strong negative correlation between fiscal austerity and growth, all have been just what someone who knew his or her IS-LM and took it seriously would have predicted. Anti-Keynesians keep making more or less desperate efforts to refute this proposition, usually by taking something I said out of context and pretending that something that happened for one year somewhere or other is contrary to what the Evil One claimed. But the overall shape of events has been very Keynesian, and very much at odds with alternative stories.
And at this point I think we need to chalk up another success.
Bloomberg had a piece trying to find a small group of heroic iconoclasts who predicted the euro crisis. But as David Beckworth rightly points out, many American economists warned about exactly the flaws in the euro that are now the source of so much suffering. Beckworth reminds us of a January 2010 article by Jonung and Drea that has become an accidental classic. Their intent was to mock U.S. economists who were negative on the euro and were made to look foolish by its success; to that end they provided an impressive bibliography and literature review of academic euroskepticism — and in so doing provided us with a sort of honor roll, because all the dire warnings from those ugly Americans came to pass within months of their article’s publication.
So why were the ugly Americans right? Because the theory of optimum currency areas turns out to be basically right. And that theory is best seen, I’d argue, as an application of the same Hicks/Keynes style of analysis that has worked so well on interest, inflation, and austerity.
All in all, the past 7 years have been a very good time for old-fashioned macroeconomics. But of course nothing will make the Germans, or the U.S. right, concede that Keynesian ideas have worked.
Il risarcimento euroscettico
Un tema sul quale sono tornato spesso su questo blog è che, anziché fallire di fronte alla crisi, la più o meno convenzionale teoria economica di Hicks e di Keynes – rivestita o no di algebra neokeynesiana – ha funzionato molto bene. La quiescenza dei tassi di interesse e dell’inflazione nonostante ampi deficit di bilancio e vasti incrementi della base monetaria, la forte correlazione negativa tra austerità nella finanza pubblica e crescita, sono state proprio quello che chi conosceva il modello IS-LM e l’aveva preso sul serio, avrebbe previsto. Gli antikeynesiani continuano a fare sforzi disperati per confutare questo concetto, di solito prendendo fuori dal contesto qualcosa che ho detto e pretendendo che qualcosa che è accaduto per un anno in un posto o nell’altro sia il contrario di quello che il sottoscritto individuo diabolico aveva sostenuto. Ma la forma generale degli eventi è stata molto keynesiana, e molto all’opposto di ricostruzioni alternative.
E a questo punto penso abbiamo bisogno di registrare un altro successo.
Bloomberg presenta un articolo che cerca di individuare in un piccolo gruppo di eroici iconoclasti, coloro che avevano previsto la crisi dell’euro. Ma come giustamente mette in evidenza David Beckworth, molti economisti americani avevano quasi esattamente messo in guardia da molti difetti dell’euro che oggi sono causa di tanta sofferenza. Beckworth ci rimanda ad un articolo del gennaio 2010 di Jonung e Drea che è diventato accidentalmente un classico. Il loro intento era prendersi gioco di economisti statunitensi che erano stati pessimisti sull’euro e stavano facendo la figura degli sciocchi a seguito del suo successo; a quel fine avevano fornito una impressionante bibliografia ed una recensione della letteratura dell’euroscetticismo accademico – e così facendo ci consegnarono una specie di lista dei migliori, perché tutti quei terribili ammonimenti da parte di americani sgradevoli, entro mesi dalla pubblicazione del loro articolo, vennero ad accadere.
Perché, dunque, quegli americani cattivi avevano ragione? Perché la teoria dell’area valutaria ottimale si è confermata fondamentalmente giusta. E quella teoria la si può comprendere nel migliore dei modi, direi, come una applicazione dello stesso genere di analisi di quella di Hicks e Keynes, che ha funzionato così bene sull’interesse, l’inflazione e l’austerità.
Tutto considerato, i sette anni passati sono stati un buon periodo per la macroeconomia vecchio stile. Ma, naturalmente, non c’è niente che indurrà i tedeschi, o la destra americana, ad ammettere che le idee keynesiane hanno funzionato.
luglio 17, 2015
Jul 17 5:13 pm
Not surprisingly, Rick Perlstein, our foremost expert on the rise of movement conservatism, has the best take so far on the Trump phenomenon. As he says, nobody should be surprised to find that there are a lot of Republicans who are mad as hell and won’t take it any more:
This is important: conservatism is like bigotry whack-a-mole. The quantity of hatred, best I can tell from 17 years of close study of 60 years of right-wing history, remains the same. Removing the flag of the Confederacy, raising the flag of immigrant hating: the former doesn’t spell some new Jerusalem of tolerance; the latter doesn’t mean that conservatism’s racism has finally been revealed for all to see.
And crucially, it’s a key part of conservative mythology that the silent majority shares this hatred, that it’s only the liberal elite with its political correctness keeping Americans from saying what they know to be true. (It’s like the constant trope from the likes of Bill O’Relly that anyone who disagrees with him is a “far-left” type, no matter how mainstream their ideas.)
So why shouldn’t they rally around The Donald? The elite considers him ridiculous, but the base has been told again and again that the elite is corrupt and anti-American. The base has also been told again and again that it represents the true views of everyone except Those People. So why shouldn’t they go with someone who is their kind of guy, in style as well as substance?
Trumpismo [1]
Non sorprendentemente, Rick Perlstein, il nostro massimo esperto sulla ascesa del ‘conservatorismo di movimento” [2], ha sinora la presa di posizione migliore sul fenomeno Trump. Come lui dice, nessuno dovrebbe essere sorpreso di scoprire che ci sono molti repubblicani ‘fuori di sé dalla rabbia che non intendono più sopportare questo stato di cose’ [3]:
“Questo è importante: il conservatorismo è come il gioco del colpire la talpa che esce dal buco [4], nella versione del fanatismo. Il meglio che io posso dire dopo 17 anni di studi della storia di sessant’anni della destra, è che la quantità di odio resta la stessa. Rimuovere la bandiera della Confederazione, issare la bandiera dell’odio agli immigrati: la prima non implica alcuna nuova Gerusalemme di tolleranza; la seconda non significa che il razzismo conservatore si sia finalmente palesato agli occhi di tutti.”
E, fondamentalmente, una parte decisiva della mitologia conservatrice è l’idea che la maggioranza silenziosa condivida questo odio, che soltanto i gruppi dirigenti liberal con la loro correttezza politica stanno trattenendo gli Americani dal dire ciò che sanno essere vero (è come il ritornello di individui come Bill O’Relly secondo il quale chiunque non è d’accordo con lui è un “estremista di sinistra”, a prescindere da quanto si tratti di idee convenzionali).
Perché, dunque, non dovrebbero andar dietro a Donald? Le élite lo considerano ridicolo, ma alla base è stato raccontato in continuazione che l’élite è corrotta ed antiamericana. Alla base è stato anche raccontato che ciò rappresenta il punto di vista di tutti, fatta eccezione di Quella Gentaglia [5]. Perché dunque non dovrebbero andare con qualcuno che è il loro genere di personaggio, nello stile così come nella sostanza?
[1] Donald Trump è un magnate americano (in particolare nel settore immobiliare, ma anche finanziario, dell’intrattenimento in particolare sportivo etc. ) in corsa per la nomination del Partito Repubblicano in vista delle presidenziali del 2016. Stando ad un rilevamento del Washington Post – ABC attualmente avrebbe i consensi del 24% dell’elettorato repubblicano, contro il 13% di Scott Walker e il 12% di Jeb Bush.
Una forte caratterizzazione di destra (e una capigliatura insolita).
[2] Ovvero, una coalizione di tendenze della destra (tradizionaliste, libertariane, anticomuniste, ma anche neo conservatrici e legate a movimenti religiosi) che si distingue per un approccio più dinamico e volitivo alla politica, rispetto al conservatorismo più tradizionale, che nella storia americana di solito viene riferito a lontani esempi, come quello di Nixon. Un’altra caratteristica è quella del forte sostegno di ambienti affaristici, con una conseguente ricaduta di finanziamenti e di fondazioni pseudo culturali.
[3] Metto l’espressione tra virgolette perché l’intera frase (“mad as hell and won’t take it any more”) è normalmente utilizzata per indicare la condizione psicologica delle persone di destra.
[4] Questo è il gioco in questione, che consiste nel colpire animaletti che escono dai buchi del piano di gioco, e il significato mi pare sia che la sostanza sta nel menare colpi contro nemici intercambiabili, più che nella distinta e riflettuta natura di quei nemici.
[5] Ovvero, delle minoranze, dei poveri, della gente di colore.
luglio 17, 2015
Jul 17 4:51 pm
By which I mean that he isn’t Serious. His latest on Greece and the euro suggests that the deeper problems lie not in Greek fecklessness but in the refusal of the core — basically Germany — to allow either monetary or fiscal policies that would offset the downdraft from austerity in the periphery. He even questions the sacred status of “structural reform”:
The slow recovery from the crisis of the euro zone as a whole is the result, among other factors, of (1) political resistance that delayed by many years the implementation of sufficiently aggressive monetary policies by the European Central Bank; (2) excessively tight fiscal policies, especially in countries like Germany that have some amount of “fiscal space” and thus no immediate need to tighten their belts; and (3) delays in taking the necessary steps, analogous to the banking “stress tests” in the United States in the spring of 2009, to restore confidence in the banking system. I would not, by the way, put “structural rigidities” very high on this list. Structural reforms are important for long-run growth, but cost-saving measures are less relevant when many workers are already idle; moreover, structural problems have existed in Europe for a long time and so can’t explain recent declines in performance.
Does all this sound sort of … familiar? Kind of like what other bearded Anglo-Saxon economists have been saying? As I’ve tried to point out for a long time, in this policy debate the supposedly radical types are the ones doing standard, more or less textbook economics, while the respectable voices have subscribed to fantasies ungrounded in either history or theory.
You might think that having one of history’s most celebrated central bankers weigh in on the anti-austerity side of the issue would change perceptions about what’s serious as opposed to Serious. But don’t bet on it.
Bernanke non è Serio
Con il che intendo che egli non fa parte delle Persone Molto Serie [1]. Il suo ultimo intervento sulla Grecia e sull’euro suggerisce che i problemi più profondi non consistono nella inettitudine greca ma nel rifiuto del centro dell’Europa – fondamentalmente la Germania – di consentire politiche sia monetarie che della finanza pubblica che bilancerebbero gli effetti depressivi dell’austerità nella periferia. Egli avanza persino un dubbio sullo status sacrale delle “riforme strutturali”:
“La lenta ripresa dalla crisi della zona euro nel suo complesso, tra gli altri fattori, è il risultato di (1) una resistenza politica che ha rinviato per molti anni la messa in atto di politiche monetarie sufficientemente aggressive da parte della Banca Centrale Europea; (2) le politiche della finanza pubblica eccessivamente restrittive, in particolare in paesi come la Germania che hanno una certa quantità di “spazio della finanza pubblica” e quindi non hanno alcun immediato bisogno di stringere le loro cinghie; e (3) i ritardi nel fare i passi necessari, analogamente agli “stress tests” bancari negli Stati Uniti, per ripristinare la fiducia nel sistema bancario. In questo elenco, io non metterei, per inciso, in prima fila le “rigidità strutturali”. Le riforme strutturali sono importanti per la crescita di lungo termine, ma misure di risparmio sui costi sono meno rilevanti quando molti lavoratori sono già inattivi; inoltre, i problemi strutturali sono esistiti per lungo tempo in Europa e dunque non possono spiegare i cali recenti nelle prestazioni.”
Sono parole che vi sembrano in qualche modo familiari? Del tipo di quelle che altri barbuti [2] economisti anglo-sassoni vengono dicendo? Come da tempo sto cercando di mettere in evidenza, in questo dibattito politico i presunti soggetti radicali sono quelli che praticano un’economia ordinaria, più o meno del genere dei libri di testo, mentre le voci rispettabili hanno aderito a fantasie che non hanno fondamento né nella storia né nella teoria.
Potreste pensare che essendo uno dei più celebrati banchieri centrali della storia intervenuto sul versante contrario all’austerità di quel dibattito, cambi la percezione di quello che è serio, nel senso di opposto a “Serio”. Ma non scommetteteci.
[1] Traduco un po’ liberamente, per rendere più chiaro che la ‘mancanza’ di serietà di Bernanke, riferita ad un post dello stesso ex Presidente della Federal Reserve tradotto su questo blog, non si riferisce alle sue tesi, ma al suo non far parte del raggruppamento krugmaniano delle Persone Molto Serie, ovvero dei conservatori in economia.
[2] Ogni tanto sulla stampa di destra appare questo argomento un po’ banale per il quale vari economisti keynesiani – come in USA Krugman e Stiglitz, nel Regno Unito Wren-Lewis – portano la barba, alla stregua di un segno di distinzione accademico e per giunta liberal.
luglio 17, 2015
Jul 17 9:04 am
Matt O’Brien directs us to a Heritage Foundation economist presenting what is portrayed as a startling idea: America could become Greece! And it’s true — there probably haven’t been more than a few thousand articles issuing the same warning in the five (5) years since Alan Greenspan published “US Debt and the Greek Analogy“, with this immortal complaint:
Despite the surge in federal debt to the public during the past 18 months—to $8.6 trillion from $5.5 trillion—inflation and long-term interest rates, the typical symptoms of fiscal excess, have remained remarkably subdued. This is regrettable, because it is fostering a sense of complacency that can have dire consequences.
But Matt misses the truly wonderful part about the latest from Heritage, which is why we should be worried about turning into Greece:
Diverse academic research shows that economic growth slows significantly at high levels of public debt. Carmen M. Reinhart, Vincent R. Reinhart and Kenneth S. Rogoff, as well as Manmohan S. Kumar, Jaejoon Woo, Stephen Cecchetti, Madhusudan Mohanty and Fabrizio Zampolli, report that advanced economies with high levels of debt (85-90 percent of GDP and higher) grow more slowly annually than their lower-debt counterparts.
You might think that debt worriers would try to put the whole 90-percent debacle behind them — not just the Excel error and the extreme sensitivity of the results to odd data choices, but the strong suggestion that whatever debt-growth correlation is left mainly reflects causation from growth to debt and not the other way around. But I heard the same thing at Freedomfest: either these people never heard about the R-R crash-and-burn, or they hope their readers haven’t.
More broadly, I’ve noted in other contexts that the right never gives up an argument. You see this on Obamacare: the usual suspects are still claiming that the ACA didn’t really reduce the number of uninsured, that there has been a massive rate shock, that it’s creating a giant hole in the budget, etc., even in the face of sharply dropping uninsurance, moderate rate hikes, and below-prediction costs. They add new arguments, but the old ones never go away no matter how ludicrously wrong they’ve proved.
Grecia eterna
Matt O’Brien ci indirizza ad un economista della Fondazione Heritage che ci presenta quella che viene descritta come un’idea brillante: l’America potrebbe diventare come la Grecia! Ed è vero – ci sono state probabilmente appena alcune centinaia di articoli che dispensavano lo stesso ammonimento nei cinque (5) anni dal momento in cui Alan Greenspan pubblicò “Il debito degli Stati Uniti e le analogie con la Grecia”, con questa immortale lamentela:
“Nonostante la crescita del debito federale al pubblico durante i 18 mesi passati – da 5.500 a 8.600 miliardi di dollari – l’inflazione e i tassi di interesse a lungo termine, i sintomi tipici degli eccessi di finanza pubblica, sono rimasti considerevolmente controllati. Questo è disdicevole, perché sta incoraggiando un senso di compiacimento che può avere conseguenze terribili.”
Ma a Matt sfugge, a proposito delle ultime posizioni dell’Heritage, la parte davvero meravigliosa, che riguarda la ragione per la quale dovremmo essere preoccupati del diventare come la Grecia:
“Diverse ricerche accademiche mostrano che la crescita economica rallenta in modo significativo ad alti livelli di debito pubblico. Carmen M. Reinhart, Vincent R. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, come Manmohan S. Kumar, Jaejoon Woo, Stephen Cecchetti, Madhusudan Mohanty e Fabrizio Zampolli riferiscono che le economia avanzate con alti livelli di debito (85-90 per cento del PIL e più alti ancora) crescono più lentamente su base annua delle economie simile con debiti più bassi.”
Si direbbe che questi ansiosi del debito stiano cercando di mettersi alle spalle l’intera debacle di quell’argomento del 90 per cento – non solo l’errore di Excel e l’estrema sensibilità dei risultati a bizzarre scelte statistiche, ma la forte impressione che qualsiasi correlazione tra debito e crescita sia ipotizzata, essa rifletta principalmente un fattore di causa che procede dalla crescita al debito e non al contrario. Ma ho sentito una cosa del genere anche alla FreedomFest [1]: o queste persone non hanno mai saputo del disastro delle tesi di Reinhart-Rogoff, oppure sperano che non ne abbiano sentito parlare i loro lettori.
Più in generale, ho notato in altri contesti che la destra non rinuncia mai ad un argomento. Lo potete osservare nel caso delle riforma sanitaria di Obama: i soliti noti stanno ancora sostenendo che la Legge sulla Assistenza Sostenibile in realtà non ha ridotto il numero dei non assicurati, che c’è stato un massiccio trauma derivante dalle aliquote, che si sta creando un buco gigantesco nel bilancio, persino a fronte di una brusca caduta dei non assicurati, di rialzi nelle aliquote modesti e di costi al di sotto delle previsioni. Essi aggiungono nuovi argomenti, ma i vecchi non escono mai di scena a prescindere da quanto si siano mostrati ridicoli.
[1] Una specie di Festival nazionale sul “nuovo sogno americano”, mi pare di impianto conservatore (probabilmente organizzata dalla stessa Heritage Foundation), ma al quale nel 2015 è stato invitato anche Krugman.
luglio 15, 2015
Jul 15 1:25 pm
When the financial crisis struck, there were widespread calls for new economic thinking; surely, many believed, the drastic events showed that there was something terribly flawed about economic analysis. In fact, however, the crisis itself, and even more the developments that followed, have been anything but puzzling. Again and again, things have played out pretty much the way you would have expected if you (a) understood and took seriously basic Hicks/Keynes macroeconomics and (b) paid attention to the relevant economic history.
The problem has been that all too many policymakers and pundits were and are either ignorant of these basics or determined to ignore them — or, putting these together, determined to be ignorant. Year after year, as we reproduce the 1930s, the usual suspects have been obsessed with fears of a return to the 1970s; as we become Japan they worry that we’re about to become Zimbabwe; and so on.
So, on the issue of the moment, there are actually quite good historical models for what Greece has been trying to do — cope with a large debt overhang via austerity policy. Britain, after all, emerged from each world war with very high public debt. Its debt burden just after World War I was, as a share of GDP, roughly comparable to Greece’s in 2009; its burden after World War II was twice as high.
What happened? Almost three years have passed since the IMF — yes, the IMF — pointed out that Britain between the wars tried a strategy much like that of European debtors: hard money plus austerity. Britain was incredibly determined, running huge primary surpluses as a share of GDP; but it failed to make a significant dent in the debt burden, because deflation ate up any gains from fiscal austerity:
Bank of England and IMF
The story after World War II was very different. While Britain did run primary surpluses, they were for the most part considerably smaller than after World War I. But the debt ratio fell dramatically, because of the combination of inflation and financial repression that helped keep interest rates low:
Bank of England and IMF
The secret of Britain’s success the second time around? After World War I it returned to the gold standard; while it did eventually let the pound fall, at that point this mainly was just sufficient to offset global deflation in the face of the Great Depression. After World War II Britain faced a world economy with rising prices, but nonetheless sharply devalued the pound in 1949:
Bank of England
What, in this history, would lead anyone to believe that the troika’s policies for Greece had any chance of succeeding?
Now what? If Greece still had its own currency, the case for devaluation would be completely overwhelming at this point. What this means, in turn, is that everything — the ongoing economic disaster in Greece, the bitter divisions within the euro area, the perplexity of even the best intentioned policymakers — flows from the supposedly insuperable technical difficulties of going off the euro.
Can this possibly make sense given the extremity of the situation?
Lezioni della storia per i paesi debitori dell’area euro
Quando esplose la crisi finanziaria, ci furono pronunciamenti generalizzati a favore di un nuovo pensiero economico; di sicuro, in molti credevano che i gravi fatti avessero dimostrato che c’era qualcosa di tremendamente difettoso nell’analisi economica. Di fatto, tuttavia, la crisi stessa e ancora di più gli sviluppi che seguirono, sono stati tutt’altro che sorprendenti. Più e più volte, le cose sono andate a finire più o meno nel modo che ci si sarebbe aspettati se: a) si capiva e si prendeva sul serio la macroeconomia di base di Hicks e Keynes; b) si prestava attenzione a ciò che conta nella storia economica.
Il problema è stato che un numero esagerato di operatori pubblici e di commentatori erano e sono all’oscuro di quei fondamenti, oppure determinati a ignorarli – oppure, mettendo assieme questi aspetti, determinati a restare all’oscuro. Anno dopo anno, come in una riedizione degli anni ’30, i soliti noti sono finiti sotto l’ossessione di un ritorno agli anni ’70; nel mentre diventavamo come il Giappone, loro avevano paura che stessimo diventando come lo Zimbabwe, e così via.
Dunque, sul tema del momento, per la verità esistono modelli storici abbastanza buoni in riferimento a quello che la Grecia sta cercando di fare – lottare con un largo eccesso di debito attraverso una politica di austerità. L’Inghilterra, dopo tutto, venne fuori da entrambe le guerre mondiali con un debito pubblico molto alto. Appena all’indomani della Prima Guerra Mondiale il peso del suo debito era, come quota del PIL, confrontabile a quello della Grecia nel 2009; il peso del suo debito dopo la Seconda Guerra Mondiale era il doppio.
Cosa accadde? Sono passati quasi tre anni dal momento in cui il FMI – sì, il FMI – mise in evidenza che l’Inghilterra tra le due guerre aveva provato una strategia molto simile a quella dei debitori europei: restrizione monetaria in aggiunta all’austerità. L’Inghilterra fu incredibilmente determinata, gestendo ampi avanzi primari in quota sul PIL; ma non riuscì a scalfire in modo significativo il peso del debito, perché la deflazione si mangiò tutti i guadagni derivanti dalla austerità nelle finanze pubbliche [1]:
Banca di Inghilterra e FMI
La storia dopo la Seconda Guerra Mondiale fu assai diversa. Se l’Inghilterra realizzò avanzi primari, essi furono per la maggior parte considerevolmente più piccoli di quelli successivi alla Prima Guerra. Ma la percentuale del debito cadde in modo spettacolare, a causa della combinazione di inflazione e di una repressione finanziaria [2] che contribuì a tenere bassi i tassi di interesse:
Banca di Inghilterra e FMI
Quale fu il segreto del successo inglese nel secondo caso? Dopo la Prima Guerra Mondiale essa tornò al gold standard; se alla fine essa consentì la caduta della sterlina, a quel punto ciò fu appena sufficiente a bilanciare la deflazione globale a fronte della Grande Depressione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Inghilterra fronteggiava un’economia globale con prezzi crescenti, ma ciononostante svalutò bruscamente la sterlina nel 1949:
Banca di Inghilterra
A fronte di questa storia, che cosa può indurre chiunque a credere che le politiche della Troika abbiano una qualche possibilità di successo?
E adesso cosa accadrà? Se la Grecia avesse ancora la propria valuta, a questo punto l’ipotesi della svalutazione sarebbe del tutto inarrestabile. Ciò che questo significa, a sua volta, è che ogni cosa – il perdurante disastro economico in Grecia, le aspre divisioni all’interno dell’area euro, le perplessità persino degli operatori pubblici meglio intenzionati – discende dalle presunte insuperabili difficoltà tecniche a lasciare l’euro.
È verosimile che questo abbia un senso, data l’eccezionalità della situazione?
[1] Mi pare che le due tabelle successive debbano essere lette considerando la percentuale del debito (sul PIL) in relazione alla scala di destra e gli avanzi primari in relazione alla scala di sinistra. Ad esempio, nel caso della situazione successiva alla Prima Guerra Mondiale, la percentuale del debito, che era il 100 per cento nel 1920, era superiore al 120 per cento nel 1938, ovvero le scelte fatte furono un completo insuccesso. I vantaggi degli avanzi primari, ovvero della austerità – che erano oscillati dal 6 al 9 per cento del PIL tra il 1920 ed il 1935 – non produssero alcun effetto sul peso del debito.
Invece, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i vantaggi degli avanzi primari (che furono cospicui in particolare tra il 1947 ed il 1951), andarono chiaramente a vantaggio delle riduzione del peso del debito, che passò da oltre il 250 per cento del PIL nel 1947 a circa il 120 per cento del PIL nel 1960.
[2] La repressione finanziaria è la fissazione di limiti alla crescita del credito all’economia. In un regime di r. f. lo Stato decide chi deve concedere credito, a chi e a che prezzo, creando distorsioni nei criteri di mercato circa l’allocazione. (Treccani) Ovvero, è un periodo caratterizzato da una marcata arbitrarietà nei meccanismi di distrubuzione delle risorse finanziarie, finalizzata a migliorare la condizione della finanza pubblica.
luglio 15, 2015
Jul 15 9:41 am
Everyone is talking about the IMF’s new update to its debt sustainability analysis, which says that Greece’s attempt to surrender is doomed to failure without massive debt relief. That’s surely the right conclusion.
However, it’s hard to accept the document’s claim that this is a new development, the result of the banking crisis of the past two weeks plus the economic troubles since Syriza came to power. If the original plan for Greece made any sense, whatever damage has been done recently should be largely reversible: restore liquidity to the banks, establish a government of faithocrats who restore confidence, and debt should end up peaking only a few percentage points of GDP higher than previously predicted. That is, even if you accuse Syriza of botching things terribly, no economic analysis I know of says that a few months of misgovernment permanently damage a country’s growth prospects.
The point, surely, is that the plan for Greece was never feasible. No matter how willing a nation is to suffer, no matter how willing to run primary surpluses on a scale that is very rare in history, trying to pay off high debt through austerity without any kind of monetary offset is basically a recipe for debt deflation and failure. This is, in fact, what the IMF’s own research has said.
And the return to growth last year would have turned out to be a false dawn even without the political crisis. That slight uptick largely reflected a pause in austerity — and would have gone away regardless as the troika resumed tightening the fiscal vise.
So it’s good to see the IMF being realistic here, but the institution remains unwilling to face up fully to past errors — which matters, because these past errors are prologue to the doom that faces any attempt to stay the course.
Una posizione insostenibile
Tutti stanno intervenendo sul nuovo aggiornamento del FMI della sua analisi sulla sostenibilità del debito, che dice che il tentativo di restituzione da parte della Grecia è condannato al fallimento senza una massiccia riduzione del debito. Questa è senz’altro la conclusione giusta.
Tuttavia, è difficile accettare la pretesa del documento che questo sia uno sviluppo recente, il risultato della crisi bancarie delle due settimane passate, in aggiunta ai guai economici dal momento che Syriza è andata al potere. Se il piano originario per la Grecia aveva un senso, qualsiasi danno sia stato fatto di recente, esso avrebbe dovuto essere ampiamente reversibile: ripristinare la liquidità delle banche, metter su un Governo di “fiduciocrati” [1] che ristabilisca la fiducia, e il debito doveva finire col toccare il limite di pochi punti in percentuale del PIL più alti di quanto precedentemente previsto. Ovvero, per quanto si accusi Syriza di pasticciare le cose in modo terribile, nessuna analisi che io conosca dice che pochi mesi di malgoverno possono danneggiare in modo permanente le prospettive di crescita di un paese.
Di sicuro, il punto è che quel piano non è mai stato fattibile. Non è importante quanto una nazione sia disposta a patire, non è importante quanto sia disposta a gestire avanzi primari in una dimensione molto rara nella storia: cercare di restituire un debito elevato senza un bilanciamento monetario di alcun genere è fondamentalmente una ricetta per la deflazione da debito e per il fallimento. Questo, di fatto, è quello che la stessa ricerca del FMI ha detto.
E, anche senza la crisi politica, si sarebbe scoperto che il ritorno alla crescita dell’anno passato era una falsa aurora. Quella leggera risalita rifletteva in gran parte una pausa nell’austerità – e se ne sarebbe andata a prescindere dal fatto che la Troika abbia ricominciato a stringere la morsa sulla finanza pubblica.
Dunque, è una buona cosa che in questo caso il FMI sia realistico, ma l’istituzione resta indisponibile a misurarsi pienamente con gli errori passati – la qualcosa è importante, perché questi errori passati sono il prologo al destino tragico che incombe su ogni tentativo di mantenere la rotta.
[1] Vedi il post con quel titolo del 14 luglio.
luglio 15, 2015
Jul 15 9:21 am
Jacob Soll writes about the destructive anger he saw at a German conference on euro issues; I can second that observation.
You see, I’ve been getting a lot of mail from Germany lately, in a break from (or actually an addition to) my usual deluge of right-wing hate mail. I’m well aware that this is a highly distorted sample, since I’m only hearing from those angry enough and irrational enough — seriously, what do the writers expect to accomplish? — to send such things. Still, the content of the correspondence is striking.
Basically, the incoming missives take two forms:
Again, these are letter-writers, and hardly representative. But Germany’s sense of victimization does seem real, and is a big problem for its neighbors.
Tedeschi arrabbiati
Jacob Soll racconta la rabbia distruttiva che ha constatato in una conferenza tedesca sui temi dell’euro; è una osservazione che posso confermare.
Vedete, di recente mi sto procurando una gran quantità di mail dalla Germania, in una pausa, o forse in aggiunta, al consueto diluvio di mail a base di odio che mi arrivano dalla destra. Sono ben consapevole che si tratta di un campione altamente distorto, dato che mi riferisco soltanto a coloro che sono talmente arrabbiati e talmente irrazionali da spedire cose del genere (sul serio, che cosa si aspettano di ottenere quegli autori ?) Eppure, il contenuto della corrispondenza è impressionante.
Fondamentalmente, le missive in arrivo hanno due forme:
1 – Oscenità, sia in inglese che in tedesco
2 – Accuse più aspre di persecuzione, del genere “Come ebreo dovresti conoscere i pericoli della demonizzazione di un popolo”. Perché criticare l’ideologia economica di una nazione è proprio come dichiarare il suo popolo sub umano.
Lo ripeto, costoro sono persone che scrivono lettere, difficilmente si possono considerare rappresentativi. Ma il senso di vittimizzazione della Germania sembra reale, ed è un gran problema per i suoi vicini.
luglio 14, 2015
Jul 14 1:59 pm
Part of the background to the sack of Athens is the widespread belief among Europe’s austerians that, despite everything that has happened, they are in the process of being vindicated. After all, growth has resumed in the GIIPS countries – in fact, even Greece was growing until Syriza came to power and scared away the confidence fairy.
Now, many of us took on similar claims in the UK – and quickly noted that a large part of the story behind the resumption of British growth in 2013-2014 was actually a pause in fiscal consolidation. Confusion between levels and rates of change is endemic here — actually, it’s just amazing how much discussion of macroeconomics since the crisis is nonsense because people who imagine themselves sophisticated are muddled about the difference between levels and changes. But the models are completely clear: the rate of growth of GDP should depend on the change in the structural budget balance. So you would expect GDP growth to pick up, other things equal, if there is a slowdown in the pace of tightening even if austerity isn’t actually reversed.
So how does the story of the GIIPS fit into this analysis? Exhibit 1 shows the overall stance of fiscal policy in the GIIPS, using the IMF’s estimate of the structural budget balance as a share of potential GDP — an imperfect measure, but good enough, I think, to make the point. To get a single number I weight countries by their 2009 PPP GDP, also from the IMF. The story is clear: rapid, drastic tightening from 2009 to 2013, but a standstill in 2014. A revival of growth in 2014 is therefore no surprise — and it actually supports the Keynesian story, rather than refuting it.
Exhibit 1
Exhibit 2 shows things a bit differently, with more detail. Each point in the scatterplot represents an individual GIIPS country in a given year, with the horizontal axis showing the change in the structural balance — effectively, the additional austerity imposed in that year — and the vertical axis representing the rate of growth. As usual, we see a clear negative association, consistent with a Keynesian story.
Exhibit 2
In addition to the usual scatter, however, I have marked the observations for 2014 in red. As you can see, 2014 was a year of modest growth for all of the countries; it was also a year in which fiscal consolidation was effectively put on hold. And the outcomes were well within a range consistent with the previous austerity-growth relationship.
So is there anything at all here suggesting that it’s OK to impose further fiscal tightening on Greece, that this won’t deepen its depression? For that matter, does Greece even stand out as having done worse than you would expect given the incredibly harsh fiscal adjustment? No and no.
La pausa del 2014
In parte, sullo sfondo del sacco di Atene, c’è il convincimento generale tra i filoausteri d’Europa che, a dispetto di tutto quello che è successo, sia in atto un risarcimento. Dopo tutto, la ripresa è ripartita nei paesi GIIPS – di fatto, persino la Grecia stava crescendo finché non è arrivata al potere Syriza e non ha scacciato via la fata della fiducia.
Ora, molti di noi hanno affrontato pretese del genere nel Regno Unito – ed hanno di passaggio osservato che una larga parte della storia che sta dietro la ripresa della crescita inglese negli anni 2013-2014 sia effettivamente dipesa da una pausa nel consolidamento delle finanze pubbliche. In cose del genere la confusione tra i livelli ed i tassi di cambiamento è endemica – per la verità, è del tutto sorprendente quanta parte del dibattito macroeconomico a partire dalla crisi sia stata un nonsenso perché persone che si immaginano sofisticate sono impantanate nella differenza tra livelli e cambiamenti. Ma i modelli sono completamente chiari: il tasso di crescita del PIL dovrebbe dipendere dal cambiamento nell’equilibrio strutturale di bilancio. Dunque, a parità delle altre condizioni, ci si aspetta che la crescita del PIL si riprenda se c’è una rallentamento del ritmo della restrizione, anche se l’austerità non è effettivamente invertita.
Dunque, in che modo la storia dei GIIPS si adatta a questa analisi? La Prova numero 1 mostra la posizione complessiva della politica della finanza pubblica nei PIIGS, utilizzando le stime del FMI dell’equilibrio strutturale di bilancio come quota del PIL potenziale – una misurazione imperfetta, ma sufficiente, io penso, a dare il senso. Per ottenere un unico dato io valuto i paesi sulla base del loro PIL a parità di potere d’acquisto, derivando anche questo dal FMI. La storia è evidente: restrizione rapida e drastica dal 2009 al 2013, ma un arresto nel 2014. Di conseguenza, una ripresa nel 2014 non è una sorpresa – ed effettivamente è di supporto alla spiegazione keynesiana, anziché confutarla.
Prova 1
La Prova numero 2 mostra le cose un po’ differentemente, con maggiore dettaglio. Nel grafico a dispersione ciascun punto mostra un singolo paese dei GIIPS in un dato anno, con l’asse orizzontale che indica il cambiamento nell’equilibrio strutturale di bilancio – in sostanza, l’austerità aggiuntiva che è stata imposta in quell’anno – e l’asse verticale che rappresenta il tasso di crescita. Come al solito, constatiamo un rapporto chiaramente negativo, coerente con una spiegazione keynesiana [1].
Prova 2
In aggiunta alla consueta dispersione, tuttavia, ho contrassegnato in rosso le osservazioni relative al 2014 [2]. Come si può notare il 2014 è stato un anno di crescita modesta per tutti i paesi ; esso è stato anche un anno nel quale il consolidamento delle finanze pubbliche è stato effettivamente sospeso. E i risultati sono stati del tutto all’interno di una gamma coerente con la precedente relazione tra austerità e crescita.
Non c’è dunque in questo caso qualcosa che indica che è stato giusto imporre ulteriore restrizione della finanza pubblica alla Grecia, dato che essa non approfondirà la sua depressione? Peraltro, la Grecia addirittura non risalta, avendo fatto peggio di quello che ci si sarebbe aspettati data la correzione della finanza pubblica incredibilmente severa? No, in entrambi i casi.
[1] Ovvero, si constata che la netta maggioranza delle volte nelle quali il quadratino che indica la situazione di un singolo paese in un anno evidenzia un cambiamento modesto o nullo dell’equilibrio strutturale di bilancio, il quadratino si colloca al tempo stesso attorno allo zero o in territorio positivo quanto a cambiamento nel PIL. Al contrario, negli otto casi nei quali l’austerità è stata maggiore di due punti (perché maggiore è stato il cambiamento strutturale di bilancio), in due casi la differenza è stata attorno a due punti negativi di PIL, negli altri 6 da due punti a quasi 8 punti.
[2] I quadratini in rosso, effettivamente, sono cinque, per ognuno dei paesi GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna). Il quadratino più a sinistra della linea relativa al cambiamento strutturale di bilancio (indicativo di un mutamento negativo dell’equilibrio strutturale, ovvero di una maggiore spesa e di nessuna politica di austerità), in realtà, se si osserva con attenzione, indica la situazione di due paesi.
Ma i quadratini totali sono 25, il che mi pare significhi che gli anni stimati sono dal 2010 al 2014 compreso. Mi pare logico ipotizzare che il riferimento al 2009 sia stato soppresso, forse perché la crisi non aveva ancora prodotto effetti relativi rilevanti (relativi, intendo, a confronto con l’anno precedente).
luglio 14, 2015
Jul 14 11:05 am
One of the ideas floating around in the aftermath of the sack of Athens has been that of, in effect, deposing Syriza from outside and installing a “technocratic” government. It wouldn’t be the first time in this dismal saga, and I won’t be surprised if it happens, for a few months anyway.
But let me note, as I have before, that what Europe calls technocrats aren’t people who know how the world works; they’re people who subscribe to the approved fantasies, and never change their minds no matter how badly wrong things go. Despite the overwhelming evidence that austerity has exactly the dire effects basic textbook macro says it will, they cling to belief in the confidence fairy. Despite a striking lack of evidence that “structural reform” delivers much of a growth boost, especially in an economy suffering from a huge output gap, they continue to present structural reform — mainly in the form of disempowering workers — as a sovereign remedy for all ills. Despite a clear record of past failure, they continue to push for asset sales as a supposed answer to debt overhang.
In short, what Europe usually means by a “technocrat” is a Very Serious Person, someone distinguished by his faith in received orthodoxy no matter the evidence. It’s as Keynes said:
Worldly wisdom teaches that it is better for reputation to fail conventionally than to succeed unconventionally.
And it looks as if there’s a lot more failing conventionally in Europe’s future.
Fiduciocrati
Una delle idee che circolava all’indomani del sacco di Atene era quella, in sostanza, di mettere da parte il Governo di Syriza per installarne uno “tecnocratico”. Non sarebbe la prima volta in questa saga sconfortante, e non sarei sorpreso se accadesse, magari tra pochi mesi.
Ma consentitemi di osservare che quelli che gli Europei chiamano i tecnocrati non sono persone che sanno come il mondo funziona; sono individui che aderiscono a fantasie riconosciute, e non cambiano mai la loro mentalità per quanto le cose vadano per il peggio. Nonostante la schiacciante evidenza che l’austerità ha esattamente gli effetti terribili che un testo di base di macroeconomia dice, essi si aggrappano alla loro fede nella fata della fiducia. Nonostante una impressionante mancanza di prove che le “riforme strutturali” producano un incentivo alla crescita cospicuo, particolarmente in un’economia sofferente di un grande differenziale di produzione (rispetto alle sue potenzialità), essi continuano a presentare le riforme strutturali – della specie, principalmente, della riduzione del potere dei lavoratori – come un rimedio sovrano per tutti i mali. Nonostante una chiara sequenza di fallimenti passati, essi continuano a spingere per vendite degli asset alla stregua di presunte risposte all’eccesso del debito.
In poche parole, quello che normalmente l’Europa intende per un “tecnocrate” è una Persona Molto Seria [1], qualcuno che si distingue per l’ortodossia che gli è stata trasmessa a prescindere dalle prove. È come disse Keynes:
“La saggezza universale ci insegna che è meglio per la reputazione fallire in modo convenzionale, piuttosto che avere successo in modo non convenzionale.”
E nel futuro dell’Europa sembra ci sia una gran quantità di fallimenti convenzionali.
[1] Come ormai sappiamo, una Persona Molto Seria – il maiuscolo è obbligatorio – nel linguaggio krugmaniano è un conservatore, ma più precisamente è un sostenitore di teorie economiche che si sono mostrate fallimentari, che peraltro confliggono anche con la economia tradizionale, e che si riproducono (come gli zombi) a prescindere dai loro fallimenti e dai loro presunti decessi. Conservatori, dunque, nel senso degli interessi sociali e politici che li sostengono, ma avventurosi ed esotici dal punto di vista della teoria economica.
Una Persona Molto Seria, normalmente, sostituisce i fondamenti dell’economia con la semplice speranza nella “fata della fiducia”, ovvero con la speranza che le classi sociali che hanno ruoli di direzione e di comando guidino i paesi verso la ripresa, per effetto del loro autoconvincimento.
« Pagina precedente — Pagina successiva »