By Paul Krugman
Life is full of surprises. But there are surprises, and then there are surprises.
What I mean is that most of the time, when something you weren’t anticipating happens, you quickly realize that it’s something you could and maybe even should have seen coming, at least as a possibility. Of course air traffic control delays caused me to miss my connection. Or, to take an economistic example, few anticipated the 2008 financial crisis, but once it happened economists realized that it fit right into both their theoretical frameworks and historical patterns.
Sometimes, however, events take a turn that leaves you wondering what’s going on even after the big reveal.
Right now the U.S. economy is experiencing a very old-fashioned bout of inflation, with too much money chasing too few goods. That is, booming demand has collided with constrained supply, so prices are rising.
But there are really two kinds of supply constraint out there, and some are more comprehensible than others.
Not many people anticipated the now famous supply-chain issues — the ships steaming back and forth waiting to be unloaded, the parking lots stacked high with containers and the warehouses that have run out of room. But once they began happening, those issues made perfect sense. Consumers who were afraid to buy services — to eat out, to go to the gym — compensated by buying lots of stuff, and the logistical system couldn’t handle the demand.
On the other hand, the Great Resignation — the emergence of what look like labor shortages even though employment is still five million below its prepandemic level, and even further below its previous trend — remains somewhat mysterious.
Unlike the “skills gap” invoked to explain persistent unemployment after the 2008 crisis, this time labor shortages seem to be real. Workers are quitting at record rates, an indication that they feel confident about finding new jobs. Wages are growing at rates normally associated with the peak of a boom. So workers are clearly feeling empowered, even though many fewer Americans are employed than in the past. Why?
Earlier this year many people insisted that enhanced unemployment benefits were reducing the incentive to accept jobs. But those extra benefits were eliminated in many states as early as June, and nationally in early September; this cutoff doesn’t seem to have had any measurable effect on employment or labor force participation.
Another story, which is harder to refute, says that the extensive aid families received during the pandemic left many with more cash on hand than usual, giving them the financial space to be choosier about their next job.
A less upbeat story says that some employees are still afraid to go back to work, and/or that many can’t go back to work because their child care arrangements are still disrupted.
But there’s at least one more possibility (these things aren’t mutually exclusive): The experience of the pandemic may have led many workers to explore opportunities they wouldn’t have looked at previously.
I’d been thinking vaguely along these lines, but Arindrajit Dube, who has been one of my go-to labor economists throughout this pandemic, recently put it very clearly. As he says, there’s considerable evidence that “workers at low-wage jobs [have] historically underestimated how bad their jobs are.” When something — like, say, a deadly pandemic — forces them out of their rut, they realize what they’ve been putting up with. And because they can learn from the experience of other workers, there may be a “quits multiplier” in which the decision of some workers to quit ends up inducing other workers to follow suit.
I like this story, in part because it dovetails with one of the main discoveries of behavioral economics — namely, that people have a strong status quo bias. That is, they tend to keep doing what they were doing even when there might be much better alternatives. Famously, workers are far more likely to enroll in retirement plans when they have to check a box to opt out than when they have to check a box to opt in. Checking that box costs nothing, yet many people will fail to take advantage of a good deal unless enrollment is automatic.
So I can easily believe that there were many workers who should have quit their lousy jobs in, say, 2019, but didn’t because they weren’t really considering the alternatives. And it’s at least possible that the disruptions of the pandemic led to a great rethink.
Of course, we don’t know this. But if that’s part of what’s happening, it’s actually a good thing — a small silver lining to the horrors of Covid-19.
La Grande Dismissione è un Grande Ripensamento?
Di Paul Krugman
La vita è piena di sorprese. Ma c’è sorpresa e sorpresa.
Quello che intendo è che la maggior parte delle volte, quando accade qualcosa che non avevate previsto, c’è qualcosa che rapidamente comprendete avreste potuto e forse persino dovuto prevedere, almeno come possibilità. Ovviamente, i ritardi derivanti dal controllo del traffico aereo mi fanno perdere una coincidenza. Oppure, per fare un esempio tratto dall’economia, in pochi previdero la crisi finanziaria del 2008, ma una volta che avvenne gli economisti compresero che si adattava perfettamente sia ai loro schemi teorici che ai loro modelli storici.
Talvolta, tuttavia, gli eventi prendono una piega che vi lascia col dubbio di cosa stia succedendo persino dopo la loro chiara manifestazione.
In questo momento l’economia statunitense sta conoscendo un periodo di inflazione del tutto vecchio stile, con troppi soldi che inseguono troppo pochi beni. Ovvero, la domanda in espansione è i collisione con una offerta limitata, dunque i prezzi stanno crescendo.
Ma in realtà in giro ci sono due tipi di limitazione dell’offerta, e alcuni sono più comprensibili degli altri.
Non in molti avevano previsto i temi adesso ben noti delle catene dell’offerta – le navi che vanno avanti e indietro in attesa di essere scaricate, i parcheggi accatastati con container l’uno sopra l’altro e i magazzini che hanno esaurito lo spazio. Ma al momento che cominciano ad avvenire, queste faccende hanno perfettamente senso. I consumatori che erano spaventati ad acquistare servizi – a mangiar fuori, ad andare in palestra – hanno compensato acquistando grandi quantità di oggetti, e il sistema della logistica non ha potuto gestire la domanda.
D’altra parte, la Grande Dismissione [1] – l’emergenza alla quale somigliano le scarsità di lavoro anche se l’occupazione è ancora sotto di cinque milioni rispetto al livello pre pandemico, e persino ulteriormente sotto la sua precedente tendenza – resta qualcosa di misterioso.
Diversamente dal “deficit di competenze” invocato per spiegare la persistente disoccupazione dopo la crisi del 2008, questa volta le scarsità di lavoro sembrano reali. I lavoratori dismettono i loro posti di lavoro a tassi record, una indicazione del fatto che si sentono fiduciosi di trovare nuove occupazioni. I salari stanno crescendo a tassi che normalmente vengono associati con il picco di una espansione. Dunque i lavoratori chiaramente si sentono più forti, anche se sono occupati molti americani in meno del passato. Perché?
Agli inizi di quest’anno molti insistevano che i migliorati sussidi di disoccupazione stavano riducendo gli incentivi ad accettare posti di lavoro. Ma quei sussidi sono stati eliminati in molti Stati agli inizi di giugno, e nazionalmente agli inizi di settembre; questa scadenza non sembra aver avuto alcun effetto misurabile sull’occupazione o sulla partecipazione alla forza lavoro [2].
Un’altra spiegazione, che è più difficile da confutare, dice che i vasti aiuti che le famiglie hanno ricevuto durante la pandemia hanno lasciato molti con maggiore contante a disposizione del solito, dando ad essi il margine finanziario per essere più esigenti sulla loro prossima occupazione.
Una spiegazione meno ottimistica afferma che alcuni occupati hanno ancora timore di tornare al lavoro, e/o che molti non possono tornare al lavoro perché le loro soluzioni nell’assistenza dei figli sono ancora non funzionanti.
Ma c’è almeno un’altra possibilità (queste spiegazioni non si escludono reciprocamente): l’esperienza della pandemia può avere indotto molti lavoratori ad esplorare opportunità alla quali non avrebbero guardato in precedenza.
Stavo ragionando vagamente in questi termini, ma Arindrajit Dube, che nel corso di questa pandemia è stato uno dei miei economisti del lavoro di riferimento, l’ha espressa di recente molto chiaramente. Come lui afferma, ci sono prove considerevoli che “i lavoratori con bassi salari [hanno] storicamente sottovalutato quanto fossero scadenti i loro posti di lavoro”. Quando qualcosa – ad esempio una pandemia letale – li costringe ad uscire dalla loro routine, essi comprendono cosa stanno sopportando. E poiché possono imparare dall’esperienza di altri lavoratori, ci può essere una sorta di “moltiplicatore delle dismissioni” per il quale la decisione di alcuni lavoratori di dimettersi finisce con l’indurre altri lavoratori a seguirli.
Questa spiegazione mi soddisfa, in parte perché essa si adatta bene ad una delle principali scoperte dell’economia comportamentale – precisamente, che le persone hanno una forte tendenza allo status quo. Ovvero, essi continuano a fare quello che stavano facendo anche se potevano esserci alternative molto migliori. Notoriamente, i lavoratori è molto più probabile che aderiscano a programmi di pensionamento quando devono selezionare una casella per annullare un adesione piuttosto che quando devono selezionarne una per parteciparvi. Selezionare quella casella non costerebbe niente, tuttavia molte persone rinunciano a trarre vantaggio da una buona soluzione a meno che l’iscrizione non sia automatica.
Dunque, non faccio fatica a credere che ci siano molti lavoratori che avrebbero dovuto dismettere i loro miseri posti di lavoro, ad esempio, nel 2019, ma non l’hanno fatto perché non stavano realmente valutando le alternative. Ed è almeno possibile che le turbative della pandemia abbiano indotto ad un grande ripensamento.
Naturalmente, questo non possiamo saperlo. Ma se questo è in parte ciò che sta accadendo, è effettivamente una cosa positiva – un piccolo risvolto positivo degli orrori del Covid-19.
[1] Mi sembra la traduzione preferibile. Tradurre con “Grande Dimissione” in riferimento al fenomeno dei lavoratori che esitano o rifiutano di tornare nei posti di lavoro precedenti la pandemia, sarebbe un po’ incomprensibile, oltre al fatto che spesso dai posti di lavoro che si tende ad evitare non ci si è dimessi (magari si è stati licenziati durante la pandemia e adesso si rifiutano, quando sono nuovamente disponibili). In realtà sono aree di occupazione che vengono “dismesse” o perché si considerano logoranti, o perché si vorrebbero salari migliori, o perché si è vicini al pensionamento.
[2] Il tasso di partecipazione alla forza lavoro indica, almeno nelle statistiche americane, la percentuale delle persone che lavorano o che stanno attivamente cercando lavoro, sulla popolazione civile (esclusi i cosiddetti ‘istituzionalizzati’, ovvero i degenti in ospedali, casa di cura e carceri).
novembre 5, 2021
Nov. 2, 2021
By Paul Krugman
Elon Musk doesn’t think visionaries like him should pay taxes the way little people do. After all, why hand over his money to dull bureaucrats? They’ll just squander it on pedestrian schemes like … bailing out Tesla at a crucial point in its development. Musk has his sights set on more important things, like getting humanity to Mars to “preserve the light of consciousness.”
Billionaires, you see, tend to be surrounded by people who tell them how wonderful they are and would never, ever suggest that they’re making fools of themselves.
But don’t you dare make fun of Musk. Billionaires’ money gives them a lot of political clout — enough to block Democratic plans to pay for much-needed social spending with a tax that would have affected only a few hundred people in a nation of more than 300 million. Who knows what they might do if they think people are snickering at them?
Still, the determined and so far successful opposition of incredibly wealthy Americans to any effort to tax them like normal people raises a couple of questions. First, is there anything to their insistence that taxing them would deprive society of their unique contributions? Second, why are people who have more money than anyone can truly enjoy so determined to keep every penny?
On the first question, there’s an enduring claim on the right that taxing billionaires will discourage them from doing all the wonderful things they do. For example, Mitt Romney has suggested that taxing capital gains will cause the ultrawealthy to stop creating jobs and buy ranches and paintings instead.
But is there any reason to believe that taxation will cause the rich to go Galt, and deprive us of their genius?
For the uninitiated, “going Galt” is a reference to Ayn Rand’s “Atlas Shrugged,” in which taxes and regulation induce wealth creators to withdraw to a hidden stronghold, causing economic and social collapse. Rand’s magnum opus was, as it happens, published in 1957, during the long aftermath of the New Deal, when both parties accepted the need for highly progressive taxation, strong antitrust policy and a powerful union movement. The book can therefore in part be seen as a commentary on the America of Harry Truman and Dwight Eisenhower, an era during which corporate taxes were more than twice as high as they are now and the top personal tax rate was 91 percent.
So, did the productive members of society go on strike and paralyze the economy? Hardly. In fact, the postwar years were a time of unprecedented prosperity; family incomes, adjusted for inflation, doubled over the course of a generation.
And in case you’re wondering, the wealthy didn’t manage to dodge all of the taxes being imposed. As a fascinating 1955 Fortune article documented, corporate executives really had come way down in the world compared with their prewar status. But somehow they continued to do their jobs.
OK, so the superrich won’t go on strike if forced to pay some taxes. But why are they so concerned about taxes anyway?
It’s not as if having to cough up, say, $40 billion would have any visible impact on the ability of an Elon Musk or Jeff Bezos to enjoy life’s pleasures. True, many very wealthy people seem to consider moneymaking a game, in which the goal is to outperform their rivals; but standings in that game wouldn’t be affected by a tax all the players have to pay.
What I suspect, although I can’t prove it, is that what really drives someone like Musk is an insecure ego. He wants the world to acknowledge his unequaled greatness; taxing him like a “$400,000-a-year working Wall Street stiff” (my favorite line from the movie “Wall Street”) would suggest that he isn’t a unique treasure, that maybe he indeed doesn’t deserve everything he has.
I don’t know how many people remember “Obama rage,” the furious Wall Street backlash against President Barack Obama. While it was partly a response to real changes in tax and regulatory policy — Obama did, in fact, significantly raise taxes at the top — what really rankled financiers was their sense of having been insulted. Why, he even called some of them fat cats!
Are the very rich pettier than the rest of us? On average, probably yes — after all, they can afford it, and the courtiers and flatterers attracted by huge fortunes surely make it harder to keep one’s perspective.
The important point, however, is that the pettiness of billionaires comes along with vast power. And the result is that all of us end up paying a steep price for their insecurity.
Su Elon Musk e sul pericoloso potere dei miliardari insicuri,
di Paul Krugman
Elon Musk pensa che i visionari come lui non dovrebbero pagare le tasse come le pagano le persone comuni. Dopo tutto, perché scucire il loro denaro a noiosi burocrati? Loro lo scialacqueranno in operazioni mediocri come … il salvataggio di Tesla in un momento cruciale del suo sviluppo [1]. Musk ha di mira cose più importanti, come portare l’umanità su Marte per “conservare la luce della coscienza”.
Vedete, i miliardari tendono a circondarsi di persone che gli dicono quanto sono meravigliosi e che non gli suggerirebbero, mai e poi mai, che si stanno rendendo ridicoli.
Eppure, non osate prendere in giro Musk. I soldi dei miliardari conferiscono loro un grande prestigio politico – sufficiente a bloccare i programmi dei democratici per finanziare la spesa sociale indispensabile con una tassa che avrebbe interessato poche centinaia di persone in una nazione di trecento milioni di abitanti. Chissà cosa potrebbero fare se pensassero che le persone stanno sogghignando su di loro?
Tuttavia, la determinata e sinora riuscita opposizione degli americani incredibilmente ricchi ad ogni tentativo di tassarli come persone normali solleva un paio di domande. La prima, c’è un qualche fondamento nella loro insistenza che tassarli priverebbe la società dei loro insostituibili contributi? La seconda, perché le persone che hanno più denaro di tutti riescono sinceramente e con tanta determinazione a godere nel tenersi ogni centesimo?
Sulla prima domanda, c’è a destra una pretesa intramontabile secondo la quale tassare i miliardari li scoraggerebbe dal fare tutte le cose magnifiche che fanno. Ad esempio, Mitt Romney ha suggerito che tassare i profitti da capitale comporterebbe che gli ultra ricchi smetterebbero di creare posti di lavoro, acquistando invece villette e dipinti.
Ma c’è qualche ragione per credere che la tassazione spingerebbe i ricchi ad andare con Galt [2] e ci priverebbe del loro genio?
Per i non iniziati, “andare con Galt” è un riferimento alla “Rivolta di Atlante” di Ayn Rand, nel quale le tasse e i regolamenti inducono i creatori di ricchezza a ritirarsi in una fortezza nascosta, provocando il collasso economico e sociale. Il libro principale della Rand, si dà il caso, venne pubblicato nel 1957, durante il lungo periodo successivo al New Deal, quando entrambi i partiti accettavano la necessità di una tassazione altamente progressiva, di una forte politica contro i trust e di un potente movimento sindacale. Il libro di conseguenza può essere considerato come una testimonianza sull’America di Harry Truman e Dwight Eisenhower, un’epoca durante la quale le tasse sulle società erano più del doppio di oggi e le aliquote sulle tasse personali dei più ricchi erano al 91 per cento.
Dunque, i membri produttivi della società andarono in sciopero e paralizzarono l’economia? Niente affatto. In realtà, gli anni postbellici furono un tempo di prosperità senza precedenti; i redditi dele famiglie, corretti per l’inflazione, raddoppiarono nel corso di una generazione.
E, nel caso ve lo stiate chiedendo, i ricchi non riuscivano ad eludere tutte le tasse che venivano imposte. Come documentava un affascinante articolo di Fortune del 1955, i dirigenti delle società dovettero per davvero scendere un bel po’ in basso nel mondo rispetto alla loro condizione nel periodo prebellico. Ma proseguirono comunque a fare il loro lavoro.
Dunque, i super ricchi non andranno in sciopero se saranno costretti a pagare un po’ di tasse. Ma perché sono comunque così preoccupati dalla tasse?
Non dipende dal fatto che dover sborsare, diciamo, 40 miliardi di dollari avrebbe un qualche effetto visibile sulla possibilità degli Elon Musk e degli Jeff Bezos di godere dei piaceri della vita. È vero, molte persone molto ricche sembrano considerino il far soldi come una partita, nella quale l’obbiettivo è avere prestazioni migliori dei loro rivali; ma il loro prestigio in quella partita non sarebbe influenzato da una tassa che tutti i giocatori dovrebbero pagare.
Quello che io sospetto, sebbene non possa addurre prove, è che quello che davvero guida persone come Musk è un ego insicuro. Egli vuole che il mondo riconosca la sua ineguagliata grandezza; tassandolo come “uno che lavora duramente a Wall Street per 400 mila dollari all’anno” (la mia frase favorita dal film “Wall Street”) indicherebbe che egli non è una fortuna irripetibile, che forse in effetti non merita tutto quello che ha.
Io non so quanti ricordino la “rabbia contro Obama”, la furiosa reazione di Wall Street contro il Presidente Barack Obama. Se essa fu in parte una risposta a cambiamenti reali nella politiche fiscale e dei regolamenti – Obama decise, nei fatti, aumenti significativi delle tasse per i più ricchi – quello che veramente irritò gli uomini della finanza fu la sensazione di essere stati insultati. Ma come, li chiamò persino “gatti grassi” [3]!
Le persone molto ricche sono più meschine di tutti noi? In media, probabilmente sì – dopo tutto, possono permetterselo, e i cortigiani e gli adulatori attratti dalle grandi fortune sicuramente rendono più difficile mantenere i propri nervi saldi.
Il punto importante, tuttavia, è che la meschinità dei miliardari va di pari passo con il loro grande potere. E la conseguenza è che tutti noi finiamo col pagare un prezzo salato per la loro insicurezza.
[1] Altre volte Krugman ha ricordato – a dire il vero come titolo di merito – che le misure di Obama servarono anche a scongiurare un collasso di Tesla, che da allora ebbe un successo ininterrotto.
[2] Nel libro sacro del libertarismo americano, La rivolta di Atlante di Ayn Rand, Galt è un ingegnere geniale, che intraprende una battaglia libertaria e capitalistica per una assoluta libertà di impresa e contro e regole della burocrazia, che alla fine si materializza in una fuga dalla società allo scopo di convincere tutti di quanto essi perdano dalla scomparsa dei capitalisti liberi di intraprendere. In questo progetto di isolamento, Galt fonda un città – una sorta di avveniristica Atlantide – nella quale vanno a vivere quelli come lui.
[3] Agli inizi della sua Presidenza, Obama definì i grandi magnati della finanza che durante la crisi ricevevano le loro gratifiche “gatti grassi”.
novembre 3, 2021
Oct. 29, 2021
By Paul Krugman
It’s been a troubled few months on the economic front. Inflation has soared to a 28-year high. Supermarket shelves are bare, and gas stations closed. Good luck if you’re having problems with your home heating system: Replacing your boiler, which normally takes 48 hours, now takes two or three months. President Biden really is messing up, isn’t he?
Oh, wait. That inflation record was set not in America but in Germany. Stories about food and gasoline shortages are coming from Britain. The boiler replacement crisis seems to be hitting France especially hard.
And one major driver of recent inflation, in America and everywhere else, has been a spike in energy prices — prices that are set in world markets, on which any one country, even the United States, has limited influence. Donald Trump has been claiming that if he were president, gas would be below $2 a gallon. How exactly does he imagine he could achieve that, when oil is traded globally and America accounts for only about a fifth of the world’s oil consumption?
In other words, the problems that have been crimping recovery from the pandemic recession seem, by and large, to be global rather than local. That’s not to say that national policies are playing no role. For example, Britain’s woes are partly the result of a shortage of truck drivers, which in turn has a lot to do with the exodus of foreign workers after Brexit. But the fact that everyone seems to be having similar problems tells us that policy is playing less of a role than many people seem to think. And it does raise the question of what, if anything, the United States should be doing differently.
So why does the whole world seem to be running on empty?
Many observers have been drawing parallels with the stagflation of the 1970s. But so far, at least, what we’re experiencing doesn’t look much like that. Most economies have been growing, not shrinking; unemployment has been falling, not rising. While there have been some supply disruptions — Chinese ports have suffered closures as a result of Covid outbreaks, in March a fire at a Japanese factory that supplies many of the semiconductor chips used in cars around the world hit auto production, and so on — these disruptions aren’t the main story.
Probably the best parallel is not with 1974 or 1979 but with the Korean War, when inflation spiked, hitting almost 10 percent at an annual rate, because supply couldn’t keep up with surging demand.
Is demand really all that high? Real final sales (purchases for consumption or investment) in the United States hit a record high but are roughly back to the prepandemic trend. However, the composition of demand has changed. During the worst of the pandemic, people were unable or unwilling to consume services like restaurant meals, and they compensated by buying more stuff — consumer durables like cars, household appliances and electronics. At their peak, purchases of durable goods were an astonishing 34 percent above prepandemic levels; they’ve come down some but are still very high. Something similar seems to have happened around the world.
Meanwhile, supply has been constrained not just by clogged ports and chip shortages but also by the Great Resignation, the apparent reluctance of many workers to return to their old jobs. Like inflation and shortages of goods, this is an international phenomenon. Reports from Britain, in particular, sound remarkably like those from the United States: Large numbers of workers, especially older workers, appear to have chosen to stay at home and perhaps retire early after having been forced off their jobs by Covid-19.
While the problems may be global, the political fallout is local: Shortages and inflation are clearly hurting Biden’s approval rating. But what could or should U.S. policymakers be doing differently?
As I’ve already suggested, energy prices are largely out of U.S. control.
A few months ago, there were widespread claims that enhanced unemployment benefits were discouraging workers from accepting jobs. Many states rushed to cancel these benefits even before they expired at a national level in early September. But there has been no visible positive effect on labor supply.
Should current shortages inspire caution about Democratic spending plans? No. At this point, the Build Back Better agenda, if it happens at all, will amount to only about 0.6 percent of G.D.P. over the next decade, largely paid for by tax increases. It won’t be a significant inflationary force; if anything, more spending on infrastructure would help alleviate inflationary pressures over time.
Other things might help. I’ve argued in the past that vaccine mandates, by making Americans feel safer about going to work and buying services rather than goods, could play a role in unclogging supply chains.
What’s left? If inflation really starts to look as if it’s getting embedded in the economy, the Federal Reserve should head it off by tightening policy, eventually by raising interest rates. It’s important to realize, however, that raising rates too soon could turn out to be a big mistake, since the Fed won’t have much room to cut rates if demand weakens.
The most important point, however, may be not to overreact to current events. The fact that shortages and inflation are happening around the world is actually an indication that national policies aren’t the main cause of the problems. They are, instead, largely inevitable as economies try to restart after the epic disruptions caused by Covid-19. It will take time to sort things out — more time than most people, myself included, expected. But a frantic attempt to restore the status quo on inflation would do more harm than good.
Un mondo che gira a vuoto,
di Paul Krugman
Sono stati mesi difficili sul fronte economico. L’inflazione è schizzata al livello massimo da 28 anni. Gli scaffali dei supermercati sono spogli e le stazioni della benzina chiuse. Se state avendo problemi con i vostri sistemi di riscaldamento domestici, in bocca al lupo: sostituire il vostro boiler, che normalmente richiede 48 ore, ora richiede due o tre mesi. Il Presidente Biden davvero sta facendo un disastro, non è così?
Ma, un momento. Quel record di inflazione non si è verificato in America ma in Germania. I racconti sulle scarsità di cibo e di benzina vengono dall’Inghilterra. La crisi nella sostituzione delle caldaie sta colpendo con particolare serietà la Francia.
Ed uno dei maggiori fattori delle inflazione recente, in America e dappertutto, è stato un picco nei prezzi dell’energia – prezzi che sono stabilti nei mercati mondiali, sui quali ogni paese singolo, persino gli Stati Uniti, ha influenza limitata. Donald Trump ha sostenuto che se fosse stato lui Presidente, la benzina sarebbe sotto i due dollari al gallone. Come si immagina che l’avrebbe ottenuto, quando il petrolio è scambiato globalmente e l’America pesa soltanto circa un quinto del consumo mondiale di petrolio?
In altre parole, i problemi che stanno ostacolando la ripresa dalla recessione pandemica sembrano essere, per la maggior parte, globali piuttosto che locali. Questo non significa che le politiche locali non stiano giocando alcun ruolo. Ad esempio, i guai dell’Inghilterra sono in parte il risultato di una scarsità di autotrasportatori, che a sua volta ha molto a che fare con l’esodo dei lavoratori stranieri dopo la Brexit. Ma il fatto che tutti sembrino avere problemi simili ci dice che la politica stia giocando un ruolo minore di quello che molti sembrano pensare. E ciò solleva la domanda di cosa, eventualmente, gli Stati Uniti avrebbero dovuto fare di diverso.
Dunque, perché il mondo intero sembra stia girando a vuoto?
Molti osservatori sono venuti tracciando paarallelismi con la stagflazione degli anni ’70. Ma, almeno sinora, quello che stiamo osservando non è affatto simile. La maggioranza delle economie stanno crescendo, non restringendosi; l’occupazione è venuta crescendo, non sta riducendosi; la disoccupazione sta calando, non è in crescita. Mentre ci sono state interruzioni dell’offerta – i porti cinesi hanno sofferto chiusure in conseguenza delle ondate di Covid, in marzo un incendio in una fabbrica giapponese che fornisce molti dei semiconduttori utilizzati nelle macchine in tutto il mondo ha colpito la produzione di veicoli, e via dicendo – queste turbative non rappresentano la spiegazione principale.
Probabilmente il migliore confronto non è con il 1974 o il 1979, ma con la Guerra Coreana, quando l’inflazione si impennò, toccando quasi un 10 per cento nel tasso annuale, perché l’offerta non poteva tenere il passo con una domanda crescente.
La domanda è davvero così elevata? Le vendite reali finali (acquisti per consumi o investimenti) negli Stati Uniti hanno toccato un record ma seguono grosso modo la tendenza prepandemica. Tuttavia, è cambiata la composizione della domanda. Durante il momento peggiore della pandemia, le persone non potevano o non erano disponibili a consumare i servizi come i pasti al ristorante, e lo compensavano acquistando più oggetti – consumi durevoli come macchine, elettrodomestici e prodotti dell’elettronica. Al loro picco, gli acquisti di beni durevoli erano ad uno stupefacente 34 per cento sopra i livelli pandemici; sono sceso un po’ ma restano ancora molto alti. Qualcosa di simile pare sia accaduto in tutto il mondo.
Nel frattempo, l’offerta è stata limitata non solo dai porti chiusi e dalla scarsità di semiconduttori ma anche dal fenomeno della Grande Dismissione [1], l’apparente riluttanza di molti lavoratori a tornare ai loro vecchi posti di lavoro. Come l’inflazione e la scarsità di beni, questo è un fenomeno internazionale. In particolare, i resoconti dall’Inghilterra sembrano molto simili a quelli degli Stati Uniti: una largo numero di lavoratori, specialmente i lavoratori più anziani, sembra aver scelto di restare a casa e forse di andare anticipatamente in pensione dopo essere stati espulsi dai loro posti di lavoro per il Covid.
Mentre i problemi sembrano essere globali, le ricadute politiche sono locali: le scarsità e l’inflazione stanno chiaramente danneggiando gli indici di consenso di Biden. Ma cosa potrebbero o dovrebbero fare di diverso le autorità statunitensi?
Pochi mesi orsono, c’erano argomentazioni diffuse secondo le quali il potenziamento dei sussidi di disoccupazione stavano scoraggiando i lavoratori dall’accettare posti di lavoro. Molti Stati si precipitarono a cancellare questi sussidi anche prima che essi andassero a scadenza ai primi di settembre. Ma non c’è stato alcun visibile effetto sull’offerta di lavoro.
Le scarsità dovrebbero ispirare cautela sui programmi di spesa dei democratici? No. A questo punto, il programma del Ricostruire meglio, ammesso che si realizzi, comporterà soltanto circa uno 0,6 per cento del PIL nel prossimo decennio, in buona parte finanziato da aumenti delle tasse. Esso non sarà un significativo fattore inflazionistico; semmai, una spesa maggiore sulle infrastrutture contribuirà a ridurre le spinte inflazionistiche nel corso del tempo.
Altre cose potrebbero aiutare. Ho sostenuto nel passato che gli obblighi vaccinali, facendo in modo che gli americani si sentano più sicuri nell’andare al lavoro e nell’acquistare servizi invece che oggetti, potrebbero giocare un ruolo nel disostruire le catene dell’offerta.
Cosa resta? Se l’inflazione realmente cominciasse ad apparire come incorporata nell’economia, la Federal Reserve dovrebbe dirottarla con una politica restrittiva, alla fine elevando i tassi di interesse. Tuttavia, è importante comprendere che elevare troppo presto i tassi potrebbe finire con l’essere un grave errore, dal momento che la Fed non avrà molti margini per tagliare i tassi se la domanda si indebolisce.
Il punto più importante, tuttavia, può non essere una reazione eccessiva agli eventi attuali. Il fatto che le scarsità e l’inflazione stiano avvenendo in tutto il mondo è nei fatti una indicazione che le politiche nazionali non sono la causa principale dei problemi. Sono, invece, largamente inevitabili nel momento in cui le economie cercano di ripartire dopo le distruzioni epiche provocate dal Covid-19. Ci vorrà tempo per riorganizzare le cose – più tempo di quello che molti, compreso il sottoscritto, si aspettavano. Ma un tentativo frenetico di ripristinare lo status quo sull’inflazione potrebbe far più male che bene.
[1] Il fenomeno in effetti si riferisce alla diffuse rinunce di lavoratori americani a tornare ai precedenti posti di lavoro. Che probabilmente, in una certa misura, è un fenomeno correlato con la maggiore esiguità o l’assenza di strumenti come il mantenimento del posto di lavoro quando si è temporaneamente non occupati (cassa integrazione). Se la regola è perdere il proprio posto, forse è più facile essere liberi di scegliere – particolarmente quando si è vicini alla pensione – se riacquisirlo quando diviene di nuovo disponibile.
ottobre 27, 2021
Oct. 22, 2021
By Paul Krugman
These are scary times in America, with one of our major parties careening into authoritarianism and the other having difficulty moving forward thanks to two uncooperative senators. Most of what I write, inevitably, focuses on the troubled prospects for our republic. But everyone needs a break. So today I want to talk about a happier topic: The risks of an economic crisis in China.
OK, not exactly happier. But a change in subject, anyway.
Warnings about the Chinese economy aren’t new — but until now the worriers, myself included, have been consistently wrong. Back in 2013 I suggested that China’s growth model was becoming unsustainable, and that its economy might be about to hit a Great Wall; obviously that didn’t happen.
Yet the more closely you look at how China has been able to keep its economy going, the more problematic it looks. Basically, China has masked underlying imbalances by creating an immense housing bubble. And it’s hard to see how this ends well.
The background: The reforms introduced by Deng Xiaoping at the end of the 1970s created an economic miracle. China, which was desperately poor, is now a middle-income nation, and given its size, that makes it an economic superpower. But China’s economic growth has been gradually slowing. Here’s a five-year moving average of the country’s growth rate:
A slowing miracle.Credit…University of Groningen
There’s nothing mysterious about this slowdown. China was able to achieve incredibly rapid growth through a combination of technological borrowing from more advanced nations and a huge transfer of population from rural areas to cities. As its technological sophistication grew and the reservoir of rural labor shrank, growth was bound to slow. In addition, the one-child policy gave China the kind of demography we usually associate with richer countries: The working-age population peaked a few years ago and is now shrinking:
The legacy of the one-child policy.Credit…FRED
In and of themselves, slower growth and a demographic transition needn’t imply a crisis. But here’s the problem: Chinese spending patterns haven’t adjusted to the needs of a slower-growth economy. In particular, the country still has a very high savings rate, so to maintain full employment it needs to invest an incredibly high share of G.D.P. — more than 40 percent.
What drives investment? Normally, it depends a lot on how fast the economy is growing: growth is what creates a demand for new factories, office buildings, shopping malls and so on. So very high investment as a share of G.D.P. is sustainable if the economy is growing at 9 or 10 percent a year. If growth drops to 3 or 4 percent, however, the returns on investment drop. That’s why China really needs to change its economic mix — to save less and consume more.
But Chinese savings have stayed stubbornly high — and yes, excessive saving is an economic problem.
A few years ago a study from the International Monetary Fund tried to explain high Chinese savings. It suggested that the biggest culprit was the same demographic transition that is one cause of slowing growth: A declining birthrate means that Chinese adults can’t expect their children to support them later in life, so they save a lot to prepare for retirement. This demographic factor is reinforced by the weakness of China’s social safety net: People can’t count on the government to support them in their later years or to pay for health care, so they feel the need to accumulate assets as a precaution.
Chinese policymakers know all this, but somehow haven’t been able to deal with these underlying issues. Instead, they’ve kept the rate of investment very high despite slowing growth — mainly by encouraging huge spending on housing construction. A 2020 paper by Kenneth Rogoff and Yuanchen Yang shows that Chinese investment in real estate now greatly exceeds U.S. levels at the height of the 2000s housing bubble, both in dollar terms and as a share of G.D.P.:
Now that’s a housing bubble.Credit…Kenneth Rogoff and Yuanchen Yang
Rogoff and Yang also show both that housing prices in China are extremely high relative to incomes and that the real estate sector has become an incredibly large share of China’s economy.
None of this looks sustainable, which is why many observers worry that the debt problems of the giant property developer Evergrande are just the leading edge of a broader economic crisis.
I’ve already pointed out that until now China has been able to defy the doomsayers. So you might be tempted to give Chinese policymakers the benefit of the doubt, and assume that they’ll manage to deal with this situation. It turns out, however, that they haven’t really been dealing with their economy’s underlying problems, they’ve been masking those problems by creating a housing bubble that will ultimately magnify the problem.
But why should the rest of the world care? China, which maintains controls on the flow of capital into and out of the country, isn’t deeply integrated with world financial markets. So the fall of Evergrande isn’t likely to provoke a global financial crisis in the same way that the fall of Lehman Brothers did in 2008. A Chinese slowdown would have some economic spillover via reduced Chinese demand, especially for raw materials. But in purely economic terms, the global economic risks from China’s problems don’t look all that large.
China does, however, have an autocratic government — the kind of government that in other times and places has tended to respond to internal problems by looking for an external enemy. And China is also a superpower. It’s not hard to tell scary stories about where all this might lead.
And with that, I return you to your regular worries about what’s going on in the United States.
La Cina è in un gran guaio?
Di Paul Krugman
Questi sono tempi spaventosi in America, con uno dei principali partiti che sbanda nell’autoritarismo e l’altro che ha difficoltà a muoversi in avanti grazie a due senatori che non collaborano. La maggioranza delle cose che scrivo, inevitabilmente, si concentra sulle inquiete prospettive della nostra repubblica. Ma abbiamo tutti bisogno di una pausa. Dunque oggi voglio parlare di un tema più allegro: i rischi di una crisi economica in Cina.
È vero, non precisamente più allegro. Ma almeno un cambio di argomento.
Le messe in guardia sull’economia cinese non sono nuove – ma sinora i soggetti ansiosi, incluso il sootoscritto, hanno regolarmente avuto torto. Nel passato 2013 io suggerii che il modello economico della Cina era diventato insostenibile e che quella economia poteva essere prossima a sbattere in una Grande Muraglia; cosa che evidentemente non è successa.
Tuttavia, più da vicino si guarda a come la Cina è stata capace di continuare a far procedere le sua economia, più essa appare problematica. Fondamentalmente, la Cina ha mascherato i suoi squilibri sottostanti creando una immensa bolla immobiliare. Ed è difficile vedere come questo possa andare a finir bene.
Lo sfondo: le riforme introdotte da Deng XiaopIng alla fine degli anni ’70 determinarono un miracolo economico. La Cina, che era disperatamente povera, è adesso una nazione di medio reddito, e date le sue dimensioni ciò la rende una superopotenza economica. Ma la crescita della Cina è venuta gradualmente rallentando. Ecco il movomento medio in cinque anni del tasso di crescita del paese:
Un miracolo che rallenta. Fonte: Università di Groningen
Non c’è niente di misterioso in questo rallentamento. La Cina è stata capace di realizzare una crescita incredibilmente rapida grazie ad una combinazione di presa a prestito di tecnologie da nazioni più avanzate e ad un enorme trasferimento di popolazione dalle aree rurali alle città. Come la sua sofistificazione tecnologica è cresciuta e la riserva di lavoro rurale si è ridotta, la crescita era destinata a rallentare. In aggiunta, la politica di un solo figlio ha dato alla Cina una demografia che di solito associamo con i paesi più ricchi: la popolazione in età lavorativa ha avuto la punta massima pochi anni fa e adesso si sta riducendo:
L’eredità della politica di un solo figlio. Fonte: FRED
Di per sé, una crescita più lenta e una transizione demografica non comportano una crisi. Ma ecco il problema: i modelli di spesa cinesi non si sono adattati ai bisogni di una economia con una crescita più lenta. In particolare, il paese ha ancora un tasso di risparmi molto elevato, cosicché per mantenere la piena occupazione esso ha bisogno di investire una quota incredibilmente elevata del PIL – più del 40 per cento.
Cosa guida gli investimenti? Normalmente, ciò dipende molto da quanto velocemente l’economia sta crescendo: la crescita è quello che determina una domanda di nuove fabbriche, di palazzi per uffici, di centri commerciali e via dicendo. Dunque, investimenti molto alti come quota del PIL sono sostenibili se l’economia sta crescendo al 9 o al 10 per cento all’anno. Tuttavia, se la crescita scende al 3 o al 4 per cento, i rendimenti sugli investimenti calano. Questa è la ragione per la quale la Cina ha bisogno di modificare il suo mix economico – risparmiare di meno e consumare di più.
Ma i risparmi dei cinesi sono rimasti ostinatamente alti – e sì, i risparmi eccessivi sono un problema economico.
Pochi anni orsono uno studio del Fondo Monetario Internazionale cercò di spiegare gli elevati risparmi cinesi. Esso suggeriva che il principale responsabile era la stessa transizione demografica che è una causa del rallentamento della crescita: una natalità in declino comporta che gli adulti cinesi non possono aspettarsi che i loro figli li sostengano successivamente nella vita, dunque essi risparmiano molto per prepararsi per la pensione. Questo fattore demografico è rafforzato dalla debolezza della rete di sicurezza sociale della Cina: le persone non possono contare che il Governo le sostenga nei loro anni successivi o che paghi l’assistenza sanitaria, così sentono il bisogno di accumulare asset come misura di cautela.
Le autorità cinesi conoscono tutto questo, ma in qualche modo non sono state capaci di misurarsi con questi temi sottostanti. Piuttosto, hanno mantenuto il tasso degli investimenti molto alto nonostante una cescita più lenta – principalmente incoraggiando una grande spesa nella costruzione di alloggi. Uno studio del 2020 di Kenneth Rogoff e di Yuanchen Yang mostra che gli investimenti cinesi nel settore immobiliare oggi eccedono largamente i livelli degli Stati Uniti al picco della bolla immobiliare degli anni 2000, sia in termini di dollari che di percentuale del PIL:
Questa sì che è una bolla immobiliare. Fonte: Kenneth Rogoff e Yuanchen Yang [1]
Rogoff e Yang mostrano anche sia che i prezzi degli alloggi in Cina sono estremamente elevati in rapporto ai redditi, sia che il settore immobiliare è diventato una quota incredibilmente ampia dell’economia cinese.
Tutto questo non appare sostenibile, e questa è la ragione per la quale molti osservatori si preoccupano che i problemi di debito del gigantesco imprenditore immobiliare Evergrande siano precisamente la punta di una più generale crisi economica.
Ho già messo in evidenza che sinora la Cina ha saputo smentire i profeti di sventure. Dunque si potrebbe essere tentati di dare il beneficio del dubbio alle autorità cinesi, e di considerare che esse riusciranno a gestire questa situazione. Sennonché in realtà essi non sono riusciti a misurarsi con i loro sottostanti problemi economici, sono venuti mascherando quei problemi creando una bolla immobiliare che alla fine ha ingigantito il problema.
Ma perché dovrebbe preoccuparsene il resto del mondo? La Cina, che mantiene il controllo dei flussi dei capitali in entrata ed in uscita dal paese, è profondamente integrata con i mercati finanziari del mondo. Dunque non è probabile che Evergrande provochi una crisi finanziaria globale nello stesso modo che accadde con la caduta di Lehman Brothers nel 2008. Un rallentamento cinese avrebbe qualche ricaduta economica per la ridotta domanda cinese, specialmente delle materie prime. Ma in termini puramente economici, i rischi economici globali derivanti dai problemi della Cina non sembrano così grandi.
La Cina, tuttavia, ha per davvero un governo autocratico – il tipo di governo che in altri tempi e luoghi ha teso a rispondere ai problemi interni cercando un nemico esterno. Non è difficile raccontare le storie spaventose [2] su dove tutto questo potrebbe portare.
E con ciò, vi restituisco alle vostre regolari preoccupazioni su quello che sta accadendo negli Stati Uniti.
[1] La tabella mostra – segmenti rossi per la Cina, segmenti bianchi e blu gli Stati Uniti – gli investimenti dei due paesi nel settore immobiliare. In venti anni, gli investimenti in Cina sono passati da un rapporto di circa 1 ad 8 rispetto agli Stati Uniti, ad un rapporto di 2 ad 1.
[2] Alle parole “storie spaventose” il testo inglese ha una connessione che mi ha incuriosito. La connessione è con una intervista con Jim Chanos, un esperto – almeno lo suppongo – di vicende cinesi, pubblicata sul sito di Institute for New Economic Thinking. In realtà, l’intervista non contiene particolari pronostici spaventosi, ma una serie di informazioni non prive di interesse sulle posizioni di Xi Jinping in più di dieci anni. La tesi è che al popolo cinese sarebbe stata regalata una prosperità basata sull’indebitamento, che questo modello sarebbe strettamente connesso con un inasprimento delle tendenze autocratiche di Xi, e che l’ipertrofia del settore immobiliare è uno degli aspetti di quella storia, assieme al recente giro di vite in vari settori, dalle grandi società tecnologiche al settore bancario, quest’ultima prevista in un futuro prossimo. Forse la notizia inedita che si apprende è che Xi nel 2013 avrebbe preso una posizione liquidatoria molto netta nei confronti della perestroika russa (del tipo: “avrebbero fatto meglio a disfarsene finché erano in tempo!”).
ottobre 25, 2021
Oct. 19, 2021
By Paul Krugman
It’s 7:38 a.m. on a Tuesday — specifically today, Oct. 19, 2021 — and you’re taking a taxi from Kennedy Airport to The New York Times building. If you’d taken that ride very early this morning, when there was no traffic, it would have taken less than half an hour. But during today’s morning commute it looked like this:
The joy of traffic.Credit…Google Maps
What caused this snarled traffic? We could see major delays on the Long Island Expressway and at the Queens-Midtown Tunnel; I don’t know what they were about. It could have been accidents, or stalled cars, or just the kind of random traffic backups that always happen once highways are sufficiently congested. At a fundamental level, however, the specifics aren’t the point. The reason it takes much longer to make the Kennedy-New York Times trip during the morning commute than it takes off-peak is that this is what happens when more people are trying to use roads than the road network can easily handle.
And now you understand the basics of the supply-chain problems that are driving up many prices and may interfere with your Christmas shopping.
There has been excellent reporting on the details of the logistical mess that has created shortages of almost everything, with much coverage focusing in particular on the logjam at the Port of Los Angeles; that gateway and the adjoining Port of Long Beach are the entry points for 40 percent of U.S. seaborne imports. But it’s important not to let the details obscure the big picture.
You see, the supply chain hasn’t broken down — U.S. ports are actually unloading a record quantity of goods. The reason everything is delayed is that people are trying to buy more stuff than ever before, and their demands are outstripping the supply chain’s capacity — the same way that morning-commute traffic in New York outstrips the road network’s capacity. And once things are that stressed, small disruptions tend to snowball into large delays.
Here’s real spending on durable consumer goods — everything from cars to kitchen appliances to exercise equipment — expressed as an index with the start of the pandemic set to 100:
A surge in demand for stuff.Credit…FRED
As you can see, there was a huge surge — a 34 percent rise over 13 months! — that has only partly receded. I’ve also sketched in the prepandemic trend, to show that this was really far outside previous experience.
What accounts for this surge? Overall consumer demand has been strong, boosted by stimulus checks. But that has happened during previous economic recoveries. What’s special this time is that demand has been skewed: Consumers are buying fewer services and more goods than usual. Or as we might put it, they’ve been forgoing experiences and acquiring stuff instead. Here’s consumption of durables and services since the beginning of the pandemic:
Buying stuff in lieu of experiences.Credit…FRED
Why the skew? It’s not a mystery: We’ve been afraid to indulge in many of our usual experiences and bought stuff to compensate. People ate out less, either because indoor dining was banned or because it didn’t feel safe, so they remodeled their kitchens. People couldn’t or wouldn’t go to the gym, so they bought exercise equipment. Hey, my home office didn’t always look like this:
Not a Peloton.Credit…Paul Krugman
So what can help resolve problems with the supply chain? Emergency measures, like trying to mobilize resources to keep the ports open 24/7, might help a bit. In the longer run, investments in infrastructure could help much more: U.S. ports, rail lines and so on are shabby compared with their counterparts in other countries and could be much improved.
But the biggest thing that could bring fast relief would be undoing the skew in demand by making people feel safe buying more services and fewer goods. The way to do that is by getting the pandemic under control, above all by getting more people vaccinated.
And how can we get more people vaccinated? Mandates. No need to spend time here rebutting claims that requiring workers or customers to be vaccinated is an assault on liberty: Sorry, but freedom doesn’t mean having the right to expose other people to a potentially deadly disease. At this point we can also dismiss claims that requiring vaccination will disrupt the economy: While many people told pollsters that they would quit rather than take their shots, in practice employers that have required vaccination have experienced only a handful of resignations.
In other words, what our economy needs now is a shot in the arm — or rather, millions of shots in millions of arms. And vaccine mandates will provide those shots, in addition to saving lives.
Sulle vaccinazioni e sull’aggrovigliarsi delle catene dell’offerta,
di Paul Krugman
Sono le 7,38 del mattino di un martedì – precisamente di oggi, il 19 ottobre 2021 – e state prendendo un taxi dal Kennedy Airport e il palazzo del New York Times. Se aveste preso quel passaggio al mattino presto, quando non c’era traffico, ci sarebbe voluto meno di un’ora e mezza. Ma con il pendolarismo del mattino di oggi, il traffico è diventato questo:
Il piacere del traffico. Fonte: Gogle Maps
Cosa ha provocato l’intasamento del traffico? I ritardi maggiori li abbiamo osservati all’altezza della superstrada per Long Island e del tunnel Queens-Midtown; non so da cosa siano dipesi. Possono essere stati incidenti, o macchine bloccate, o soltanto quel genere di rallentamenti casuali del traffico che accadono sempre una volta che le autostrade sono abbastanza congestionate. Nella sostanza, tuttavia, gli aspetti particolari non sono la questione. La ragione per la quale un trasferimento dal Kennedy al New York Times richiede molto più tempo durante il pendolarismo mattutino rispetto agli orari non di punta è che questo è ciò che accade quando un numero maggiore di persone, rispetto a quelle che la rete autostradale può gestire, sta cercando di usare quelle strade.
E così comprendete gli aspetti principali dei problemi delle catene dell’offerta che stanno spingendo in alto molti prezzi e potrebbero interferire con i vostri acquisti natalizi.
Ci sono stati resoconti eccellenti sul disastro logistico che ha provocato scarsità di quasi tutti i prodotti, con molti di essi che si sono concentrati in particolare sulla paralisi del Porto di Los Angeles; quel portale e il contiguo Porto di Long Beach sono i punti di entrata del 40 per cento delle importazioni via mare. Ma è importante evitare che i dettagli confondano il quadro principale.
Si deve sapere che la catena dell’offerta non è collassata – i porti statunitensi in effetti stanno sbarcando una quantità record di prodotti. La ragione per la quale tutto è in ritardo è che le persone stanno cercando di acquistare più oggetti che mai in precedenza, e le loro richieste stanno eccedendo la capacità della catena dell’offerta – nello stesso modo che il traffico dei pendolari del mattino a New York eccede la capacità della rete stradale. E una volta che quella è sovraccaricata, modesti inconvenienti tendono a crescere a dismisura in grandi ritardi.
Ecco la spesa reale in beni di consumo durevoli – tutte le cose dalle auto agli elettrodomestici di cucina, alle attrezzature da palestra – espresse come un indice con il punto di partenza della pandemia fissato a 100:
Una crescita della domanda di oggetti. Fonte: FRED
Come vedete, c’è stata una grande crescita – un aumento del 34 per cento in 13 mesi! – che è solo in parte affievolita. Ho inserito nel diagramma la tendenza prepandemica, per mostrare che questa è stata davvero di gran lunga eccedente le precedenti riprese economiche. Quello che c’è di particolare stavolta è che la domanda è stata alterata: i consumatori stanno comprando meno servizi e più prodotti del solito. O, se vogliamo dirla diversamente, essi sono venuti rinunciando alle loro abitudini ed invece acquistano oggetti. Ecco, dagli inizi della pandemia, il consumo dei beni durevoli e dei servizi:
Acquistare oggetti al posto delle abitudini. Fonte: FRED
Perché la distorsione? Non è un mistero: avevamo paura a indulgere nelle nostre consuete abitudini ed abbiamo acquistato oggetti per compensare. Le persone mangiavano meno al ristorante, sia perché era proibito o perché non si sentivano sicure e così hanno ristrutturato le loro cucine. Le persone non potevano o non volevano andare in palestra, cosicché hanno acquistato attrezzature per gli esercizi. Vedete, il mio ufficio non è mai stato niente del genere:
Non una cyclette Peleton. Fonte: Paul Krugman
Dunque, cosa può aiutare a risolvere i problemi con la catena dell’offerta? Misure di emergenza, come cercare di attivare risorse per tenere aperti i porti 24 ore al giorno tutti i giorni della settimana, potrebbero un po’ aiutare. Nel più lungo termine, investimenti nelle infrastrutture potrebbero aiutare molto di più: i porti statunitensi, le ferrovie e tutto il resto sono trasandati a confronto con i servizi analoghi in altri paesi e potrebbero essere molto migliorati.
Ma la cosa migliore che potrebbe portare velocemente sollievo sarebbe invertire la distorsione nella domanda facendo sentire le persone sicure nell’acquistare più servizi e meno oggetti. Il modo per farlo è mettere la pandemia sotto controllo, soprattutto facendo vaccinare più persone.
E come possiamo far vaccinare più persone? Con gli obblighi. Non c’è bisogno di spendere tempo nel controbattere gli argomenti secondo i quali porre la condizione che i lavoratori o le clientele siano vaccinate è un attacco alla libertà: spiacente, ma la libertà non comporta avere il diritto di esporre altre persone ad una malattia potenzialmente letale. A questo punto, possiamo anche trascurare gli argomenti secondo i quali richiedere le vaccinazioni porterebbe al collasso l’economia: mentre molti citavano i sondaggisti secondo i quali esse avrebbero lasciato i loro posti di lavoro piuttosto prendersi le loro iniezioni, i datori di lavoro che in pratica hanno richiesto le vaccinazioni hanno avuto esperienza soltanto di una manciata di dimissioni.
In altre parole, quello di cui la nostra economia ha bisogno adesso è una iniezione sul braccio – o meglio, milioni di iniezioni su milioni di braccia. E gli obblighi vaccinali forniranno quelle iniezioni, oltre a salvare vite umane.
ottobre 14, 2021
Oct. 12, 2021
By Paul Krugman
Big business is overwhelmingly in favor of requiring that workers get vaccinated against Covid-19. A recent CNBC survey of chief financial officers found that 80 percent of them say they “totally support” the Biden administration’s plan to impose a vaccine-or-test mandate on companies with more than 100 workers, and many companies have already announced vaccination requirements for their employees.
Yet Greg Abbott, the governor of Texas, just issued an executive order banning vaccine mandates in his state. That is, he’s not just refusing to use his own powers to promote vaccination; he’s interfering in private decisions, trying to prevent businesses from requiring that their workers or customers be vaccinated.
And on Sunday, Senator Ted Cruz celebrated a wave of flight cancellations by Dallas-based Southwest Airlines, based on rumors — which both the airline and its union deny — that the problems were caused by a walkout of employees protesting the airline’s new vaccine requirements.
What’s going on here?
Republicans have been closely allied with big business since the Gilded Age, when a party originally based on opposition to slavery was, in effect, captured by the rising power of corporations. That alliance lost some of its force in the 1950s and 1960s, an era in which the G.O.P. largely accepted things like progressive taxation and strong labor unions, but came back in full with the rise of Ronald Reagan and his agenda of tax cuts and deregulation.
Indeed, it wasn’t that long ago that you could plausibly think of the Republican Party as basically a front for big-business interests, one that exploited social issues and appeals to racial hostility to win elections, only to turn immediately after each election to a pro-corporate agenda. That was basically the thesis of Thomas Frank’s 2004 book “What’s the Matter With Kansas,” and it seemed like a good model of the party until the rise of Trumpism.
Now, however, Republican politicians are at odds with corporate America on crucial issues. It’s not just vaccines. Corporate interests also want serious investment in infrastructure and find themselves on the outs with Republican leaders who don’t want to see Democrats achieve any policy successes. Basically, the G.O.P. is currently engaged in a major campaign of sabotage — its leaders want to see America do badly, because they believe this will redound to their political advantage — and if this hurts their corporate backers along the way, they don’t care.
Just to be clear, corporations aren’t being good guys. They support vaccine mandates and infrastructure investment because they believe that both would be good for their bottom lines. They’re still, for the most part, opposed to the rest of the Biden agenda, including — unforgivably — efforts to fight climate change, because they don’t want to pay higher taxes.
Still, the conflict between the G.O.P. and corporations is a striking new turn in American politics. And I wonder if some corporate leaders find themselves asking, in the privacy of their own minds, “My God, what have we done?”
For the truth is that the Republican Party has been growing increasingly radical — and decreasingly rational — for a long time. Where we are now is the culmination of a process that began in the 1990s, when Newt Gingrich became House speaker, if not earlier. Yet corporate interests continued to back the G.O.P. In fact, leading business organizations like the U.S. Chamber of Commerce leaned much further into partisanship even as Republicans became more radical, apparently believing that they could live with a bit of craziness so long as they got their tax cuts and deregulation.
Now they’re learning that they aren’t in control, and in fact have barely any voice in the party they bankrolled. They thought they were using the extremists; it turns out that the extremists were using them.
The question is, what are they going to do about it?
I repubblicani, il partito contro l’impresa,
di Paul Krugman
La grande impresa è in modo schiacciante favorevole a richiedere che i lavoratori siano vaccinati contro il Covid-19. Un recente sondaggio della CNBC tra i direttori finanziari ha scoperto che l’80 per cento di loro dice di “sostenere interamente” il programma dell’Amministrazione Biden per imporre l’obbligo del vaccino o dei test sulle società con più di 100 lavoratori, e molte imprese hanno già annunciato il requisito della vaccinazione per i loro occupati.
Tuttavia, Greg Abbott, il Governatore del Texas, ha appena emesso un’ordinanza esecutiva che mette al bando gli obblighi dei vaccini nel suo Stato. Ovvero, non solo si rifiuta di usare i suoi propri poteri per promuovere le vaccinazioni; interferisce con le decisioni dei privati, cercando di impedire che le imprese richiedano che i loro lavoratori o i loro clienti siano vaccinati.
E domenica, il Senatore Ted Cruz ha celebrato un’ondata di cancellazioni di voli da parte della Southwest Airlines con sede a Dallas, basata su voci – che sia la compagnia aerea che il suo sindacato smentiscono – secondo le quali i problemi erano provocati da uno sciopero di lavoratori che protestavano contro i nuovi requisiti di vaccinazione della compagnia.
Cosa sta succedendo?
I repubblicani sono stati alleati della grande impresa dall’Età Dorata, quando un partito originariamente basato sull’opposizione alla schiavitù venne, in effetti, conquistato dal potere crescente delle grandi società. Quella alleanza perse una parte della sua forza negli anni ’50 e ’60, un’epoca nella quale il Partito Repubblicano in gran parte accettava cose come la tassazione progressiva e forti sindacati di lavoratori, ma ritornò con l’ascesa di Ronald Reagan e il suo programma di tagli delle tasse e di deregolamentazioni.
In effetti, non accadeva molto tempo fa che avreste potuto in modo plausibile pensare al Partito Repubblicano fondamentalmente come un fronte a difesa degli interessi delle grandi imprese, che sfruttava le tematiche sociali e gli appelli all’ostilità razziale per vincere le elezioni, solo per tornare immediatamente dopo ogni elezione al suo programma a favore delle imprese. Quella era fondamentalmente la tesi del libro del 2004 di Thomas Frank “Qual è il problema con il Kansas” e sembrava un buon modello di partito fino alla ascesa di Donald Trump.
Adesso, tuttavia, i politici repubblicani sono all’estremità opposta dell’America delle imprese su temi cruciali. Non si tratta soltanto dei vaccini. Sono interesse delle società anche gli investimenti nelle infrastrutture ed esse si trovano ai ferri corti con i leader repubblicani he non vogliono che i democratici realizzino alcun successo politico. Fondamentalmente, a questo punto il Partito Repubblicano è impegnato in una importante campagna di sabotaggio – i suoi dirigenti vogliono veder l’America finir male, perché credono che questo avrà la conseguenza di una vantaggio politico a loro favore – e se lungo questo percorso il loro sostegno presso le imprese subisce un danno, non e ne curano.
Solo per chiarezza, le grandi società non stanno diventando bravi ragazzi. Sostengono gli obblighi ai vaccini e gli investimenti nelle infrastrutture perché credono che entrambi sarebbero favorevoli ai loro interessi di fondo. Sono ancora, per la maggior parte, all’opposizione della parte restante dell’agenda di Biden, compresi – imperdonabilmente – gli sforzi per combattere il cambiamento climatico, perché non vogliono pagare tasse più alte.
Eppure, il conflitto tra il Partito Repubblicano e le imprese è una nuova svolta impressionante della politica americana. E mi chiedo se qualche dirigente di impresa, nel chiuso della propria coscienza, non si ritrovi a chiedersi: “Dio mio, che abbiamo fatto?”
Perché la verità è che il Partito Repubblicano è venuto diventando sempre di più estremista – e sempre meno razionale – da lungo tempo. Adesso siamo al culmine di un processo che cominciò negli anni ’90, quando Newt Gingrich divenne Presidente della Camera, se non prima. Tuttavia gli interessi delle imprese continuavano a sostenere il Partito Repubblicano. Di fatto, le organizzazioni dei dirigenti di impresa come la Camera di Commercio statunitense inclinarono ulteriormente alla partigianeria persino quando i repubblicani divennero più estremisti, in apperenza ritenendo che avrebbero potuto convivere con un po’ di follia finché ottenevano i loro sgravi fiscali e la loro deregolamentazione.
Adesso stanno imparando di non avere il controllo, e di fatto hanno a malapena una voce nel partito che foraggiavano. Pensavano di stare usando gli estremisti; ora scoprono che gli estremisti stavano usando loro.
La domanda è: cosa sono intenzionati a fare di tutto ciò?
ottobre 11, 2021
Oct. 8, 2021
By Paul Krugman
Franklin Roosevelt took the United States off the gold standard soon after his inauguration as president in 1933. It was an essential move: The nation was in the midst of a banking crisis, and to end that crisis the Federal Reserve needed the freedom to print money as needed. But even some of Roosevelt’s own aides were aghast: Lewis Douglas, his budget director, reportedly blurted out, “This is the end of Western civilization.”
Last time I checked, civilization was still here. But there are echoes of the gold standard debate in some of the discussions about how to deal with Republican brinkmanship over the debt limit. As I mentioned in my newsletter last week, one possible way out would be to exploit an apparent legal loophole by minting a platinum coin with a huge face value, say $1 trillion, depositing that coin in an account at the Fed, then drawing on that account to pay the government’s bills.
Let me say right away that there are some good reasons to be uneasy about minting the coin. The Fed, which is semiautonomous, might not agree to play along. The strategy might face legal challenges. And by resorting to this gimmick we would be sending the world a signal that we’re a messed-up nation having big problems governing itself — although the truth is that we are a messed-up nation thanks to the nihilism of one of our two major parties, so minting the coin would arguably just be acknowledging the obvious.
But I’ve been told that some senior administration officials have been making another argument against the coin or any similar strategy, one that echoes Lewis Douglas — namely, that going that route would undermine the credibility of the dollar. And that’s all wrong.
First things first: Minting the coin would not amount to financing the budget deficit by printing money.
What we actually mean when we talk about “printing money” is an increase in the monetary base — the sum of cash in circulation and the reserves held by private banks, mainly in the form of deposits at the Fed. The Fed’s economic influence comes from its ability to increase the monetary base at will, normally by buying federal debt from banks and paying for those purchases by crediting the banks’ accounts with money that’s essentially created out of thin air.
So wouldn’t allowing the Treasury to pay its bills by drawing on an account also created out of thin air — on accepting the coin, the Fed would simply declare that the Treasury had a $1 trillion account — mean increasing the monetary base? Not if the Fed didn’t want it to.
You see, past monetary operations have left the Fed in possession of a huge portfolio, including more than $5 trillion in U.S. government debt. And the Fed could and surely would “sterilize” any effect of federal withdrawals on the monetary base by selling off some of that portfolio.
Think of the Treasury and the Fed — which has some policy independence but is financially just part of the federal government — as a single entity. Right now that consolidated entity is paying some of its bills by selling bonds to the private sector. If we minted the coin, it would still be doing the same thing; the only change would be that instead of selling newly issued bonds, it would be selling existing bonds currently owned by the Fed. From an economic point of view, this would make no difference at all.
So what are people who talk about credibility worried about? One argument, highlighted the other day by my Times colleague Peter Coy, is the claim that fiat money — money not backed by gold or some other asset — is basically a con game and that minting the coin would give away the con. That is, according to this argument, money has value only because people expect other people to accept its value, and tricky financial maneuvering might break the spell.
But as many people have pointed out, fiat money isn’t valuable just because of self-fulfilling expectations; it’s also what we use to pay taxes, which gives it a substantial anchor to reality.
And as a practical matter, moneys never collapse simply because people lose faith in their value. Hyperinflation, in which the purchasing power of money plunges, does happen — but that’s almost always because other governments are willing to print money to cover their deficits, which the U.S. government won’t.
(An aside: If you want to see assets that have value mainly because everyone expects everyone else to consider them valuable, the best historical example is … gold. Its price is far higher than one could justify by its nonmonetary uses, but people still consider it valuable because of its traditional monetary role — a role it no longer plays. And let’s not even talk about cryptocurrencies.)
So as long as the U.S. government doesn’t rely on money creation to pay its bills, the dollar won’t collapse. But wouldn’t minting the coin create a temptation to start doing just that?
Well, governments sometimes do cause high inflation by relying on the printing press. Right now, for example, there is the case of Venezuela and … well, actually, Venezuela is the only example right now, and has been for some time.
The truth is that governments rarely if ever start printing money with abandon simply because they can’t resist the temptation. Hyperinflation is usually a byproduct of extreme political dysfunction, which leaves governments unable to raise revenue or limit spending. I wish I could say that America is safe from that kind of extreme dysfunction — but the troubles facing our democracy have nothing to do with budget mechanics and can’t be solved by banning creative finance.
In general, credibility is overrated as a factor that should be guiding policy. If we get substantive policies right, credibility will follow; if we don’t, attempts to be acceptably orthodox won’t matter.
For now, the right thing to do is to find a way to keep paying the government’s bills in the face of political sabotage, even if that involves gimmicks that exploit legal loopholes. Sometimes doing things that can sound silly is the only responsible course of action.
Monete e credibilità,
di Paul Krugman
Franklin Delano Roosevelt portò gli Stati Uniti fuori dal gold standard subito dopo la cerimonia di inaugurazione della sua presidenza nel 1933. Fu una mossa fondamentale: la nazione era nel mezzo di una crisi bancaria e per porre termine a quella crisi la Federal Reserve doveva esser libera di stampare quanto denaro fosse necessario. Ma persino alcuni degli stessi collaboratori di Roosevelt rimasero sbigottiti: si dice che Lewis Douglas, il suo direttore al Bilancio, disse senza riflettere: “Questa è la fine della civiltà occidentale”.
Per quanto ne so, quella civiltà è sempre al suo posto. Ma ci sono echi del dibattito sul gold standard in alcune discussioni su come misurarsi con la politica del rischio calcolato dei repubblicani sul limite del debito. Come ho ricordato la scorsa settimana nella mia newsletter, una possibile via d’uscita sarebbe sfruttare una apparente scappatoia legale stampando una moneta al platino di un enorme valore nominale, diciamo un migliaio di miliardi di dollari, depositando quella moneta in un conto presso la Fed, e in seguito ricorrendo a quel conto per ripagare le spese del Governo.
Devo dire che ci sono alcune buone ragioni per essere a disagio con quel conio di moneta. La Fed, che è semiautonoma, potrebbe non essere d’accordo con lo stare al gioco. La strategia potrebbe doversi misurare con difficoltà legali, e ricorrendo a questo stratagemma daremmo al mondo un segnale che siamo una nazione incasinata che ha grandi problemi a governare se stessa – sebbene la verità sia che noi siamo una nazione incasinata grazie al nichilismo di uno dei due principali partiti politici, dunque coniare la moneta sarebbe probabilmente solo riconoscere ciò che è evidente.
Ma mi viene detto che alcuni dirigenti di livello elevato dell’Amministrazione stanno avanzando un altro argomento contro tale moneta o contro una strategia simile, un argomento che ricorda Lewis Douglas – precisamente che andare in quella direzione metterebbe a repentaglio la credibilità del dollaro. E questo è completamente sbagliato.
Partiamo dalle cose più importanti: coniare la moneta non corrisponderebbe a finanziarie il deficit di bilancio stampando denaro.
Quello che effettivamente intendiamo quando parliamo di “stampare denaro” è accrescere la basa monetaria – la somma del contante in circolazione e le riserve detenute dalle banche private, principalmente nella forma di depositi preso la Fed. L’influenza economica della Fed deriva dalla sua capacità di accrescere la base monetaria quando vuole, di solito acquistando obbligazioni sul debito federale e pagando per quegli acquisti accreditando i conti delle banche con denaro che viene essenzialmente creato dal nulla.
Dunque, permettere al Tesoro di pagare le sue leggi ricorrendo ad un conto anch’esso creato dal nulla – nell’accettare il conio, la Fed semplicemente dichiarerebbe che il Tesoro possedeva una somma di mille miliardi di dollari – comporta aumentare la base monetaria? No, se la Fed non intenderà farlo.
Considerate che le passate operazioni monetarie hanno lasciato la Fed in possesso di un vasto portafoglio, che include più di 5 mila miliardi di dollari di obbligazioni sul debito del Governo statunitense. E la Fed potrebbe “sterilizzare”, e certamente lo farebbe, qualsiasi effetto dei prelievi federali sulla base monetaria, rivendendo una parte di quel portafoglio.
Si deve pensare al Tesoro ed alla Fed – che ha una qualche indipendenza politica ma finanziariamente è soltanto una componente del governo federale – come una singola entità. In questo momento quella entità consolidata sta pagando alcuni dei suoi conti vendendo obbligazioni al settore privato. Se coniassimo la moneta, staremmo facendo la stessa cosa; il solo cambiamento sarebbe che al posto di vendere obbligazioni di nuova emissione, staremmo vendendo obbligazioni esistenti attualmente detenute dalla Fed. Da un punto di vista economico, non farebbe affatto alcuna differenza.
Dunque, di che cosa si preoccupano le persone che parlano di credibilità? Un argomento, messo in luce l’altro giorno dal mio collega del Times Peter Coy, è la tesi che la moneta cartacea inconvertibile – denaro non sorretto dall’oro o da qualche altro asset – è fondamentalmente un raggiro legalizzato e che coniare la moneta rivelerebbe l’imbroglio. Ovvero, secondo questo argomento, il denaro ha valore solo perché le persone si aspettano che altre persone accettino il suo valore, e la la manovra finanziaria furbesca potrebbe rompere l’incantesimo.
Ma, come molti hanno messo in evidenza, la moneta cartacea non ha un valore solo per via delle aspettative che si autoavverano; essa dipende anche dal fatto che siamo soliti pagare le tasse, il che dà un sostanziale ancoraggio alla realtà.
E da un punto di vista pratico, le valute non collassano mai perché la gente perde fiducia nel loro valore. L’iperinflazione, allorquando il potere di acquisto del denaro crolla, effettivamente capita – ma quasi sempre dipende dal fatto che altri Governi sono disponibili a stampare moneta per coprire i loro deficit, cosa che gli Stati Uniti non faranno.
(Tra parentesi: se volete individuare asset che hanno valore perché ognuno si aspetta che tutti gli altri considerano che abbiano un valore, il migliore esempio storico è … l’oro. Il suo prezzo è molto più alto di quanto potrebbero giustificare i suoi usi non monetari, eppure le persone considerano che abbia valore a causa del suo tradizionale ruolo monetario – un ruolo che non gioca più. E non parliamo neanche delle criptovalute.)
Dunque, finché il Governo statunitense non si affida alla creazione di moneta per pagare i suoi conti, il dollaro non collasserà. Ma coniare la moneta non costituirebbe una tentazione proprio per cominciare a farlo?
Ebbene, i Governi talvolta effettivamente provocano un’alta inflazione basandosi sulla stampa di moneta. In questo momento, ad esempio, c’è il caso del Venezuela e … ebbene, il Venezuela è attualmente l’unico esempio, e lo è stato da un po’ di tempo.
La verità è che i Governi raramente cominciano a stampare moneta, ammesso che mai lo facciano, solo perché non possono resistere alla tentazione. L’iperinflazione è normalmente un prodotto secondario di un disordine politico estremo, che lascia i Governi nell’impossibilità di elevare le entrate o di limitare le spese. Vorrei poter dire che l’America è al sicuro da questo genere di disordini estremi – ma i guai che sta affrontando la nostra democrazia non hanno niente a che fare con le meccaniche di bilancio e non possono essere risolti mettendo al bando la finanza creativa.
In generale, la credibilità è sopravvalutata come fattore che dovrebbe guidare la politica. Se abbiamo ragione nelle politiche concrete, la credibilità verrà di conseguenza; se non l’abbiamo i tentativi di apparire accettabilmente ortodossi non avranno importanza.
Per adesso, la cosa giusta da fare è trovare un modo per continuare a pagare i conti del Governo a fronte del sabotaggio politico, anche se questo ha a che fare con stratagemmi che sfruttano scappatoie legali. Talvolta fare cose che possono apparire sciocche è l’unica via responsabile per agire.
ottobre 9, 2021
Oct. 5, 2021
By Paul Krugman
The Federal Reserve and its counterparts abroad slashed interest rates in the face of the 2008 financial crisis and have kept them very low — in some cases below zero — ever since. This isn’t an arbitrary policy: Central banks believe that they need to keep rates low to avoid sliding into recession. But there has long been bitter criticism of low rates, coming from both the right and the left.
On the right, the main complaint seems to be that savers aren’t getting the returns they deserve — although it’s not clear why savers deserve high returns in a world that seems to have more savings than it knows what to do with. On the left, the complaint is that low rates push up the prices of stocks and other assets that are mainly owned by the rich. And this, the critics claim, widens inequality.
Well, I want to take on the latter argument, which is fundamentally misguided. And one way to illustrate why is to think about an economy simpler than the one we have now — the economy of Jane Austen’s England. I’ll explain later how the sense and sensibility we gain from Austen translates in the 21st century.
So: Early-19th-century England was an extremely unequal society that was still largely dominated by landowners, who lived off the rent paid by their tenants. This rent, as David Ricardo explained in 1817, was determined by the interaction of the population with the supply of fertile land. And the income from land was stable enough that it provided a quick measure of a man’s status. The marriageable Mr. Bingley had 4,000 pounds a year; the estimable Mr. Darcy, 10,000. Tellingly, “Pride and Prejudice” doesn’t tell us the value of either man’s estate; the income was the thing.
But England was also in the early stages of the Industrial Revolution, with a rising bourgeoisie deriving its income from industry and trade. This new elite differed in some important ways from the old elite, but the lines were never sharp. Industrialists could buy their way into the gentry by acquiring country estates. Landowners like the Duke of Bridgewater, who built a pioneering canal from his coal mines to the budding industrial center of Manchester, could invest in commerce. And both landowners and capitalists bought government debt, which, I can’t help mentioning, was much higher relative to G.D.P. at the end of the Napoleonic Wars than it is today:
Big borrowers, old school.Credit…FRED
So what determined the interest rate on British bonds and the price of British land? The answer has to be that both depended on the returns from capital investment. There may have been some prestige associated with owning land and (maybe) some patriotism involved in buying public debt, but canny businessmen surely compared the rents or interest they could get by buying land or bonds with the profits they could expect to earn by building factories.
Now indulge me in a thought experiment — something that didn’t actually happen in Austen’s England, but could have. Let’s ask what would have happened in this economy to the price of land and the price of bonds (which is inversely related to the interest rate) if capitalists had, for whatever reason, become less optimistic about the likely returns to industrial investment — say, because they’d seen evidence that this whole industrial revolution thing was falling short of expectations. The answer is that both asset prices would have risen: Building new factories would have become a less good use of money, so investors would have bid up the prices of assets offering fixed incomes.
So since the ownership of land, in particular, was concentrated in the hands of a narrow elite, would falling interest rates and rising land prices have meant increased inequality?
Clearly not. Mr. Bingley would still have been getting his 4,000, Mr. Darcy his 10,000, and their tenant farmers would still have been paying the same amount as before. The paper value of their estates would have gone up, but so what? The distribution of income wouldn’t have changed at all. And the property-owning classes would, if anything, have been worse off, because they couldn’t expect to make as much off future investments.
Now fast-forward two centuries: We’re now in a situation that, in a fundamental sense, resembles my hypothetical scenario for Regency England.
True, rents on agricultural land are no longer a big thing. But monopoly rents — profits that accrue to corporations not because of the physical capital they own, but because they’ve managed to establish a dominant market position — are a very big thing. And the prices investors are willing to pay for a piece of those monopoly rents — the prices of stocks issued by companies that have or are expected to acquire market dominance — depend, like the price of land in the 19th century, on the returns investors think they can earn on alternative investments.
And companies have come to believe, for whatever reason, that the return to new investments in plant, equipment, software and so on is pretty low. It’s probably a combination of slowing population growth and disappointing technological progress (where’s my flying car?), but whatever the explanation, we have a situation in which investors are either buying government bonds (keeping interest rates low) or competing for ownership of shares in monopoly profits (driving stock prices up) rather than financing new stuff.
This isn’t great, but it doesn’t mean that low interest rates are increasing inequality.
Furthermore, and finally, think about what would happen if the Fed listened to the complainers and raised interest rates. The result would be a weaker economy, one persistently falling short of full employment. And one thing we’ve learned from experience is that full employment is one of the best things we can do to help ordinary workers, especially lower-wage workers, who have seen significant pay increases only when the economy is running hot.
So, reader, when you hear people saying that low interest rates are bad because they increase inequality, ignore them. They’ve got the story all wrong.
‘Orgoglio e pregiudizio’ e e prezzi degli asset,
di Paul Krugman
La Federal Reserve e i suoi omologhi all’estero, a fronte della crisi finanziaria del 2008, hanno abbattuto i tassi di interesse e li hanno da allora mantenuti molto bassi – in alcuni casi sotto lo zero. Non è una politica insensata: le banche centrali credono di aver bisogno di tenere i tassi bassi per evitare di scivolare nella recessione. Ma ci sono state a lungo aspre critiche dei tassi bassi, provenienti sia da destra che da sinistra.
A destra, la principale lamentala sembra essere che i risparmiatori non stanno ottenendo i rendimenti che meritano – sebbene non sia chiaro perché i risparmiatori meritino elevati rendimenti in un mondo che sembra avere più risparmi che sapere quello che farci. A sinistra, la lamentela è che i bassi tassi spingono in alto i prezzi delle azioni e di altri asset, che principalmente sono detenuti dai ricchi. E ciò, sostengono i critici, amplia le ineguaglianze.
Ebbene, voglio intervenire sull’ultimo argomento, che è fondamentalmente fuorviante. E un modo per illustrare la ragione è pensare ad un’economia più semplice di quella che abbiamo oggi – l’economia dell’Inghilterra di Jane Austen [1]. Spiegherò successivamente in che modo la perspicacia e la sensibilità che ci proviene dalla Austen si traduce nel ventunesimo secolo.
Dunque: agli inizi del diciannovesimo secolo l’Inghilterra era una societa estremamente ineguale che era ancora dominata dai proprietari terrieri, che vivevano delle rendite pagate dai loro affittuari. Queste rendite, come spiegò nel 1817 David Ricardo, erano determinate dal rapporto della popolazione con l’offerta di terre fertili. E il reddito delle terre era abbastanza stabile da fornire una misura della condizione di un uomo. Il signor Bingley, in età da matrimonio, aveva 4.000 sterline all’anno; il rispettabile signor Dacry, ne aveva 10.000 [2]. Significativamente, “Orgoglio e pregiudizio” non ci dice il valore del patrimonio dell’altro individuo; il punto era il reddito.
Ma l’Inghilterra era anche ai primi stadi della Rivoluzione Industriale, con una borghesia in crescita che derivava i suoi redditi dall’industria e dal commercio. Questa nuova elite differiva in vari aspetti importanti dalla vecchia elite, ma le distinzioni non erano mai nette. Gli industriali potevano farsi strada nella aristocrazia acquisendo le tenute di campagna. I proprietari terrieri come il Duca di Bridgewater, che costruì un canale pionieristico dalle sue miniere di carbone al nascente centro industriale di Manchester, poteva investire nel commercio. E sia i proprietari terrieri che i capitalisti acquistavano titoli sul debito pubblico, che, non posso fare a meno di ricordare, in rapporto al PIL erano molto più alti alla fine delle Guerre Napoleoniche di oggi.
I grandi debitori della vecchia scuola. Fonte: FRED [3]
Dunque, cosa determinava il tasso di interesse sulle obbligazioni britanniche e il prezzo della terra in Inghilterra? La risposta è che entrambi dipendevano dai rendimenti degli investimenti di capitale. Ci poteva essere un qualche prestigio associato al possedere le terre e (forse) un qualche patriottismo nell’acquistare titoli del debito pubblico, ma gli astuti impresari sicuramente confrontavano le rendite o l’interesse che potevano ottenere acquistando terre o obbligazioni con i profitti che potevano aspettarsi di guadagnare dalla costruzione di fabbriche.
Ora permettetemi un esperimento di pensiero – qualcosa che in realtà non accadde nell’Inghilterra della Austen, ma avrebbe potuto accadere. Chiediamoci cosa sarebbe successo al prezzo dei terreni e delle obbligazioni (che è inversamente connesso al tasso di interesse) in questa economia, se i capitalisti fossero per qualche ragione diventati meno ottimisti sui rendimenti probabili degli investimenti industriali – ad esempio, perché constatavano prove secondo le quali tutta la faccenda della rivoluzione industriale veniva meno alle aspettative. La risposta è che entrambi i prezzi degli asset sarebbero saliti: costruire nuove fabbriche sarebbe diventato un utilizzo meno buono del denaro, dunque gli investitori avrebbero rilanciato i prezzi degli asset offrendo redditi fissi.
Dunque, dal momento che in particolare la proprietà delle terre era concentrata nelle mani di una ristretta elite, i tassi di interesse sarebbero calati e i crescenti prezzi dei terreni avrebbero comportato una crescente ineguaglianza?
No, chiaramente. Il signor Bingley avrebbe ancora ricevuto le sue 4.000 sterline e il signor Darcy le sue 10.000, e i loro agricoltori affittuari avrebbero continuato a pagare le stesse somme di prima. Il valore carteceo delle loro proprietà fondiarie sarebbe salito, ma con questo? La distribuzione del reddito non sarebbe affatto cambiata. E le classi che possedevano i patrimoni, semmai, sarebbero finite con lo star peggio, giacché non potevano aspettarsi di guadagnare molto dagli investimenti futuri.
Facciamo adesso un balzo in avanti di due secoli: oggi siamo in una situazione che, da un punto di vista fondamentale, assomiglia al mio ipotetico scenario dell’Inghilterra del periodo della Reggenza [4].
È vero, le rendite sui terreni agricoli non sono più una gran cosa. Ma le rendite di monopolio – i profitti che finiscono alle società non a seguito del capitale fisico che possiedono, ma perché sono riuscite ad ottenere una posizione dominante sul mercato – sono per davvero una gran cosa. E i prezzi che gli investitori sono disponibili a pagare per una parte di queste rendite di monopolio – i prezzi delle azioni emesse da società che hanno acquisito, o ci si aspetta che lo facciano, il dominio del mercato – dipendono, come i prezzi dei terreni nel diciannovesimo secolo, dai rendimenti che gli investitori pensano di poter ottenere su investimenti alternativi.
E le società sono arrivate a credere, per una qualsivoglia ragione, che il rendimento dei nuovi investimenti in una fabbrica, in attrezzature, in software e via dicendo, sia abbastanza basso. Si tratta probabilmente di una combinazione di una crescita della popolazione che rallenta e di un progresso tecnologico deludente (dove sono finite le macchine volanti?), ma, qualsiasi sia la spiegazione, abbiamo una situazione nella quale gli investitori stanno acquistando obbligazioni governative (portando in basso i tassi di interesse) oppure sono in competizione per la proprietà di quote dei profitti di monopolio (spingendo in alto le azioni), anziché finanziare cose nuove.
Non è certo una situazione straordinaria, ma non significa che i bassi tassi di interesse stiano accrescendo l’ineguaglianza.
Inoltre, e finalmente, si pensi a cosa accadrebbe se la Fed ascoltasse chi si lamenta ed alzasse i tassi di interesse. Il risultato sarebbe un’economia più debole, persistentemente incapace di realizzare la piena occupazione. E una cosa che abbiamo appreso dall’esperienza è che la piena occupazione è una delle cose migliori che possiamo fare per aiutare i lavoratori comuni, particolarmente i lavoratori con bassi salari, che hanno conosciuto significativi aumenti nei compensi solo quando l’economia si scalda.
Dunque, lettori, quando sentite persone che dicono che i bassi tassi di interesse sono negativi perché accrescono l’ineguaglianza, ignoratele. Hanno inteso la storia in modo tutto sbagliato.
[1] Jane Austen (Steventon, 16 dicembre 1775 – Winchester, 18 luglio 1817) è stata una scrittrice britannica, figura di spicco della narrativa neoclassica, e una delle autrici più famose e conosciute del panorama letterario del Regno Unito e mondiale.
Pur vivendo nel periodo delle guerre napoleoniche, la Austen non tratta mai nei suoi romanzi gli avvenimenti bellici. Le milizie di passaggio sono sullo sfondo degli eventi a lei più cari: le cerchie ristrette della provincia, le storie d’amore e la vita quotidiana. Con ironia e arguzia illustra i personaggi che popolano la campagna inglese e che influenzano il sogno di felicità matrimoniale delle sue eroine. Le donne sono il fulcro fondamentale di ogni romanzo, facendo di Jane Austen “una delle prime scrittrici a dedicare l’intero suo lavoro all’analisi dell’universo femminile” o, con le parole di Virginia Woolf, “l’artista più perfetta tra le donne”. Wikipedia.
Come è noto “Orgoglio e pregiudizio” è una delle sue opere più importanti, del 1813.
[2] Due personaggi di “Orgoglio e pregiudizio”.
[3] La Tabella mostra i debito pubblico ‘in sospeso’ della Gran Bretagna dalla metà del 1600 ai giorni nostri, in percentuale del PIL. Nei primi decenni dell’Ottocento il rapporto era tra 2 e 4 volte quello degli anni 2000.
[4] Ovvero, dal 1811 al 1820.
ottobre 3, 2021
Oct. 1, 2021
By Paul Krugman
It’s hard to believe now, but before Donald Trump became the G.O.P.’s presidential nominee in 2016, Senator Marco Rubio of Florida was widely seen as a champion of the “reformicons” — conservatives who wanted the Republican Party to become more moderate and flexible, to move beyond its obsessive focus on cutting taxes for the rich and slashing benefits for the poor. Since then, however, Rubio has become a pathetic figure — not just a Trump toady, but someone who routinely tweets out stuff like this: “The $3.5 trillion Biden plan isn’t socialism, it’s Marxism.”
Indeed, we all remember the stirring passage in The Communist Manifesto where Marx declared, “Workers of the world, unite to spend 1.2 percent of G.D.P. on popular programs over the next decade!”
The fact that Republicans routinely say such nonsense is why the Biden administration should mint a $1 trillion platinum coin or declare that the Constitution gives it the right to issue whatever debt is needed to fund the government — or use some other trick I haven’t thought of to ignore the looming crisis.
Some background: We all learned in civics class — do students still take civics? — that federal policy on spending and taxing is set by a straightforward legislative process. Congress passes bills and if the president doesn’t veto those bills, they become law. End of story.
But there is, it turns out, a quirk in the budget process: Congress must also separately authorize the federal government to take on more debt.
Historically, this was considered a mere technicality: Of course Congress would approve borrowing if the spending and taxing bills it had already enacted led to a budget deficit. Not doing so would make no sense — not just because it would cripple government operations, but also because it would threaten financial havoc: U.S. government securities are the bedrock of the global financial system, used for collateral in many transactions. Threatening federal cash flows could therefore provoke a worldwide meltdown.
But U.S. politics aren’t what they once were. The Republican Party has become both radical and ruthless; let’s not forget that most G.O.P. legislators refused to certify President Biden’s election. And while this radicalized party cheerfully authorizes trillions in borrowing whenever it holds the White House, it weaponizes the debt limit whenever a Democrat is president.
During the Obama years, Republicans used the debt limit for blackmail, refusing to raise it unless President Barack Obama agreed to spending cuts — spending cuts the G.O.P. wouldn’t have been able to get passed through the normal legislative process, despite having partial control of Congress.
What’s happening now is even worse. Democrats control both houses of Congress, but Republicans are using the filibuster to block an increase in the debt ceiling with only weeks to go before we hit a wall and default on payments — and they aren’t even making specific demands. They simply don’t want to share any responsibility for governing. “There is no chance Republicans will help lift Democrats’ credit limit so they can immediately steamroller through a socialist binge that will hurt families and help China,” declared Mitch McConnell. If that sounds to you like meaningless word salad, that’s because it is.
Underlying all of this is the belief that voters will blame Biden for bad things that happen on his watch, even if Republicans deliberately caused those bad things to happen.
So what does this have to do with platinum coins? Well, there’s a strange provision in U.S. law that empowers the Treasury secretary to mint and issue platinum coins in any quantity and denomination she chooses. Presumably the purpose of this provision was to allow the creation of coins celebrating people or events. But the language doesn’t say that. So on the face of it, Janet Yellen could mint a platinum coin with a face value of $1 trillion — no, it needn’t include $1 trillion worth of platinum — deposit it at the Federal Reserve and draw on that account to keep paying the government’s bills without borrowing.
Alternatively, Biden could simply declare that the 14th Amendment to the Constitution, which says that the validity of federal debt may not be questioned, renders the debt ceiling moot.
And there may be other tricks I don’t know about.
Would any of these approaches basically mean using silly gimmicks to avoid catastrophe? Possibly yes. But given the stakes, who cares if the approach sounds silly?
Would using any of these gimmicks involve violating the spirit of the law even if they technically obey the letter? Of course — but Republicans are already doing that through their abuse of the debt ceiling.
Would any attempt to do an end run around the debt ceiling face court challenges? Yes. But the legal process would at the very least buy time to devise a better solution.
What about the politics? Look, the reason we’re in this situation is that Republicans have learned a terrible truth: Voters don’t know or care about process; they only react to how things are going. The G.O.P. believes that it can benefit from outright, naked sabotage; Democrats shouldn’t worry about undoing that sabotage through whatever tricks they can deploy.
Of course, if the Biden administration does do something unusual to avoid a debt crisis, Republicans will run blistering ads denouncing the action. But they’ll do that anyway! Which is where Marco Rubio comes in. He used to be considered a moderate; now he denounces a medium-size investment plan that appears to be highly popular as the second coming of Stalin. The Republican faux-outrage dial is already turned up to 11; how much worse can it get?
So go ahead, Democrats, and do whatever it takes to get through this. Gimmickry in the defense of sanity — and, in an important sense, democracy — is no vice.
Biden dovrebbe ignorare il limite del debito e coniare una moneta da mille miliardi di dollari,
di Paul Krugman
Adesso è difficile crederlo, ma prima che nel 2016 Donald Trump diventasse il candidato presidenziale del Partito Repubblicano, il Senatore della Florida Marco Rubio era generalmente considerato come un campione dei “conservatori riformisti” – i conservatori che volevano che il Partito Repubblicano diventasse più moderato e flessibile, andasse oltre il suo concentrarsi in modo ossessivo sul taglio delle tasse ai ricchi e sul decurtare i sussidi per i poveri. Da allora, tuttavia, Rubio è diventato un personaggio patetico – non solo un adulatore di Trump, ma qualcuno che normalmente twitta roba come questa: “Il piano da 3.500 miliardi di dollari di Biden non è socialismo, è marxismo”.
In effetti, ricordiamo tutti il commovente passaggio del Manifesto Comunista dove Marx dichiarava: “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi per spendere l’1,2 per cento del PIL [1] nel prossimo decennio su programmi popolari!”
Il fatto che i repubblicani dicano ordinariamente tali sciocchezze è la ragione per la quale l’Amministrazione Biden dovrebbe coniare una moneta di platino da mille miliardi di dollari o dichiarare che la Costituzione gli dà il diritto di emettere tutte le obbligazioni sul debito che sono necessarie per finanziare il Governo – oppure per usare qualche altro artificio che non mi viene in mente per ignorare la crisi incombente.
Un po’ di contesto: abbiamo tutti imparato nei corsi di educazione civica – gli studenti fanno ancora educazione civica? – che la politica federale sulla spesa e sulla tassazione è stabilita da una procedura legislativa chiara. Il Congresso approva le proposte di legge e se il Presidente non pone il veto, quelle proposte di legge diventano leggi. Fine della storia.
Ma si scopre che c’è una stranezza nella procedura del bilancio: il Congresso deve anche distintamente autorizzare il Governo federale ad assumere un debito maggiore.
Storicamente, questo venne considerato un tecnicismo: il Congresso avrebbe ovviamente approvato l’indebitamento se la spesa e la tassazione che aveva già varato conducevano ad un deficit di bilancio. Non farlo non avrebbe senso – non solo perché danneggerebbe l’operatività del Governo, ma anche perché minaccerebbe un caos finanziario: i titoli del Governo statunitense sono il fondamento del sistema finanziario internazionale, utilizzati come garanzie in molte transazioni. Minacciare i flussi di cassa federali potrebbe di conseguenza provocare un collasso di dimensioni mondiali.
Ma la politica negli Stati Uniti non è più quella che era un tempo. Il Partito Repubblicano è diventato sia estremista che senza scrupoli; non dimentichiamo che la maggioranza dei congressisti del Partito Repubblicano ha rifiutato di certificare l’elezione del Presidente Biden. E mentre questo partito estremista spensieratamente autorizza miliardi di indebitamento quando detiene la Casa Bianca, esso trasforma il limite del debito in un’arma impropria tutte le volte che un democratico è Presidente.
Durante gli anni di Obama, i repubblicani utilizzarono il limite del debito come ricatto, rifiutando di aumentarlo se il Presidente Barack Obama non avesse concordato su tagli alla spesa – tagli alla spesa che il Partito Repubblicano non sarebbe stato nelle condizioni di far approvare tramite la normale procedura amministrativa, nonostante avesse il controllo parziale del Congresso.
Quello che sta avvenendo adesso è persino peggio. I democratici controllano entrambi i rami del Congresso, ma i repubblicani stanno usando l’ostruzionismo per bloccare un aumento del tetto del debito con sole poche settimane che restano prima di andare a sbattere su un muro e andare in default sui pagamenti – e non stanno neppure facendo richieste specifiche. Semplicemente non intendono condividere la responsabilità di governare. “Non c’è alcuna possibilità che i repubblicani aiutino i democratici ad elevare il limite del debito in modo che essi possano subito dopo far approvare una abbuffata socialista che danneggerà le famiglie ed aiuterà la Cina”, ha dichiarato Mitch McConnell. Se questo vi sembra un miscuglio di parole senza senso, è perché è proprio così.
Implicito a tutto questo c’è il convincimento che gli elettori daranno la colpa a Biden per tutto quello di negativo che accade sotto la sua Presidenza, anche se a provocare deliberatamente che accadano cose negative sono stati i repubblicani.
Dunque cosa ha a che fare questo con le monete di platino? Ebbene, c’è una strana disposizione nella legislazione statunitense che autorizza il Segretario al Tesoro di coniare ed emettere monete di platino in qualsiasi quantità e denominazione egli [2] scelga. Presumibilmente lo scopo di questa disposizione era permettere la creazione di monete per celebare persone o eventi. Ma il testo non lo dice. Dunque, a fonte di ciò, Janet Yellen potrebbe coniare una moneta di platino con un valore nominale di mille miliardi di dollari – e no, ciò non comporterebbe un valore effettivo del platino di mille miliardi – depositarlo presso la Federal Reserve e attingere a quel conto per continuare a pagare le leggi di spesa del Governo senza indebitarsi.
In alternativa, Biden potrebbe semplicemente dichiarare che il 14° Emendamento alla Costituzione, che dice che la validità del debito federale non può essere contestata, rende il tetto del debito meramente teorico.
E ci possono essere altri artifici che non mi vengono in mente.
Approcci del genere comporterebbero fondamentalmente di utilizzare sciocchi stratagemmi per evitare una catastrofe? È possibile che sia così. Ma data la posta in gioco, chi si preoccupa che l’approccio sembri sciocco?
Utilizzare questi stratagemmi comporterebbe violare lo spirito della legge anche se essi letteralmente sono coerenti con la lettera? Certamente – ma i repubblicani lo stanno già facendo con il loro abuso sul tetto del debito.
Ogni tentativo di usare una scappatoia sul tetto del debito dovrebbe fare i conti con cause nei tribunali? Sì. Ma la procedura legale richiederebbe come minimo il tempo per immaginare una soluzione migliore.
E che dire della politica? Si badi, la ragione per la quale siamo in questa situazione è che i repubblicani hanno scoperto una verità terribile: gli elettori non conoscono e non si curano delle procedure; reagiscono soltanto a come le cose stanno andando. Il Partito Repubblicano crede di poter trarre vantaggio da un chiaro sabotaggio senza veli; i democratici non dovrebbero preoccuparsi di disinnescare quel sabotaggio attraverso qualsiasi stratagemma possano impiegare.
Naturalmente, se l’Amministrazione Biden facesse qualcosa di inconsueto per evitare una crisi del debito, i repubblicani si precipiterebbero ad una feroce propaganda di denuncia della iniziativa. Ma lo faranno in ogni modo! È qua che entra in scena Marco Rubio. Lui di solito veniva considerato un moderato; adesso denuncia un piano di investimenti di medie dimensioni che sembra essere molto popolare come una reincarnazione di Stalin. La manopola della finta indignazione repubblicana [3] è già stata portata al massimo; cosa può succedere di peggio?
Dunque i democratici vadano avanti e facciano tutto quello che serve per sopravvivere anche a questo. Gli stratagemmi a difesa della salute mentale – e, più importante ancora, della democrazia – non sono un vizio.
[1] L’ironia consiste nel fatto che un aumento della spesa pari all’1,2 per cento del PIL sarebbe, in conclusione, l’effetto delle proposte di Biden.
[2] Nel testo, l’autorità investito di tale potere è espressa al femminile, giacché essa attualmente è, per la prima volta nella storia, una donna, Janet Yellen.
[3] Nel linguaggio comune quando la manopola (“dial”) viene spinta al livello “11” significa che è al massimo volume. L’espressione venne coniata a seguito di un film del 1984 (“This is spinal tap”, “Questo è un prelievo spinale” … che forse è un altro idioma, ma non saprei dargli un significato) nel quale un chitarrista mostra orgogliosamente il suo amplificatore che va da un valore zero ad un valore undici. Da allora viene usata in molti contesti, a conferma della potenza della fiction negli Stati Uniti. Noi diremmo semplicemente “a tavoletta”.
settembre 28, 2021
Sept. 24, 2021
By Paul Krugman
OK, who ordered that? You’d think that between Covid-19, climate change and U.S. democracy under siege, we would already have enough crises on our plate. A potential Chinese financial meltdown is the last thing we need. Yet here we are.
The story of the moment is Evergrande, a huge, heavily indebted real estate company that appears on the edge of default. The echoes of the global financial crisis 13 years ago are obvious.
The conventional wisdom is that Evergrande isn’t another Lehman Brothers, that any fallout from its woes, and more broadly from the woes of Chinese real estate, can be contained. But that too raises disturbing memories: Some of us are old enough to remember when all the Very Serious People insisted that the fallout from the U.S. subprime debacle could be contained too.
Still, suppose that the conventional wisdom is right and that Evergrande isn’t another Lehman moment. That still won’t mean that things are OK. For it seems quite possible, at least to me, that China is having a “babaru” moment.
Wait, what? Some of us still remember the Japanese bubble economy — or as the Japanese themselves called it, the “babaru economy” — of the late 1980s, when prices of many assets, above all commercial real estate, went completely crazy. At one point it was widely claimed that the land under the Imperial Palace was worth more than the whole state of California. Then everything crashed.
By the way, I am not making fun of the Japanese for using an English-derived term. English speakers — among whom everyone from policy mandarins to business gurus finds it de rigueur to borrow foreign terminology — have no right to feel schadenfreude when someone else borrows from us.
Anyway, the bursting of the Japanese bubble didn’t lead to a financial meltdown. But it was followed by a prolonged period of economic weakness. At first many observers attributed that weakness to a hangover from previous financial excess: Japanese corporations had too much debt, they argued, or Japanese banks had too many nonperforming loans. But the weakness went on and on, and indeed in some ways continues to this day.
I don’t mean that Japan’s real economy has been consistently depressed for three decades, which you might think if you looked only at real G.D.P. The days when economic experts like (cough) Michael Crichton predicted Japanese domination of the world economy are far behind us:
Rising Sun, not so much.Credit…FRED
But you need to adjust those raw numbers for demography. Thanks to low fertility plus low immigration, Japan is a shrinking society. The number of working-age adults has been falling quite fast since the 1990s. Real G.D.P. per potential worker has actually done OK, basically matching U.S. performance:
But Japan looks OK given its demography.Credit…FRED
However, Japan has been able to maintain more or less full employment only through constant economic stimulus: ultralow interest rates and persistent budget deficits that have pushed the national debt above 200 percent of G.D.P. True, that debt hasn’t posed any problems so far, and the Japanese arguably deserve praise for managing a difficult economic situation with relatively little mass suffering.
But the point stands: Japan’s economic situation has been challenging. Why? Probably precisely because it’s a shrinking nation: Negative population growth means that there’s little demand for new housing or new office buildings, for example. So Japan has become a country awash in savings with few places to go. In hindsight, the bubble of the 1980s wasn’t so much a source of future problems as it was an unsustainable way of temporarily masking problems that were eventually going to become manifest no matter what.
And here’s the thing: While China is vastly different from Japan in many ways, China’s macroeconomic situation bears a striking resemblance to that of Japan around the time the Japanese bubble burst.
On one side, Chinese demography is looking remarkably Japanese. The working-age population peaked in 2015, and although the one-child policy that suppressed births is no longer in effect, this downward trend won’t be reversed, if at all, for many years.
On the other side, China, like Japan in the bubble years, has a highly unbalanced economy, with weak consumer spending and extremely high investment:
China invests too much.Credit…World Bank
Investment spending that exceeds 40 percent of G.D.P. perhaps make sense in an economy with a rapidly growing population — especially one in which millions of rural residents are moving to the cities — that is also catching up to wealthier nations in its technological advances. But China no longer has that kind of demography, and while it is still behind the West (and Japan) in overall technological prowess, productivity growth is slowing.
This means diminishing returns to investment; China needs to transition to a different model. (And Chinese officials reportedly know this.) But it keeps putting that adjustment off, pumping up spending with huge amounts of credit — which leads, inevitably, to Evergrande-type debacles.
China might paper over this current episode, as it has in the past. But sooner or later, something has to give. Evergrande may not be the moment of truth, but it is a sign that this moment is coming. And what we don’t know is whether China has the kind of social cohesion that has allowed Japan to slow down gracefully without a social and political crisis.
Questo potrebbe essere il momento ‘baburu’ della Cina,
di Paul Krugman
Insomma, chi ne sentiva il bisogno? Si poteva pensare che tra il Covid-19, il cambiamento climatico e la democrazia degli Sati Uniti sotto assedio, avevamo già abbastanza crisi nel nostro piatto. Un possibile tracollo finanziario cinese era l’ultima cosa di cui sentivamo il bisogno. Eppure siamo a quel punto.
La storia del momento è Evergrande, una enorme società immobiliare pesantemente indebitata che sembra sull’orlo del fallimento. Gli echi della crisi finanziaria globale di 13 anni fa sono evidenti.
La saggezza ufficiale dice che Evergrande non è un’altra Lehman Brothers, che ogni ricaduta dai suoi guai, e più in generale dai guai del settore immobiliare cinese, possa essere contenuta. Ma ciò solleva anche ricordi fastidiosi: alcuni di noi sono anziani a sufficienza per ricordare quando le Persone Molto Serie insistevano che anche le ricadute dalla debacle statunitense dei mutui subprime potevano essere contenute.
Eppure supponiamo che la saggezza ufficiale abbia ragione e che Evergrande non sia un altro momento Lehman. Questo non significherebbe ancora che le cose siano a posto. Per questo sembra abbastanza possibile, almeno a me, che la Cina stia avendo un momento “baburu” [1].
Un momento: cosa? Alcuni di noi ricordano ancora che la bolla dell’economia giapponese – ovvero come la chiamarono i giapponesi stessi, l’ “economia baburu” – degli ultimi anni ’80, quando i prezzi di molti asset, soprattutto nel settore patrimoniale commerciale, impazzirono completamente. A un certo punto, si sosteneva comunemente che il terreno sotto il Palazzo Imperiale valesse più dell’intero Stato della California. Finché tutto crollò.
Per inciso, non sto prendendo in giro i giapponesi per l’utilizzo di un termine che deriva dall’inglese [2]. Quelli che parlano in inglese – tra i quali tutti, dai burocrati della politica ai guru degli affari, considerano rigoroso prendere a prestito la terminologia straniera – non hanno diritto di provare una gioia maligna quando altri li prendono a prestito da noi.
In ogni modo, lo scoppio della bolla giapponese non portò ad un collasso finanziario. Ma quello che seguì fu un periodo prolungato di debolezza economica. Agli inizi molti osservatori attribuirono quella debolezza ai postumi di un precedente eccesso finanziario: le società giapponesi avevano debiti troppo grandi, sostenevano, oppure le banche giapponesi avevano fatto molti prestiti scadenti. Ma la debolezza andò avanti, e in effetti in qualche modo continua ancora oggi.
Non voglio dire che l’economia reale giapponese sia stata regolarmente depressa per tre decenni, che è quello che potreste pensare se guardate soltanto al PIL reale. I giorni nei quali gli esperti economici come Michael Crichton [3] (colpetto di tosse) prevedevano il dominio giapponese sull’economia mondiale sono alle nostre spalle:
Sole nascente, non tanto. Fonte: FRED [4]
C’è però bisogno di correggere quei dati grezzi considerando la demografia. Grazie alla bassa fertilità in aggiunta alla bassa immigrazione, il Giappone è una società che si restringe. Il numero degli adulti in età lavorativa è venuto calando abbastanza rapidamente dagli anni ’90. Il PIL reale per lavoratore potenziale in realtà è andato bene, fondamentalmente eguagliando la prestazione statunitense:
Ma, data la sua demografia, il Giappone sembra andar bene. Fonte: FRED [5]
Tuttavia il Giappone è stato capace di mantenere più o meno la piena occupazione soltanto attraverso un costante stimolo economico: tassi di interesse bassissimi e persistenti deficit di bilancio che hanno spinto il debito nazionale sopra il 200 per cento del PIL. È vero, sinora quel debito non ha costituito alcun problema, e probabilmente i giapponesi meritano un elogio per aver gestito una situazione economica relativamente difficile senza sofferenze di massa.
Ma resta il punto: la situazione economica del Giappone è stata ardua. Perché? Probabilmente proprio perché è una nazione che si restringe: una crecita negativa della popolazione comporta che c’è poca domanda per nuove abitazioni e per nuovi edifici per uffici, ad esempio. Così il Giappone è diventato un paese inondato da risparmi con pochi posti dove andare. Col senno di poi, la bolla degli anni ’80 non fu tanto una fonte di problemi futuri, quanto un modo insostenibile di mascherare temporaneamente problemi che alla fine erano destinati a divenire comunque manifesti.
Ed ecco la faccenda: se la Cina è grandemente diversa dal Giappone in molti sensi, la situazione macroeconomica della Cina mostra una sorprendente somiglianza con quella del Giappone negi anni in cui scoppiò la bolla giapponese.
Da una parte, la demografia cinese appare considerevolmente giapponese. La popolazione in età lavorativa ha avuto un picco nel 2015, e sebbene la politica di un solo figlio che ha soffocato le nascite non sia più in atto, per molti anni quella tendenza al declino non sarà invertita, se mai accadrà.
D’altra parte, la Cina, come il Giappone negli anni della bolla, ha un’economia altamente squilibrata, con una spesa debole sui consumi ed estremamente elevata negli investimenti:
La Cina investe troppo. Fonte: Banca Mondiale [6]
Una spesa sugli investimenti che supera il 40 per cento del PIL forse ha senso in una economia con una popolazione in rapida crescita – particolarmente in una economia nella quale milioni di residenti nelle zone agricole si stanno spostando nelle città – che al tempo stesso sta raggiungendo le nazioni più ricche nei suoi avanzamenti tecnologici. Ma la Cina non ha più una demografia di quel genere, e mentre essa è ancora indietro all’Occidente (e al Giappone) nella sua complessiva capacità tecnologica, la crescita della produttività sa rallentando.
Questo comporta rendimenti in calo negli investimenti; la Cina ha bisogno di una transizione ad un diverso modello (e i dirigenti cinesi, a quanto si dice, lo sanno). Ma essa continua a rinviare quella correzione, gonfiando la spesa con enormi quantità di credito – il che porta, inevitabilmente, a debacle del genere di Evergrande.
La Cina potrebbe nascondere le magagne dell’episodio attuale, come ha fatto in passato. Ma prima o poi qualcosa deve concedere. Evergrande può non essere il momento della verità, ma è un segno che quel momento si sta avvicinando. E quello che non sappiamo è se la Cina abbia il genere di coesione sociale che ha permesso al Giappone di rallentare con una certa grazia senza una crisi sociale e politica.
[1] “Baburu” il lingua giapponese significa “bolla”, e “baburu keiki” fu una bolla economica che interessò l’economia giapponese dal 1985 al 1991. Krugman scrisse un breve post sul tema vari anni fa, ed anche allora lo chiamò ‘babaru moment’; in vari gli fecero osservare che il termine giapponese è invece ‘baburu’. Quindi lo correggiamo.
[2] Di nuovo, il termine che i giapponesi prendevano in prestito dall’inglese era “bubble” (ovvero, ‘bolla’), che letteralmente in giapponese si traduce con ‘baburu’. “Baburu” non è una espressione idiomatica o scherzosa della lingua giapponese, anche se a noi sembra tale: è il termine ordinario per significare ‘bolla’.
[3] In effetti Crichton è stato un scrittore più famoso per Jurassic Park, ma nel 1992 pubblicò un bestseller dal titolo Sol levante, che probabilmente all’epoca parve un presagio di un inevitabile prossimo dominio economico giapponese. Era un racconto su un omicidio avvenuto in una società giapponese di Los Angeles.
[4] La tabella mostra l’andamento dei PIL reali statunitense (linea blu) e giapponese (linea rossa) a partire dal 1990. Il PIL reale è il valore dei beni e servizi calcolata a prezzi costanti; è una misura più efficace del benessere economico, perché non è influenzato dai cambiamenti di prezzi.
[5] Questa seconda tabella mostra ancora l’andamento del PIL reale, ma l’andamento procapite in rapporto al totale delle persone adulte in età lavorativa (ovvero, dai 15 ai 64 anni).
[6] La tabella mostra la evoluzione degli investimenti fissi lordi in rapporto al PIL in tre paesi: in Cina (linea blu), i Giappone (linea verde) e negli Stati Uniti (linea grigia). Negli ultimi due è scesa sotto il 20%, mentre nel caso della Cina è salita al 40%. Agli inizi degli anni ’90 la situazione della Cina e del Giappone era simile.
settembre 14, 2021
Sept. 10, 2021
By Paul Krugman
Consumer prices have risen 4.4 percent over the past six months; that’s an annualized inflation rate of almost 9 percent, which puts us almost back into 1970s territory. And there are plenty of people out there proclaiming the return of stagflation.
But the people in a position to do something about it — above all, Jerome Powell, the chairman of the Federal Reserve — are fairly serene. They insist that we’re looking at only a transitory blip driven by the disruptions associated with America’s emergence from the pandemic. But are they right? How can we tell?
To answer those questions, we need to back up and ask what it means to say that inflation is transitory, anyway. And to do that, it helps to take a long view.
My sense is that many people believe that inflation wasn’t something that happened in America before the 1970s. But that isn’t true. Consumer price data go back more than a century, and there were several episodes of high inflation over that period. The ’70s weren’t even the peak:
Inflation over the long run.Credit…FRED
What was the difference between the ’70s inflation and the inflationary spikes associated with World War I, the end of World War II or the Korean War? The answer is that those earlier bursts of inflation were easy come, easy go: The economy didn’t exactly return to price stability painlessly, but the recessions associated with disinflation were fairly brief. Ending the inflation of the ’70s, by contrast, involved a prolonged period of really high unemployment:
The cost of disinflation.Credit…FRED
But what explained that difference? In the 1970s inflation became “embedded” in the economy. The people who were setting wages and prices did so with the expectation that there would be lots of inflation in the future. For example, companies were relatively willing to give their workers wage increases because they thought that their competitors would end up doing the same, so it wouldn’t put them at a competitive disadvantage.
The question is whether inflation is similarly becoming embedded now.
We used to have a fairly easy, rough-and-ready way to answer that question: the concept of core inflation. Back in the 1970s, the economist Robert Gordon suggested that we make a distinction between the price of commodities like oil and soybeans that fluctuate all the time and other prices that are adjusted less frequently. An inflation measure that excluded food and energy, he argued, would give us a much better indicator of underlying — i.e. embedded — inflation than the headline number.
The concept of core inflation has been one of the huge success stories of data-driven economic policy. Over the past 15 years we’ve seen several surges in consumer prices driven mainly by commodity prices and much hyperventilating, mainly on the political right, about the return of stagflation or even imminent hyperinflation. Remember when Paul Ryan, the Republican representative of Wisconsin at the time, accused Ben Bernanke, the former Fed chairman, of “debasing the dollar”?
The Fed, however, refused to back off from its easy-money policy, pointing to quiescent core inflation as a reason not to worry. And it was right:
Core for the win.Credit…FRED
Unfortunately, at this point the traditional measure of core inflation doesn’t help much, because the pandemic has led to price spikes in unusual sectors like used cars and hotel rooms. So how can we find guidance?
The White House Council of Economic Advisers has been using a sort of “supercore” measure that excludes not just food and energy but also pandemic-affected sectors. This makes sense; in fact, I was arguing for such a measure months ago. But I’m aware that as one excludes more stuff from the Consumer Price Index, one exposes oneself to the charge that you’re saying that there’s no inflation if you ignore the prices that are rising.
Powell has pointed to a different measure: wage increases, which have been substantial in some of the pandemic-hit sectors but overall still seem moderate according to measures like the Atlanta Fed’s wage growth tracker:
Wage-price spiral? Not yet.Credit…Federal Reserve Bank of Atlanta
Lately, however, I’ve been wondering whether the best way to figure out whether inflation is getting embedded is to ask the people who would be doing the embedding. That is, are companies acting as if they expect sustained inflation in the future?
The answer, so far, seems to be no. Many companies are facing labor shortages, and they’re trying to attract workers with things like signing bonuses. But at least according to the Fed’s Beige Book — an informal survey that is often useful for getting a read on business psychology — they’re reluctant to raise overall wages.
Just to be clear, I’m not celebrating corporate unwillingness to increase wages. The point, instead, is that companies aren’t acting as if they expect lots of future inflation, where they can hike wages without losing competitive advantage. They’re acting, instead, as if they see current inflation as a blip.
So far, then, I’m still on Team Transitory: I think things are looking more like 1951, when inflation briefly hit 9.3 percent, than 1979. And if we finally get this pandemic under control, the inflation of 2021 will soon fade from memory.
Sono ancora nella squadra della transitorietà,
di Paul Krugman
I prezzi al consumo sono cresciuti nei sei mesi passati del 4,4 per cento; questo è un tasso di inflazione annualizzato di quasi il 9 per cento, che ci riporta indietro alle esperienze degli anni ’70. E c’è un gran numero di persone in giro che annuncia il ritorno della stagflazione.
Ma le persone che avrebbero il potere di fare qualcosa su ciò – primo tra tutti, Jerome Powell, il Presidente della Federal Reserve – sono abbastanza serene. Ribadiscono che stiamo assistendo solo a un contrattempo transitorio provocato dai blocchi connessi con l’emergenza della pandemia in America. Ma hanno ragione? Come possiamo dirlo?
Per rispondere a tali domande, dobbiamo fare un passo indietro e chiederci comunque cosa significhi dire che l’inflazione è transitoria. E per farlo, è utile considerare una prospettiva lunga.
La mia sensazione è che molte persone credano che l’inflazione sia stato qualcosa che non era accaduto in America prima degli anni ’70. Ma ciò non è vero. I dati sui prezzi al consumo sono disponibili per più di un secolo, e ci sono stati vari episodi di alta inflazione in quel periodo. Gli anni ’70 non furono nemmeno il punto più alto:
L’inflazione nel lungo periodo. Fonte: FRED
Quale fu la differenza tra l’inflazione degli anni ’70 e le punte inflazionistiche connesse con la Prima Guerra Mondiale, con la fine della Seconda Guerra Mondiale o con la guerra coreana? La facilità nel venire e la facilità nell’andarsene: l’economia non ritornò alla stabilità dei prezzi precisamente in modo indolore, ma le recessioni associate con la disinflazione furono abbastanza brevi. La fine dell’inflazione degli anni ’70, all’opposto, comportò un periodo prolungato di disoccupazione davvero elevata:
Il costo della disinflazione. Fonte: FRED
Ma cosa spiegava quella differenza? Negli anni ’70 l’inflazione divenne “incorporata” nell’economia. Le persone che stabilivano i salari ed i prezzi lo facevano nell’aspettativa che il futuro riservasse una gran quantità di inflazione. Ad esempio, le società erano relativamente disponibili a concedere ai loro lavoratori aumenti salariali perché pensavano che i loro competitori avrebbero finito per fare lo stesso, così che non sarebbero cadute in uno svantaggio competitivo.
La domanda è se l’inflazione adesso stia diventando incorporata in modo simile.
Per rispondere alla domanda, siamo soliti usare un modo abbastanza facile, rapido e approssimativo: il concetto di inflazione sostanziale. Nei passati anni ’70, l’economista Robert Gordon suggerì che facessimo una distinzione tra i prezzi delle materie prime cone il petrolio e la soia, che fluttuano in continuazione, e gli altri prezzi che vengono corretti meno frequentemente. Una misurazione dell’inflazione che escludesse generi alimentari ed energia, sostenne, ci avrebbe dato un indicatore molto migliore dell’inflazione sottostante – ovvero incorporata – del dato complessivo.
Il successo dell’inflazione sostanziale è stato una delle storie di grande successo della politica economica basata sulle statistiche. Nei 15 anni passati abbiamo assistito a molte impennate dei prezzi al consumo guidate principalmente dai prezzi delle materie prime, che venivano fortemente esagerate, specialmente dalla destra politica, alla stregua di un ritorno della stagflazione o persino di una imminente iperinflazione. Ricordate quando Paul Ryan, a quell’epoca parlamentare del Wisconsin, accusava Ben Bernanke, il passato Presidente della Fed, di “svalutare il dollaro”?
La Fed, tuttavia, rifiutò di tirarsi indietro dalla sua politica di moneta facile, indicando nella quiescente inflazione sostanziale una ragione per non preoccuparsi. Ed ebbe ragione.
I successi dell’inflazione ‘sostanziale’. Fonte: FRED
Sfortunatamente, a questo punto la misurazione tradizionale della inflazione sostanziale non aiuta molto, perché la pandemia ha provocato impennate nei prezzi in settori inconsueti come le macchine usate e le stanze degli alberghi. Come possiamo, dunque, procurarci un orientamento?
Il Comitato dei Consiglieri Economici della Casa Bianca sta usando una sorta di misurazione “super sostanziale”, che esclude non solo i generi alimentari e l’energia ma anche i settori influenzati dalla pandemia. Questo ha senso: di fatto, mi ero espresso a favore di una tale misura mesi orsono. Ma sono cosciente che quando uno esclude molti generi dall’Indice dei Prezzi al Consumo, si espone all’accusa di star sostenendo che non c’è inflazione perché ignora i prezzi che stanno salendo.
Powell ha messo in evidenza una misurazione diversa: la crescita dei salari, che è stata sostanziale in alcuni settori colpiti dalla pandemia ma, secondo le misurazioni del ‘tracciante’ della crescita salariale della Fed di Atlanta, nel complesso sembra ancora moderata:
Una spirale salari-prezzi? Non ancora. Fonte: Banca della Federal Reserve di Atlanta
Di recente, tuttavia, mi sto chiedendo se il modo migliore per capire se l’inflazione stia diventando incorporata non sia chiederlo alle persone che dovrebbero effettuare l’incorporazione. Cioè, le imprese stanno agendo come se si aspettassero una inflazione prolungata nel futuro?
La risposta, sinora, sembra essere negativa. Molte società stanno misurandosi con scarsità della forza lavoro, e stanno cercando di attrarre i lavoratori con cose come significative gratifiche. Ma, almeno secondo il Beige Book della Fed – un sondaggio informale che spesso è utile per comprendere la psicologia del momento delle imprese – esse sono riluttanti ad aumentale i salari complessivi.
Per esser chiaro, non sto magnificando l’indisponibilità delle imprese ad aumentare i salari. Il punto è, piuttosto, se le società stiano comportandosi come se si aspettassero molta inflazione futura, il caso in cui possono alzare i salari senza perdere vantaggio competitivo. Stanno agendo, invece, come se considerassero l’inflazione attuale come un incidente di percorso.
Sinora, dunque, mi colloco ancora nel gruppo che propende per la tesi della transitorietà: considero le cose cui stiamo assistendo più simili al 1951, quando l’inflazione raggiunse per un breve periodo il 9,3 per cento, che non al 1979. E se alla fine metteremo sotto controllo questa pandemia, l’inflazione del 2021 svanirà presto dalla memoria.
settembre 8, 2021
Sept. 7, 2021
By Paul Krugman
In the heady days of spring, when the United States was vaccinating 3 million people a day, President Biden predicted a “summer of joy.” But then the vaccination campaign stalled, and the Delta variant fueled a new wave of infections, hospitalizations and deaths.
This didn’t have to happen. True, Delta’s contagiousness has led to rising caseloads almost everywhere. But America has pulled away from other advanced countries in hospitalizations and deaths:
American exceptionalism.Credit…Our World in Data
There’s no mystery about why this has happened: It’s political. True, there are many Americans refusing to take the vaccines for nonpolitical reasons. There’s general distrust of authority figures, there’s distorted word of mouth — a friend of a friend heard about someone who had a bad reaction. (Even in my sheltered social set, I know people like that.) But the systematic refusal to get vaccinated, refusal to wear masks, etc., is very clearly tied to the unique way that common-sense public health measures have been caught up in the culture war.
According to a recent NBC poll, 91 percent of Biden voters have been vaccinated but only 50 percent of Trump voters. Or look at death tolls: Blue states look more like Canada or Germany than like Florida or Texas:
A very uneven pandemic.Credit…The New York Times, Our World in Data
And aside from, you know, killing people, the politically driven Covid resurgence is taking an economic toll. The August jobs report wasn’t terrible — the recovery hasn’t stalled — but it was disappointing. And while there was, as always, some dispute about exactly what the numbers are telling us, with some labor economists pushing back against calling it purely a Delta story, the best bet is that the resurgent virus was the biggest factor in the disappointment, as people cut back on going out to eat, traveling and so on.
By the way, this economic hit took place despite the absence of anything like the lockdowns we experienced earlier in the pandemic. There have been very few new restrictions on economic activity imposed by state and local governments; some places have reimposed indoor mask requirements, but shopping and even flying while masked is entirely doable. No, what’s happening is individual caution reasserting itself.
And the economic hit isn’t looking nearly as bad as what we experienced in earlier waves of the pandemic. That’s the good news. The bad news is that in those previous waves, America did a surprisingly good job of stepping up to help those suffering from the economic fallout. This time we aren’t.
Given America’s historical track record of failing to help those in need, our initial response to the pandemic was almost miraculously good: generous unemployment benefits, checks sent to most households, expansions of other benefits. Why was this politically possible? Partly, I think, because at first even many conservatives saw pandemic unemployment as an act of God, not a personal failing on the part of the unemployed. Partly, also, progressives had ideas about what to do, while the Trump administration and its allies were clueless. So there was an element of the “Yes, Prime Minister” effect: We must do something. This is something. Therefore, we must do it.
In any case, the result was remarkable: Despite huge job losses, poverty actually fell.
Misery mitigated.Credit…Columbia Center on Poverty and Social Policy
But the most important of the pandemic relief programs, enhanced unemployment benefits, has now expired, with no prospect of renewal, given brutal political divides and the return of Republicans to their traditional view that helping the unemployed makes them lazy. If we’d had the summer of joy we were promised, this wouldn’t be so bad. But the stalled vaccination campaign — again, largely although not entirely a political phenomenon — has fed a viral resurgence that’s holding back the economy, which means that millions of workers are still stranded. And this time they aren’t getting the relief they need.
Now, there was a hiatus in enhanced unemployment benefits last fall, and for the most part, families made it through: Many had accumulated savings in 2020, and this tided them over until benefits were restored that December. And maybe, just maybe, this won’t work out too badly. There are hints in the data that the Delta wave is subsiding, and vigorous job growth may resume in time to rescue the unemployed.
But maybe not. Politics has already given us a completely unnecessary tragedy: thousands of preventable deaths despite the ready availability of lifesaving vaccines. And we may be about to suffer a gratuitous economic tragedy on top of that.
Ecco che arriva l’autunno dell’ansia,
di Paul Krugman
Nei giorni esaltanti della primavera, quando gli Stati Uniti vaccinavano 3 milioni di persone al giorno, il Presidente Biden prevedeva un’ “estate di gioia”. Ma poi la campagna di vaccinazioni ha rallentato e la variante Delta ha innescato una nuova ondata di infezioni, di ospedalizzazioni e di decessi.
Non era necessario che accadesse. È vero, la contagiosità della Delta ha portato ad un numero di casi crescente quasi dappertutto. Ma l’America si è distaccata dagli altri paesi avanzati nelle ospedalizzazioni e nei decessi:
Eccezionalismo americano. Fonte: Our World in data [1]
Non è un mistero la ragione per la quale è successo: è una ragione politica. È vero, ci sono molti americani che rifiutano il vaccino per motivi che non hanno a che fare con la politica. C’è una sfiducia generale nelle autorità, c’è un distorto passaparola – un amico di un amico ha sentito dire di qualcuno che ha avuto una brutta reazione (persino nel mio protetto ambiente sociale, conosco persone del genere). Ma il rifiuto sistematico di vaccinarsi, il rifiuto di indossare le mascherine etc., sono molto chiaramente collegati all’unico modo in cui le misure di salute pubblica di senso comune possono essere inserite in una guerra ideologica.
Secondo un recente sondaggio della NBC, il 91 per cento degli elettori di Biden si sono vaccinati, contro il 50 per cento degli elettori di Biden. Osservate anche il bilancio delle vittime: gli Stati democratici sono più simili al Canada o alla Germania rispetto alla Florida o del Texas:
Una pandemia molto variabile. Fonte: The New York Times, Our World in data
E a parte l’ammazzare le persone, come sapete, la ripresa del Covid provocata dalla politica sta provocando un pedaggio economico. Il rapporto sui posti di lavoro nel mese di agosto non è stato terribile – la ripresa non si è fermata – ma è stato deludente. E mentre c’è stata, come sempre, un po‘ di discussione su cosa esattamente i dati ci dicono, con alcuni economisti del lavoro che si rifiutano di attribuirla semplicemente alla variante Delta, l’ipotesi migliore è che la ripresa del virus sia stata il fattore di delusione maggiore, e la gente abbia dato un taglio al mangiar fuori, al viaggiare e a cose simili.
Per inciso, questo colpo economico ha avuto luogo nonostante l’assenza di cose come i lockdown che avevamo sperimentato in precedenza nella pandemia. Ci sono state molto poche nuove restrizioni sull’attività economica imposte dagli Stati e dai governi locali; alcune località hanno reimposto l’uso delle mascherine nel luoghi al chiuso, ma fare la spesa e persino volare con le mascherine è interamente fattibile. No, quello che sta accadendo è una cautela delle persone che si sta riaffermando per conto suo.
E il colpo all’economia non sembra neanche lontanamente così cattivo come quello che avevamo conosciuto nelle ondate precedenti di questa pandemia. La cattiva notizia è che in quelle precedenti ondate, l’America faceva un lavoro sorprendentemente positivo nell’aumentare gli aiuti a coloro che pagavano il prezzo della caduta. Questa volta non sta accadendo.
Data l’esperienza storica dell’America di non saper aiutare coloro che ne hanno bisogno, la nostra iniziale risposta alla pandemia è stata quasi miracolosamente positiva: sussidi di disoccupazione generosi, assegni spediti alla maggior parte delle famiglie, ampliamento di altri benefici. Perché è stato possibile politicamente? In parte, penso, perché agli inizi persino molti conservatori hanno considerato la disoccupazione pandemica come una decisione divina, non come un fallimento personale dei disoccupati. In parte, anche, perché i progressisti avevano idee su cosa fare, mentre l’Amministrazione Trump e i suoi alleati non sapevano dove metter le mani. Dunque ci fu qualcosa di simile all’effetto cosiddetto del: “Sì, Primo Ministro”: dobbiamo fare qualcosa, questo è qualcosa, dunque dobbiamo fare questo [2].
In ogni caso, il risultato è stato considerevole: nonostante grandi perdite di posti di lavoro, la povertà effettivamente si è ridotta.
Una miseria ridotta. Fonte: Centro sulla Povertà e sulla Politica Sociale della Columbia. [3]
Ma il più importante dei programmi di aiuto della pandemia, i sussidi di disoccupazione rafforzati, adesso si è estinto, senza nessuna prospettiva di rinnovarlo, dati i crudi divari politici e il ritorno dei repubblicani al loro tradizionale punto di vista secondo il quale aiutare i disoccupati li rende pigri. Se avessimo avuto l’ “estate di gioia” che avevamo promesso, la situazione non sarebbe così negativa. Ma la campagna di vaccinazione che ristagna – ancora, in gran parte anche se non interamente un fenomeno politico – ha alimentato una ripresa del virus che sta trattenendo l’economia, il che comporta che milioni di lavoratori sono ancora bloccati. E questa volta non stanno ricevendo l’aiuto di cui hanno bisogno.
Ora, c’è stato un intervallo lo scorso autunno per i sussidi di disoccupazione potenziati e, per la maggior parte, per le famiglie che ce l’hanno fatta: molti avevano accumulato risparmi nel 2020, e questo li ha sospinti fino a che i sussidi non sono stati ripristinati a dicembre. E forse, solo forse, questo finirà per provocare effetti non troppo negativi. Ci sono cenni secondo i quali la variante Delta sta calando, e una vigorosa crescita dei posti di lavoro può intervenire in tempo per salvare i disoccupati.
Ma forse no. La politica ci ha già regalato una tragedia completamente non necessaria: migliaia di morti che si potevano evitare nonostante la pronta disponibilità di vaccini salvavita. E, sopra tutto questo, potremmo essere vicini a patire una tragedia economica gratuita.
[1] La Tabella mostra – nel periodo dal maggio agli inizi di settembre di quest’anno – il numero dei morti da Covid (per ogni milione i persone) negli Stati Uniti, in Canada e in Germania. Il tasso dei decessi negli Stati Uniti è a settembre circa dieci volte quello negli altri due paesi.
[2] Un sillogismo del genere, anche noto come ‘sillogismo del politico’, comparve per la prima volta in un episodio sulla televisione britannica, in una serie che aveva per titolo “Sì, Primo Ministro”. Un po’ come dire che quando un politico ‘non sa che pesci prendere’ si allinea facilmente a comportamenti gregari dietro ai capi. In seguito, una condotta del genere ha acquistato quel titolo della trasmissione televisiva.
[3] La Tabella mostra i tassi mensili della povertà negli Stati Uniti. La riga a puntini con i valori più elevati mostra i livelli di povertà prima dei trasferimenti finanziari pubblici e i crediti di imposta; quella continua scura mostra i livelli della povertà senza gli aiuti per il Covid; quella celeste più in basso gli andamenti considerati gli aiuti per il Covid. I punti nei quali si segnala una ulteriore caduta dei livelli di povertà, indicano periodi caratterizzati dalla somministrazione materiale degli aiuti pubblici.
settembre 5, 2021
Sept. 3, 2021
By Paul Krugman
Remember Austrian economics? In the aftermath of the 2008 financial crisis, a number of conservatives rejected Keynesian economic prescriptions and claimed instead to be devotees of the Austrian School, especially Friedrich Hayek.
It’s questionable how many of these self-proclaimed “Austrians” actually knew what they were endorsing. In general, when right-wingers talk about intellectual history, you want to fire up your fact-checking. For example, Mark Levin of Fox News has a best-selling book claiming not just that the current American left is in the thrall of European Marxists but more specifically that they’re followers of Herbert Marcuse and the Frankfurt School — except that he keeps calling it the “Franklin School.”
And the idea that there was a titanic intellectual battle in the 1930s between Hayek and John Maynard Keynes is basically fan fiction; Hayek’s views on the Great Depression didn’t get much intellectual traction at the time, and his fame came later, with the publication of his 1944 political tract “The Road to Serfdom.”
Nonetheless, there was an identifiable Austrian analysis of the Depression, shared by Hayek and other economists, including Joseph Schumpeter. Where Keynes argued that the Depression was caused by a general shortfall in demand, Hayek and Schumpeter argued that we were looking at the inevitable difficulties of adjusting to the aftermath of a boom. In their view, excessive optimism had led to the allocation of too much labor and other resources to the production of investment goods, and a depression was just the economy’s way of getting those resources back where they belonged.
This view had logical problems: If transferring resources out of investment goods causes mass unemployment, why didn’t the same thing happen when resources were being transferred in and away from other industries? It was also clearly at odds with experience: During the Depression and, for that matter after the 2008 crisis, there was excess capacity and unemployment in just about every industry — not slack in some and shortages in others.
This time, however, is different. Although we aren’t hearing much about Austrian economics these days, the pandemic really did produce an Austrian-style reallocation shock, with demand for some things surging while demand for other things slumped. You can see this even at a macro level: There was a huge increase in purchases of durable goods even as services struggled. (Think people buying stationary bikes because they can’t go to the gym. Hey, I did.)
A very weird slump.Credit…FRED
You can see it even more clearly in the details: Record vacancies in the market for office space, a crippling shortage of shipping containers.
So we’re finally having the kind of economic crisis that people like Hayek and Schumpeter wrongly believed we were having in the 1930s. Does this mean that we should follow the policy advice they gave back then?
No.
That’s the message of a paper by Veronica Guerrieri, Guido Lorenzoni, Ludwig Straub and Iván Werning that was prepared for this year’s Jackson Hole meeting — an important Federal Reserve conference that often produces influential research. (Fun fact: I’ve been blackballed from Jackson Hole since the early 2000s, when I had the temerity to criticize Alan Greenspan before it was fashionable.) Guerrieri et al. never explicitly mention the Austrians, but their paper can nonetheless be construed as a refutation of their policy prescriptions.
Hayek and Schumpeter were adamantly against any attempt to fight the Great Depression with monetary and fiscal stimulus. Hayek decried the use of “artificial stimulants,” insisting that we should instead “leave it to time to effect a permanent cure by the slow process of adapting the structure of production.” Schumpeter warned that “any revival which is merely due to artificial stimulus leaves part of the work of depressions undone.”
But these conclusions didn’t follow even if you accepted their incorrect analysis of what the Depression was all about. Why should the need to move workers out of a sector lead to unemployment? Why shouldn’t it simply lead to lower wages?
The answer in practice is downward nominal wage rigidity: Employers are really reluctant to cut wages, because of the effects on worker morale. Here’s the distribution of wage changes in 2009-10, from the linked paper:
Distribution of wage changes, 2009-10.Credit…Fallick et al
The big spike at zero represents large numbers of employers who had an abundance of job applicants but didn’t want to cut wages, so they just left them unchanged.
However, if wages can’t fall in the sector that needs to shrink, why can’t they increase in the sector that needs to expand? Sure, it would lead to a temporary rise in inflation — but that would be OK.
Guerrieri et al. argue, with a formal model to back them up, that the optimal response to a reallocation shock is indeed a very expansionary monetary policy that causes a temporary spike in inflation. Workers would still have an incentive to change jobs, because real wages would fall in their old jobs but rise elsewhere. But there wouldn’t have to be large-scale unemployment.
Maybe this was obvious from the start — or maybe not, because most of us were so focused on the wrongness of the Austrians’ diagnosis of the problem that we didn’t spend much time thinking about their solution. Now that we’ve finally had the shock Austrian economists kept imagining, we can see that they were still giving very bad advice.
And in case you’re wondering, the Fed, by accepting transitory inflation, is getting it right.
Una pandemia molto austriaca,
di Paul Krugman
Vi ricordate l’economia austriaca? Nel periodo successivo alla crisi finanziaria del 2008, un certo numero di conservatori respingevano le ricette economiche keynesiane e sostenevano piuttosto di essere seguaci della Scuola Austriaca, in particolare di Friedrich Hayek.
È opinabile quanti tra questi autoproclamatisi “austriaci” conoscessero effettivamente quello che stavano promuovendo. In generale, quando la destra parla di storia intellettuale, dovreste far partire le vostre verifiche. Ad esempio, Mark Levin di Fox News è autore di un libro molto venduto che sostiene che non solo l’attuale sinistra americana è alla mercè dei marxisti europei, ma più in particolare che essi sono seguaci di Herbert Marcuse e della Scuola di Francoforte – sennonché continua a chiamarla la “Scuola di Franklin”.
E l’idea che ci sia stata una battaglia intellettuale da titani negli anni ’30 tra Hayek e John Maynard Keynes è fondamentalmente una caricatura da dilettanti; le opinioni di Hayek sulla Grande Depressione a quel tempo non avevano molto seguito intellettuale, e la sua fama venne successivamente, con la pubblicazione nel 1944 del suo pamphlet politico “La strada verso la servitù”.
Ciononostante, esisteva una riconoscibile analisi austriaca della Depressione, condivisa da Hayek e da altri economisti, compreso Joseph Schumpeter. Laddove Keynes sosteneva che la depressione era provocata da una caduta generale della domanda, Hayek e Schumpeter sostenevano che eravamo in presenza di inevitabili difficoltà di aggiustamento che seguivano un grande espansione. Secondo la loro opinione, un ottimismo eccessivo aveva portato alla allocazione di troppa forza lavoro e di altre risorse nella produzione di beni di investimento, e una depressione era precisamente il modo in cui l’economia riportava al loro posto quelle risorse.
Questa tesi aveva problemi logici: se trasferire risorse fuori dai beni di investimento provocava la disoccupazione di massa, perché non era avvenuta la stessa cosa quando le risorse erano state trasferite in quei settori e allontanate da altre industrie? Essa era anche chiaramente contraddetta dalla esperienza: durante la Depressione e, per la stessa ragione dopo la crisi finanziaria del 2008, ci fu un eccesso di capacità e la disoccupazione in quasi tutti i settori industriali – non una fiacchezza in alcuni e una scarsità in altri.
Questa volta, tuttavia, è diverso. Sebbene di questi tempi non si senta molto parlare di economia austriaca, la pandemia ha in effetti prodotto un trauma da riallocazione del genere ipotizzato dalla scuola austriaca, con la domanda per alcuni prodotti che cresce mentre la domanda per altri si è depressa. Lo si può vedere persino ad un livello macroeconomico: c’è stato un forte incremento degli acquisti di beni durevoli persino mentre i servizi erano in difficoltà (si pensi alle persone che acquistano biciclette da fermo perhè non possono andare nelle palestre. L’ho fatto anch’io.)
Una depressione molto strana. Fonte: FRED [1]
Questo si può osservare anche più chiaramente in alcuni dettagli: il record dei posti liberi nel mercato degli edifici per uffici, una carenza paralizzante di contenitori per le spedizioni via nave.
Dunque, stiamo avendo finalmente quel tipo di crisi economica che persone come Hayek e Schumpeter pensavano sbagliando che stessimo avendo negli anni ’30. Questo significa che dovremmo seguire i consigli di politica economica che essi allora ci fornivano?
Niente affatto.
È questo il messaggio di uno studio a cura di Veronica Guerrieri, Guido Lorenzoni, Ludwuig Straub e Iván Werning che è stato predisposto per l’incontro di quest’anno di Jackson Hole – una importante conferenza della Federal Reserve che produce spesso ricerche illuminanti (un fatto buffo: io ho avuto un ostracismo da Jackson Hole sin dagli anni 2000, quando ebbi la temerarietà di criticare Alan Greenspan prima che diventasse una moda [2]). Guerrieri e gli altri non fanno mai espliciti riferimenti agli ‘austriaci’, ma il loro studio può nondimeno essere considerato come una confutazione delle loro ricette politiche.
Hayek e Schumpeter furono risolutamente contrari ad ogni tentativo di combattere la Grande Depressione con lo stimolo monetario e della finanza pubblica. Hayek denunciava l’uso degli “stimolanti artificiali”, insistendo che avremmo invece dovuto “lasciare il tempo perché si effettuasse una cura permanente per il lento processo di adattamento della struttura della produzione”. Schumpeter metteva in guardia che “ogni ripresa che sia meramente dovuta allo stimolo artificiale lascia una parte del lavoro delle depressioni incompiuta”.
Ma queste conclusioni non erano conseguenti neppure se si accetta la loro scorretta analisi sulla natura della Depressione. Perché il bisogno di dover spostare da un settore i lavoratori dovrebbe portare alla disoccupazione? Perché non dovrebbe comportare semplicemente salari più bassi?
In pratica la risposta è la rigidità dei salari nominali verso il basso: i datori di lavoro sono in realtà riluttanti a tagliare i salari, a causa degli effetti sul morale dei lavoratori. Ecco la distribuzione dei mutamenti salariali negli anni 2009-10, dallo studio connesso:
Distribuzione dei cambiamenti di salario. Fonte: Fallick ed altri [3]
Il grande picco allo zero rappresenta l’ampio numero di datori di lavoro che avevano una abbondanza di candidati al posto di lavoro, ma essi non vollero tagliare i salari, dunque li lasciarono proprio immutati.
Tuttavia, se i salari non possono scendere nel settore che ha bisogno di restringersi, perché non possono aumentare nel settore che ha bisogno di espandersi? Di sicuro, ciò porterebbe ad una crescita temporanea dell’inflazione – ma sarebbe una cosa positiva.
Guerrieri e gli altri sostengono, con un modello formale a loro sostegno, che la risposta ottimale ad uno shock di riallocazione è in effetti una politica monetaria molto espansiva che provochi un picco temporaneo nell’inflazione. I lavoratori avrebbero comunque un incentivo a cambiare posto di lavoro, perché i salari reali cadrebbero nelle loro vecchie occupazioni ma crescerebbero altrove. Ma non ci sarebbe obbligatoriamente una disoccupazione su larga scala.
Forse questo era evidente dagli inizi – o forse no, perché la maggioranza di noi era così concentrata sulla erroneità della diagnosi del problema da parte degli austriaci, che non spendevamo molto tempo a pensare alla loro soluzione. Ora che finalmente abbiamo avuto lo shock che gli economisti austriaci continuavano a immaginare, possiamo constatare che essi ci fornivano comunque un pessimo consiglio.
E nel caso ve lo stiate chiedendo, la Fed, accettando la tesi di una inflazione transitoria, sta facendo la cosa giusta.
[1] La riga blu nella Tabella indica l’andamento delle spese per consumi su beni durevoli negli anni 2020 e 2021, mentre la linea rossa indica l’andamento delle spese nel settore dei servizi.
[2] Alan Greenspan fu Presidente della FED per circa venti anni, nominato da Reagan, confermato da Clinton sino ad una nomina finale (la quinta) con Bush. Un giudizio fortemente critico sulla sua Presidenza venne in pratica soprattutto in seguito.
[3] Suppongo che la Tabella mostri l’andamento dei mutamenti nei salari complessivi, che naturalmente ebbero un gran cambiamento negli anni 2009-10 per effetto della fine della recessione, ma poi rimasero stabili.
settembre 4, 2021
Aug. 31, 2021
By Paul Krugman
Today’s column was inspired by the latest twist in our still shambolic response to Covid — the continuing refusal of many Americans to get vaccinated and the insistence of some of them on swallowing horse paste instead. I tried to link this horrifying, if comic, development to the long relationship between right-wing extremism and patent medicine. But I didn’t have space to put this in the broader context of how money influences politics and policy.
The simple fact is that none of us are saints. Even those who claim to be working for the common good can be and often are influenced by the prospect of personal reward. As conservative economists like to say, incentives matter.
Indeed, it’s usually conservative economists who make this point most strongly. Half a century ago George Stigler of the University of Chicago published a hugely influential paper titled “The theory of economic regulation,” which argued that government regulators — like the boards setting rules for electricity generation and pricing — weren’t like the wise, selfless guardians of Plato’s “Republic”; they were human and hence subject to influence, which in practice meant that regulators were often captured by the very industries they were supposed to regulate.
It was a good point, if perhaps too extreme — regulators may not be saints, but they aren’t always purely creatures of self-interest either. But it was too narrowly applied. Stigler’s followers have used his logic to make the case against regulation, arguing that regulators will be corrupted by special interests. But why restrict that insight to government officials? In particular, why not apply it to their own political movement?
After all, surely the same logic that applies to regulators also applies to politicians and pundits, including those on the right who denounce regulation. And for that matter, it applies to intellectuals too, especially in those situations where the possible rewards for expressing the “right” opinions go beyond prestige and promotion into the realm of cold, hard cash.
And as far back as I can remember, the world of conservative opinion and thought has, in fact, consisted largely of bought men and women. (I’ll talk about liberals in a minute.)
I don’t think it was always thus. I’m not a huge fan of Milton Friedman’s legacy, but I do believe that he — and for that matter, Stigler — said what they did out of genuine, unforced conviction. Things have, however, changed since their heyday. In fact, they’ve changed twice.
First came the rise of “movement conservatism” — a highly organized set of interlocking institutions, all backed by billionaires and big corporations, of which the Republican Party was only one piece. There were also media organizations, especially Fox, think tanks like the Heritage Foundation and more. By the aughts (we never did come up with a better name for this century’s first decade), these institutions had created a safe space, a guarantee of a stable and fairly lucrative career, for people willing to say the right things — tax cuts good, regulation bad — and not rock the boat.
I never thought I’d be nostalgic for the era when big money ruled the right. But traditional corporate influence looks benign compared with where we are now. At this point, to be a conservative in good standing you have to pledge allegiance to blatant lies — Democrats are Marxists, the election was stolen, basic public health measures are sinister assaults on freedom.
Why are so many people who have to know better willing to go along with these lies? Again, self-interest — partly ambition, and yes, partly financial reward. Obviously the snake-oil industry doesn’t have anything like the resources of more respectable Republican-leaning industries like fossil fuels or tobacco. But it offers more opportunities for personal enrichment: Ben Shapiro is presumably well paid for hawking “superfoods” in a way he couldn’t be for, say, promoting oil wells.
OK, what about liberals? They’re people too, with all the usual human flaws; there are plenty of prominent liberals who I know personally to be driven by ego and to some extent by monetary considerations, people like … actually, not going there. But they live in a different environment from conservatives.
The old Will Rogers line — “I am not a member of any organized political party — I am a Democrat” — still applies. Political science research confirms that the Republican Party, and conservatism in general, is an ideological monolith, albeit one largely under new management. Democrats and the center-left in general, by contrast, are a loose coalition, and to prosper in that coalition you have to satisfy multiple constituencies. This makes it harder to sell your soul, because it’s not clear who you’re supposed to sell it to.
In the subculture I know best, politically active economists, those on the left, no matter how passionate they are about their politics — and no matter how self-centered — feel the need to retain academic credibility and, for those who do consulting, credibility with serious business interests. (See, I told you nobody is a saint.) Many of my economist friends look very favorably on President Biden’s policies, but they wouldn’t risk their reputations by claiming that Biden has Nobel-quality economic insight — or selling nutritional supplements.
So the blend of craziness and corruption taking place on the American right is special, without anything comparable on the left. Don’t both-sides this.
L’acquisto dei cervelli degli americani,
di Paul Krugman
L’articolo di oggi era ispirato all’ultima svolta nella nostra caotica risposta al Covid – il continuo rifiuto di molti americani di vaccinarsi e l’insistenza di alcuni di loro ad ingoiare piuttosto un impasto per cavalli [1]. Ho cercato di collegare questo tremendo, seppur comico, sviluppo alla lunga relazione tra l’estremismo di destra e le medicine miracolose. Ma non avevo spazio per inserirlo nel più ampio contesto di come il denaro influenzi la politica e la amministrazione.
Il fatto semplice è che nessuno di noi è santo. Persino coloro che sostengono di lavorare per il bene comune possono essere e spesso sono influenzati dalla prospettiva di riconoscimenti personali. Come amano dire gli economisti conservatori, gli incentivi sono importanti.
In effetti, di solito sono gli economisti conservatori che insistono con maggiore forza su questo punto. Mezzo secolo fa George Stigler dell’Università di Chicago pubblicò uno studio ampiamente influente dal titolo “La teoria della regolamentazione economica”, nel quale sosteneva che i regolatori dei governi – come i comitati che stabiliscono regole per la produzione e i prezzi dell’elettricità – non erano saggi e altruisti come i sorveglianti della “Repubblica” di Platone; erano esseri umani e, di conseguenza, soggetti ad essere influenzati, il che in pratica comportava che i regolatori erano spesso alla mercè proprio delle industrie che si supponeva regolassero.
Era un buon argomento, anche se forse troppo radicale – i regolatori possono non essere santi, ma non sono neanche meramente soggetti all’interesse personale. Ma era applicato troppo rigidamente. I seguaci di Stigler hanno utilizzato la sua logica per prendere posizione contro le regolamentazioni, sostenendo che i regolatori possono essere corrotti da interessi particolari. Ma perché limitare questa ipotesi agli ufficiali di Governo? In particolare, perché non applicarla ai loro stessi movimenti politici?
Dopo tutto, di sicuro la stessa logica che si applica ai regolatori si applica anche ai politici ed ai commentatori, compresi coloro che a destra denunciano i regolamenti. E per lo stesso motivo, si applica anche agli intellettuali, specialmente in quelle situazioni nelle quali i premi per aver espresso le opinioni “giuste” vanno oltre il prestigio e la promozione, sin dentro alla sfera del denaro sonante.
E per quanto possa rammentare del lontano passato, il mondo delle opinioni e del pensiero conservatore, di fatto, è consistito in buona parte di uomini e donne comprati (parlerò tra un attimo dei progressisti).
Non penso che sia sempre stato così. Non sono un grande cultore della eredità di Milton Friedman, ma credo che lui – e del resto Stigler – dicesse quello che diceva per intima e libera convinzione. Da quei tempi, tuttavia, le cose sono cambiate. In sostanza, sono cambiare due volte.
Dapprima venne l’ascesa del “movimento del conservatorismo” – un complesso altamente organizzato di istituzioni intrecciate, tutte sostenute da miliardari e da grandi società, delle quali il Partito Repubblicano era solo una parte. C’erano anche agenzie giornalistiche, in particolare Fox, gruppi di esperti come la Fondazione Heritage e altro. Con gli anni ‘zero’ (non abbiamo mai trovato un nome migliore per questo primo decennio del secolo), queste istituzioni avevano creato uno spazio sicuro, una garanzia di carriere stabili e abbastanza remunerative, per le persone disposte a dire le cose giuste – gli sgravi fiscali sono buoni, i regolamenti sono cattivi – e a non agitare le acque.
Non ho mai pensato che sarei diventato nostalgico per l’epoca nella quale il grande capitale comandava sulla destra. Ma la tradizionale influenza delle grandi società appare innocua al confronto di dove siamo finiti oggi. A questo punto, per essere conservatori in una buona posizione si deve promettere fedeltà a sfacciate bugie – i democratici sono marxisti, le elezioni sono state rubate, le misure fondamentali della sanità pubblica sono sinistri assalti alla libertà.
Perché tante persone che non possono non saperne di più sono disponibili a procedere con queste menzogne? Di nuovo, l’auto gratificazione. Ovviamente, il settore delle pozioni miracolose non ha niente di simile alle risorse dei settori più rispettabili di tendenze repubblicane come i combustibili fossili e il tabacco. Ma offre più opportunità di arricchimento personale: presumibilmente Ben Shapiro è ben pagato per fare il rivenditore di “superalimenti” quanto non potrebbe esserlo, ad esempio, promuovendo i pozzi petroliferi.
E dunque, che dire dei progressisti? Sono anche essi persone, con tutti i comuni difetti degli esseri umani; c’è una gran quantità di eminenti progressisti che conosco personalmente che sono guidati dall’ego e in qualche misura da considerazioni monetarie, persone come … in effetti, meglio non addentrarsi. Ma vivono in una ambiente diverso da quello dei conservatori.
La vecchia frase di Will Rogers [2] – “Io non sono membro di qualche partito politico organizzato – sono un democratico” – vale ancora. La ricerca dei politologi conferma che il Partito Repubblicano, e il conservatorismo in generale, sono un monolite ideologico, sebbene in buona parte sotto una nuova gestione. I democratici e il centro sinistra in generale, all’opposto, sono una larga coalizione, e per prosperare in quella coalizione si devono soddisfare basi elettorali molteplici. Questo rende più difficile vendersi l’anima, perché non è chiaro a chi eventualmente la state vendendo.
Nella sottocultura che conosco meglio, gli economisti politicamente attivi, quelli di sinistra, non conta quanto sono infervorati alla loro politica – e non conta quanto sono egocentrici – sentono il bisogno di conservare una credibilità accademica e, per quelli che fanno consulenze, di una credibilità con gli interessi di imprese serie (vedete, l’avevo detto che nessuno è santo). Molti dei miei amici economisti guardano con molto favore alle politiche del Presidente Biden, ma non rischierebbero le loro reputazioni sostenendo che Biden ha intuizioni economiche della qualità di un premio Nobel [3] – oppure vendendo integratori alimentari.
Dunque la mescolanza di follia e di corruzione che sta mettendo radici nella destra americana è speciale, senza niente di paragonabile alla sinistra. In questo caso, non dite che sono tutti uguali.
[1] Probabilmente il riferimento è all’ivermetcina, il farmaco antiparassitario usato per sverminare animali, ed anche cavalli, consigliato da vari personaggi della destra americana come terapia del Covid.
[2] Will Rogers, nato William Penn Adair Rogers (Oologah, 4 novembre 1879 – Barrow, 15 agosto 1935), è stato un attore, comico e giornalista statunitense di origini cherokee. Conosciuto come figlio prediletto dell’Oklahoma, Rogers nacque da una famiglia benestante del Territorio indiano e imparò a cavalcare e usare il lazo così bene che fu annoverato sul Guinness Book of World Records per l’aver lanciato tre lacci simultaneamente — uno al collo di un cavallo, un altro al collo del cowboy che lo cavalcava, e un terzo attorno alle quattro zampe del cavallo stesso.
Nel corso della sua vita, viaggiò tre volte intorno al mondo, si unì per breve tempo alla troupe dello spettacolo Ziegfeld Follies, interpretò 71 film (50 film muti e 21 “sonori“), scrisse più di 4.000 editoriali a diffusione nazionale,[3] diventando una notissima personalità internazionale.
Per tutti gli anni venti e trenta Rogers fu il beneamato del pubblico americano e una delle star più pagate nella Hollywood di quei tempi. Durante un giro del mondo col famoso pilota Wiley Post Rogers morì, quando il loro rappezzato Lockheed Orion si schiantò nei pressi di Barrow, Alaska nel 1935. Wikipedia
[3] Uno dei complimenti che è stato rivolto a Trump da economisti della destra.
agosto 31, 2021
Aug. 27, 2021
By Paul Krugman
In my latest column, motivated by the California recall, I pointed out that the Golden State’s left turn on policy hasn’t produced the economic collapse that conservatives predicted. On the contrary, the state’s economy has boomed, even as it keeps getting trash-talked by the business press: Between the election of Jerry Brown and the Covid-19 pandemic, both output and employment grew about as fast in California as they did in Texas.
It has, however, been a peculiar kind of boom, one in which more Americans have moved out of California than have moved in.
Economists trying to understand the rise and fall of regions within a country often rely on some form of economic base analysis. The idea is that a region’s overall growth is determined by the performance of its export industries — that is, industries that sell mainly to customers outside the region, such as the technology firms of Silicon Valley and the Los Angeles entertainment complex (or, here in New York, the financial industry). Growth in these industries, however, generates a lot of growth in other sectors, from health care to retail trade, driven by the local spending of the base industries’ companies and employees.
But base analysis suggests that when a state has a booming export sector, as California does, it should be seeing growth in more or less everything. Instead, what we see in California is that while highly educated workers are moving in to serve the tech boom, less-educated workers are moving out:
A giant Brooklyn Heights?Credit…Public Policy Institute of California
There’s no great mystery about why this is happening: It’s because of housing. California is very much a NIMBY state, maybe even a BANANA (build absolutely nothing anywhere near anyone) state. The failure to add housing, no matter how high the demand, has collided with the tech boom, causing soaring home prices, even adjusted for inflation:
The Golden State becomes the Unaffordable State.Credit…FRED
And these soaring prices are driving less affluent families out of the state.
One way to think about this is to say that California as a whole is suffering from gentrification. That is, it’s like a newly fashionable neighborhood where affluent newcomers are moving in and driving working-class families out. In a way, California is Brooklyn Heights writ large.
Yet it didn’t have to be this way. I sometimes run into Californians asserting that there’s no room for more housing — they point out that San Francisco is on a peninsula, Los Angeles ringed by mountains. But there’s plenty of scope for building up.
If we look at population-weighted density — the population density of the neighborhood in which the average person lives — we find that greater New York is two and a half times as dense as the San Francisco and Los Angeles metro areas, with more than 30,000 people per square mile in New York and only around 12,000 in both California metros. This doesn’t mean that every New Yorker lives in a high-rise (the metro area includes plenty of leafy green suburbs); it means only that those who choose to live in multistory apartment buildings can do so. If California were willing to offer that choice, it wouldn’t have its housing crisis.
Personal aside: My New York apartment is in a neighborhood that, according to census data, has 60,000 residents per square mile, with many 10-plus-story buildings. It’s not a teeming sea of humanity; it’s surprisingly quiet and genteel!
The thing is, California’s housing problem, while especially extreme, isn’t unique.
Since the 1980s America has experienced growing regional divergence. We have become a knowledge economy driven by industries that rely on a highly educated work force, and firms in those industries, it turns out, want to be located in places where there are a lot of highly educated workers already — places like the Bay Area.
Unfortunately, most of these rising knowledge-industry hubs also severely limit housing construction; this is true even of greater New York, which is much denser than any other U.S. metropolitan area but could and should be even denser. As a result, housing prices in these metros have soared, and working-class families, instead of sharing in regional success, are being driven out.
The result is that there are now, in effect, two Americas: the America of high-tech, high-income enclaves that are unaffordable for the less affluent, and the rest of the country.
And this economic divergence goes along with political divergence, mainly because education has become a prime driver of political affiliation.
It may seem hard to believe now, but as recently as the early 2000s college graduates leaned Republican. Since then, however, highly educated voters — who have presumably been turned off by the G.O.P.’s embrace of culture wars and its growing anti-intellectualism — have become overwhelmingly Democratic, while non-college-educated whites have gone the other way.
As a result, the two Americas created by the collision of the knowledge economy and NIMBYism correspond fairly closely to the blue-red division: Democratic-voting districts have seen a big rise in incomes, while G.O.P. districts have been left behind:
One nation, increasingly divided.Credit…Brookings Institution
Again, this didn’t have to happen, at least not to this extent. True, the growing concentration of knowledge industries in a few metropolitan areas reflects deep economic forces that are hard to fight. But not building enough housing to accommodate this concentration and share its benefits is a policy choice, one that is deepening our national divisions.
There are hints of movement toward less restrictive housing policy; California’s legislature has just passed a bill that would, in essence, force suburbs to accept some two-unit buildings alongside single-family homes. Even this modest measure would make it possible to add around 700,000 housing units — roughly the same number added in the whole state between 2010 and 2019.
We need much more of this. Restrictive housing policy doesn’t get nearly as much attention in national debates as it deserves. It is, in fact, a major force pulling our nation apart.
La gentrificazione dell’America democratica,
di Paul Krugman
Nel mio ultimo articolo, provocato dalla possibilità della ‘revoca’ del Governatore della California, ho messo in evidenza come la svolta a sinistra nello Stato dell’Oro non abbia prodotto il collasso economico che i conservatori avevano previsto. Al contrario, l’economia dello Stato ha avuto una forte espansione, anche se continua a ricevere un trattamento miserabile sulla stampa economica: tra le elezioni di Jerry Brown e la pandemia del Covid-19, sia la produzione che l’occupazione sono cresciute in California circa alla stessa velocità che nel Texas.
Tuttavia, essa ha avuto un tipo particolare di espansione, per il quale sono stati più gli americani che se ne sono andati dalla California di quelli che ci sono andati a vivere.
Gli economisti, nel cercar di comprendere la crescita e la caduta delle regioni all’interno di un paese spesso si basano su una qualche forma di analisi economica definita ‘di base’ [1]. L’idea è che la crescita complessiva di una regione sia determinata dalle prestazioni delle sue industrie di esportazione – ovvero, industrie che vendono principalmente a clienti fuori della regione, come le imprese tecnologiche della Silicon Valley e il complesso della attività di intrattenimento di Los Angeles (oppure, qua a New York, il settore finanziario). La crescita di queste industrie, tuttavia, genera molta crescita in altri settori, dalla assistenza sanitaria al commercio al dettaglio, guidata dalla spesa locale delle società e degli occupati dei settori ‘di base’.
Ma l’analisi ‘ di base’ suggerisce che quando uno Stato ha un settore delle esportazioni in forte espansione, come la California, dovrebbe registrare una crescita più o meno dappertutto. Invece quello che si osserva in California è che mentre i lavoratori altamente istruiti si trasferiscono in quel posto al servizio della espansione tecnologica, quelli meno istruiti se ne vanno:
Una gigantesca Zona Alta di Brooklyn? Fonte: Istituto di politica pubblica della California [2]
Non c’è alcun particolare mistero sulla ragione per la quale sta avvenendo questo: dipende dagli alloggi. La California è davvero uno Stato NIMBY [3], forse persino uno Stato BANANA [4] (“non costruire assolutamente niente vicino a qualcuno”). L’incapacità ad aumentare le abitazioni, a prescindere da quanto sia alta la domanda, ha colliso con il boom della tecnologia, provocando prezzi in forte crescita delle abitazioni, ancorché corretti per l’inflazione:
Lo Stato dell’Oro diventa uno Stato che non ci si può permettere. Fonte: FRED [5]
E questi prezzi in forte crescita sono quelli che espellono le famiglie meno benestanti dallo Stato.
Un modo per riflettere su tutto questo è dire che la California nel suo complesso sta soffrendo un fenomeno di gentrificazione [6]. Ovvero, è simile ad un quartiere diventato di recente attraente dove i nuovi venuti benestanti si trasferiscono spostando fuori le famiglie della classe lavoratrice. In un certo senso, la California è come il quartiere di Brooklyn Heights su scala maggiore.
Tuttavia, non doveva andare in questo modo. Talvolta mi imbatto in californiani che sostengono che non c’è spazio per maggiori alloggi – essi mettono in evidenza che San Francisco è su una penisola, che Los Angeles è accerchiata da montagne. Eppure c’è molto spazio per costruire verso l’alto.
Se guardiamo alla densità rapportata alla popolazione – la densità della popolazione dei quartieri nei quali vivono in media le persone – scopriamo che la città metropolitana di New York è due volte e mezza più densa delle aree metropolitane di San Francisco e di Los Angeles, con 30.000 persone per miglio quadrato [7] a New York contro solo 12.000 in entrambe le aree metropolitane della California. Questo non significa che ogni newyorkese viva in edifici a molti piani (l’area metropolitana comprende una quantità di frondose periferie verdi); significa soltanto che coloro che scelgono di vivere in edifici a più piani per appartamenti possono farlo. Se la California fosse disponibile ad offrire quella scelta, non avrebbe la sua crisi degli alloggi.
Un inciso personale: il mio appartamento a New York è in un quartiere che, secondo i dati del censimento, ha 60.000 residenti per miglio quadrato, con molti edifici con più di dieci piani. Non è una marea di brulicante umanità; è sorprendentemente quieto ed elegante.
La questione è che il problema degli alloggi della California, se è particolarmente acuto, non è unico.
A partire dagli anni ’80 l’America ha conosciuto una crescente divergenza tra le regioni. Siamo diventati un’economia della conoscenza guidata da settori industriali che si basano su una forza lavoro altamente istruita e le imprese in quei settori, si scopre, vogliono essere collocate in luoghi che sono già di lavoratori altamente istruiti – luoghi come l’Area della Baia [8].
Sfortunatamente, la maggioranza di questi centri in crescita dell’industria della conoscenza pongono anche gravi limiti alla costruzione di alloggi; questo è vero persino per l’area metropolitana di New York, che è molto più densa di ogni altra area metropolitana statunitense ma potrebbe e dovrebbe essere persino più densa. Di conseguenza, i prezzi delle abitazioni in questa aree metropolitane sono saliti alle stelle, e le famiglie delle classi lavoratrici, anziché condividere il successo regionale, sono sospinte fuori.
Il risultato è che, in effetti, adesso ci sono due Americhe: l’America dell’alta tecnologia, enclave ad alto reddito che sono proibitive per i meno abbienti, e il resto del paese.
E questa divergenza economica procede assieme ad una divergenza politica, principalmente perché l’istruzione è diventata un fattore principale di affiliazione politica.
Adesso può sembrare difficile crederlo, ma ancora agli inizi degli anni 2000 i laureati erano di prevalenti tendenze repubblicane. Da allora, tuttavia, gli elettori altamente istruiti – che presumibilmente sono stati allontanati dall’abbraccio da parte del Partito Repubblicano delle guerre ideologiche e dal suo crescente anti intellettualismo – sono diventati a grande maggioranza democratici, mentre i bianchi privi di istruzione universitaria sono andati per un’altra strada.
Di conseguenza, le due Americhe create dalla collisione tra l’economia della conoscenza e il Nimbysmo corrispondono abbastanza da vicino alla divisione tra democratici e repubblicani: i distretti che votano democratico hanno conosciuto una grande crescita nei redditi, mentre i distretti repubblicani sono stati lasciati indietro:
Una nazione sempre più divisa. Fonte: Brookings Institution [9]
Ma non costruire alloggi a sufficienza per contenere questa concentrazione e distribuire i suoi benefici è una scelta politica, che approfondisce le nostre divisioni nazionali.
Ci sono segnali di uno spostamento verso una politica degli alloggi meno restrittiva; l’assemblea legislativa della California ha appena approvato una proposta di legge che, in sostanza, costringerebbe le periferie ad accettare edifici per due unità abitative assieme ad abitazioni per famiglie singole. Persino una misura così modesta renderebbe possibile un aumento di circa 700.000 unità abitative – grosso modo l’intera cifra aumentata nello Stato nel suo complesso dal 2010 al 2019.
Abbiamo bisogno di molto più di questo. La politica restrittiva degli alloggi non ha neanche lontanamente l’attenzione che merita nei dibattiti nazionali. Essa, di fatto, è un fattore importante che disgrega la nostra nazione.
[1] Il termine non ha il significato ‘generico’ che parrebbe; è un teoria che giustifica un metodo di calcolo delle prestazioni economiche di una regione che si basa su una distinzione tra attività ‘di base’ – quelle connesse con le esportazioni e con le attività che attraggono reddito dall’esterno – e attività ‘non di base’, che dipendono dalle condizioni commerciali locale e sostengono le prime.
[2] La tabella mostra per due periodi – dal 2010 al 2014 e dal 2015 al 2019 – gli incrementi e le perdite dei lavoratori tra 20 e 64 anni, che hanno rispettivamente un livello di istruzione inferiore ad una laurea triennale (quelli nei segmenti verdi, che diminuiscono) oppure superiore (con laurea triennale o superiore, nei segmenti in nero, che aumentano).
Come si osserva, non solo la fuga dei lavoratori con redditi più bassi è elevata, ma prosegue ed aumenta negli ultimi quattro anni.
Il riferimento alla Zona Alta di Brooklyn, indica il possibile confronto con un quartiere di New York generalmente abitato da benestanti e con livelli elevati di comfort sociali ed ambientali.
[3] Il fenomeno del NIMBY – un acronimo che possiamo tradurre con “Non vicino a casa mia” e che forse è preferibile non cercare di tradurre– è il risultato di una opposizione generalizzata dei cittadini, e conseguentemente delle regole urbanistiche locali, ai nuovi insediamenti, sia di abitazioni che di servizi collettivi.
[4] In genere per Stato “Banana” si intende qualcosa d’altro (realtà con istituzioni fallimentari e con economie basate su una o due merci di esportazione. Il termine venne coniato, agli inizi, in riferimento all’Honduras). Ma in questo caso il termine esprime la passione molto americana, e un pochino scema, per gli acronimi: BANANA è l’acronimo della frase tradotta tra parentesi.
[5] La tabella mostra un confronto tra gli andamenti generali dell’indice dei prezzi nelle città statunitensi, e l’andamento dei prezzi degli alloggi in un’area della California.
[6] “Riqualificazione e rinnovamento di zone o quartieri cittadini, con conseguente aumento del prezzo degli affitti e degli immobili e migrazione degli abitanti originari verso altre zone urbane”. Treccani.
[7] Un miglio quadrato è pari a 2,589 chilometri quadrati.
[8] L’area metropolitana di San Francisco, che comprende otto contee con al centro San Francisco, una penisola che si allunga sulla Baia e sul Pacifico, a oriente il centro universitario di Berkeley e a sud la Silicon Valley.
[9] Le linee blu indicano gli andamenti – suppongo del complesso dei distretti elettorali – democratici, mentre quelle rosse quelli repubblicani. A sinistra gli andamenti del PIL procapite, a destra quelli dei redditi mediani delle famiglie.
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