Jul 4 10:03 am
For my sins, I’m debating Stephen Moore next week, so I’ve been doing some reading. And one assertion on Moore’s part actually sent me off to do some research. In an attack on Obamacare, he ridiculed the administration for taking credit for an expansion of Medicaid:
How is putting more people on Medicaid a triumph? Medicaid is a welfare program. If this were a well-functioning economy with good jobs, Medicaid rolls would be shrinking and Americans would be coming self sufficient.
Leave aside the question of whether supply-siders know anything at all about how to achieve prosperity; even when prosperity does come, or at least when they can claim it has come, how does this affect health insurance? Specifically, how did insurance rolls evolve during the reign of Saint Reagan?
The standard Census data don’t go back that far, but the CDC has made estimates for the population under 65. As you can see from the chart, Morning in America did nothing to boost insurance — in fact, the share of Americans with private coverage declined, and because Medicaid din’t grow the overall rate of uninsurance rose from 12 percent in 1980 to 15.6 percent in 1989.
In other words, nothing in the economic record — not even the record of the great conservative hero — suggests that you can grow your way into universal health coverage.
Assicurazioni e politica economica di Reagan
Per scontare i miei peccati, la prossima settimana avrò un dibattito con Stephen Moore [1], così mi sto facendo qualche lettura. E un giudizio da parte di Moore, per la verità, mi ha indirizzato a fare un po’ di ricerche. In un attacco alla riforma sanitaria di Obama, egli ha ironizzato sulla Amministrazione per il merito che si attribuisce di una espansione di Medicaid:
“In che modo molte persone stanno accreditando quello su Medicaid come un trionfo? Medicaid è un programma assistenziale. Se questa fosse stata una economia ben funzionante con buoni posti di lavoro, le iscrizioni a Medicaid si starebbero riducendo e gli americani starebbero diventando auto sufficienti.”
Lasciamo da parte la domanda se i teorici dell’economia dal lato dell’offerta sappiano sul serio qualcosa su come raggiungere la prosperità; anche quando la prosperità arriva per davvero, o almeno quando loro possono sostenere che è arrivata, come questo fatto influenza l’assicurazione sanitaria? In particolare, quale fu l’evoluzione delle iscrizioni assicurative durante il regno di San Reagan?
I normali dati del censimento non arrivano così lontano, ma il Centro per il Controllo delle Malattie e per la Prevenzione ha fatto stime per la popolazione al di sotto dei 65 anni. Come potete vedere dalla tabella, il periodo di “Buongiorno America” [2] non fece niente per incoraggiare l’assicurazione – di fatto, la quota degli americani con una copertura privata ebbe un calo, e poiché Medicaid non crebbe, il tasso complessivo dei non assicurati si elevò dal 12 per cento nel 1980 al 15,6 per cento del 1989.
In altre parole, non c’è niente nelle prestazioni economiche – neppure nelle prestazioni del grande eroe dei conservatori – che indica che non si può crescere per la propria strada con una copertura sanitaria universalistica.
[1] Giornalista del Wall Street Journal e scrittore su temi economici, di orientamento nettamente conservatore.
[2] È il titolo di una trasmissione radiofonica di Reagan che ebbe molto successo, al punto da essere spesso usato per indicare il periodo reaganiano.
luglio 1, 2015
July 1, 2015 4:38 pm
Greece isn’t the only debt crisis boiling over right now; there’s also Puerto Rico, which I was aware was brewing but wasn’t tracking carefully. I’ll probably have a fair bit to say about the PR crisis once I get back from my current trip, but meanwhile a few notes.
Clearly, Puerto Rico’s troubles run much deeper than government debt, and there has been a lot of discussion about its underlying economic weakness. However, not much of the discussion seems to ask what seems to me to be an obvious question: what, exactly, should an economy in Puerto Rico’s position be doing?
Puerto Rico does, of course, have warm winters and beaches. But so do a number of places, and it’s a much bigger and more populous place than its neighbors – with a much smaller ratio of coastline to area or population – and is hence not as well-placed to have a tourism-centered economy. Indeed, it has historically grown largely as a center for manufacturing, especially in pharma, encouraged by special tax breaks.
But why manufacture there? There are various ways to develop a competitive advantage in manufacturing. You can have a unique skill base, like much of Germany; you can have very low wages, like a number of emerging Asian economies; or you can have a logistical advantage due to being close to major markets, like a fair bit of what remains of US manufacturing or, these days, the export belt in northern Mexico.
Puerto Rico, however, has none of these. It doesn’t have a special skill complex. Its wages are low by mainland standards, but not that low (and as I’ll argue in a moment, can’t go that low). And while it’s close to the mainland as the crow flies, it’s fairly slow and expensive to ship things in and out. In a fundamental sense, it’s not that easy to see why there should be a sizable economy on that island in that location.
Now, you might argue that this is just an argument for big wage cuts. But Puerto Rico is part of the United States, and its residents are US citizens. This tends to put a floor under wages, in several ways. The New York Fed [http://www.newyorkfed.org/outreach-and-education/puerto-rico/2014/report-main.html] emphasizes the effects of the federal minimum wage and relatively generous federal safety-net programs (given low productivity) that may cause people to choose exit from the work force in the face of low wages. But even without that, the relative ease of emigration would tend to support wages.
Put it this way: if a region of the United States turns out to be a relatively bad location for production, we don’t expect the population to maintain itself by competing via ultra-low wages; we expect working-age residents to leave for more favorable places. That’s what you see in poor mainland states like West Virginia, which actually looks a fair bit like Puerto Rico in terms of low labor force participation, albeit not quite so much so. (Mississippi and Alabama also have low participation.)
And outmigration need not be such a terrible thing. There is much discussion of what’s wrong with Puerto Rico, but maybe we should, at least some of the time, just think of Puerto Rico as an ordinary region of the U.S.; at any given time, we expect some regions to be in relative and maybe even absolute decline, as the winds of technology and global trade shift. I wonder, in particular, whether Puerto Rico is suffering from the forces that seem to be leading to a general shortening of logistical chains and the “reshoring” of manufacturing to advanced economies.
Now, this can lead to problems of governance. Puerto Rico benefits a lot from federal programs, but it does have to pay for a lot of stuff itself, and emigration of workers undermines revenue while leaving many of the costs of serving the remaining population, notably the elderly, unchanged.
But I’d argue for paying a lot of attention to the non-specific forces affecting the island, and in particular the economic geography side. Puerto Rico may to an important extent just suffer from being a slightly hard to reach island in a time when corporations place a high premium on easy, just-in-time shipments.
Note geografiche su Porto Rico
La Grecia non è l’unica crisi da debito in ebollizione in questo momento; c’è anche Porto Rico [1], che ero consapevole fosse in affanno ma non stavo seguendo con attenzione. Probabilmente avrò un bel po’ da dire sulla crisi di Porto Rico una volta che farò ritorno dalla mia attuale escursione, ma intanto poche annotazioni.
Chiaramente, i guai di Porto Rico sono assai più profondi del solo debito pubblico, e c’è stato molto dibattito sulla sua debolezza economica di base. Tuttavia, non molto di quel dibattito sembra riguardare quella che a me sembra la domanda naturale: che cosa dovrebbe fare esattamente una economia nella posizione di Porto Rico?
Porto Rico, naturalmente, ha spiagge ed inverni caldi. Ma è lo stesso per un certo numero di località, ed essa è un luogo molto più grande e più popoloso dei suoi vicini – con una percentuale molto più piccola della linea di costa rispetto alla sua superfice ed alla popolazione – e di conseguenza non è particolarmente adatta per avere un’economia centrata sul turismo. In effetti, storicamente in gran parte è cresciuta come un centro manifatturiero, in particolare nel settore farmaceutico, incoraggiato da speciali esenzioni fiscali.
Ma perché un’industria manifatturiera in quel posto? Ci sono molti modi per sviluppare un vantaggio competitivo nel settore manifatturiero. Si può avere una base di competenze professionali unica, che è in gran parte il caso della Germania: si possono avere bassi salari, come un gran numero di economie emergenti asiatiche; oppure si può avere un vantaggio logistico derivante dall’essere vicini a mercati importanti, come in una certa misura per quello che resta del settore manifatturiero degli Stati Uniti o, di questi tempi, per l’area dell’export del Messico Settentrionale.
Porto Rico, tuttavia, non è nessuno di questi casi. Non ha una particolare attrezzatura di competenze professionali. I suoi salari sono bassi per gli standard della terraferma, ma non così bassi (e come dirò tra un attimo, neanche possono andare così in basso). E mentre in linea d’aria è vicina al continente, la spedizione degli oggetti da e per l’isola è abbastanza lento e costoso. In un senso sostanziale, non è affatto semplice capire perché dovrebbe esserci un’economia ragguardevole in quell’isola e con quella ubicazione.
Ora, si potrebbe sostenere che questo sia proprio un argomento per grandi tagli salariali. Ma Porto Rico è parte degli Stati Uniti ed i suoi residenti sono cittadini americani. Per questo, in molti modi, si determina come un livello minimo per i salari. La Fed di New York [2] pone l’accento sul salario minimo federale e sui programmi federali della sicurezza sociale relativamente generosi (data la bassa produttività), che possono indurre le persone ad uscire dalla forza lavoro a fronte di bassi salari. Ma anche senza di ciò, la relativa semplicità dell’emigrazione tenderebbe a sostenere i salari.
Mettiamola così: se si scoprisse che una regione degli Stati Uniti ha una ubicazione relativamente negativa per la produzione, non ci si aspetterebbe che la popolazione si mantenga attraverso una competizione con salari molto bassi; ci si aspetterebbe che i residenti in età lavorativa se ne andassero in località più favorevoli. È quello che si osserva negli stati poveri del continente come il West Virginia, che effettivamente assomiglia un po’ a Porto Rico in termini di bassa intensità della forza lavoro, sebbene non così tanto (anche il Mississippi e l’Alabama hanno una bassa intensità).
E non c’è bisogno che l’emigrazione sembri una cosa così terribile. C’è molto dibattito su quello che non funziona a Porto Rico, ma forse dovremmo , almeno per un po’, semplicemente pensare a Porto Rico come ad una regione degli Stati Uniti; in ogni epoca data, ci si aspetta che molte regioni siano in declino relativo e magari anche assoluto, al cambiare dei venti delle tecnologie e del commercio globale. Mi chiedo in particolare se Porto Rico non stia soffrendo per i fattori che sembrano guidare verso un generale raccorciamento delle catene della logistica e verso la “rilocalizzazione” del manifatturiero nelle economie avanzate.
Ora, questo può portare a problemi nel governo, Porto Rico trae molti benefici dai programmi federali, ma ha necessità di pagare di tasca propria per molte cose, e l’emigrazione dei lavoratori mette a repentaglio le entrate nel mentre lascia immutati molti dei costi dei servizi per la popolazione rimanente, in particolare per quella più anziana.
Eppure, io direi di prestare un po’ di attenzione ai fattori che non influenzano in modo specifico l’isola, e in particolare all’aspetto della geografia economica. In buona misura Porto Rico potrebbe proprio soffrire per una certa difficoltà a raggiungere l’isola in un’epoca nella quale le grandi società stabiliscono premi elevati alle spedizioni facili e in simultanea.
[1] Porto Rico è la più piccola isola delle Grandi Antille, situata tra la Repubblica Dominicana – che a sua volta è limitrofa a Cuba – e le Isole Vergini. Giuridicamente è un “territorio non incorporato” negli Stati Uniti, il che significa che ha stabilito con un referendum di confederarsi agli USA, ma ancora con una procedura che non ne fa il 51° Stato americano. Nel 2004 la popolazione di Porto Rico era di 3 milioni e 920 mila abitanti (sicuramente adesso avrà superato i 4 milioni); mentre i portoricani emigrati negli Stati Uniti erano 4 milioni e 300 mila. Dunque, una popolazione residente che è un po’ meno della metà della Grecia.
[2] [http://www.newyorkfed.org/outreach-and-education/puerto-rico/2014/report-main.html]
giugno 29, 2015
Jun 29 7:10 am
Barry Eichengreen asks himself why his influential analysis, suggesting that the euro was irreversible now appears wrong. Surely in a direct, mechanical sense what we’re seeing is the process I warned about five years ago:
Think of it this way: the Greek government cannot announce a policy of leaving the euro — and I’m sure it has no intention of doing that. But at this point it’s all too easy to imagine a default on debt, triggering a crisis of confidence, which forces the government to impose a banking holiday — and at that point the logic of hanging on to the common currency come hell or high water becomes a lot less compelling.
But doesn’t the ultimate cause lie in wild irresponsibility on the part of the Greek government? I’ve been looking back at the numbers, readily available from the IMF, and what strikes me is how relatively mild Greek fiscal problems looked on the eve of crisis.
In 2007, Greece had public debt of slightly more than 100 percent of GDP — high, but not out of line with levels that many countries including, for example, the UK have carried for decades and even generations at a stretch. It had a budget deficit of about 7 percent of GDP. If we think that normal times involve 2 percent growth and 2 percent inflation, a deficit of 4 percent of GDP would be consistent with a stable debt/GDP ratio; so the fiscal gap was around 3 points, not trivial but hardly something that should have been impossible to close.
Now, the IMF says that the structural deficit was much larger — but this reflects its estimate that the Greek economy was operating 10 percent above capacity, which I don’t believe for a minute. (The problem here is the way standard methods for estimating potential output cause any large slump to propagate back into a reinterpretation of history, interpreting the past as an unsustainable boom.)
So yes, Greece was overspending, but not by all that much. It was over indebted, but again not by all that much. How did this turn into a catastrophe that among other things saw debt soar to 170 percent of GDP despite savage austerity?
The euro straitjacket, plus inadequately expansionary monetary policy within the eurozone, are the obvious culprits. But that, surely, is the deep question here. If Europe as currently organized can turn medium-sized fiscal failings into this kind of nightmare, the system is fundamentally unworkable.
La terribile gratuità della crisi greca
Barry Eichegreen si chiede perché la sua persuasiva analisi, che mostrava come l’euro fosse irreversibile, oggi appaia sbagliata [1]. Di certo, quello che stiamo osservando, in un senso diretto e meccanicistico, è il processo per il quale avevo messo in guardia cinque anni orsono:
“Lo si consideri in questo modo: il Governo greco non può annunciare una politica di abbandono dell’euro – e sono sicuro che non ha intenzione di farlo. Ma a questo punto è anche troppo facile immaginare un default sul debito, che innesca una crisi di fiducia, che costringe il Governo ad imporre un periodo di sospensione alle banche – e a quel punto la logica dell’aggrapparsi alla valuta comune qualunque cosa accada diventa un bel po’ meno impellente.”
Ma la causa definitiva non risiede nella incontenibile irresponsabilità del Governo greco? Sono tornato ad osservare i dati, resi prontamente disponibili da parte del FMI, e quello che mi sorprende è quanto i problemi della finanza pubblica greca apparissero relativamente modesti all’epoca della crisi.
Nel 2007 la Grecia aveva un debito pubblico leggermente superiore al 100 per cento del PIL – elevato, ma non fuori dai livelli che molti paesi, incluso il Regno Unito, avevano sostenuto per decenni e persino per la durata di intere generazioni. Essa aveva un deficit di bilancio di circa il 7 per cento del PIL. Se pensiamo che in periodi normali si suppone una crescita del 2 per cento ed una inflazione del 2 per cento, un deficit del 4 per cento sarebbe coerente con un rapporto debito/PIL stabile; dunque il differenziale di finanza pubblica era di circa 3 punti, non banale, ma difficilmente considerabile come qualcosa che sarebbe stato impossibile colmare.
Ora, il FMI dice che il deficit strutturale era molto più ampio – ma questo riflette la stima secondo la quale l’economia greca stava operando il 10 per cento al di sopra della sua capacità produttiva, la qualcosa non mi convince per niente (in questo caso il problema è il modo in cui i metodi standard della stima della produzione potenziale fanno in modo che ogni ampia recessione si propaghi all’indietro sino ad una reinterpretazione della storia, facendo diventare il passato un boom insostenibile).
Dunque, è vero, la Grecia aveva una spesa eccessiva, ma non poi così tanto. Era sovra indebitata, ma ancora non così esageratamente. In che modo questo si è trasformato in una catastrofe che, tra le altre cose, ha vista il debito schizzare al 170 per cento del PIL nonostante una austerità selvaggia?
È chiaro che i responsabili sono la camicia di forza dell’euro, e in aggiunta una politica monetaria inadeguatamente espansiva all’interno dell’eurozona. Ma è proprio quella la domanda sostanziale, in questo caso. Se l’Europa per come è attualmente organizzata può trasformare difetti nella finanza pubblica di medie dimensioni in incubi di questo genere, fondamentalmente è il sistema che non può funzionare.
[1] Si tratta di una intervista di Eichengreen a “The Conversation”.
giugno 28, 2015
Jun 28 5:37 pm
OK, this is real: Greek banks closed, capital controls imposed. Grexit isn’t a hard stretch from here — the much feared mother of all bank runs has already happened, which means that the cost-benefit analysis starting from here is much more favorable to euro exit than it ever was before.
Clearly, though, some decisions now have to wait on the referendum.
I would vote no, for two reasons. First, much as the prospect of euro exit frightens everyone — me included — the troika is now effectively demanding that the policy regime of the past five years be continued indefinitely. Where is the hope in that? Maybe, just maybe, the willingness to leave will inspire a rethink, although probably not. But even so, devaluation couldn’t create that much more chaos than already exists, and would pave the way for eventual recovery, just as it has in many other times and places. Greece is not that different.
Second, the political implications of a yes vote would be deeply troubling. The troika clearly did a reverse Corleone — they made Tsipras an offer he can’t accept, and presumably did this knowingly. So the ultimatum was, in effect, a move to replace the Greek government. And even if you don’t like Syriza, that has to be disturbing for anyone who believes in European ideals.
A strange logistical note: I’m on semi-vacation this week, doing a bicycle trip in an undisclosed location. It’s only a semi-vacation because I didn’t negotiate any days off the column; I’ll be in tomorrow’s paper (hmm, I wonder what the subject is) and have worked the logistics so as to make Friday’s column doable too. I was planning to do little if any blogging, and will in any case do less than I might have otherwise given the events.
(G)risis
Eccoci, è proprio così: le banche greche sono state chiuse, sono stati imposti i controlli dei capitali. L’uscita della Grecia dall’euro non è così inimmaginabile – la più temuta madre di tutti gli assalti agli sportelli bancari è già successa, il che significa che una analisi costi benefici a partire da adesso è molto più favorevole all’uscita dall’euro di quanto non fosse in precedenza.
Per quanto, chiaramente, adesso alcune decisioni devono aspettare il referendum.
Io voterei no, per due ragioni. La prima, per quanto la prospettiva dell’uscita dall’euro faccia paura a tutti – incluso il sottoscritto – la troika sta ora chiedendo che il regime politico dei cinque anni passati prosegua indefinitamente. Quale speranza c’è in questo? Forse, solo forse, la disponibilità a lasciare l’euro consiglierà un ripensamento, sebbene non sia probabile. Ma anche così, la svalutazione non creerebbe molto maggiore caos di quello che già esiste, e preparerebbe la strada ad una ripresa, proprio come in molti altri posti ed in altre epoche. La Grecia non è poi così diversa.
La seconda: le implicazioni politiche di una vittoria dei sì sarebbero del tutto problematiche. La troika evidentemente ha fatto il contrario di Corleone [1] – hanno fatto a Tsipras un’offerta che non può accettare, e presumibilmente l’hanno fatta sapendolo. Dunque, in sostanza l’ultimatum è stato una mossa per sostituire il Governo greco. Ed anche se non vi piace Syriza, questo dovrebbe essere fastidioso per chiunque creda negli ideali europei.
Una inconsueta annotazione logistica: questa settimana sono in una mezza vacanza, in una escursione ciclistica in una località segreta. Si tratta solo di una mezza vacanza, perché non avevo concordato alcun giorno libero dagli articoli; sarò sul giornale di domani (e mi immagino su quale tema) ed ho organizzato i miei piani in modo da rendere fattibile anche l’articolo di venerdì. Avevo previsto di scrivere poco sul blog, se fosse stato il caso, e dati gli eventi lo farò comunque meno di quanto avrei potuto fare altrimenti.
[1] La famosa espressione “fategli un’offerta che non possa rifiutare” è forse diventata la frase più nota del film (e del libro) Il Padrino, di Mario Puzo. In questo caso, viene fatta un’offerta che non può che essere rifiutata.
giugno 27, 2015
Jun 27 4:13 pm
Until now, every warning about an imminent breakup of the euro has proved wrong. Governments, whatever they said during the election, give in to the demands of the troika; meanwhile, the ECB steps in to calm the markets. This process has held the currency together, but it has also perpetuated deeply destructive austerity — don’t let a few quarters of modest growth in some debtors obscure the immense cost of five years of mass unemployment.
As a political matter, the big losers from this process have been the parties of the center-left, whose acquiescence in harsh austerity — and hence abandonment of whatever they supposedly stood for — does them far more damage than similar policies do to the center-right.
It seems to me that the troika — I think it’s time to stop the pretense that anything changed, and go back to the old name — expected, or at least hoped, that Greece would be a repeat of this story. Either Tsipras would do the usual thing, abandoning much of his coalition and probably being forced into alliance with the center-right, or the Syriza government would fall. And it might yet happen.
But at least as of right now Tsipras seems unwilling to fall on his sword. Instead, faced with a troika ultimatum, he has scheduled a referendum on whether to accept. This is leading to much hand-wringing and declarations that he’s being irresponsible, but he is, in fact, doing the right thing, for two reasons.
First, if it wins the referendum, the Greek government will be empowered by democratic legitimacy, which still, I think, matters in Europe. (And if it doesn’t, we need to know that, too.)
Second, until now Syriza has been in an awkward place politically, with voters both furious at ever-greater demands for austerity and unwilling to leave the euro. It has always been hard to see how these desires could be reconciled; it’s even harder now. The referendum will, in effect, ask voters to choose their priority, and give Tsipras a mandate to do what he must if the troika pushes it all the way.
If you ask me, it has been an act of monstrous folly on the part of the creditor governments and institutions to push it to this point. But they have, and I can’t at all blame Tsipras for turning to the voters, instead of turning on them.
Il momento della verità dell’Europa
Sino ad ora, ogni messa in guardia su una imminente rottura dell’euro si è mostrata sbagliata. I Governi, qualsiasi cosa dicessero durante le elezioni, si arrendevano alle richieste della troika; nel frattempo, la BCE interveniva per calmare i mercati. Questo processo ha preservato la valuta comune, ma ha anche perpetuato una austerità profondamente distruttiva – pochi trimestri di modesta crescita in alcuni paesi debitori non dovrebbero oscurare il costo immenso di cinque anni di disoccupazione di massa.
Da un punto di vista politico, i grandi perdenti in questo processo sono stati i partiti di centro sinistra, la cui acquiescenza alla dura austerità – e di conseguenza l’abbandono di tutto quello che si pensava rappresentassero – fa ad essi un danno maggiore di quanto politiche simili non facciano al centro destra.
A me sembra che la troika – penso che sia il momento di smettere di fingere che qualcosa sia cambiato e di tornare al vecchio nome – si aspettasse, o almeno sperasse, che la Grecia avrebbe ripercorso questa storia. Sia che Tsipras si comportasse nel modo solito, perdendo gran parte della sua coalizione e magari essendo costretto ad una alleanza con il centro destra, sia che il Governo di Syriza cadesse. Il che potrebbe ancora succedere.
Ma, almeno a questo punto, Tsipras sembra indisponibile a darsi la zappa sui piedi. Di fronte all’ultimatum della troika, ha scelto invece di ricorrere ad un referendum che stabilisca se accettarlo. Questo sta portando a molte congetture e dichiarazioni secondo le quali si starebbe comportando in modo irresponsabile, ma, di fatto, sta facendo la cosa giusta, per due ragioni.
La prima, se vince il referendum il Governo greco sarà rafforzato dalla legittimazione popolare; la qualcosa, suppongo, in Europa abbia un peso (se non ce l’ha, sarebbe comunque bene saperlo).
In secondo luogo, sino a questo punto Syriza si è trovata in una posizione politica difficile, con gli elettori che erano al tempo stesso furiosi per le richieste sempre maggiori di austerità e non desiderosi di lasciare l’euro. È sempre stato difficile comprendere come questi desideri potessero essere conciliati; ora è più difficile che mai. In sostanza, il referendum chiederà agli elettori di stabilire la loro priorità, e darà a Tsipras un mandato per fare quello che deve fare se la troika spinge la situazione sino in fondo.
Se volete la mia opinione, è stato un atto di mostruosa follia da parte dei Governi dei creditori e delle istituzioni spingere la situazione sino a questo punto. Ma è quello che hanno fatto, e non posso affatto dare la colpa a Tsipras se si rivolge agli elettori, anziché mettersi contro di loro.
giugno 26, 2015
Jun 26 12:07 pm
Last fall I wrote a longish article for Rolling Stone arguing that Obama will, in the end, be judged pretty well by history:
Despite bitter opposition, despite having come close to self-inflicted disaster, Obama has emerged as one of the most consequential and, yes, successful presidents in American history. His health reform is imperfect but still a huge step forward – and it’s working better than anyone expected. Financial reform fell far short of what should have happened, but it’s much more effective than you’d think. Economic management has been half-crippled by Republican obstruction, but has nonetheless been much better than in other advanced countries. And environmental policy is starting to look like it could be a major legacy.
This was, at the time, very much at odds with the preferred pundit narrative, according to which Obama was teetering on the edge of a failed presidency, under which his decision to pursue health reform was a big mistake, etc etc. But suddenly it seems as if conventional wisdom is coming around.
Eredità
Lo scorso autunno scrissi un lungo articolo per la rivista Rolling Stone sostenendo che Obama, alla fine, sarebbe stato giudicato abbastanza bene dalla storia:
“Nonostante una opposizione aspra, nonostante essere arrivato vicino ad un disastro auto provocato, Obama è emerso come uno dei Presidenti più significativi e, diciamo pure, di successo della storia americana. La sua riforma sanitaria è imperfetta ma è pure un grande passo in avanti – e sta funzionando meglio di quanto tutti si aspettassero. La riforma del sistema finanziario non è stata all’altezza di quanto sarebbe stato necessario, ma è molto più efficace di quello che si pensi. La gestione dell’economia è stata per metà compromessa dall’ostruzionismo repubblicano, nondimeno è stata assai migliore che in altri paesi avanzati. E la politica dell’ambiente sta cominciando a somigliare a quella che potrebbe essere una eredità importante.”
In quel momento, questo era agli antipodi dei racconti preferiti dai commentatori, secondo i quali Obama stava vacillando sul margine di una presidenza fallita, nella quale la sua decisione di perseguire la riforma sanitaria era stata un grande errore etc. etc. Ma all’improvviso pare che quel senso comune sia oggetto di un ripensamento [1].
[1] Il riferimento è ad un articolo su VOX, che prende lo spunto dalla decisione dello scorso giovedì da parte della Corte Suprema per definire appunto la Presidenza di Obama come una delle più significative.
giugno 25, 2015
Jun 25 7:22 am
I’ve been staying fairly quiet on Greece, not wanting to shout Grexit in a crowded theater. But given reports from the negotiations in Brussels, something must be said — namely, what do the creditors, and in particular the IMF, think they’re doing?
This ought to be a negotiation about targets for the primary surplus, and then about debt relief that heads off endless future crises. And the Greek government has agreed to what are actually fairly high surplus targets, especially given the fact that the budget would be in huge primary surplus if the economy weren’t so depressed. But the creditors keep rejecting Greek proposals on the grounds that they rely too much on taxes and not enough on spending cuts. So we’re still in the business of dictating domestic policy.
The supposed reason for the rejection of a tax-based response is that it will hurt growth. The obvious response is, are you kidding us? The people who utterly failed to see the damage austerity would do — see the chart, which compares the projections in the 2010 standby agreement with reality — are now lecturing others on growth? Furthermore, the growth concerns are all supply-side, in an economy surely operating at least 20 percent below capacity.
Talk to IMF people and they will go on about the impossibility of dealing with Syriza, their annoyance at the grandstanding, and so on. But we’re not in high school here. And right now it’s the creditors, much more than the Greeks, who keep moving the goalposts. So what is happening? Is the goal to break Syriza? Is it to force Greece into a presumably disastrous default, to encourage the others?
At this point it’s time to stop talking about “Graccident”; if Grexit happens it will be because the creditors, or at least the IMF, wanted it to happen.
Sfasciare la Grecia
Me ne sono stato abbastanza quieto sulla Grecia, non volevo mettermi ad urlare sull’uscita della Grecia come in un comizio. Ma, dati i resoconti sui negoziati in Bruxelles, si deve pur dire qualcosa – precisamente, cosa credono di fare i creditori, in particolare il FMI?
Questo dovrebbe essere un negoziato sugli obbiettivi del surplus primario, e poi su una attenuazione del debito che impedisca infinite crisi future. E il Governo greco ha concordato su obbiettivi del surplus abbastanza elevati, in particolare considerato il fatto che il bilancio avrebbe un elevato avanzo primario se l’economia non fosse così depressa. Ma i creditori continuano a respingere le proposte greche sulla base del fatto che esse si fondano troppo sulle tasse e non abbastanza sui tagli alla spesa. Siamo dunque ancora in piena imposizione della politica nazionale.
La ragione supposta per questo rifiuto di una risposta basata sulle tasse è che essa danneggerà la crescita. La risposta ovvia è: ci prendete in giro? Le persone che hanno sbagliato tutto nel non vedere il danno che l’austerità avrebbe provocato – si veda la tabella, che confronta le previsioni dell’accordo di emergenza del 2010 con la realtà – stanno ora facendo lezioni agli altri sulla crescita? Inoltre, le preoccupazioni sulla crescita sono tutte sul lato dell’offerta, in un’economia che sicuramente opera almeno al 20 per cento al di sotto delle sue potenzialità.
Se si parla con persone del FMI, esse continuano a ragionare della impossibilità di fare accordi con Syriza, del loro fastidio per l’enfasi da tribuni, e così via. Ma qua non siamo ad una scuola superiore. E a questo punto sono i creditori, molto di più che non i greci, che continuano a spostare gli obbiettivi. Dunque, cosa sta succedendo? L’obbiettivo è colpire Syriza? È costringere la Grecia ad un default disastroso, per spronare gli altri?
È il momento di smetterla di parlare di ‘incidente greco’: se succede che la Grecia esce dall’euro sarà dipeso dal fatto che i creditori, o almeno il FMI, volevano che accadesse.
giugno 24, 2015
Jun 24 4:59 pm
I guess people with strong political preferences have always had a hard time accepting facts that are at odds with those prejudices; but I do also think that it has gotten worse in modern America thanks to the closed information loop of movement conservatism and the incestuous amplification it brings. You see it in things like the rise of inflation trutherism; you also see it in the inability of many on the right to accept the reality that Obamacare really has covered a lot of previously uninsured Americans.
Anyway, the latest line I’ve been hearing is that the decline in uninsurance isn’t really about the ACA, it’s just the improving economy. Now, the same people who say such things tend to deny that the economy is really improving, too — Obamacare was supposed to be a job killer, so it must be killing jobs. But never mind. What about claims that the improving economy is the real story?
The answer is in two parts. First, the decline in the number of uninsured is too steep, too perfectly timed with the coming of the ACA to make sense in such terms. Uninsurance was rising until late 2013, despite a recovering economy, then suddenly fell off a cliff just as the ACA went into full effect. Not a coincidence.
Second, we are now at a point where a much smaller fraction of Americans are uninsured than we’ve seen in a long time, maybe ever. Even in 2000, with unemployment very low and health costs relatively moderate, Census data show that around 16 percent of Americans aged 18 to 64 were uninsured; meanwhile, the HRMS data, which are consistent with multiple other sources, show uninsurance among that group at about 10 percent, and just 7.5 percent in Medicaid expansion states.
I know this program was supposed to be a dismal failure. But, you know, it isn’t.
La persistenza del negazionismo sulla riforma della assistenza sanitaria
Suppongo che le persone con preferenze politiche pronunciate abbiano sempre avuto difficoltà ad accettare i fatti che sono in contrasto con i loro pregiudizi; ma penso per davvero che questo aspetto sia peggiorato nell’America odierna, grazie al circuito chiuso dell’informazione nel movimento conservatore ed alla ‘amplificazione incestuosa’ [1] che esso comporta. Lo constatate in cose come la crescita dei dogmi sull’inflazione; lo vedete anche nell’incapacità di molte persone a destra ad accettare la realtà, secondo la quale la riforma sanitaria di Obama realmente ha portato alle assistenza di molti americani in precedenza non assicurati.
In ogni modo, l’ultima posizione che ho ascoltato è che il declino dei non assicurati non dipende in realtà dalla Legge sulla Assistenza Sostenibile, bensì dal miglioramento dell’economia. Ora, le stesse persone che affermano queste cose tendono anche a negare che l’economia stia realmente migliorando – si supponeva che la riforma sanitaria di Obama portasse alla liquidazione di posti di lavoro, dunque così deve essere. Ma lasciamo perdere. Cosa dire degli argomenti secondo i quali il miglioramento dell’economia sarebbe la spiegazione vera?
La risposta si compone di due parti. La prima, il declino nel numero dei non assicurati è troppo ripido, troppo perfettamente in sincronia con l’arrivo della legge di riforma, perché quegli argomenti abbiano senso. I non assicurati stavano crescendo sino alla fine del 2013, nonostante la ripresa dell’economia, poi all’improvviso c’è stata una brusca caduta proprio nel momento in cui la riforma sanitaria è entrata in funzione. Non è una coincidenza.
La seconda: siamo oggi ad un punto nel quale la frazione degli americani non assicurati è più bassa di quello che non vedevamo da lungo tempo, forse da sempre. Persino nel 2000, con una disoccupazione molto bassa e costi sanitari relativamente moderati, il 16 per cento degli americani tra i 18 ed i 64 anni erano non assicurati; nel frattempo, i dati HRMS, mostrano che in quel gruppo i non assicurati sono circa il 10 per cento, e solo il 7,5 per cento negli Stati che hanno accolto l’espansione di Medicaid.
Lo so, si pensava che questo programma fosse un penoso fallimento. Eppure, sapete, non è così.
[1] È una espressione che pare sia nata in ambienti militari americani, ed indica quel fenomeno per il quale in ambienti caratterizzati da una obbligata opinione dominante (come un esercito in guerra), il consenso attorno a singole tesi si amplifica, diciamo così, per la ‘consanguineità’ dell’ambiente nel quale vengono trasmesse. È rilevante che l’espressione sia nata in ambienti militari all’epoca della guerra in Iraq, quando – soprattutto agli inizi – pie illusioni circolavano come dogmi di fede. Che il fenomeno sia stata definito ‘incestuoso’, non pare invece molto brillante.
giugno 24, 2015
Jun 24 10:34 am
As we wait for King v Burwell – just how far are Republicans on the court willing to destroy the institution’s reputation on behalf of their party? – one question I found myself wondering about was how much of its original goal Obamacare has achieved. We know that the number of uninsured has dropped sharply; we also know that there are still a lot of uninsured. So how are we doing?
There are three issues that, I find, most reporting on the program’s progress tend to ignore. The first is that the ACA was never intended to cover everyone – undocumented immigrants aren’t eligible, yet account for several percent of the population. Second, because signup isn’t automatic, there will always be some leakage, some eligible people who fall through the cracks. Finally, of course, a large number of states are refusing to expand Medicaid and in general trying to obstruct the law.
So it seems to me that to evaluate the program we should (a) look at states that have implemented the law as it was intended to work and (b) compare with a realistic benchmark. For the latter, I’d suggest Massachusetts, where Romneycare has been in operation for almost a decade – and which still has 5 percent of adults age 18-64 uninsured, probably about half undocumented immigrants and half eligible residents falling through the cracks.
How is Obamacare doing relative to that benchmark in its second year of operation? The answer is, pretty well. In Medicare expansion states, it’s already around 80 percent of the way there:
And notice that this been achieved while the deficit has been shrinking and we’ve been having the best job growth since the 1990s. Folks, this program works; not perfectly, but every single claim by its opponents — it won’t reduce the number of uninsured, it will cause soaring rates, it will explode the deficit, it will kill jobs — has been proved false.
Con la riforma sanitaria di Obama, gran parte del percorso è stata fatta
Nel mentre attendiamo l’esito della causa King contro Burwell [1] – quanto sono semplicemente distanti i repubblicani della Corte suprema che vogliono distruggere la reputazione dell’istituzione nell’interesse del loro partito? – mi sono ritrovato a pormi la domanda di quanto del suo obbiettivo originale è stato realizzato con la legge di riforma sanitaria di Obama. Sappiamo che il numero dei non assicurati è calato drasticamente; sappiamo anche che ci sono ancora molti non assicurati. Dunque, a che punto siamo?
Scopro che ci sono tre temi che gran parte dei resoconti sui progressi del programma tendono ad ignorare. Il primo è che la Legge sulla Assistenza Sostenibile non ha mai avuto lo scopo di assicurare tutti – gli immigrati privi di documenti non ne hanno titolo, eppure realizzano una discreta percentuale della popolazione. Il secondo, dato che l’iscrizione non è automatica, è che sempre ci saranno sempre alcune perdite, alcune persone che hanno titolo e che scompaiono nelle pieghe della procedura. Infine, ovviamente, quello per il quale un gran numero di Stati stanno rifiutando l’ampiamento di Medicaid ed in generale stanno facendo ostruzionismo alla legge.
Dunque, mi pare che per valutare il programma dovremmo: a) guardare agli Stati che hanno messo in atto la legge nei termini nei quali si prevedeva che funzionasse; b) confrontarli con un riferimento realistico. Per l’ultimo aspetto, suggerirei il caso del Massachusetts, dove la riforma della assistenza di Romney [2] è stata in funzione per quasi un decennio – e che ha ancora un 5 per cento di adulti tra i 18 ed i 64 anni non assicurati, circa la metà dei quali probabilmente immigrati sprovvisti di documenti e l’altra metà di residenti aventi titolo scomparsi nelle pieghe.
Come sta operando la riforma sanitaria di Obama in relazione a quel riferimento, nel suo secondo anno di operatività? La risposta è, abbastanza bene. Negli Stati che hanno consentito l’espansione di Medicaid [3] , siamo già quasi all’80 per cento del percorso:
E si noti che tutto questo è stato ottenuto nel mentre il deficit è venuto riducendosi e stiamo avendo la crescita migliore di posti di lavoro dagli anni ’90. Signori, il programma funziona; non perfettamente, ma ogni singola pretesa dei suoi oppositori – non ridurrà il numero dei non assicurati, le polizze saliranno alle stelle, il deficit esploderà, farà perdere posti di lavoro – si è mostrata falsa.
[1] La Corte Suprema dovrà nei prossimi giorni decidere su una istanza legale che punta in pratica a far saltare la legge di riforma sanitaria. La causa è nota come King vs Burwell, e secondo i calcoli del Governo un pronunciamento negativo della Corte toglierebbe la assicurazione sanitaria ad oltre 6 milioni di americani. L’istanza si basa non su aspetti sostanziali della legge, ma su una formulazione imprecisa o inesatta, che pure rischia di portare ad una sua pratica liquidazione.
[2] Come si sa, Romney – il candidato repubblicano alle passate elezioni presidenziali – era stato in precedenza Governatore del Massachusetts, ed aveva fatto approvare una legislazione sanitaria abbastanza simile a quella approvata con Obama per tutti gli Stati Uniti. I repubblicani, e Romney, ‘risolsero’ questa evidente contraddizione (tra la loro assoluta contrarietà alla riforma di Obama e il fatto che il loro candidato ne avesse approvata una simile nel suo Stato) semplicemente non parlandone mai.
[3] Nel testo inglese mi pare ci sia un errore, il programma per il quale la Legge di riforma prevede una espansione è Medicaid, non Medicare.
[4] La tabella mostra l’andamento del livello dei ‘non assicurati’ negli Stati che hanno deciso l’espansione di Medicaid (in celeste, con una percentuale finale di non assicurati del 7,5%); in quelli che l’hanno bloccata (in nero, con una percentuale finale di non assicurati quasi doppia, del 14,4%); e infine in tutti gli Stati (in blu, con una percentuale del 10,1%).
Mi pare implicito che la tabella calcola i non assicurati sul totale della popolazione tra i 18 ed i 64 anni, compresi dunque coloro che sono sprovvisti dei documenti per aver titolo a godere dei suoi benefici. In pratica questi ‘non assicurati’ sono circa il 5 per cento nel Massachusetts – dove la legge ha operato per un decennio – e il 7,5% negli Stati che hanno messo interamente in funzione la riforma di Obama, dopo soli due anni di operatività. Per questo il post titola che la riforma sanitaria di Obama ha già realizzato buona parte del percorso.
giugno 23, 2015
Jun 23 10:02 am
Some years ago I facetiously suggested that we should invent a fake threat from space aliens as a way to break the destructive obsession with deficits and get the fiscal stimulus the economy needed. (It was actually an episode of The Outer Limits, not The Twilight Zone.) My suggestion was not followed up.
But something along the same lines is now going on in Texas. Texas is, of course, a Medicaid-rejection state, unwilling to accept billions of federal dollars to help its less fortunate. But money for a largely pointless border-protection project? Now you’re talking:
In Rio Grande City, named for the river that splits the U.S. from Mexico, footpaths cut from the brush by drug-smugglers and illegal immigrants have a new look, rehabbed into family-friendly hike-and-bike trails.
Now that the state has authorized $800 million to ratchet up security on the Mexico line, more troopers are on their way to deliver another shot to what might be the biggest stimulus program this needy part of Texas has ever seen.
It really is Keynes and burying bottles in coal mines: spending that actually helps people is unacceptable, but pure waste is OK.
I cowboy, gli alieni e le misure di sostegno
Alcuni anni fa scherzosamente suggerii che dovevamo inventarci una falsa minaccia spaziale degli alieni come un modo per interrompere l’ossessione distruttiva sui deficit e ottenere le misure di sostegno della spesa pubblica delle quali l’economia aveva bisogno (in verità era un episodio di The Outer Limits, non di The Twilight Zone [1]). Il mio suggerimento non venne seguito.
Ma adesso sta accadendo qualcosa dello stesso genere nel Texas. Il Texas, naturalmente, è tra gli Stati che respingono Medicaid, indisponibili ad accettare miliardi di dollari federali per aiutare i più bisognosi. Ma i soldi per il progetto, largamente senza scopo, di protezione dei confini? È di questo che ora si sta parlando:
“In Rio Grande City, che prende il nome dal fiume che separa gli Stati Uniti dal Messico [2], sentieri tolti alla boscaglia da trafficanti di droga e da immigrati illegali hanno un nuovo aspetto, sono stati adibiti a camminamenti buoni per escursioni familiari e gite in bicicletta.
Ora che lo Stato ha deciso di spendere 800 milioni di dollari per accrescere la sicurezza sul confine col Messico, un numero maggiore di poliziotti sono sul punto di portare a termine un altro colpo su quello che potrebbe essere il più grande programma di sostegno economico che questa parte bisognosa del Texas ha mai visto.”
Si tratta davvero del seppellimento di bottiglie nelle miniere di carbone di cui parlava Keynes [3]: la spesa che effettivamente aiuta la gente è inaccettabile, il puro spreco va bene.
[1] Sono due serie fantascientifiche americane.
[2] Nella foto, un poliziotto di pattugliamento sul Rio Grande.
[3] Keynes scrisse ironicamente, ma non del tutto, della possibilità – se proprio non venivano idee migliori – di rafforzare la domanda mettendo soldi dentro bottiglie e seppellendole in vecchie miniere, da dove chiunque avrebbe potuto toglierle per poi mettere i soldi in circolazione. Una soluzione simile al paradosso friedmaniano dei “soldi dall’elicottero”.
giugno 23, 2015
Jun 23 9:36 am
Harvard’s Maya Sen points me to a recent paper with Avidit Acharya and Matthew Blackwell, The Political Legacy of American Slavery. They show a strong relationship, at the county level, between the slave share of the population in 1860 and political attitudes today:
We show that contemporary differences in political attitudes across counties in the American South in part trace their origins to slavery’s prevalence more than 150 years ago. Whites who currently live in Southern counties that had high shares of slaves in 1860 are more likely to identify as a Republican, oppose af- firmative action, and express racial resentment and colder feelings toward blacks.
Remarkably, the slave share in 1860 is a better predictor of attitudes than the share of African-Americans in the population today. They attribute this surprising fact to what happened after the Civil War, when
Southern whites faced political and economic incentives to reinforce existing racist norms and institutions to maintain control over the newly free African-American population.
It seems relevant, then, to note that the “Confederate” flag we’re now focusing on was not, in fact, the flag of the Confederacy; it was a battle flag, but it became a standard emblem of the South thanks to its adoption by the Ku Klux Klan and other white supremacists.
Altro sull’ombra della schiavitù
Maya Sen di Harvard mi rinvia ad un recente suo studio, assieme a Avidit Acharya ed a Metthew Blackwell, L’eredità politica della schiavitù americana.
Essi mostrano una forte relazione, al livello delle contee, tra la parte di popolazione in schiavitù nel 1860 e le inclinazioni politiche odierne:
“Noi dimostriamo che le differenze odierne di orientamenti politici tra le contee nell’America Meridionale in parte traggono le loro origini dalla prevalenza della schiavitù più di 150 anni fa. I bianchi che attualmente vivono nelle contee meridionali che ebbero elevate quote di schiavi nel 1860 è più probabile che si identifichino come repubblicani, che si oppongano ad iniziative di contrasto alla discriminazione, e che esprimano risentimenti razziali e un atteggiamento di maggiore diffidenza nei confronti della popolazione di colore.”
In modo rilevante, la quota di schiavi nel 1860 è un migliore indicatore degli orientamenti che non la quota di afroamericani nella popolazione odierna. Gli autori attribuiscono questo fatto sorprendente a quello che accadde dopo la guerra civile, quando:
“I bianchi del Sud si rivolsero a incentivi economici e politici per rafforzare le norme razziste esistenti ed alle istituzioni perché mantenessero il controllo sulla popolazione afroamericana diventata libera.”
Appare dunque rilevante osservare che la bandiera “confederata” sulla quale stiamo portando la nostra attenzione di questi tempi [1], di fatto, non era la bandiera della Confederazione; era una bandiera di combattimento, che divenne però un emblema ordinario del Sud grazie alla sua adozione da parte del Ku Klux Klan e degli altri fautori della supremazia bianca.
[1] Mi pare una notazione rilevante. Dopo la vicenda di sangue di questi giorni con l’uccisione di nove persone di colore nella Chiesa Episcopale Metodista di Charleston, Carolina del Sud, si sono letti accenni al fatto che la bandiera ‘sudista’ viene normalmente utilizzata in molti luoghi pubblici negli Stati del Sud. Nella foto sotto, appunto, tale bandiera, sullo sfondo dell’edificio del Parlamento statale a Columbia, Carolina del Sud. Si scopre che tale bandiera venne, per così dire, ‘sdoganata’ dal Ku Klux Klan.
giugno 20, 2015
Jun 20 4:33 pm
So another atrocity has us talking about race again. And rightly so. Nothing about America makes sense without understanding the long shadow cast by the original sin of slavery.
And yes, it’s an integral part of the left-right divide. Look at “Why Doesn’t the United States Have a European-Style Welfare State?” by Alberto Alesina — yes, that Alesina — Ed Glaeser, and Bruce Sacerdote. The authors are hardly big lefties; nonetheless, they were driven to the conclusion that it’s mainly about you-know-what:
Racial discord plays a critical role in determining beliefs about the poor. Since racial minorities are highly overrepresented among the poorest Americans, any income-based redistribution measures will redistribute disproportionately to these minorities. Opponents of redistribution in the United States have regularly used race-based rhetoric to resist left-wing policies. Across countries, racial fragmentation is a powerful predictor of redistribution. Within the United States, race is the single most important predictor of support for welfare. America’s troubled race relations are clearly a major reason for the absence of an American welfare state.
To see what they’re talking about, and why their point remains so relevant, look at two maps. First, the implementation of the Affordable Care Act:
Second, this:
Quella questione che non scompare
Dunque, un’altra atrocità torna a parlarci della razza. Ed è giusto che sia così. Non si capisce niente dell’America se non si comprende la lunga ombra che venne stesa col peccato originale della schiavitù.
Ed è vero che essa è parte integrante della divisione tra la destra e la sinistra. Si legga “Perché gli Stati Uniti non hanno uno Stato assistenziale sul modello europeo”, di Alberto Alesina – sì, quell’Alesina – Ed Glaeser e Bruce Sacerdote [1]. A fatica gli autori potrebbero essere definiti di sinistra; tuttavia sono stati condotti alla conclusione che riguarda principalmente quel tema ben noto:
“La discordia razziale gioca un ruolo fondamentale nel determinare i convincimenti sui poveri. Dal momento che le minoranze razziali sono assai sovra rappresentate tra i più poveri d’America, tutte le misure di redistribuzione basate sul reddito provocheranno effetti non proporzionali a favore di queste minoranze. Negli Stati Uniti, coloro che si oppongono alla redistribuzione hanno costantemente utilizzato una retorica basata sulla razza per resistere alle politiche della sinistra. In tutti i paesi, la frammentazione razziale è un potente fattore di previsione della redistribuzione. All’interno degli Stati Uniti, la razza da sola è il più importante fattore di previsione sul sostegno allo stato del benessere. Le difficili relazioni razziali dell’America sono una ragione importante della assenza di uno stato assistenziale americano.”
Per comprendere di cosa stiano parlando, e del perché il loro argomento resta così rilevante, si vedano queste due cartine. La prima riguarda la messa in funzione della Legge sull’Assistenza Sostenibile [2]:
La seconda è questa [3]:
[1] Si tratta di un ampio studio dei primi anni 2000 svolto per conto dell’Istituto Brookings. Contiene moltissime informazioni, non soltanto attinenti ai confronti tra Europa e Stati Uniti. Ma non contiene le due tabelle di questo post, che sono relative come si intuisce a dati più recenti.
[2] La carta mostra la suddivisione degli Stati americani in tre categorie: quelli che hanno interamente adottato la legge di riforma sanitaria (linea blu), quelli che l’hanno attualmente in discussione (linea celeste), quelli che al momento non l’hanno adottata (linea arancione). La adozione è relativa alla competenza che gli Stati mantengono, rispetto al complesso della riforma, di decidere se accogliere o meno la possibilità di una espansione del programma per i poveri ed i redditi più bassi denominato Medicaid. Il programma opera praticamente per intero sulla base di finanziamenti federali, dunque la decisione di non adottarlo semplicemente impoverisce gli Stati che la assumono; ciononostante – come si vede – una buona parte degli Stati meridionali e quasi tutti gli Stati a maggioranza repubblicana non l’hanno fatto.
[3] La carta mostra la situazione giuridica della schiavitù al 1860: gli Stati in rosa ammettevano praticavano la schiavitù, quelli in giallo la consentivano, quelli in celeste non la praticavano e non la consentivano. Come si vede, sostanzialmente i paesi che avevano la schiavitù o comunque la ammettevano, sono praticamente gli stessi che oggi boicottano la riforma sanitaria, in particolare la misura che incrementa le forme di protezione per i cittadini più poveri.
giugno 20, 2015
Jun 20 2:59 pm
Even as the prospect of Grexit moves from inconceivable to plausible, polls consistently show that Greek voters want to stay on the euro. But what does this tell us?
Not very much, I think — because I’m pretty sure that voters consistently want their currency to be strong. The advantages seem obvious, and there’s also an element of national pride; meanwhile, the difficulties created by an overvalued currency are obscure except to those directly engaged in exporting.
That’s an impressionistic view, but are there data? Well, searching iPoll doesn’t turn up very much, but here’s an interesting result from 1985, when the U.S. dollar was very strong — so strong that the G5 famously met at the Plaza Hotel to agree on a plan to push it down:
So if Greek voters oppose the idea of a new drachma that would surely be weak against the euro, they are just echoing the preferences of voters always and everywhere.
Now, that consistent preference may itself matter, just as the eternal popularity of the household metaphor for fiscal policy — voters always favor a balanced budget — is one reason Keynesian economics is so hard to apply. But I don’t think there’s much news in Greek sentiment in favor of keeping the euro.
Gli elettori vogliono sempre una valuta forte
Anche se la prospettiva di un’uscita della Grecia non è più inconcepibile e diventa plausibile, i sondaggi mostrano stabilmente che gli elettori greci vogliono stare nell’euro. Ma questo cosa ci dice?
Non molto, penso. Perché gli elettori vogliono sempre che la loro valuta sia forte. I vantaggi sembrano evidenti, e c’è anche un elemento di orgoglio nazionale; di contro, le difficoltà create da una valuta sopravvalutata sono oscure, con l’eccezione di coloro che sono direttamente impegnati nel settore delle esportazioni.
È un punto di vista a sensazione, ma ci sono dati? Ebbene, andando a cercare su iPoll non viene fuori molto, ma c’è un interessante risultato del 1985, quando il dollaro statunitense era molto forte – così forte che i componenti del G5 notoriamente si incontrarono all’Hotel Plaza per concordare su un piano che lo abbassasse [1]:
Dunque, se gli elettori greci si oppongono all’idea di una nuova dracma che certamente sarebbe debole rispetto all’euro, semplicemente confermano le preferenze che gli elettori manifestano sempre e in ogni luogo.
Ora, questa costante preferenza può essere importante per conto suo, così come l’eterna popolarità della metafora della famiglia nel caso della politica della finanza pubblica – gli elettori sono sempre a favore di un bilancio in equilibrio – è una ragione per la quale l’economia keynesiana è così difficile da mettere in pratica. Ma non penso che ci siano molte novità nel sentimento dei greci a favore del mantenimento dell’euro.
[1] Come si vede dalla Tabella, nel 1985 gli americani intervistati dal sondaggio al 64% rispondevano che avere un dollaro forte era una buona cosa.
giugno 20, 2015
Jun 20 8:43 am
I was critical of CBO yesterday — probably excessively — for giving what seemed like undue cover for deficit scolds in its long-run budget projection. So credit where credit is due: the new report on the consequences of repealing the ACA is definitely not what the Congressional majority wants to hear. Despite including “dynamic scoring”, the report finds, unambiguously, that Obamacare reduces the deficit and repealing it would enlarge the deficit.
Is there anything in the report that provides fodder for the opponents? I see that the Times report says that there are “mixed effects”, because CBO says that GDP would be higher if the ACA were repealed. And maybe the usual suspects will try to spin it that way.
But the truth is that this report is much, much closer to what supporters of reform have said than it is to the scare stories of the critics — no death spirals, no job-killing, major gains in coverage at relatively low cost.
And there’s another important point: while the ACA may lead to somewhat lower GDP because it reduces labor supply, this does not imply a one-for-one loss in welfare. Suppose that a family’s second earner, now assured of being able to get health insurance, chooses as a result to work shorter hours and spend more time taking care of the children. GDP goes down — but there is a compensating non-monetary gain.
In fact, in a perfectly competitive economy the gain would fully offset the fall in GDP: if workers are paid their marginal product, the fall in GDP from the ACA is equal to the lost wages, but workers choosing to work less clearly prefer to have the extra time to the extra wages. Or to put it a bit differently, other things equal it’s a good thing if workers, freed from the fear that they won’t be able to get health insurance, respond by voluntarily working less.
OK, the story is made more complicated by taxes, which place a wedge between wages paid and income received; so there probably is a net cost to a fall in labor supply. But this effect is fully captured by the loss in revenue, which CBO doesn’t think would be large.
So overall this isn’t at all a “mixed” report — it’s a very big win for Obamacare supporters.
La riforma sanitaria di Obama e l’offerta di lavoro
Ieri sono stato critico – forse eccessivamente – con il CBO per aver fornito una copertura non dovuta alle Cassandre del deficit con la sua previsione di bilancio nel lungo periodo. Dunque, diamo il merito quando è dovuto: il nuovo rapporto sulle conseguenze di una abrogazione della legge di riforma sanitaria definitivamente smentisce quello che la maggioranza congressuale voleva sentirsi dire. Nonostante l’aver incluso il metodo della “valutazione dinamica” [1], il rapporto scopre, senza incertezze, che la riforma sanitaria riduce il deficit e l’abrogazione lo amplierebbe.
C’è qualcosa nel rapporto che dà qualche argomento agli oppositori della riforma? Vedo che il servizio del Time afferma che ci sono “effetti combinati”, perché il CBO afferma che il PIL sarebbe più alto se la legge di riforma sanitaria fosse abrogata. E forse i soliti noti cercheranno di manipolare in quel modo la notizia.
Ma la verità è che questo rapporto è del tutto più vicino a quello che i sostenitori della riforma hanno sostenuto che non ai racconti spaventosi dei critici – nessuna spirale fatale, nessuna eliminazione di posti di lavoro, importanti incrementi nella copertura assicurativa a costi relativamente bassi.
E c’è un altro punto importante: mentre la Legge sulla Assistenza Sostenibile in qualche modo porta ad un PIL più basso perché riduce l’offerta di lavoro, questo non implica una pari perdita di benessere. Si supponga che il secondo percettore di reddito di una famiglia, che ora è sicuro di poter ottenere l’assistenza sanitaria, scelga di conseguenza di lavorare meno ore e di spendere più tempo nel prendersi cura dei figli [2]. Il PIL scende – ma c’è un guadagno non monetario che lo compensa.
Di fatto, in un’economia perfettamente competitiva il vantaggio compenserebbe pienamente la riduzione del PIL: se i lavoratori sono pagati per il loro prodotto marginale, la caduta del PIL a seguito della legge di riforma sanitaria è eguale alla perdita di salario, ma lavoratori che scelgono di lavorare meno chiaramente preferiscono avere tempo aggiuntivo per salari aggiuntivi. O, per dirla un po’ diversamente, a parità delle altre condizioni è una buona cosa se i lavoratori, liberati dal timore di non poter ottenere l’assicurazione sanitaria, rispondono in modo volontario lavorando di meno.
È vero, la storia è resa più complicata dalle tasse, che costituiscono un cuneo tra i salari pagati e i redditi percepiti, cosicché probabilmente c’è un costo netto per una diminuzione dell’offerta di lavoro. Ma questo effetto è interamente trattenuto dalla diminuzione delle entrate, che il CBO non pensa sarebbe ampia.
Dunque, in generale questo non è affatto un rapporto con un risultato “misto” – è proprio una grande vittoria per i sostenitori della riforma della assistenza sanitaria di Obama.
[1] Nel passato recente i repubblicani avevano insistito su questo aspetto tecnico relativo a metodi di valutazione statistica che avrebbero condotto a stime più ottimistiche, dal loro punto di vista.
[2] Questa pare sia, in effetti, l’unica ragione per la quale la riforma ha un qualche effetto sull’offerta di lavoro. In qualche modo, la normativa precedente costringeva molti lavoratori a lavorare al massimo, per non correre il rischio di perdere la copertura assicurativa. Non avendo più, con la riforma, quel timore, i lavoratori sono più liberi di decidere il loro tempo di lavoro, ad esempio non facendo più straordinari ed stando più con i figli. Statisticamente, l’effetto è un riduzione del monte ore, che però viene bilanciata da maggiore benessere sociale.
giugno 19, 2015
Jun 19 3:37 pm
Update: Richard Kogan has contacted me to say that while the claim of a worsening budget situation is made at the beginning of the report, the analysis that follows is in fact clean and careful. So we’re talking about a misleading statement rather than a misleading analysis. And sources close to CBO insist that the misleading statement was careless drafting rather than deliberate politicization. OK, I guess.
But this is not a place to be careless. My inbox filled up this morning with deficit scold cries of triumph — who knew that Fix the Debt was still out there? — saying, “see, CBO confirms that the deficit is spinning out of control”.That’s why I guessed that we were seeing political influence. If not, good — but in this charged environment, you have to be very, very careful.
What with everything else going on, a seemingly technical note from Richard Kogan at the Center on Budget and Policy Priorities may be slipping under the radar. But this is really important.
As Kogan notes, the Congressional Budget Office has released its latest set of long-run budget projections, declaring that “The long-term outlook for the federal budget has worsened dramatically over the past several years.” And this is quite scary — not the projections, but the fact that CBO would say this. Because as Kogan points out, the budget office’s own numbers contradict its claims.
The key point is that CBO makes what Kogan rightly calls an apples-to-oranges comparison, comparing pre-2010 current-law estimates that assumed that the Bush tax cuts would expire in full with later projections that incorporate their partial extension (as well as a related issue involving the Alternative Minimum Tax.) This doesn’t mark a real deterioration in the outlook, and it certainly doesn’t indicate out of control policy. In fact, the outlook isn’t particularly scary.
Oh, and as Kogan noted in another paper, CBO’s estimates are almost surely too pessimistic on interest rates, so that the long-run budget outlook is even less scary than it appears.
So what’s going on here? I can’t believe that CBO staff were confused about these issues. What it looks like, I’m sorry to say, is the first indication that the new, GOP-dominated CBO is in fact going to be politicized, engaging in deficit scare tactics when that suits the majority, pro-tax-cut scoring, and more.
Comincia la politicizzazione dell’ Ufficio Congressuale del Bilancio [1]
Correzione [2]: Richard Kogan mi ha contattato per dirmi che mentre l’argomento di un peggioramento della situazione del bilancio è avanzato agli inizi del rapporto, l’analisi che segue è di fatto onesta e scrupolosa. Dunque stiamo parlando di una dichiarazione fuorviante piuttosto che di una analisi fuorviante. E fonti vicine al CBO sottolineano che la dichiarazione fuorviante deriva da una bozza poco scrupolosa e non da una deliberata politicizzazione. Va bene, ne prendo atto.
Ma questo non è un luogo dove si possa essere non scrupolosi. Le mie mail in arrivo questa mattina sono piene di trionfali strepiti di rimprovero – chi lo sapeva che Fix The Debt [3] fosse ancora in circolazione? – che dicono: “Vedi, il CBO conferma che il deficit sta sbandando fuori controllo”. Quella era la ragione per la quale mi immaginavo che stessimo assistendo ad un caso di influenza politica. Se non è così, è bene – ma in questo contesto eccitato, si deve essere molto, molto scrupolosi.
Quello che sta accadendo assieme a tutto il resto, una nota apparentemente tecnica a cura di Richard Kogan del Centro sul Bilancio e sulle priorità programmatiche, può essere sfuggito al controllo dei radar. Ma si tratta di una questione davvero importante.
Come osserva Kogan, il Congressional Budget Office ha messo in circolazione la sua ultimissima serie delle stime di lungo periodo sul bilancio, dichiarando che “La previsione a lungo termine per il bilancio federale è peggiorata in modo spettacolare nel corso degli ultimi anni”. Ed è abbastanza spaventoso – non le previsioni, ma il fatto che il CBO lo abbia detto. Perché, come Kogan mette in evidenza, gli stessi dati dell’ufficio del Bilancio contraddicono le sue pretese.
Il punto cruciale è che il CBO fa quello che Kogan giustamente definisce un confronto tra mele e aranci, paragonando le stime a legislazione vigente precedenti al 2010, che ipotizzavano che gli sgravi fiscali di Bush sarebbero interamente andati ad esaurimento, con le ultime previsioni che incorporano il loro parziale prolungamento (in aggiunta al tema connesso che riguarda la Tassazione Minima alternativa [4]). Questo non determina un effettivo deterioramento nelle previsioni, e certamente non indica una politica fuori controllo. Di fatto, la previsione non è poi così spaventosa.
Inoltre, come pure Kogan ha osservato in un altro studio, le stime del CBO sono quasi certamente troppo pessimistiche sui tassi di interesse, cosicché la previsione di bilancio di lungo periodo è ancora meno terribile di quello che sembra.
Cosa sta dunque accadendo, in questo caso? Non posso credere che i tecnici del CBO si siano confusi su questi temi. Sembra, mi spiace dirlo, che questa costituisca la prima indicazione che il nuovo CBO, dominato dal Partito Repubblicano, si stia di fatto orientando ad essere politicizzato, impegnandosi in tattiche allarmistiche sui deficit quando ciò sta bene alla maggioranza, in valutazioni favorevoli agli sgravi fiscali, e altro ancora.
[1] Sul ruolo e la natura di questo Ufficio del Congresso degli Stati Uniti, vedi alle note sulla traduzione “Congressional Budget Office”.
[2] Normalmente – non so se sia solo lo stile personale di Krugman o una buona prassi del giornalismo statunitense – le precisazioni o ‘correzioni’ ad un testo vengono collocate all’inizio del testo stesso. In modo tale che abbiano il giusto rilievo, mi pare.
[3] Il nome, se ben ricordo, di una associazione della destra che negli anni passati era in voga, sui temi della riduzione del deficit.
[4] Mi pare di comprendere che ogni anno un contribuente statunitense può pagare la normale tassa sui redditi, oppure una tassazione alternativa imposta dal Governo Federale sugli individui, sulle imprese, sugli immobili e sui capitali. Questa seconda tassa è imposta con una aliquota abbastanza piatta, su una quantità, che può essere aggiornata, di reddito tassabile che eccede alcune soglie, al di sotto delle quali esistono esenzioni. Queste esenzioni sono sostanzialmente più elevate di quelle della normale tassa sul reddito.
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