Blog di Krugman

L’economia del Roach Motel (dal blog di Krugman, 13 luglio 2015)

 

Jul 13 9:19 pm

Roach Motel Economics

So we have learned that the euro is a Roach Motel — once you go in, you can never get out. And once inside you are at the mercy of those who can pull your financing and crash your banking system unless you toe the line.

I and many others have had a lot to say about the politics of this reality. But let me say a word about the economic implications for the euro area as a whole — which are basically that Europe has created a system that treats surplus and deficit countries asymmetrically, even more than the classical gold standard, and leads to a severe deflationary bias.

This is true both for fiscal issues and for balance of payments issues. Debtors are forced into draconian austerity, while creditors face no pressure to reflate; economic crisis, which should be met with expansionary policy, instead leads to contraction because of this asymmetry. Meanwhile, countries that find themselves overvalued are forced to deflate in an effort to regain competitiveness, while undervalued counties face no pressure to help out with a higher inflation rate — so at times of major misalignment, when moderate inflation can help, the overall effect is declining inflation and maybe even deflation.

And we’re talking about huge costs here. Look at the crude Phillips curve I estimated for Greece a few days back, shown in the chart.

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It suggests that it takes about 4 point-years of output gap to reduce prices relative to baseline by 1 percentage point. So suppose that you are 25 percent overvalued, and get no help from higher inflation in the core. Then “internal devaluation” requires sacrificing around 100 percent of a year’s GDP. Let’s repeat that: given what we now know about the rules of the game, countries as overvalued as much of the European periphery became thanks to the lending boom are supposed to sacrifice a full year’s economic output as part of a process of beating prices and wages down.

Now more than ever, the euro looks like a terrible idea.

 

L’economia del Roach Motel

Abbiamo dunque appreso che l’Euro è una specie di Roach Motel [1] – una volta che si entra, non si può più uscire. E una volta dentro, si è in balia di coloro che possono bloccare i vostri finanziamenti e far crollare il vostro sistema bancario se non vi mettete in riga.

Io assieme ad altri abbiamo avuto molto da dire sul fondamento politico di questa condizione. Ma consentitemi di dire una parola sulle implicazioni economiche per l’area euro nel suo complesso – che fondamentalmente consistono nel fatto che l’Europa ha creato un sistema che tratta i surplus ed i deficit in modo asimmetrico, anche in misura maggiore del classico gold standard, e comporta un grave pregiudizio deflazionista.

Questo è vero sia per i temi della finanza pubblica che per quelli della bilancia dei pagamenti. I debitori sono costretti entro una austerità draconiana, mentre i creditori non hanno alcuna spinta alla reflazione; a causa di questa asimmetria, la crisi economica, che dovrebbe essere affrontata con una politica espansiva, porta invece ad una contrazione. Nel contempo, i paesi che si ritrovano sopravvalutati sono costretti a deflazionare nello sforzo di guadagnare competitività, mentre i paesi sottovalutati non hanno alcuna spinta perché contribuiscano con un tasso di inflazione più elevato – dunque, in una epoca di importante disallineamento, l’effetto generale è una inflazione in calo e forse persino una deflazione.

E stiamo qua parlando di costi elevati. Si osservi la semplice curva di Phillips che ho abbozzato pochi giorni fa nel caso della Grecia, mostrata nel diagramma:

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Essa indica che ci vogliono 4 anni-punto di differenziale nella produzione per ridurre i prezzi in relazione al riferimento di un punto percentuale. Supponiamo dunque che si sia sovravvalutati del 25 per cento, e non si ottenga alcun aiuto da una inflazione più elevata nelle aree centrali. A quel punto la “svalutazione interna” richiede sacrifici di circa il 100 per cento del PIL di un anno. Consentitemi di ripeterlo: dato che adesso conosciamo le regole del gioco, i paesi che sono diventati sopravvalutati come la periferia europea grazie al boom dei prestiti, si suppone che sacrifichino un anno intero della loro produzione economica come condizione necessaria di un processo per abbattere i prezzi ed i salari.

Ora più che mai, l’euro sembra una pessima idea.

 

[1] Pare sia una specie di insetticida che utilizza speciali sostanze odorigene per intrappolare gli insetti.

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Ammazzare il progetto europeo (dal blog di Krugman, 12 luglio 2015)

luglio 12, 2015

 

Jul 12 4:38 pm

Killing the European Project

Suppose you consider Tsipras an incompetent twerp. Suppose you dearly want to see Syriza out of power. Suppose, even, that you welcome the prospect of pushing those annoying Greeks out of the euro.

Even if all of that is true, this Eurogroup list of demands is madness. The trending hashtag ThisIsACoup is exactly right. This goes beyond harsh into pure vindictiveness, complete destruction of national sovereignty, and no hope of relief. It is, presumably, meant to be an offer Greece can’t accept; but even so, it’s a grotesque betrayal of everything the European project was supposed to stand for.

Can anything pull Europe back from the brink? Word is that Mario Draghi is trying to reintroduce some sanity, that Hollande is finally showing a bit of the pushback against German morality-play economics that he so signally failed to supply in the past. But much of the damage has already been done. Who will ever trust Germany’s good intentions after this?

In a way, the economics have almost become secondary. But still, let’s be clear: what we’ve learned these past couple of weeks is that being a member of the eurozone means that the creditors can destroy your economy if you step out of line. This has no bearing at all on the underlying economics of austerity. It’s as true as ever that imposing harsh austerity without debt relief is a doomed policy no matter how willing the country is to accept suffering. And this in turn means that even a complete Greek capitulation would be a dead end.

Can Greece pull off a successful exit? Will Germany try to block a recovery? (Sorry, but that’s the kind of thing we must now ask.)

The European project — a project I have always praised and supported — has just been dealt a terrible, perhaps fatal blow. And whatever you think of Syriza, or Greece, it wasn’t the Greeks who did it.

 

Ammazzare il progetto europeo

Supponiamo che consideriate Tsipras un idiota incompetente. Supponiamo che vogliate con tutto il cuore vedere Syriza fuori dal potere. Supponiamo pure che salutiate con favore la prospettiva di spingere fuori dall’euro questi Greci snervanti.

Anche se tutto questo fosse vero, la lista delle richieste dell’eurogruppo sarebbe una follia. L’hashtag che fa furore, “questo è un golpe”, è completamente giusto. Questo va oltre la durezza, nel puro spirito di vendetta, nella completa distruzione della sovranità nazionale, e in nessuna speranza di qualche attenuazione. Viene inteso, presumibilmente, come un’offerta che la Grecia non può accettare; ma anche così è un tradimento grottesco di tutto quello che si pensava il progetto europeo rappresentasse.

C’è qualcosa che può far indietreggiare l’Europa dal baratro? Si dice che Mario Draghi stia cercando di reintrodurre un po’ di buon senso, che Hollande stia finalmente mostrando un po’ di rigetto verso l’economia tedesca del genere dei racconti edificanti, rigetto che egli così marcatamente è stato incapace di fornire nel passato. Ma gran parte del danno è già stato fatto. Dopo tutto questo, chi crederà mai alle buone intenzioni della Germania?

In un certo senso, l’economia è quasi diventata secondaria. E tuttavia, diciamolo con chiarezza: quello che abbiamo imparato in queste due settimane è che essere membri dell’eurozona significa che i creditori possono distruggere la vostra economia se uscite dalla riga. Questo non ha alcun nesso con la sottostante teoria economica dell’austerità. È sempre stato vero che imporre una dura austerità senza una riduzione del debito è una politica condannata all’insuccesso, a prescindere dalla disponibilità di un paese a sopportarne il patimento. E questo a sua volta significa che persino una completa capitolazione della Grecia sarebbe un vicolo cieco.

Può la Grecia farcela ad uscire con successo? La Germania cercherà di bloccare una ripresa? (mi dispiace, ma sono queste le cose che adesso dobbiamo chiederci).

Al progetto europeo – un progetto che ho sempre lodato e sostenuto – è stato davvero inflitto un colpo terribile, forse fatale. E qualsiasi cosa si pensi di Syriza, o della Grecia, non sono stati i Greci a farlo.

 

 

 

 

Disastro in Europa (dal blog di Krugman, 12 luglio 2015)

luglio 12, 2015

 

Jul 12 9:10 am

Disaster In Europe

Obviously the news from Europe is terrible, with much confusion about exactly what is happening. Here’s what I think is the story, although I haven’t done any independent reporting.

  1. Tsipras apparently allowed himself to be convinced, some time ago, that euro exit was completely impossible. It appears that Syriza didn’t even do any contingency planning for a parallel currency (I hope to find out that this is wrong). This left him in a hopeless bargaining position. I’m even hearing from people who should know that Ambrose Evans-Pritchard is right, that he hoped to lose the referendum, to give an excuse for capitulation.
  2. But substantive surrender isn’t enough for Germany, which wants regime change and total humiliation — and there’s a substantial faction that just wants to push Greece out, and would more or less welcome a failed state as a caution for the rest.
  3. I don’t know if some kind of deal might still be approved; even if it is, how long can it last?

The thing is, all the wise heads saying that Grexit is impossible, that it would lead to a complete implosion, don’t know what they are talking about. When I say that, I don’t mean that they’re necessarily wrong — I believe they are, but anyone who is confident about anything here is deluding himself. What I mean instead is that nobody has any experience with what we’re looking at. It’s striking that the conventional wisdom here completely misreads the closest parallel, Argentina 2002. The usual narrative is completely wrong: de-dollarization did *not* cause economic collapse, but rather followed it, and recovery began quite soon.

There are only terrible alternatives at this point, thanks to the fecklessness of the Greek government and, far more important, the utterly irresponsible campaign of financial intimidation waged by Germany and its allies. And I guess I have to say it: unless Merkel miraculously finds a way to offer a much less destructive plan than anything we’re hearing, Grexit, terrifying as it is, would be better.

 

Disastro in Europa

É evidente che le notizie dall’Europa sono terribili, con una grande confusione proprio su quello che sta accadendo. Penso che la storia sia la seguente, sebbene non disponga di alcun autonomo resoconto;

1 – In apparenza, un po’ di tempo fa, pareva che Tsipras si fosse convinto che l’uscita dall’euro era completamente impossibile. Sembra che Syriza non abbia neppure stabilito alcun programma di emergenza per una valuta parallela (spero che si scopra che questa è una notizia infondata). Questo lo lascia in una posizione contrattuale senza speranza. Si sente dire persino, da persone che dovrebbero essere informate, che Ambrose Evans-Pritchard [1] avrebbe ragione, ovvero che Tsipras sperava di perdere il referendum, di offrire una scusa per una capitolazione.

2 – Ma una resa sostanziale non è sufficiente per la Germania, che vuole un mutamento di regime ed una totale umiliazione – e c’è una cospicua fazione che vuole proprio metter fuori la Grecia, e saluterebbe più o meno volentieri un fallimento dello Stato come un ammonimento per tutti gli altri.

3 – Non so se un qualche tipo di accordo possa ancora essere approvato; se anche così fosse, quanto a lungo durerebbe?

Il punto è il seguente: tutte le menti ragionevoli che dicono che una uscita della Grecia è impossibile, che condurrebbe ad una implosione totale, non sanno di cosa stiano parlando. Dicendo questo, non voglio dire che essi abbiano necessariamente torto – credo che lo abbiano, ma in questo caso chiunque sia convinto di qualcosa si sta illudendo. Quello che intendo, invece, è che nessuno ha alcuna esperienza di ciò che stiamo osservando. È sorprendente che in questo caso il buonsenso convenzionale legga in modo completamente fuorviante l’esempio più vicino, quello dell’Argentina nel 2002 [2]. Il racconto più frequente è completamente sbagliato: l’uscita dalla parità col dollaro non portò al collasso economico, semmai lo seguì, e la ripresa cominciò abbastanza presto.

A questo punto ci sono solo alternative terribili, grazie alla inconcludenza del Governo greco e, di gran lunga più importante, alla campagna completamente irresponsabile di intimidazione finanziaria ingaggiata dalla Germania e dai suoi alleati. E penso di doverlo dire: se la Merkel non trova miracolosamente una strada per offrire un piano molto meno distruttivo rispetto a quello di cui si sente parlare, l’uscita della Grecia dall’euro, per quanto terrificante, sarebbe meglio.

 

[1] Il riferimento è ad alcune note molto brevi pubblicate da Evans-Pritchard sul blog di The Daily Telegraph.

[2] In un post del 9 luglio qua tradotto, Krugman – in polemica con una intervista dell’economista Carmen Reinhart – spiega l’andamento effettivo della svalutazione del peso argentino nel 2002.

 

 

 

L’austerità e la depressione greca (dal blog di Krugman, 10 luglio 2015)

luglio 10, 2015

 

Jul 10 9:37 am

Austerity and the Greek Depression

Olivier Blanchard offers a defense of the IMF’s role in the Greek crisis. Basically, he argues that given the political realities, there was no alternative to requiring that Greece move into primary budget surplus, whatever the cost. This is surely true.

But how big was the cost? I’m with Brad DeLong in being highly puzzled by this assertion:

The decrease in output was indeed much larger than had been forecast. Multipliers were larger than initially assumed. But fiscal consolidation explains only a fraction of the output decline. Output above potential to start, political crises, inconsistent policies, insufficient reforms, Grexit fears, low business confidence, weak banks, all contributed to the outcome.

Where is this coming from? I look at the data prior to this year — when we have indeed seen a crisis of confidence — and Greece’s output decline looks like just about what you should have expected given the austerity imposed. The chart shows changes in the structural budget balance versus changes in output, for all eurozone countries for which the IMF provides estimates of both numbers.

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IMF

The line is the relationship between austerity and growth fitted to all eurozone countries except Greece, implying a multiplier of 1.5; I extrapolate that line down to Greece, and it’s pretty close. Obviously you could do more complicated analyses, but on the face of it Greece appears to have suffered a slump overwhelmingly because of the austerity; surely there’s no grounds for dismissing this impact as a mere fraction of the problem.

So if the austerity was necessary, so was the depression-level slump — a slump that has left Greece’s debt ratio far higher after 5 years of hell than it was when the program began.

What this tells us is that the Greek program was infeasible from the start. A very big debt haircut early in the game might not have offered much relief from the slump, but it would have at least offered a chance to avoid debt deflation. Other than that, given the political constraints, there was no way this could have worked.

So now what? A few months ago I thought that stabilizing Greece at a small primary surplus might work, in the sense that it would allow a return to growth even if it didn’t do anything to make up lost ground. But the creditors are still demanding a rising primary surplus over time, and balking at top line debt relief that might at least offer a clear marker of progress. If those are the requirements for Greece to stay in the eurozone, Grexit is inevitable.

 

L’austerità e la depressione greca

Olivier Blanchard [1] difende il ruolo del FMI nella crisi greca. Egli sostiene, fondamentalmente, che date le realtà politiche, non c’era alternativa a richiedere che la Grecia si muovesse nella direzione di un avanzo primario di bilancio, qualsiasi fosse il costo. Questo è sicuramente vero.

Ma quanto è stato grande quel costo? Come Brad DeLong sono rimasto molto sconcertato da questo giudizio:

“La diminuzione della produzione è stata in effetti molto più ampia di quanto era stato previsto. I moltiplicatori sono stati più ampi di quelli inizialmente ipotizzati. Ma il consolidamento della finanza pubblica spiega solo una parte del declino della produzione. A partire da una produzione sopra il potenziale, le crisi politiche, le azioni incoerenti, le riforme insufficienti, le paure di un’uscita della Grecia dall’euro, la bassa fiducia delle imprese, il sistema bancario debole, tutto questo ha contribuito al risultato.”

Da dove viene tutto questo? Guardo ai dati precedenti a quest’anno – quando in effetti abbiamo constatato una crisi di fiducia – e il declino della produzione greca assomiglia proprio a quello che ci si doveva aspettare, considerata l’austerità che era stata imposta. Il diagramma qua sotto mostra i mutamenti nell’equilibrio strutturale di bilancio a confronto con i mutamenti nella produzione, per tutti i paesi dell’eurozona per il quali il FMI fornisce stime per entrambi i dati:

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FMI

 

La linea indica la relazione tra austerità e crescita applicata a tutti i paesi dell’eurozona ad eccezione della Grecia, sulla base di un moltiplicatore 1,5; in basso a quella linea estrapolo il caso della Grecia, ed è abbastanza vicino. Ovviamente si dovrebbero fare analisi molto più complicate, ma a fronte di ciò la Grecia sembra aver sofferto una depressione in grandissima parte a causa dell’austerità; certamente non c’è fondamento nel ridurre questo impatto ad una banale frazione del problema [2].

Se dunque l’austerità è stata necessaria, altrettanto lo è stato un declino al livello di una depressione – un declino che ha lasciato, dopo cinque anni di inferno da quando iniziò il programma, assai più elevato di quello che era.

Quello che tutto ciò ci dice è che il programma greco era irrealizzabile sino dalla partenza. Un taglio molto grande del debito all’inizio della partita non avrebbe offerto una particolare attenuazione della caduta, ma avrebbe almeno offerto una possibilità di evitare una deflazione da debito. Oltre a ciò, dati i condizionamenti politici, non c’era modo perché questo potesse funzionare.

Dunque, a questo punto cosa fare? Alcuni mesi orsono pensavo che un modesto avanzo primario poteva funzionare, nel senso che avrebbe consentito di tornare alla crescita anche se non avesse fatto niente per recuperare il terreno perduto. Ma i creditori stanno ancora chiedendo un avanzo primario che cresca col tempo, e si tirano indietro rispetto ad un livello più elevato di riduzione del debito che potrebbe almeno offrire un chiaro indicatore di progresso. Se sono quelle le richieste perché la Grecia rimanga nell’eurozona, l’uscita della Grecia è inevitabile.

 

[1] Come è noto, Blanchard è il capo economista del FMI. Evidentemente c’è molto interesse sulla sua posizione, considerata la sua formazione di economista keynesiano di valore (peraltro Krugman ha spesso messo in evidenza come la sua formazione di studioso sia avvenuta nello stesso ambiente universitario di Bernanke, di Summers, di Draghi e di Krugman stesso) e considerata almeno l’onestà che gli è stata riconosciuta, da quando svolge tale incarico, ad esempio nel formulare una chiara autocritica sugli errori di previsione del FMI derivanti da una assunzione di un valore del ‘moltiplicatore dell’austerità’ assai inferiore alla realtà. Sembra che la sua linea di difesa consista oggi nel sostenere che un peso negativo nell’andamento dell’economia greca è anche derivato dalle debolezze strutturali di quel paese. Quanto sia una spiegazione plausibile e sufficiente, è appunto materia di questo post.

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[2] Come si vede la Grecia ha mostrato nel periodo 2009-2013 una caduta del PIL reale tra il 20 ed il 25 per cento, mentre il resto dell’eurozona si è collocata tra il meno 5 ed il più 10 per cento. Gli effetti dell’austerità, invece, che sono misurati come crescita dell’equilibrio strutturale di bilancio, sono stati entro i 5 punti per tutti i paesi e sopra i 20 punti nel solo caso della Grecia.

 

 

 

Lezioni argentine per la Grecia (dal blog di krugman, 9 luglio 2015)

luglio 9, 2015

 

Jul 9 10:24 am

Argentine Lessons For Greece

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If Grexit happens, then what? As so often in recent years, the best hope for an answer comes from turning to history; even though exits from a currency union are rare, we do have cases that seem to offer reasonable parallels, notably Argentina’s abandonment of the convertibility law — basically a supposedly permanent one-peso-one-dollar rule — at the beginning of 2002.

What Carmen Reinhart tells us is that we should expect very bad things. And maybe we should. But her data analysis here is, I think, misleading.

The problem is a technical one, but with possibly large significance. Carmen looks at annual averages, and finds that in 2002 Argentine real GDP per capita was 8.2 percent lower than in 2001. This seems to suggest that the end of convertibility delivered a terrible blow to the economy.

But as Mark Weisbrot has been saying for years, this gets the story fundamentally wrong. As you can see from the chart, Argentina’s economy was in free fall over the course of 2001 — before the dollar peg was abandoned — thanks in large part to banking collapse and public panic (sound familiar?). But the free fall ended quite soon after the peso was devalued. Yes, average annual GDP in 2002 was much lower than average annual GDP in 2001 — but this mainly reflected the plunge during 2001, before the devaluation. On a quarterly basis, GDP was rising by mid-2002, and the economy was growing rapidly by 2003.

In other words, that big decline from 2001 to 2002 is mainly telling us about the effects of the pre-devaluation panic, not the effects of devaluation itself.

The relevance to Greece seems obvious. Of course, it’s easy to think of reasons why Grexit might not stabilize the situation as quickly as peso devaluation did. But you can’t use Argentina as a reason to fear Grexit at this point, given that once again the financial panic has already happened.

 

Lezioni argentine per la Grecia

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[1]

Se la Grecia esce dall’euro, cosa accade dopo? La migliore speranza di avere una risposta, come così spesso avviene in questi anni recenti, viene dal rivolgersi alla storia; anche se le uscite da una valuta comune sono rare, abbiamo proprio dei casi che sembrano offrire ragionevoli parallelismi, in particolare, agli inizi del 2002, l’abbandono da parte dell’Argentina della legge di convertibilità – in sostanza una norma che si supponeva permanente di un cambio uno ad uno tra peso e dollaro.

Quello che ci racconta Carmen Reinhart [2] è che dovremmo aspettarci cose molto negative. E forse è così. Ma i dati della sua analisi, in questo caso, penso che siano fuorvianti.

C’è un problema di natura tecnica, ma forse con significato generale. Carmen osserva le medie annuali, e scopre che nel 2002 in Argentina il PIL reale procapite era dell’8,2 per cento più basso che nel 2001. Questo sembra indicare che la fine della convertibilità provocò un colpo terribile all’economia.

Ma come Mark Weisbrot viene dicendo da anni, questo comporta una lettura fondamentalmente sbagliata della storia. Come potete vedere dalla tabella, l’economia della Argentina era in caduta libera nel corso del 2001 – prima che fosse abbandonato l’ancoraggio sul dollaro – in larga parte grazie al collasso bancario e al panico dell’opinione pubblica (vi suona familiare?). Ma la caduta libera terminò quasi subito, appena il peso venne svalutato. È vero, la media annuale del PIL nel 2002 fu molto più bassa della media annuale del 2001 – ma fu principalmente il riflesso del crollo nel corso del 2001, prima della svalutazione. Su base trimestrale, il PIL dalla metà del 2002 fu in crescita, e l’economia crebbe rapidamente dal 2003.

In altre parole, quel grande declino dal 2001 al 2002 fondamentalmente ci dice degli effetti della crisi di panico precedente alla svalutazione, non degli effetti della svalutazione stessa.

Il rilievo nel caso della Grecia sembra evidente. Ovviamente, è facile individuare le ragioni per le quali l’uscita della Grecia potrebbe non stabilizzare la situazione così rapidamente come fece la svalutazione del peso. Ma a questo punto non si può usare l’Argentina come una ragione per metter paura alla Grecia, dato che, ripetiamolo ancora una volta, il panico finanziario c’è già stato.

 

 

 

[1] La tabella mostra l’evoluzione dei tassi di crescita su base trimestrale. La linea rossa indica la data nella quale si interruppe la convertibilità con il dollaro ‘uno-ad-uno’.

[2] La connessione nel testo inglese è con una intervista alla Reinhart del 9 luglio, su Bloomberg View.

 

 

 

La deflazione e ‘Quel soggetto che conoscete’ (8 luglio 2015)

luglio 8, 2015

 

Jul 8 12:05 pm

Deflation and You-know-who

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Source.

Eduardo Porter has an excellent piece on a forgotten chapter in German history — the big debt forgiveness of 1953. If Greece had received that sort of debt relief in 2010, things might look very different today.

But — you knew there would be a but — this sentence, while not exactly untrue, perpetuates one of the infuriating misunderstandings of German economic history:

Twenty years earlier, Germany defaulted on its debts from World War I, after undergoing a bout of hyperinflation and economic depression that helped usher Hitler to power.

Yes, there was a hyperinflation in 1923, which may have helped radicalize German politics. But the proximate factor in Hitler’s rise to power was the great deflation of the 1930s, brought on by a disastrous attempt to stay on gold.

 

La deflazione e ‘Quel soggetto che conoscete’

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Eduardo Porter ha un articolo eccellente su un capitolo dimenticato della storia tedesca – il grande condono del debito del 1953. Se la Grecia avesse ricevuto una riduzione del debito di quelle dimensioni nel 2010, le cose oggi apparirebbero molto diverse.

Ma – sapete che ci sarebbe stato un ‘ma’ – questa frase, seppure niente affatto falsa, perpetua una delle esasperanti incomprensioni della storia economica della Germania:

“Venti anni prima, la Germania era andata in default sui suoi debiti derivanti dalla Prima Guerra Mondiale, dopo un prolungato periodo di iperinflazione e di depressione economica che contribuì ad accompagnare Hitler al potere.”

È vero, ci fu una iperinflazione nel 1923, che può aver contribuito a radicalizzare la politica tedesca. Ma il fattore più vicino all’ascesa di Hitler al potere fu la grande deflazione degli anni ’30, provocata da un disastroso tentativo di mantenere la parità aurea.

 

 

 

 

Lezioni politiche dalla debacle europea (dal blog di Krugman, 8 luglio 2015)

luglio 8, 2015

 

Jul 8 9:22 am

Policy Lessons From The Eurodebacle

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It’s now clear, or should be clear, that the Greek program was doomed to failure without major debt relief; no matter how hard the Greeks tried, austerity would shrink GDP faster than it reduced debt relative to the baseline, so that the debt situation was bound to worsen even as the attempt to balance the budget imposed vast suffering.

And there was no good, or even non-terrible, answer given Greece’s membership in the euro.

But there’s a broader lesson from Greece that is relevant to all of us — and it’s not the usual one about mending our free-spending ways lest we become Greece, Greece I tell you. What we learn, instead, is that fiscal austerity plus hard money is a deeply toxic mix. The fiscal austerity depresses the economy, and pushes it toward deflation; if it’s accompanied by hard money (in Greece’s case the euro, but a fixed exchange rate, a gold standard, or any kind of obsessive fear of inflation would do the trick), the result is not just a depression and deflation, but quite likely a failure even to reduce the debt ratio.

For comparison, look at everyone’s favorite example of successful austerity, Canada in the 1990s. Canada came in with gross debt of roughly 100 percent of GDP, roughly comparable to Greece on the eve of the financial crisis. It then proceeded to do a pretty big fiscal adjustment — 6 percent of GDP according to the IMF’s measure of the structural balance, which is about a third of what Greece has done but comparable to other European debtors. But unemployment fell steadily. What was Canada’s secret?

The answer was, easy money and a large currency depreciation. These offset the drag from austerity, allowing growth to continue.

So, how does this play into U.S. policy debates? Well, Republicans love to warn that America might turn into Greece any day now. But look at the policy mix that is now de facto GOP orthodoxy: sharp cuts in government spending (maybe offset by tax cuts for the rich, but these won’t provide much stimulus), combined with a monetary policy obsessed with fears of dollar “debasement”. That is, the conservative side of the US political spectrum, while holding up Greece as a cautionary tale, is actually demanding that we emulate the policy mix that turned Greek debt into a complete disaster.

 

Lezioni politiche dalla debacle europea

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Ora è chiaro, o dovrebbe essere chiaro, che il programma greco era destinato al fallimento senza una importante riduzione del debito; per quanto duro fosse stato lo sforzo dei Greci, l’austerità avrebbe ristretto il PIL più velocemente di quanto non avrebbe ridotto il debito in relazione al suo dato di partenza, cosicché la situazione del debito era destinata a peggiorare anche se il tentativo di riequilibrare il bilancio avesse imposto ampie sofferenze.

E, data la partecipazione della Grecia all’euro, non c’era nessuna buona risposta, addirittura non c’era alcuna risposta senza conseguenze terribili.

Ma dalla Grecia viene una lezione più generale che è rilevante per tutti – e non la solita storiella relativa all’aggiustare le nostre spese incontrollate per non diventare “come la Grecia, né più né meno che come la Grecia”. Quello che invece impariamo è che l’austerità della spesa pubblica in aggiunta alla moneta forte è una combinazione profondamente tossica. L’austerità della finanza pubblica deprime l’economia e la spinge verso la deflazione; se essa è accompagnata da una politica monetaria restrittiva (nel caso della Grecia l’euro, ma un tasso di cambio fisso, un gold standard o ogni tipo di paura ossessiva dell’inflazione provocherebbe lo stesso effetto), il risultato non è solo la depressione e la deflazione, ma anche un abbastanza probabile insuccesso nel ridurre il tasso del debito.

Come confronto, si guardi all’esempio preferito da tutti di una politica di successo dell’austerità, il Canada degli anni ’90. Il Canada arrivò a quegli anni con un debito lordo di circa il 100 per cento del PIL, grosso modo paragonabile alla Grecia all’epoca della crisi finanziaria. Procedette allora a realizzare una correzione finanziaria abbastanza grande – il 6 per cento del PIL secondo la stima del FMI dell’equilibrio strutturale [1], che rappresenta circa un terzo di quanto fatto dalla Grecia ma è confrontabile con gli altri paesi debitori europei. Ma la disoccupazione scese regolarmente. Quale era il segreto del Canada?

La risposta fu una moneta facile ed una ampia svalutazione monetaria. Queste bilanciarono il prelievo dell’austerità, consentendo alla crescita di andare avanti.

Come gioca tutto questo, dunque, nei dibattiti politici statunitensi? Ebbene, i repubblicani amano mettere in guardia che l’America prima o poi potrebbe diventare come la Grecia. Ma si guardi alla combinazione di ricette politiche che oggi è di fatto l’ortodossia del Partito Repubblicano: severi tagli nella spesa pubblica (forse bilanciati da sgravi fiscali sui ricchi, ma questi non forniscono molto sostegno all’economia), combinati da una politica monetaria ossessionata dalle paure della “perdita di valore” del dollaro. Vale a dire, il settore conservatore dello schieramento politico americano, nel mentre eleva la Grecia a insegnamento ammonitore, sta effettivamente chiedendo che si emuli quella combinazione di politiche cha ha trasformato il debito greco in un completo disastro.

 

 

[1] Per equilibrio strutturale si intende l’equilibrio del bilancio depurato degli effetti dei fattori che possono essere considerati dipendenti dal ciclo economico, ovvero la condizione ‘potenziale’ del bilancio. Come si vede nella tabella nell’anno di partenza il Canada si trovava con un equilibrio strutturale in terreno fortemente negativo e con un tasso di disoccupazione elevato. Il considerevole miglioramento dell’equilibrio strutturale, conseguente a politiche di restrizione della spesa, essendo accompagnato dalla svalutazione e da una politica monetaria non restrittiva, comportò un sia pure graduale miglioramento del tasso di disoccupazione.

Milton Friedman, Irving Fisher e la Grecia (dal blog di Krugman, 7 luglio 2015)

luglio 7, 2015

 

Jul 7 3:32 pm

Milton Friedman, Irving Fisher, and Greece

I continue to be amazed by how many people regard debt relief and devaluation as wild-eyed radical ideas; of course, it matters most that so many influential people in Europe share this ignorance. Anyway, for the record (and for my own future reference) I thought it would be helpful to post what Milton Friedman and Irving Fisher had to say about the Greek disaster. OK, they weren’t writing specifically about Greece — Friedman was writing in 1950, Fisher in 1933. But their analyses ring truer than ever.

First, Friedman (why oh why isn’t there a full electronic copy of this essay online?):

z 830

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

That tells you everything you need to know about why “internal devaluation” has been such a costly strategy — and why the ECB’s failure to move aggressively early on to achieve and if possible surpass its 2 percent inflation target was a major contributing factor to this disaster.

Then Fisher on why austerity hasn’t even helped on the debt:

z 831

 

 

 

 

 

 

 

 

The basic story of the European periphery — not just Greece — is one of a poisonous interaction between Friedman and Fisher, which has produced incredible suffering while failing to reduce the debt/GDP ratio, which even in star pupils like Ireland and Spain is far higher than when austerity began; the only success has been in suffering long enough so that some growth has finally resumed, and they can call it vindication.

The bizarreness of the whole thing is how flaky, speculative ideas like expansionary austerity became orthodoxy, while applying the economics of Fisher and Friedman became heterodoxy bordering on Chavismo.

 

Milton Friedman, Irving Fisher e la Grecia

Continuo ad essere sorpreso da quante persone considerano la attenuazione del debito e la svalutazione come idee da radicali sfegatati; naturalmente, la cosa più importante è che tante persone influenti in Europa sono partecipi di questa ignoranza. In ogni modo, per memoria (e come riferimento futuro per me medesimo) ho pensato sarebbe stato utile pubblicare quello che Milton Friedman ed Irving Fisher ebbero da dire sul disastro greco. È vero, non stavano scrivendo in specifico sulla Grecia – lo scritto di Friedman risale al 1950, quello di Fisher al 1933. Ma le loro analisi risuonano più vere che mai.

Anzitutto Friedman (ma perché non c’è on-line una intera copia elettronica di questo saggio? [1]):

“Se i prezzi interni fossero flessibili come i tassi di cambio, farebbe poca differenza economica se le correzioni fossero apportate da cambiamenti nei tassi di cambio o da equivalenti cambiamenti nei prezzi interni. Il tasso di cambio è potenzialmente flessibile, in assenza di iniziative amministrative che lo congelino. Almeno nel mondo moderno, i prezzi interni sono altamente non flessibili. Essi sono più flessibili verso l’alto che verso il basso, ma persino nelle oscillazioni verso l’alto non tutti i prezzi sono egualmente flessibili. L’inflessibilità dei prezzi, o i gradi diversi di flessibilità, comportano una distorsione delle correzioni in risposta ai cambiamenti delle condizioni esterne. In alcuni settori la correzione prende soprattutto la forma di cambiamenti nei prezzi, in altri soprattutto di cambiamenti nella produzione.
I tassi salariali tendono ad essere tra i prezzi meno flessibili. Di conseguenza, un deficit incipiente che è contrastato da una politica che consente o costringe i prezzi a calare è probabile che produca disoccupazione piuttosto che, o in aggiunta a, diminuzioni salariali. Il calo conseguente nei redditi reali riduce la domanda interna per i beni stranieri e di conseguenza la domanda per valute straniere per acquistare tali beni. In questo modo, esso bilancia il deficit incipiente. Ma questo è chiaramente un metodo molto inefficace nella correzione di cambiamenti esterni. Se i cambiamenti esterni sono radicati e persistenti, la disoccupazione produce regolarmente una spinta verso il basso sui prezzi e sui salari, e la correzione non sarà completata sinché la deflazione non avrà fatto il suo spiacevole percorso.”

Questo ci dice tutto quello che c’è bisogno di sapere sul perché la “svalutazione interna” è stata una strategia così costosa – e perché l’inziale indisponibilità della BCE ad agire in modo aggressivo per ottenere e se possibile andare oltre il suo obbiettivo di inflazione del 2 per cento sia stato un fattore che ha contribuito in modo importante al disastro.

E adesso Fisher, sui motivi per i quali l’austerità non ha neppure dato un aiuto sul debito:

“32. E, viceversa, la deflazione da debito reagisce sul debito. Ogni dollaro di debito ancora non pagato diventa un dollaro più grande, e se il sovra indebitamento dal quale siamo partiti era grande abbastanza, la liquidazione dei debiti non può tenere il passo della caduta dei prezzi che essa stessa provoca. In quel caso, la liquidazione si sconfigge da sola. Mentre diminuisce il numero dei dollari posseduti, non può farlo altrettante rapidamente della crescita di valore di ogni dollaro posseduto. A quel punto, proprio lo sforzo delle persone di diminuire il loro peso del debito lo aumenta, per l’effetto collettivo del precipitarsi a liquidare nel rigonfiare ogni dollaro posseduto. Abbiamo dunque il grande paradosso che, questa è la mia tesi, è il principale segreto di molte, se non di tutte, le grandi depressioni: più i debitori pagano, più si indebitano. Più la barca dell’economia si inclina, più tende ad inclinarsi. Essa non tende ad raddrizzarsi, ma a capovolgersi.”

La storia di fondo della periferia europea – non solo della Grecia – consiste in una interazione velenosa tra Friedman e Fisher, che ha prodotto incredibili sofferenze nel mentre non ha ridotto il rapporto tra debito e PIL, che persino negli allievi modello come l’Irlanda e la Spagna è molto più alto di quando l’austerità ebbe inizio; l’unico successo è stato soffrire tanto a lungo che una qualche crescita alla fine si è ripristinata, consentendo loro di definirlo un risarcimento.

La bizzarria di tutta questa faccenda è il modo strambo in cui le congetture come quella della austerità espansiva sono diventate ortodosse, nel mentre applicare le teorie economiche di Fisher e Friedman sono diventate una eterodossia ai limiti dello ‘Chavismo’.

 

 

[1] Nel senso che, come si vede, viene pubblicata una copia dal libro, che noi imitiamo con caratteri ridotti.

 

 

 

Deflazione da debito in Grecia (dal blog di Krugman, 7 luglio 2015)

luglio 7, 2015

 

Jul 7 11:37 am

Debt Deflation in Greece

z 832

 

 

 

 

 

 

 

 

However things play out from here — I find it hard to see a path other than Grexit — the troika’s program for Greece represents one of history’s epic policy failures. Even if you ignore the economic and human toll, it was an utter failure in terms of restoring solvency. In 2009, before the program, Greek debt was 126 percent of GDP. After five years, debt was … 177 percent of GDP.

How did that happen? Did the Greeks continue massive borrowing? As the chart shows, the answer is a definite no. Greek debt at the end of 2014 was only 6 percent higher than it was at the end of 2009. Admittedly, that number reflects a significant haircut on private debt along the way, but it was still nothing like the continued borrowing binge some imagine.

What happened instead was, of course, the collapse of GDP — itself largely the result of the austerity program.

What this suggests is that the troika program was simply infeasible, and would have been infeasible no matter how willing the Greeks had been to make sacrifices. The more they cut, the worse things got, because of Fisherian debt deflation.

I suppose you can argue that structural reforms might have delivered a boost in competitiveness, but the truth is that there’s very little evidence supporting the conventional faith in such reforms.

Some of my more conventional contacts like to insist that Greek austerity was unavoidable, and it’s true that one way or another Greece was going to have to achieve a primary surplus. If currency devaluation had been an option, this would have required much less austerity, because of the boost from easier monetary policy; but within the euro a lot of austerity was indeed something that had to happen. But the key point is that the austerity ended up being not just incredibly painful but completely futile, because it wasn’t accompanied by massive debt relief.

Is this kind of futility always the case? Not necessarily; if you try to do the arithmetic here, it becomes clear that a lot depends on the initial level of debt. If Greece had received major debt forgiveness, it would still have gone through hell, but with at least some hint of an eventual exit. Instead it was pushed into a cycle of ever-worse pain without hope.

 

Deflazione da debito in Grecia

z 832

 

 

 

 

 

 

 

 

In qualsiasi modo le cose vadano a finire nella realtà – io trovo che sia difficile vedere un’altra strada che non sia l’uscita della Grecia dall’euro – il programma della troika rappresenta uno dei formidabili fallimenti politici della storia. Anche se si ignora il tributo economico ed umano, esso è stato un fallimento completo in termini di ripristino della solvibilità. Nel 2009, prima del programma, il debito greco era al 126 per cento del PIL. Dopo cinque anni, il debito era …. Il 177 per cento del PIL.

Come è accaduto? I greci hanno proseguito ad indebitarsi massicciamente? Come mostra la tabella, la risposta è chiaramente negativa. Il debito greco alla fine del 2014 era soltanto del 6 per cento più elevato che alla fine del 2009. Si può ammettere che quel dato rifletta un significativo taglio del debito privato nel corso del processo, ma non è stato neppure niente di simile alla prosecuzione di uno smodato indebitamento che qualcuno si immagina.

Quello che invece è accaduto è stato, ovviamente, un crollo del PIL – esso stesso in larga parte il risultato del programma di austerità.

Il che indica che il programma della Troika era semplicemente impraticabile, e sarebbe stato impraticabile a prescindere dalla volontà con la quale i Greci avessero fatto i sacrifici. A causa della deflazione da debito fisheriana [1], più grandi sono i tagli, più le cose vanno peggio.

Suppongo che si possa sostenere che la riforme strutturali avrebbero potuto produrre un incoraggiamento alla produttività, ma la verità è che ci sono molte poche prove a sostegno della fiducia convenzionale in tali riforme.

In alcuni dei miei consueti contatti si è soliti ribadire che l’austerità greca era inevitabile, ed è vero che in un modo o nell’altro la Grecia era destinata a dover realizzare un avanzo primario. Se la svalutazione della moneta fosse stata possibile, questa avrebbe richiesto una austerità molto minore, a causa della spinta derivante da una politica monetaria più facile; ma all’interno dell’euro un bel po’ di austerità era in effetti destinata ad accadere. Ma l’aspetto cruciale è che l’austerità ha finito con l’essere non solo incredibilmente dolorosa ma completamente inutile, perché non è stata accompagnata da una massiccia riduzione del debito.

Una inutilità di quel genere è sempre inevitabile? Non necessariamente; se si prova a fare in questo caso un po’ di aritmetica, diventa chiaro che molto dipende dal livello del debito iniziale. Se la Grecia avesse ricevuto un importante remissione del debito, sarebbe ancora dovuta transitare da un inferno, ma almeno ci sarebbe stato un qualche cenno di un’uscita finale. Invece è stata spinta in un ciclo di sofferenze sempre peggiori senza speranza.

 

 

[1] Irving Fisher (Saugerties, 27 febbraio 1867New York, 29 aprile 1947) è stato un economista e statistico statunitense. Contribuì in modo determinante alla teoria dei Numeri indici analizzandone le proprietà teoriche e statistiche. Fu uno dei maggiori economisti monetaristi statunitensi dei primi del Novecento. Dal 1923 al 1936 il suo Index Number Institute produsse e pubblicò indici dei prezzi di diversi panieri raccolti in tutto il mondo. In campo finanziario a lui si deve la formalizzazione della equazione per stimare la relazione tra tassi di interesse nominali e reali. L’equazione è usata per calcolare lo “Yield to Maturity” ovvero il rendimento alla scadenza di un titolo, in presenza di inflazione. Tale equazione è conosciuta universalmente come Equazione di Fisher. Fu inoltre presidente dell’American Economic Association nel 1918 e dell’American Statistical Association nel 1932 nonché fondatore nel 1930 della International Econometric Society. Morì nella città di New York nel 1947. (wikipedia)

Per una comprensione più precisa, invece, delle posizioni di Fisher sulla inflazione da debito, si legga il post successivo: “Milton Friedman, Irving Fisher e la Grecia”, 7 luglio 2015.

 

 

 

Il salvataggio del Texas (6 luglio 2015)

luglio 6, 2015

 

Jul 6 10:02 am

Lone Star Bailout

Jared Bernstein weighs in on the big No, hopes that it leads to a change in Europe’s approach, but acknowledges the political difficulties:

To be fair, it’s not that simple. There are structural political factors in play, endemic to the fact that the currency union is not a political union, nor a fiscal union, nor a banking union. As one German economist put it to me, “How do you think the people of Manhattan would like bailing out Texas?” Fair point, and a non-trivial challenge, for sure.

Ahem. As it happens, the people of Manhattan did bail out Texas, big time. I wrote about it here. The savings and loan crisis, which was very costly to taxpayers, was mainly a Texas affair:

The cleanup from that crisis cost taxpayers about $125 billion (pdf), back when that was real money. As best I can tell, around 60 percent of the losses were in Texas (pdf). So that’s around $75 billion in aid — not loans, outright transfer.

Texas GDP was about $300 billion in 1987. So this was equivalent to giving — not lending, not even taking an equity stake — Spain 25 percent of its GDP to bail out its banks.

But of course Manhattan was never asked to bail out Texas; we had a national system of deposit insurance, and the big Lone Star bailout was automatic.

 

Il salvataggio del Texas [1]

Jared Bernstein interviene sul grande No, spera che esso porti ad un cambiamento nell’approccio europeo, ma riconosce le difficoltà politiche:

“Ad esser giusti, non è così semplice. Ci sono fattori politici strutturali in gioco, impliciti nel fatto che l’unione valutaria non è un’unione politica, né un’unione bancaria. Come si è espresso con me un economista tedesco: ‘Come pensi che alla gente di Manhattan farebbe piacere salvare il Texas?’ Argomento fondato, e di certo sfida non banale.”

Ehm. Si dà il caso che la gente di Manhattan abbia salvato il Texas, assolutamente. Ne scrissi in questa occasione [2]. La crisi degli istituti di credito locali [3], che fu molto costosa per i contribuenti, fu principalmente una faccenda del Texas:

“Il costo per i contribuenti della pulizia di quella crisi si aggira attorno ai 125 miliardi di dollari, al valore di quei tempi. Per quanto posso dire, circa il 60 per cento delle perdite furono in Texas, Si trattò di circa 75 miliardi di dollari di aiuti – non di prestiti, di veri e propri trasferimenti.

Nel 1987 il PIL del Texas era di circa 300 miliardi di dollari. Dunque, questo fu equivalente a consegnare alla Spagna il 25 per cento del suo PIL per salvare le sue banche – e non a dare in prestito e neppure ad acquistare un interesse su azioni.”

Sennonché, evidentemente, a Manhattan non fu mai chiesto di salvare il Texas; avevamo un sistema nazionale di assicurazione dei depositi, e il grande salvataggio della Stella Solitaria fu automatico.

 

[1] “Stella solitaria” è il soprannome del Texas:

z 828

 

 

 

 

 

[2] Il riferimento è ad un post del giugno del 2012.

[3] Gli istituti “di risparmi e di prestiti” costituivano qualcosa di simile al sistema delle Casse di Risparmio, ovvero istituti finanziari sostanzialmente basati sulle comunità locali. Negli anni dal 1986 al 1995 fallirono, negli Stati Uniti, 1.043 dei 3.234 istituti del genere, in sostanza perché la loro capacità di raccolta eccedeva le loro esposizioni e la legge consentiva loro di cercar di rimediare alla loro insolvenza anche con speculazioni fortemente speculative.

Illusioni di controllo (6 luglio 2015)

luglio 6, 2015

 

Jul 6 9:29 am

Delusions of Control

David Keohane has an informative post on the China stock crash, which is among other things revealing that the Chinese government has much less ability to control events than legend has it. And that brings back memories.

You see, when the Japanese bubble of the 1980s began deflating, there were many people insisting that the Ministry of Finance had it all under control. In fact, years into the Lost Decade you would still read articles and books claiming that Japan knew exactly what it was doing, even that it was all a cunning plot to lull the West into complacency while Japan took over the world economy.

The general point is that if you believe that officials have the economy — any economy — under control, you’re setting yourself up for a big disappointment. And in particular, it’s invariably a very bad idea to assume that officials know things that outside economists don’t. When it comes to economic policy, everyone has pretty much the same information, and holding public office, whatever its other benefits, does not improve one’s analytical skills.

Those of us who have been warning about big trouble in big China might be wrong. But we won’t be wrong because Chinese officials possess secret information or secret levers of control.

 

Illusioni di controllo

David Keohane scrive un post informativo sul crollo azionario della Cina, che tra le altre cose rivela che il Governo cinese ha molta minore capacità di controllo degli eventi di quello che dicono le leggende. E ciò riporta a ricordi del passato.

Vedete, quando la bolla giapponese degli anni ’90 cominciò a sgonfiarsi, c’erano molte persone che insistevano che il Ministro delle Finanze avesse tutto sotto controllo. Di fatto, negli anni del Decennio perduto potevate ancora leggere articoli e libri che sostenevano che il Giappone sapeva esattamente cosa stava facendo, persino che era tutto uno scaltro complotto per indurre l’Occidente all’auto compiacimento, nel mentre il Giappone subentrava nell’economia mondiale.

L’aspetto generale è che se credete che i dirigenti pubblici abbiano sotto controllo l’economia – ogni economia – vi predisponete ad una grande delusione. E in particolare, è invariabilmente una pessima idea considerare che i dirigenti pubblici conoscano cose che gli economisti dall’esterno non conoscono. Quando si parla di politica economica, tutti hanno più o meno le stesse informazioni, ed avere un incarico pubblico, qualsiasi siano gli altri benefici, non migliora la vostra competenza analitica.

Può darsi che quelli tra noi che hanno messo in guardia su grandi guai nella grande Cina abbiano torto. Ma non avremo torto perché i dirigenti pubblici cinesi posseggono informazioni o leve di controllo segrete.

 

 

 

 

Annotazioni sparse sull’euro (6 luglio 2015)

luglio 6, 2015

 

Jul 6 9:20 am

Scattered Notes on the Euro

Wolfgang Munchau has a perceptive analysis of the utter disaster of the Yes campaign in Greece, in which he says

What I found most galling was the argument that Grexit would bring about an economic catastrophe, as though the catastrophe had not already happened. If you have been unemployed for five years, with no prospect of a job, it makes no difference whether the money you do not get is denominated in euros, or in drachma.

Wish I’d written that. But now what?

It’s becoming hard to see any path that doesn’t lead to Grexit; it is also, although this is still something few want to accept, becoming increasingly obvious that Grexit is Greece’s best hope. Otherwise, where is recovery ever supposed to come from? Even with massive debt relief, Greece will be forced to run huge structural primary surpluses — that is, pursue tax and spending policies that would produce huge surpluses if the economy were anywhere near full employment — and in so doing keep its economy depressed for the foreseeable future.

Or to put it a bit differently, what would be a straightforward policy problem if Greece had its own currency becomes an almost insoluble mess because it doesn’t. At some point the argument that the costs of a transition are too high wears thin.

Now, I get interesting mail when I say things like this — much of it along the lines of “I can’t believe that a far-left-wing type like you got a Nobel”. Because a lot of people seem to believe that real economists believe in sound money, preferably gold, and that only socialists believe that there can ever be any advantages to currency depreciation.

Socialists, that is, like Milton Friedman. But of course modern conservatives get their monetary economics from Ayn Rand, not the Chicago School.

Anyway, this isn’t anywhere close to over.

 

Annotazioni sparse sull’euro

Wolfgang Munchau ha una analisi acuta del completo disastro della campagna per il SI in Grecia, con la quale afferma:

“Quello che ho trovato del tutto insopportabile è stato l’argomento secondo il quale l’uscita della Grecia dall’euro avrebbe provocato una catastrofe economica, come se la catastrofe non ci fosse già stata. Se siete disoccupati da cinque anni, senza alcuna prospettiva di un posto di lavoro, non fa alcuna differenza se i soldi che non avete sono denominati in euro o in dracme.”

Mi piacerebbe l’avessi scritto io. Ma adesso cosa succede?

Sta diventando difficile individuare una strada che non porti all’uscita dall’euro: sta anche diventando sempre più evidente, sebbene sia qualcosa che ancora pochi vogliono accettare, che l’uscita dall’euro sia la maggiore speranza della Grecia. Altrimenti, da dove si pensa che venga la ripresa? Persino con una massiccia riduzione del debito, la Grecia sarà costretta a realizzare grandi avanzi strutturali primari – ovvero, a perseguire politiche fiscali e di spesa che produrrebbero grandi avanzi se l’economia fosse in qualche modo prossima alla piena occupazione [1] – e così facendo a mantenere la sua economia depressa per il prossimo futuro.

O per dirla diversamente, quello che sarebbe un problema politico semplice se la Grecia avesse la propria valuta, diventa un imbroglio quasi insolubile perché non ce l’ha. C’è un punto nel quale l’argomento che i costi della transizione sono troppo elevati diventa consunto.

Ora, ho corrispondenze interessanti ogni volta che dico cose come questa – gran parte delle quali del genere di “non posso credere che un soggetto di estrema sinistra come lei abbia avuto il premio Nobel”. Perché c’è una quantità di persone che sembrano credere che gli economisti veri credono nella moneta forte, preferibilmente nell’oro, e che solo i socialisti credono che ci possa mai essere alcun vantaggio nella svalutazione di una moneta.

Vale a dire, socialisti come Milton Friedman. Ma come è noto i conservatori moderni traggono la loro economia monetaria da Ayn Rand (2), non dalla Scuola di Chicago.

In ogni modo, dappertutto queste non sono cose vicine a terminare.

 

[1] Questo è il significato di ‘strutturali’, ovvero avanzi primari riferiti al potenziale produttivo di base.

(2) Vedi note sulla traduzione. 

 

 

 

 

Aritmetica dell’austerità (dal blog di Krugman, 5 luglio 2015)

luglio 5, 2015

 

Jul 5 1:21 pm

Austerity Arithmetic

The betting markets now believe that Greece will vote “no”, but nobody really knows even now. So let me take some time to do a calculation that I should have done a while ago. Here’s the question: Even if you ignore everything else, can austerity policies really improve the debt position of a country in Greece’s situation? If so, how long will that take?

Suppose, to be concrete, that we talk about permanently raising the primary surplus by one percent of GDP. As I’ve written before, and as Simon Wren-Lewis notes, given the lack of an independent monetary policy achieving a primary surplus requires a lot more than one-for-one austerity. In fact, a good guess is that you’d have to slash spending by 2 percent of GDP, because austerity shrinks the economy and reduces tax receipts. This in turn means that you’d shrink the economy by around 3 percent. So, a 3 percent hit to GDP to raise the primary surplus by 1.

But a smaller economy means that the debt/GDP ratio goes up initially. In fact, given Greece’s starting point, with debt at 170 percent of GDP, the adverse effects of austerity mean that trying to raise the primary surplus by 1 point quickly causes the debt-GDP ratio to rise by 5 points (.03*170). So this might suggest that it would take 5 years of austerity just to get the debt ratio back to where it would have been in the absence of austerity.

But wait, there’s more. Let’s bring Irving Fisher into the discussion. A weaker economy will mean lower inflation (or faster deflation), which also tends to raise the debt/GDP ratio. The chart shows a scatterplot of Greece’s output gap (as estimated by the IMF — a dubious measure, but stay with it) versus the rate of change of the GDP deflator.

z 827

 

 

 

 

 

 

 

 

IMF

Yes, it’s a crude Phillips curve, but it sort of works. And it suggests that a 1 point rise in the primary surplus, which requires austerity that causes a 3-point fall in real GDP, will reduce inflation by about 0.7 percentage points (3*0.23). And if you start with debt of 170 percent of GDP, this raises the debt ratio by more than a percentage point each year. That is, the attempt to reduce debt by slashing spending actually raises the ratio of debt to GDP, not just in the short run, but indefinitely.

OK, we can soften this result by bringing in the effect of falling Greek prices on exports, which should boost economic growth. I’m still working this one out, but at best it makes austerity successful at reducing the debt ratio in the very long run — think decades, not years. Austerity for a country in Greece’s position appears to be an unworkable solution even if debt is all you care about.

And just to be clear, I’m basically doing textbook macroeconomics here, nothing exotic. It’s the austerians who are inventing new economic doctrines on the fly to justify their policies, which appear to imply not temporary sacrifice but permanent failure.

 

Aritmetica dell’austerità

Dalle scommesse dei mercati ora sembra che si creda che la Grecia voterà ‘no’, ma sino a questo punto nessuno lo sa. Datemi dunque il tempo di fare un calcolo che avrei dovuto fare un po’ di tempo fa. Ecco la domanda: persino nell’ignoranza di tutto il resto, le politiche di austerità possono realmente migliorare la condizione del debito in un paese nella situazione della Grecia? E se così fosse, quanto tempo ci vorrebbe?

Supponiamo, per essere concreti, di parlare di una crescita permanente dell’avanzo primario dell’1 per cento del PIL. Come ho scritto in precedenza, e come anche Simon Wren-Lewis nota, data la mancanza di una politica monetaria indipendente, realizzare un avanzo primario richiede molto di più che una austerità nel rapporto di uno ad uno. Di fatto, una buona ipotesi è che si dovrebbe abbattere la spesa per un 2 per cento del PIL, giacché l’austerità contrae l’economia e riduce le entrate fiscali. A sua volta questo significa che si dovrebbe contrarre l’economia per circa un 3 per cento. Dunque, un colpo al PIL del 3 per cento per elevare l’avanzo primario di un 1 per cento.

Ma una economia ridotta comporta che il rapporto debito/PIL, all’inizio, salga. Di fatto, considerato il punto di partenza di un debito che, nel caso della Grecia, è al 170 per cento del PIL, gli effetti negativi dell’austerità comportano che cercare di far crescere l’avanzo primario di un 1 per cento, provochi rapidamente un aumento del rapporto debito/PIL di cinque punti (.03*170). Dunque, questo suggerirebbe che occorrerebbero 5 anni soltanto per riportare il tasso del debito al punto in cui sarebbe stato in assenza dell’austerità.

Ma aspettate, c’è di più. Inseriamo Irving Fisher dentro la nostra discussione. Un’economia più debole comporterà una inflazione più bassa (o una deflazione più veloce), la qualcosa anch’essa tende ad elevare il rapporto debito/PIL. La tabella sotto mostra un diagramma a diffusione del differenziale di produzione della Grecia (così come viene stimata dal FMI – un calcolo dubbio, ma atteniamoci ad esso) rispetto al tasso di mutamento del deflatore del PIL.

 

z 827

 

 

 

 

 

 

 

 

FMI

 

È vero, si tratta di una primitiva curva di Phillips, ma è qualcosa che funziona (1). Ed indica che un punto di crescita nell’avanzo primario, che richiede una austerità che provochi una caduta di 3 punti nel PIL reale, ridurrà l’inflazione di circa 0,7 punti percentuali (3*0,23). E se si parte con un debito pari al 170 per cento del PIL, questo aumenta il rapporto del debito per circa un punto percentuale ogni anno. Vale a dire, il tentativo di ridurre il debito abbattendo la spesa pubblica aumenta il rapporto del debito sul PIL, non solo nel breve periodo, ma in un tempo indefinito.

Va bene, si può attenuare questo risultato mettendo nel conto la caduta dei prezzi greci all’esportazione, che dovrebbe incoraggiare la crescita economica. Sto ancora lavorando su questo aspetto, ma al massimo esso rende efficace l’austerità nel ridurre il tasso del debito nel lunghissimo periodo – si ragiona di decenni, non di anni. L’austerità per un paese nella condizione della Grecia sembra una soluzione che non può funzionare neppure se ci si preoccupa soltanto del debito.

E, solo per chiarezza, in questo caso sto fondamentalmente applicando una macroeconomia da libro di testo, niente di esotico. Sono i patiti dell’austerità che si stanno inventando dal nulla nuove dottrine economiche per giustificare le loro politiche, la qualcosa non pare comportare sacrifici temporanei, bensì un fallimento permanente.

 

 

 

(1)

Nelle note sulla traduzione si può trovare una spiegazione relativa alla curva di Phillips, un economista neozelandese scomparso nel 1975 che per primo studiò la relazione tra i livelli della disoccupazione e la crescita dei salari.

Nella tabella sopra la relazione viene estesa al rapporto tra inflazione e produzione. In sostanza, comunque, la riduzione dell’inflazione che deriverebbe da ulteriore austerità/indebolimento dell’economia avrebbe un effetto aggiuntivo sul PIL e dunque sul rapporto debito/PIL.

 

 

 

Nel frattempo in Cina (5 luglio 2015)

luglio 5, 2015

Jul 5 10:48 am

Meanwhile In China

z 826

 

 

 

 

 

 

Shanghai stock index Bloomberg

I am, of course, anxiously awaiting the results of Greferendum, although the next few days in Greece will be terrible whoever wins. But we shouldn’t lose sight of other risks facing the world. Some of us have been worrying quite a lot about China — an economy that at market exchange rates is 40 times the size of Greece, and is severely unbalanced. And in the past month, mainly in the past few days, the Shanghai stock index has fallen almost 30 percent. This doesn’t necessarily mean that the feared crisis has come, but it’s definitely not a good sign.

 

Nel frattempo in Cina

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Indice azionario di Shanghai Bloomberg

 

Naturalmente, sto ansiosamente aspettando I risultati del referendum greco, sebbene nei prossimi giorni in Grecia la situazione sarà terribile chiunque vinca. Alcuni di noi si stanno un po’ preoccupando della Cina – un’economia che ai tassi di scambio di mercato è 40 volte le dimensioni della Grecia, e che è seriamente squilibrata. E nel mese passato, soprattutto negli ultimi giorni, l’indice azionario di Shangai è caduto di quasi il 30 per cento. Questo non significa necessariamente che la temuta crisi sia arrivata, ma non è certamente un buon segno.

 

No, Porto Rico non è la Grecia (4 luglio 2015)

luglio 4, 2015

 

Jul 4 4:15 pm

No, Puerto Rico Isn’t Greece

There are obvious parallels between the crisis in Puerto Rico and the disaster in Greece — a poor economy overshadowed by a huge wealthier economy to the north, budget problems, declarations that the debt is unpayable. And I don’t want to minimize the problems and pain in San Juan. But it’s important to understand that the depth of the pain is just not of the same order of magnitude, and not just because Puerto Rico’s banks are secured by a national safety net, although that helps.

I’ve been trying to produce some indicators using the Puerto Rico data, and they’re remarkably unlike Greece.

It’s true that Puerto Rico has achieved an impressive drop in real GNP (people usually use GNP for PR because so much of of GDP is profits accruing to offshore firms). But the drop per working age adult is less, because of large-scale emigration — which is actually supposed to happen when changing economic winds cause a U.S. region to lose competitive advantage. Unemployment is up, but “only” by 4 percentage points. And there doesn’t seem to have been anything comparable to Greece’s collapse in living standards. Greek real consumption per capita has plunged, whereas Puerto Rico’s has actually risen.

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Eurostat

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Government Development Bank for Puerto Rico

What’s supporting that consumption? Some of it surely involves private remittances from Puerto Ricans working on the mainland and sending money home. But it’s also fiscal federalism: as Puerto Rico’s economy has stumbled, its payments to Washington have dropped while its receipts from federal social insurance programs have risen, so that the island is in effect receiving aid on a scale that would be inconceivable in Europe.

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Government Development Bank for Puerto Rico

Now, none of this guarantees against bad economic developments, all it does is soften the blow. And there is a downside to high labor mobility (suggesting, for the wonks, that Mundell had it wrong), namely the problem of an emigrating tax base while the recipients of government services stay put. But again, bad as it is, the Puerto Rico story isn’t remotely in Greece’s league.

 

No, Porto Rico non è la Grecia

Ci sono parallelismi evidenti tra la crisi a Porto Rico e il disastro in Grecia – un’economia povera oscurata da una grande economia più ricca al Nord, problemi di bilancio, dichiarazioni secondo le quali il debito non è restituibile. E non intendo minimizzare i problemi e la pena a San Juan. Ma è importante comprendere che la profondità della sofferenza non è proprio dello stesso ordine di grandezza, e non solo perché le banche di Porto Rico sono assicurate da una rete nazionale di sicurezza, sebbene quello contribuisca.

Ho cercato di produrre alcuni indicatori utilizzando i dati di Porto Rico, e sono considerevolmente diversi dalla Grecia.

È vero che Porto Rico ha realizzato una impressionante caduta nel Prodotto Nazionale Lordo (per Porto Rico si usa il PNL perché gran parte del PIL sono profitti che maturano a favore di imprese che hanno sede fuori dall’isola). Ma la caduta per adulti in età lavorativa è minore, a causa della emigrazione su ampia scala – il che effettivamente si suppone che accada quando il cambiamento dei venti dell’economia induce una regione degli Stati Uniti a perdere il proprio vantaggio competitivo. La disoccupazione è salita, ma “soltanto” di 4 punti percentuali. E non sembra che ci sia stato niente di paragonabile al crollo dei normali livelli di vita della Grecia. I consumi reali procapite greci sono crollati, mentre per la verità quelli di Porto Rico sono saliti.

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Eurostat

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Banca Governativa dello Sviluppo per Porto Rico

Che cosa sostiene quei consumi? Alcuni di essi certamente riguardano le rimesse dei lavoratori portoricani sul continente e l’invio di soldi a casa. Ma si tratta anche della struttura federale della finanza pubblica: quando l’economia di Porto Rico si è inceppata, i suoi pagamenti a Washington sono crollati mentre le sue entrate dai programmi della sicurezza sociale federali sono cresciute, cosicché l’isola ha in sostanza ricevuto un aiuto su una dimensione che sarebbe inconcepibile in Europa [1].

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Banca Governativa dello Sviluppo per Porto Rico

Ora, non c’è niente in questo che garantisca da sviluppi economici negativi, l’effetto consiste interamente in una attenuazione del colpo. E c’è un lato negativo nella elevata mobilità del lavoro (che indica, per gli esperti, che su quel punto Mundell [2] aveva torto), precisamente il problema di una base fiscale che emigra mentre le entrate dei servizi governativi restano in funzione. Eppure, per quanto sia negativa, la storia di Porto Rico non appartiene ancora nemmeno lontanamente al girone della Grecia.

 

[1] La Tabella riguarda l’evoluzione dei trasferimenti netti federali, che è cresciuta per effetto dei costi indotti dalla crisi sociale.

[2] Robert Mundell, economista canadese Premio Nobel nel 1999, è uno studioso dei meccanismi delle aree valutarie ottimali, uno dei principali critici dell’esperimento europeo sin da prima che esso venisse attuato. La insufficiente mobilità del lavoro era da lui considerata come uno dei fattori che riduceva la praticabilità di un’area valutaria unica.

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