Blog di Krugman

Il partito delle “facce di bronzo” (9 giugno 2015)

 

Jun 9 8:17 am

The Chutzpah Caucus

Sen. John Thune is coming in for quite a lot of ridicule for this:

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Obamacare is a failed policy, because we may be able to kill it with an absurd legal challenge! It’s a policy version of the classic definition of chutzpah: killing your mother and father, then pleading for mercy because you’re an orphan.

But Thuneism is just a more naked version of the style of argument we’ve been seeing all along. Conservatives are constantly belittling the ACA for its failure to cover all the uninsured — only one-third covered, it’s often asserted, although that number is out of date and also ignores the fact that the law wasn’t supposed to cover undocumented immigrants. But what’s the biggest factor limiting coverage? Um, refusal of red states to expand Medicaid and their refusal to help implement the rest of the law:

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In states that want Obamacare to work, most of the eligible uninsured have already been covered. So the general complaint is that “Obamacare is a failure because our sabotage has successfully slowed its implementation.” Thune is just taking that logic a bit further.

 

Il partito delle “facce di bronzo” [1]

Il Senatore John Thune si è tirato addosso molta ironia per questo messaggio [2]:

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La riforma sanitaria di Obama sarebbe una politica fallita, perché si può liquidarla con una assurda causa legale! È la versione politica della classica definizione di “chutzpah”: ammazzare vostra madre e vostro padre e poi chiedere clemenza perché siete orfani.

Ma il “thuneismo” è solo la versione nuda e cruda dello stile delle argomentazioni che vediamo da tempo. I conservatori denigrano in continuazione la Legge sulla Assistenza Sostenibile per non aver saputo dare copertura a tutti i non assicurati – si asserisce frequentemente che essa ne avrebbe coperti solo un terzo, sebbene quel dato sia superato ed ignori anche la circostanza che non era stato previsto che la legge desse assistenza anche agli immigrati sprovvisti di documenti. Ma quale è il più grande fattore che limita la copertura? Guarda caso, il rifiuto degli Stati repubblicani ad ampliare Medicaid ed il loro rifiuto a contribuire a mettere in atto il resto della legge [3]:

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Negli Stati nei quali la riforma di Obama funziona, gran parte dei non assicurati che ne hanno diritto hanno ricevuto la copertura assicurativa. Dunque, la rimostranza generale può essere così espressa: “La riforma di Obama è un fallimento perché il nostro sabotaggio ha rallentato la sua messa in funzione”. Thune sta solo portando un po’ oltre quella logica.

 

[1] Il termine “chutzpah” deriva dalla cultura yiddish, più precisamente da un storiella che narra di un tizio che, dopo aver ammazzato i propri genitori, cercava comprensione tra i propri giudici con l’argomento di essere rimasto orfano. “Chutzpah” indica chi abbia pretese del genere, ovvero una faccia di bronzo.

[2] Il Senatore repubblicano in questione afferma nel suo ‘messaggino’ che sei milioni di americani rischiano di perdere i loro sussidi, eppure c’è chi continua a negare che la riforma sia negativa. Il rischio, che sembra sia piuttosto teorico, dipende da un contenzioso giuridico piuttosto paradossale su alcune formulazioni della legge.

[3] La tabella mostra l’evoluzione delle coperture sanitarie nelle tre situazioni tipo: la riga nera in alto indica la situazione negli Stati repubblicani, che non hanno accettato l’espansione di Medicaid (con un 14,4% di non assicurati); la linea celeste in basso mostra la situazione negli Stati che l’hanno accettata (i non assicurati sono la metà, il 7,5%; la linea blu nel mezzo indica la media nazionale (10,1% di non assicurati).

Io non penso che “derp” significhi quello che voi pensate (8 giugno 2015)

giugno 8, 2015

 

Jun 8 9:10 am

I Do Not Think That Derp Means What You Think It Means

Continuing on the theme of derp in policy discourse: Vox coincidentally has a post about Hillary Clinton’s proposal for automatic voter registration noting that signing up less informed voters isn’t necessarily a bad thing, because “informed” voters mainly seem to be informed about the party line. In effect, they know which derp they’re supposed to repeat.

Indeed, regular viewers of Fox are worse at answering simple questions about reality than people who watch no news at all.

Meanwhile, however, I’m getting a lot of people saying “Oh yeah? You do derp more than anyone!”

No, I don’t. You may believe that I am evil or stupid, or evil and stupid. But derp means something specific: it means always saying the same thing, regardless of circumstances, and regardless of past errors. Declaring that the Fed’s policies are going to cause hyperinflation, year after year, when it keeps not happening is derp. Declaring that we need aggressive fiscal and monetary expansion when the economy is depressed isn’t. It’s not an invariant claim — in fact, I get accused (stupidly) of some kind of inconsistency because I thought deficits were bad under Bush but good under Obama. And it’s not a prediction that has repeatedly proved false.

What the accusers really mean here is that I keep saying things they dislike and dispute. But that’s not derp, that’s just disagreement. There’s a difference, and only the derpy fail to grasp that difference.

 

Io non penso che “derp” [1] significhi quello che voi pensate

Proseguendo sul tema del “derp” nel dibattito politico: per coincidenza Vox pubblica un post sulla proposta di Hillary Clinton a favore della registrazione automatica degli elettori osservando che l’iscrizione degli elettori meno informati non è necessariamente una cosa negativa, giacché gli elettori “informati” sembra siano informati sulla linea del loro partito. In sostanza, conoscono quel “derp” che ci si aspetta che ripetano.

In effetti, coloro che seguono regolarmente le trasmissioni di Fox, pare che si trovino peggio nel rispondere a semplici domande sulla realtà rispetto a coloro che non guardano nessuna trasmissione [2].

Nel frattempo, tuttavia, incontro una quantità di persone che dicono: “Ma guarda! Tu fai “derp” più di chiunque altro!”

No, non è così. Potete credere che io sia malefico o stupido, oppure anche malefico e stupido. Ma “derp” significa qualcosa di particolare: significa il dire in continuazione la stessa cosa, a prescindere dalle circostanze e a prescindere dagli errori passati. Dichiarare che le politiche della Fed sono destinate a provocare l’iperinflazione un anno dopo l’altro, quando continua a non succedere è “derp”. Dichiarare che abbiamo bisogno di una espansione monetaria e della finanza pubblica quando l’economia è depressa, non lo è. Non si tratta di una affermazione immutabile – di fatto, io vengo accusato (scioccamente) di una qualche incoerenza perché pensavo che i deficit fossero una cosa negativa con Bush ed una cosa positiva con Obama. E questa non è una previsione che si è mostrata ripetutamente falsa.

Quello che in questo caso i miei detrattori vogliono dire è che io continuo ad affermare cose che loro non gradiscono e mettono in discussione. Ma questo non è un “derp”, è solo un disaccordo. C’è una differenza, e solo dei “derp” non riescono ad afferrare quella differenza.

 

 

[1] Per il significato del termine “derp” (e per le ragioni per le quali l’abbiamo adottato senza impossibili traduzioni) si veda su questo blog l’articolo dell’8 giugno sul New York Times.

[2] Fox, come è noto, è un televisione di destra. Il recente articolo sul blog Business Insider nella connessione, riporta i dati di un sondaggio relativo al grado di ‘ignoranza’ sui temi nazionali degli intervistati, suddivisi sulla base dei programmi televisivi che seguono. Non solo Fox News si colloca all’ultimo posto in graduatoria, ma si colloca sotto coloro che non seguono alcun programma.

 

 

 

Riflessioni su ineguaglianza e crescita (dal blog di Krugman, 8 giugno 2015)

giugno 8, 2015

 

Jun 8 8:08 am

Musings on Inequality and Growth

I’ve been using the case of research on inequality and growth as an example of an issue where liberals need to be careful not to let wishful thinking drive their conclusions; it would fit perfectly with our world view if inequality were not just a bad thing but also bad for the economy, which is a reason to bend over backwards to avoid accepting that conclusion too easily. But what do we really know?

Well, there have been a number of studies that seem to find a negative relationship, all based on some kind of international cross-section approach (some with time-series aspects too). So what is my problem? In general, I have doubts about the whole growth regression methodology, which has lots of problems in identifying causation (remember, that’s the methodology behind the Reinhart-Rogoff debt-threshold paper). Beyond that, there just isn’t a striking, simple relationship between inequality and growth; all the results depend on doing fairly elaborate data massaging, which might be right but might also be teasing out a relationship that isn’t really there.

Let me give you a picture showing what I think we know. It compares inequality with growth; I’ve made some data choices that others may wish to do differently, so let me explain those details. First, instead of raw Ginis I use the new Gornick-Milanovic numbers for households without members over 60. Second, I measure growth in real GDP per working-age adult (15-64), because raw GDP per capita is significantly affected by demographic divergence. Third, I look at the period 1985-2007 — essentially, the Great Moderation — because I’m not talking about macroeconomic policy. Oh, and finally I exclude both transition economies (which went from Communist to very poor capitalist circa 1990, and have very different stories) and Ireland, which grew so fast that it’s hard to see anything else.

Here’s what I get:

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Growth in GDP per working-age adult, 1985-2007 OECD, LIS

If you squint, maybe you see a very slight negative relationship here (R-squared of 0.02, if you care), but it’s not much. Basically, there isn’t much difference in growth rates overall; the low-inequality northern Europeans have a range of outcomes not noticeably different from the high-inequality Anglo-Saxons.

I might also note that low inequality is no protection against financial crisis — the Nordics had some major ones in the early 1990s. Also Denmark and the Netherlands have very high levels of household debt.

It’s important to realize that the absence of any clear relationship is a big win for progressives: right-wingers always claim that any attempt to reduce inequality will hurt the feelings of job creators and kill growth, but there’s not a hint of that problem in the data. But not much evidence that failure to reduce inequality kills growth, either. And I personally am making an effort not to be greedy — not to claim that a drive against inequality, which I view as crucially important for social and political reasons, is also the cure for lots of other things.

 

Riflessioni su ineguaglianza e crescita

È un po’ che utilizzo il caso della ricerca sull’ineguaglianza e sulla crescita come un esempio di un tema nel quale i progressisti dovrebbero non permettersi di arrivare alle loro conclusioni per effetto di un modo di ragionare ottimistico; se l’ineguaglianza non fosse soltanto una cosa sbagliata, ma fosse anche negativa per l’economia, ciò si attaglierebbe perfettamente alla nostra concezione del mondo, ma questa è una ragione per fare il possibile per non accettare quella conclusione troppo facilmente. Ma quanto ne sappiamo, in realtà?

Ebbene, ci sono stati un certo numero di studi che sembrano scoprire una relazione negativa, basati tutti su un genere di approccio che attraversa trasversalmente vari paesi del mondo (alcuni anche con aspetti relativi alle serie temporali). Quale è dunque il mio problema? In termini generali, io ho dubbi sull’intera metodologia delle regressioni in materia di crescita, che presenta molti problemi nella individuazione delle cause (si ricordi, è la metodologia che stava dietro lo studio di Reinhart-Rogoff sulla cosiddetta soglia del debito). Oltre a ciò, tra ineguaglianza e crescita non c’è affatto una relazione straordinaria e semplice; tutti i risultati dipendono da manipolazioni dei dati abbastanza elaborate, la qual cosa potrebbe essere giusta ma potrebbe anche far emergere una relazione che in realtà non esiste.

Consentitemi di mostrarvi una immagine che illustra quello che io penso che sappiamo. Esso confronta l’ineguaglianza con la crescita; ho fatto alcune scelte di dati che altri potrebbero voler fare diversamente, dunque fatemi spiegare quei dettagli. Anzitutto, invece dei semplici indici Gini [1], utilizzo i nuovi dati di Gornick-Milanovic sulle famiglie che non hanno componenti ultra sessantenni. Inoltre, misuro la crescita del PIL procapite per ogni adulto in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni), giacché il semplice PIL procapite è influenzato in modo significativo dalla divergenza demografica. In terzo luogo, mi riferisco al periodo 1985-2007 – essenzialmente l’epoca della Grande Moderazione – perché non sto parlando di politica macroeconomica [2]. Infine, escludo sia le economie in transizione (che sono passate dal comunismo ad un capitalismo molto povero attorno al 1990, e che hanno storie molto diverse), sia l’Irlanda, che è cresciuta in modo talmente rapido che è difficile affermare niente altro.

Ecco quello che ottengo [3]:

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Crescita del PIL per adulti in età di lavoro, 1985-2007. OCSE, LIS [4]

 

Se strizzate gli occhi potete osservare in questo caso una relazione assai leggermente negativa (se vi interessa, il coefficiente di determinazione [5] è pari a 0,02), ma non è gran cosa. Fondamentalmente, non c’è molta differenza in generale nei tassi di crescita; la bassa ineguaglianza dei nord europei ha una gamma di risultati non apprezzabilmente diversa dall’alta ineguaglianza degli anglosassoni [6].

Potrei anche osservare che la bassa ineguaglianza non è una protezione contro le crisi finanziarie – i paesi nordici ne hanno avute alcune importanti nei primi anni ’90. Inoltre, la Danimarca e l’Olanda hanno livelli molto elevati di debito delle famiglie.

È importante comprendere che la assenza di una chiara relazione è un grande successo per i progressisti: la destra sostiene in continuazione che ogni tentativo di ridurre l’ineguaglianza è destinato a ferire i sentimenti di coloro che creano posti di lavoro e a spengere la crescita, ma nei dati non c’è alcun cenno di quel problema. Ma non ci sono neanche molte prove che il non riuscire a ridurre l’ineguaglianza spenge la crescita. Ed io personalmente sto facendo uno sforzo per non essere ingordo – ovvero per non sostenere che una spinta contro l’ineguaglianza, che io considero importante in modo così fondamentale per ragioni sociali e politiche, sia anche la cura per una quantità di altre cose.

 

[1] Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo. Si può incontrare la notazione con indice di Gini espresso in percentuale (0% – 100%), ovvero anche tra 0 e 100.(Wikipedia)

[2] Ovvero, suppongo, perché gli è più utile riferirsi ad un periodo più omogeneo, piuttosto che includere annualità con marcate caratteristiche derivanti dal ciclo economico.

[3] La tabella mostra l’andamento dei vari paesi in quei 22 anni, sulla linea verticale indicano il tasso di crescita del PIL procapite della popolazione in età di lavoro, su quella orizzontale l’indice Gini.

[4] Una Fondazione di ricerche economiche con sede in Lussemburgo.

[5] La proporzione tra la variabilità dei dati e la correttezza del modello statistico utilizzato.

[6] Se posso, per così dire, ‘intromettermi’, si può però anche considerare che forse non è del tutto casuale che i paesi europei in crisi (Spagna, Grecia ed Italia) – che pure ebbero in quel periodo andamenti del PIL diversi tra di loro – mostrano tutti coefficienti di disuguaglianza vicini alle punte più elevate dei paesi anglosassoni (Regno Unito, USA ed Australia), e distanti dai paesi del nord Europa ed anche da Germania e Francia.

Perchè sono un keynesiano? (6 giugno 2015)

giugno 6, 2015

 

Jun 6 6:33 am

Why Am I A Keynesian?

Noah Smith sort-of approvingly quotes Russ Roberts, who views all macroeconomic positions as stalking horses for political goals, and declares in particular that

Krugman is a Keynesian because he wants bigger government. I’m an anti-Keynesian because I want smaller government.

OK, I’m not going to clutch my pearls and ask for the smelling salts. Politics can shape our views, in ways we may not recognize. But I’m aware of that risk, and make a regular practice of asking myself whether I’m letting that kind of bias slip in. In fact, I lean against studies that seem too much in tune with my political preferences. For example, I’ve been aggressively skeptical of studies that seem to show a negative relationship between inequality and growth, precisely because that result is so convenient for my political tribe (which doesn’t mean that it’s wrong.)

So, am I a Keynesian because I want bigger government? If I were, shouldn’t I be advocating permanent expansion rather than temporary measures? Shouldn’t I be for stimulus all the time, not only when we’re at the zero lower bound? When I do call for bigger government — universal health care, higher Social Security benefits — shouldn’t I be pushing these things as job-creation measures? (I don’t think I ever have). I think if you look at the record, I’ve always argued for temporary fiscal expansion, and only when monetary policy is constrained. Meanwhile, my advocacy of an expanded welfare state has always been made on its own grounds, not in terms of alleged business cycle benefits.

In other words, I’ve been making policy arguments the way one would if one sincerely believed that fiscal policy helps fight unemployment under certain conditions, and not at all in the way one would if trying to use the slump as an excuse for permanently bigger government.

But in that case, why am I a Keynesian? Maybe because of convincing evidence?

First of all, the case for viewing most recessions — and the Great Recession in particular — as failures of aggregate demand is overwhelming.

Now, this could be a case for using monetary rather than fiscal policy — and that actually is the policy I advocate in response to garden-variety slumps. But when the slump pushes rates down to zero, and that’s still not enough, any simple model I can think of says that fiscal expansion can be a useful supplement, while fiscal austerity makes a bad situation worse.

And while it’s true that there was limited direct evidence on the effects of fiscal policy 6 or 7 years ago, there’s now a lot, and it’s very supportive of a Keynesian view.

The point is that while it’s definitely OK to scrutinize economists’ motives — to ask whether they’re responding to logic and evidence, or just talking their political book — assertions that it’s all politics deserve the same scrutiny. Is my behavior consistent with claims that my views are purely a reflection of my political preference? And if it isn’t — which I don’t think it is — what’s driving such claims? Might it be … politics, deployed on behalf of economic doctrines that have lost the substantive debate?

 

Perchè sono un keynesiano?

Noah Smith cita, in qualche modo approvandolo, Russ Roberts, che considera le varie posizioni macroeconomiche come sotterfugi per obbiettivi politici, e dichiara in particolare:

“Krugman è un keynesiano perché vuole uno Stato più ampio. Io sono anti keynesiano perché lo voglio più ristretto.”

Va bene, non mi sgomento per questo e non chiederò i sali per rinvenire[1]. La politica può condizionare i nostri punti di vista in modi che possiamo non riconoscere. Ma sono consapevole di questo rischio, e con regolarità sono abituato a chiedermi se non sto rischiando che quel genere di inclinazione si introduca di soppiatto. Riconosco di appoggiarmi a studi che sembrano troppo in consonanza con le mie preferenze politiche. Così, ad esempio, io sono stato aggressivamente scettico su studi che sembrano mostrare una relazione tra l’ineguaglianza e la crescita, proprio perché quel risultato sarebbe molto conveniente per la mia parte politica (il che non significa che siano sbagliati) [2].

Dunque, sono un keynesiano perché voglio uno Stato più forte? Se lo fossi, non dovrei sostenere misure di espansione permanenti anziché temporanee? Non dovrei essere a favore di misure di sostegno in ogni epoca, e non solo quando siamo al limite inferiore dello zero nei tassi di interesse? Quando mi pronuncio per uno Stato più forte – per l’assistenza sanitaria universale, per sussidi della Previdenza Sociale più elevati – non dovrei spingere queste soluzioni in quanto misure che creano posti di lavoro (non penso di averlo mai fatto)? Penso, se guardate alla mia documentazione, di essermi sempre espresso per una espansione temporanea della finanza pubblica, e soltanto quando la politica monetaria ha dei limiti. Al contempo, il mio sostegno ad uno stato assistenziale più vasto è sempre stato fatto su quelle basi, non in termini di pretesi benefici per il ciclo economico.

In altre parole, io sto usando argomenti politici nel modo in cui dovrebbe fare chi crede che la politica della finanza pubblica solo a certe condizioni può contribuire a combattere la disoccupazione, e niente affatto nel modo in cui farebbe qualcuno che cercasse di usare la recessione come una scusa per uno Stato permanentemente più forte.

Ma allora, perché sono un keynesiano? Forse sulla base di testimonianze convincenti?

Prima di tutto, c’è l’argomento schiacciante che deriva dal considerare che gran parte delle recessioni – e della Grande Recessione in particolare – sono cadute della domanda aggregata.

Ora, questo potrebbe essere un argomento per utilizzare la politica monetaria anziché quella della finanza pubblica – e quella è effettivamente la politica che io sostengo in risposta a recessioni ordinarie. Ma quando la crisi spinge i tassi di interesse allo zero, e quello ancora non basta, ogni semplice modello al quale mi posso riferire dice che l’espansione della finanza pubblica può essere un contributo utile, mentre l’austerità della finanza pubblica rende la situazione peggiore.

E mentre è vero che c’erano limitate testimonianze dirette sugli effetti della politica della finanza pubblica 6 o 7 anni orsono, adesso ce ne sono molte, e sono di grande sostegno al punto di vista keynesiano.

Il punto è che mentre è senz’altro giusto esaminare in dettaglio i motivi degli economisti – per chiedere se essi stanno rispondendo alla logica ed alle prove, oppure se stanno solo esprimendo le loro scommesse politiche – anche le affermazioni per le quali ‘tutto è politica’ meritano la stessa analisi scrupolosa. Il mio comportamento è coerente con le affermazioni secondo le quali i miei punti di vista sono un puro riflesso delle mie preferenze politiche? E se non lo è – come io penso – cos’è che guida tali affermazioni? Potrebbe darsi che sia …. la politica, che scende in campo nell’interesse di dottrine economiche che hanno perso sul terreno sostanziale del confronto?

 

[1] “Clutch my pearls” è una espressione idiomatica, letteralmente “afferrare, portar le mani alle perle (alla propria collana di perle)”, e indica la sensazione di paura che deriva dalla impressione di aver subito il furto di quell’oggetto di valore. I “sali” sono effettivamente i sali che servono a far rinvenire una persona che sta per svenire.

[2] Suppongo che qua Krugman intenda riferirsi ad un giudizio critico che aveva inizialmente espresso su un posizione di Stiglitz in ordine al rapporto appunto tra ineguaglianza e scarsa crescita, e che poi aveva in parte almeno sottoposto a revisione, ammettendo di essere stato, diciamo così, troppo ‘scrupoloso’. Si veda, per un ricostruzione di tali posizioni, la mia nota del 2 gennaio 2014 dal titolo “Diseguaglianze: l’evoluzione della riflessione di Krugman”, che ricostruisce tali prese di posizione.

 

 

 

Parla il Signor Mercato (6 giugno 2015)

giugno 6, 2015

 

Jun 6 6:01 am

Mr. Market Speaks

Way back, when it wasn’t entirely silly to say that there was a real debate about the impact of fiscal and monetary policy in a liquidity trap, there were really two big issues on which academics like me and those who claimed to be wise about such matters but didn’t do models differed. One was inflation; the other was interest rates, where there were many dire warnings about the impact of budget deficits, but basic macroeconomics said otherwise.

You might think that six years of low rates would have settled that dispute, but we live in an age of derp. Indeed, what’s really remarkable is the enduring conviction of the other side that it knows what the market — “Mr. Market”, in Robert Peston’s phrase — wants, even though actual market results have been very much what liquidity-trap theory predicted.

Yet to the extent that the peddlers of interest rate derp acknowledge this at all, they berate markets for not behaving as they should. Remember when Alan Greenspan declared the failure of interest rates to spike and inflation to take off “regrettable“? (When I ran into another well-known figure a few months ago, he did concede that “The market seem to agree with you,” but his tone was quite bitter.)

Now Jonathan Portes points out that the recent UK election offers a natural experiment: the surprising result, which gave the Tories an outright majority, also means much more austerity looking forward than one would have expected otherwise. So did Mr. Market respond by driving down long-term interest rates? No — there was no bond-market response at all.

This ought to move the discussion. But after all these years, I’ve long since stopped expecting any such thing.

 

Parla il Signor Mercato

Nel passato, quando non era stupido dire che c’era un dibattito vero sull’impatto della politica della finanza pubblica e monetaria in una trappola di liquidità, c’erano in realtà due grandi temi sui quali gli accademici come me e coloro che pretendevano di essere saggi ma non lo erano, utilizzavano per davvero modelli diversi. Uno era l’inflazione; l’altro erano i tassi di interesse, a proposito dei quali si diffondevano molti ammonimenti tremendi sull’impatto dei deficit di bilancio, mentre la macroeconomia di base diceva l’opposto.

Potreste pensare che sei anni di bassi tassi abbiano risolto quella disputa, ma viviamo in un’epoca di “derp” (“ottusi”). In effetti, quello che è davvero considerevole è la perdurante sicurezza da parte dell’altro schieramento di conoscere cosa vuole il mercato – “il signor Mercato”, per usare la frase di Robert Preston -, anche se i risultati del mercato effettivo sono stati in gran parte quelli che la teoria della trappola di liquidità aveva previsto.

Tuttavia, ammesso che i divulgatori della ottusità sul tasso di interesse in qualche modo riconoscano questa circostanza, essi rimproverano i mercati perché non si comportano come dovrebbero. Ricordate quando Alan Greenspan dichiarò che il fatto che i tassi di interesse non si impennassero e l’inflazione non decollasse era “deplorevole”? (quando, pochi mesi orsono, mi incontrai con un altro ben noto personaggio, egli ammise che “Il mercato sembra convenire con lei”, ma il suo tono era abbastanza rancoroso).

Adesso Jonathan Portes mette in evidenza che le recenti elezioni nel Regno Unito offrono un esperimento naturale [1]: il sorprendente risultato, che ha dato ai conservatori una maggioranza assoluta, comporta anche, guardando in avanti, molta maggiore austerità di quanto ci si sarebbe aspettati altrimenti. Dunque, il Signor Mercato ha risposto spingendo in basso i tassi di interesse a lungo termine? Niente affatto, non c’è stata alcuna risposta da parte del mercato dei bond.

Questo dovrebbe riaprire una discussione. Ma dopo tutti questi anni, è molto tempo che io ho smesso di aspettarmi cose del genere.

 

 

[1] L’articolo di Portes appare sul blog dell’Institute of Economic and Social Research, che lui stesso dirige. Nell’articolo si sostengono un po’ più ampiamente gli stessi concetti di questo post di Krugman, con l’aggiunta di una tabella sulla evoluzione più recente dei bond statunitensi e del Regno Unito (i “gilt”, secondo una espressione antica che significa “aurei”), che mostra una sostanziale somiglianza e soprattutto un andamento piatto a partire in particolare dal maggio di quest’anno.

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Ci sono opinioni diverse sulla forma della macroeconomia (6 giugno 2015)

giugno 6, 2015

 

Jun 6 1:55 am

Views Differ on Shape of Macroeconomics

The doctrine of expansionary austerity — the claim that slashing spending would actually boost demand and employment, because it would have such positive effects on confidence that this would outweigh the direct drag — was immensely popular among policymakers in 2010, as the great turn toward austerity began. But the statistical underpinnings of the doctrine fell apart under scrutiny: the methods Alberto Alesina used to identify changes in fiscal policy did not, it turned out, do a very good job, and more careful work found that historically austerity has in fact been contractionary after all. Moreover, the experience of austerity programs seemed to confirm what Keynesians new and old had warned from the beginning — that the negative effects of austerity are much larger under conditions where they cannot be offset by conventional monetary policy.

So at this point research economists overwhelmingly believe that austerity is contractionary (and that stimulus is expansionary). Surveys show overwhelming support among US economists for the proposition that the ARRA was a job creator, a huge majority of British academics denying that the Cameron austerity program was positive for growth. The Federal Reserve, the IMF, the OECD, the OBR, and more believe that austerity is contractionary. Nothing in economics is every settled for good, but for now at least expansionary austerity has virtually collapsed as a doctrine taken seriously by researchers.

Nonetheless, Simon Wren-Lewis points us to Robert Peston of the BBC declaring

I am simply pointing out that there is a debate here (though Krugman, Wren-Lewis and Portes are utterly persuaded they’ve won this match – and take the somewhat patronising view that voters who think differently are ignorant sheep led astray by a malign or blinkered media).

Wow. Yes, I suppose that “there is a debate” — there are debates about lots of things, from climate change to evolution to alien spaceships hidden in Area 51. But to suggest that this debate is at all symmetric is just wrong — and deeply misleading to one’s audience.

As for the claim that it’s somehow patronizing to suggest that voters are ill-informed when (a) macroeconomics is a technical subject, and (b) the media have indeed misreported the state of the professional debate — well, this is sort of an economic version of the line that one must not suggest that the Iraq war was launched on false pretenses, because this would be disrespectful to the troops. If you’re being accused of misleading reporting, it’s hardly a defense to say that the public believed your misinformation — more like a self-indictment.

Again, we’re not talking about the truth of how fiscal policy works so much as the state of professional opinion on that question, which is very one-sided. And it’s actually disturbing to see reporters unwilling to admit that simple reality.

 

Ci sono opinioni diverse sulla forma della macroeconomia [1]

La dottrina dell’austerità espansiva – l’argomento secondo il quale abbattere la spesa incoraggerebbe effettivamente la domanda e l’occupazione, perché avrebbe tali effetti positivi sulla fiducia che supererebbero il prelievo diretto – nel 2010 era immensamente popolare tra gli operatori politici, al momento in cui ebbe inizio la grande svolta verso l’austerità. Ma i sostegni statistici andarono in pezzi ad una valutazione più attenta: si scoprì che i metodi utilizzati da Alberto Alesina per identificare i mutamenti nella politica della finanza pubblica non erano stati davvero un buon lavoro, e uno studio più scrupoloso mostrò che di fatto, in fin dei conti, l’austerità aveva avuto storicamente effetti di contrazione. Inoltre, l’esperienza dei programmi di austerità parve confermare quello per cui i keynesiani vecchi e nuovi avevano messo in guardia sin dall’inizio – ovvero che gli effetti negativi dell’austerità sono molto più ampi nelle condizioni nelle quali non possono essere bilanciati da politiche monetarie convenzionali.

Dunque a questo punto gli economisti che fanno ricerche credono in modo schiacciante che l’austerità abbia effetti di contrazione (e che la spesa pubblica abbia effetti espansivi). I sondaggi mostrano un sostegno schiacciante tra gli economisti statunitensi al concetto secondo il quale la legge per la ripresa e gli investimenti negli Stati Uniti [2] abbia creato posti di lavoro, una ampia maggioranza di accademici britannici nega che il programma dell’austerità di Cameron sia stato positivo per la crescita. La Federal Reserve, il FMI, l’OCSE, l’OBR [3] ed altri credono che l’austerità abbia effetti di contrazione. In economia niente è stabilito una volta per tutte, ma a questo punto l’austerità espansiva è almeno virtualmente crollata come una dottrina che gli economisti prendono sul serio.

Nondimeno, Simon Wren-Lewis ci rimanda a Robert Peston della BBC, i quale dichiara:

“Io sto semplicemente mettendo in evidenza che in questo caso c’è un dibattito (sebbene Krugman, Wren-Lewis e Portes siano completamente persuasi di aver vinto la partita – ed assumano un punto di vista in qualche modo condiscendente secondo il quale gli elettori che la pensano diversamente sono pecorelle ignoranti fuorviate da media malefici e con i paraocchi.)”

Caspita! È vero, suppongo che “ci sia un dibattito” – ci sono dibattiti su un mucchio di cose, dal cambiamento climatico, all’evoluzione, alle navi spaziali degli alieni nascoste nell’area 51 [4]. Ma dire che questo dibattito è del tutto simmetrico è proprio sbagliato – e profondamente fuorviante per il proprio pubblico.

Quanto all’argomento che esso in qualche modo sia incline a suggerire che gli elettori siano male informati, considerato che (a) la macroeconomia è un tema tecnico, e (b) i media hanno in effetti fornito resoconti fuorvianti sullo stato del dibattito tra i professionisti – ebbene, questa è una specie di versione economica della linea secondo la quale a nessuno può essere consentito di suggerire che la guerra in Iraq fosse stata intrapresa sulla base di falsi pretesti, in quanto sarebbe irrispettoso per le truppe. Se venite accusati di resoconti fuorvianti, replicare che l’opinione pubblica ha creduto nella vostra cattiva informazione, difficilmente può essere considerata una difesa – assomiglia di più ad una auto accusa.

Ancora, non stiamo parlando tanto del fatto oggettivo di come funzioni la politica della finanza pubblica, quanto delle opinioni professionali su quel tema, che sono del tutto convergenti in un’unica direzione. E per la verità è irritante constatare che ci sono giornalisti indisponibili ad ammettere quella semplice verità.

 

 

[1] Krugman utilizza qua la stessa espressione ironica che aveva coniato all’epoca della guerra in Iraq per attaccare i giornalisti che pretendevano di non essere ‘faziosi’ perché usavano la tecnica giornalistica di descrivere tutto come opinabile, pur in presenza di evidenti falsificazioni. In quella occasione scrisse che si era arrivati al punto che, se George Bush avesse detto che la Terra è piatta, gran parte dei giornali avrebbero titolato che “era in corso un dibattito sulla forma del Pianeta”.

[2] ARRA è la sigla di “American Recovery and Reinvestment Act”.

[3] È la sigla dell’Ufficio della Responsabilità di Bilancio del Regno Unito.

[4] L’Area 51, inizialmente chiamata “Nevada Test Site – 51″ e successivamente ribattezzata con il nome attuale, fa parte di una vasta zona militare operativa di 26 000 k (circa l’equivalente della superficie della Sardegna) situata vicino al villaggio di Rachel a circa 150 km a nord-ovest di Las Vegas, nel sud dello stato statunitense del Nevada. Nonostante sia situata nella vasta regione appartenente alla Nellis Air Force Base, le strutture nei pressi del Groom Lake sembrano essere gestite come se fossero un distaccamento dell’Air Force Flight Test Center della base aerea di Edwards nel Deserto del Mojave e, come tale, la base è nota con il nome di Air Force Flight Test Center (Detachment 3) … Gli elevati livelli di segretezza che circondano la base e il fatto che la sua esistenza sia solo vagamente ammessa dal governo statunitense ha reso questa base un tipico soggetto delle teorie del complotto e protagonista del folklore ufologico. (Wikipedia)

 

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L’estrazione di gas tramite la “fratturazione” e il mancato miracolo del Texas (4 giugno 2015)

giugno 4, 2015

 

Jun 4 10:37 am

Fracking and the Texas Non-Miracle

Grr. I’ve been meaning to write about the Texas economic stumble, but have to some extent been scooped by the business desk. Still, there’s more to say, particularly about the role of the energy sector in the previous boom.

There are various estimates out there, many of which seem to me to understate the case. Here’s the approach that makes sense to me: look at the BEA data on state-level real GDP by sector, and ask how much of the growth in overall GDP can be accounted for by growth in mining, including both direct output and support activities. Here’s what I get, for Texas and the nation as a whole:

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How I read this: if mining growth had been the only thing driving overall Texas growth, it would have caused the state economy to grow by 6.7 percent over the period 2005-2013, compared with 1 percent for the nation as a whole. Meanwhile, overall Texas growth was 22 points more than overall US growth; so I’d say that a quarter of the difference can be attributed to the energy-sector surge.

But we don’t want to stop there: there’s also a multiplier effect, as energy jobs boost demand for other goods and services. Nakamura and Steinsson put regional multipliers at 1.5. Including that effect, I get the mining boom accounting for 35 or more percent of the excess Texas growth — let’s say a third.

It’s not the whole story; cheap housing and the still-ongoing southward shift thanks to air conditioning are also likely factors. But fracking-related growth has been big enough that the Texas slowdown now that oil prices are way down makes a lot of sense.

 

L’estrazione di gas tramite la “fratturazione” e il mancato miracolo del Texas

Che rabbia. Avevo intenzione di scrivere sul passo falso dell’economia del Texas, ma in qualche misura mi è stato scippato l’argomento dalla pagina dell’economia [1]. Eppure, c’è altro da dire, in particolare a proposito del ruolo del settore energetico nel boom precedente.

A tale proposito, ci sono molte stime in circolazione, molte delle quali mi sembrano sottovalutare la questione. Ecco l’approccio che a me sembra giusto: si guardi alle statistiche della BEA [2] sui PIL reali per settore al livello degli Stati e ci si chieda quanto della crescita del PIL complessivo possa essere messa nel conto dell’attività estrattiva, includendo sia la produzione diretta che le attività di supporto. Ecco cosa ottengo, per il Texas e per la nazione nel complesso :

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Io lo leggo in questo modo: se la crescita del settore estrattivo è stato il solo fattore a guidare la crescita complessiva del Texas, essa avrebbe dovuto provocare una crescita dell’economia di quello Stato per il 6,7 per cento nel periodo 2005-2013, a confronto dell’1 per cento della nazione nel suo complesso. Nel frattempo, la crescita complessiva del Texas è stata di 22 punti superiore della crescita complessiva degli Stati Uniti, cosicché posso affermare che un quarto della differenza può essere attribuita all’aumento del settore energetico.

Ma non è il caso di fermarci qua: c’è anche l’effetto di moltiplicatore, dal momento che i posti di lavoro nell’energia promuovono la domanda per altri beni e servizi. Nakamura e Steinsson fissano i moltiplicatori regionali all’1,5 per cento. Includendo quell’effetto, ottengo che il boom dell’attività estrattiva pesa per un 35 percento o più dell’eccesso della crescita del Texas – diciamo per un terzo.

Non è tutta la spiegazione; il prezzo conveniente delle abitazioni e l’ancora perdurante spostamento della popolazione verso il Sud grazie all’aria condizionata, sono altri probabili fattori. Ma la crescita connessa con il fracking è stata grande a sufficienza da spiegare il rallentamento del Texas, ora che i prezzi del petrolio sono calati.

 

 

[1] Traduco così, perché noto che esistono alcuni siti con questo nome che si occupano esclusivamente di temi economici e la connessione mostra un articolo apparso sulla pagina economica del New York Times in questi giorni sull’economia texana. Dunque la ‘rabbia’ dipenderebbe dall’aver perso l’esclusiva (“Scooped” non significa in realtà “scippato”, ma “svuotato”).

[2] Bureau of Economic Analysis, sito del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti.

 

 

 

I moltiplicatori e la realtà (3 giugno 2015)

giugno 3, 2015

 

Jun 3 12:17 pm

Multipliers and Reality

The fiscal multiplier — the increase in real GDP per dollar of government stimulus spending, or the fall per dollar of austerity cuts — has assumed a lot of significance in recent years. When Bernstein and Romer assumed that it was 1.5, Robert Lucas accused them of “shlock economics“, and smeared Romer’s professional ethics. Since then there has been quite a lot of empirical work, which generally indicates a multiplier of about … 1.5.

Now, however, there is an exchange between Simon Wren-Lewis and Robert Waldmann that raises some interesting issues.

Wren-Lewis argues for a multiplier of around one, based not on empirical evidence but on a priori reasoning. Suppose the government builds a school; then

my starting point is to note that because the increase in government spending is temporary, any impact on pre-tax income or taxes will be relatively small relative to a consumer’s lifetime income. As a result, aggregate consumption is likely to change either way by an amount that is a lot less than the cost of the school.

Waldmann counters that there is essentially no reason to believe that consumers engage in the kind of calculation that’s involved here, that real consumption decisions reflect rules of thumb that can easily lead to a multiplier much more than one.

I’m actually mainly with Waldmann on this one, although Wren-Lewis’s analysis is nonetheless very useful. For the point he makes about the implications even of perfectly well-informed and rational consumers was and as far as I know still is totally misunderstood by freshwater economists, who throughout this debate have given every sign of not understanding their own models. Lucas’s attack on Romer rested in part on the claim that government spending on a new bridge would lead consumers, anticipating future taxes, to offset it one for one with cuts in their own spending; this is completely wrong if the spending is temporary.

But aside from exposing the intellectual decline and fall of the Chicago School, is this the way we should go about modeling such things? Well, yes, sometimes, because rigorous intertemporal thinking, even if empirically ungrounded, can be useful to focus one’s thoughts. But as a way to think about the reality of spending decisions, no. Ordinary households — and that’s who makes consumption decisions — have no idea what the government is spending, whether it is temporary or permanent, whatever. Consider (from Vox) what the public knows about the biggest new government program of recent years:

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If people are that uninformed about something that big, imagining that they do anything like the calculations assumed in DSGE models is ludicrous. Surely they rely on rules of thumb that don’t make use of the kind of information that plays such a large role in our models.

That said, I still do believe that the multiplier is not much bigger than 1 — indeed, around 1.5; partly because of the econometrics, but also because taxes and transfers act as automatic stabilizers.

 

I moltiplicatori e la realtà

Il moltiplicatore della finanza pubblica – l’incremento del PIL reale per ogni dollaro di spesa pubblica di stimolo all’economia, o la diminuzione per ogni dollaro di tagli dell’austerità – negli anni recenti ha assunto una grande importanza. Quando Bernstein e Romer considerarono che era pari ad 1,5, Robert Lucas li accusò di “economia scadente”, e aggiunse un oltraggio all’etica professionale della Romer. Da allora abbiamo avuto un bel po’ di studi empirici, che in genere indicano un moltiplicatore attorno …. a 1,5.

Tuttavia, adesso c’è un dibattito tra Simon Wren-Lewis e Robert Waldmann che solleva alcune interessanti questioni.

Wren-Lewis si pronuncia per un moltiplicatore attorno a 1, basandosi non su prove empiriche ma su un ragionamento a priori. Supponiamo che il Governo costruisca una scuola:

“il mio punto di partenza è osservare che poiché l’aumento della spesa pubblica è temporaneo, ogni impatto sul reddito prima delle tasse o sulle tasse sarà relativamente piccolo in relazione al reddito dell’intera esistenza del consumatore. Di conseguenza, è probabile che il consumo aggregato cambi in ogni caso di una quantità che è molto inferiore al costo della scuola.”

Waldmann di contro sostiene che non c’è alcuna ragione perché i consumatori si impegnino in calcoli come quelli che in questo caso sono stati ipotizzati, che le decisioni sul consumo reale riflettono regole generali che possono facilmente portare ad un moltiplicatore molto superiore a 1.

Per la verità, in questo caso sono fondamentalmente d’accordo con Waldmann, sebbene l’analisi di Wren-Lewis sia anch’essa molto utile. Perchè l’argomento che egli avanza sulle implicazioni di consumatori pure perfettamente bene informati e razionali era, e per quanto io sappia è ancora, totalmente frainteso dagli economisti dell’ “acqua dolce” [1], che attraverso questo dibattito hanno mostrato in ogni modo di non comprendere i loro stessi modelli. L’attacco di Lucas alla Romer si basava in parte sulla pretesa che la spesa pubblica per un nuovo ponte avrebbe portato i consumatori, anticipando le tasse future, a bilanciare quella spesa con eguali tagli alla propria spesa; questo è completamente sbagliato se la spesa è temporanea.

Ma pur senza dilungarsi sul declino e sulla caduta intellettuale della Scuola di Chicago, è questa la strada per la quale dovremmo incamminarci nel modellare cose di questo genere? Ebbene, sì, qualche volta, perché un rigoroso ragionamento intertemporale, anche se empiricamente non fondato, può essere utile per mettere a fuoco i pensieri di qualcuno. Ma no, se è un modo per ragionare sulla realtà delle decisioni di spesa. Le famiglie comuni – vale a dire quelle che prendono le decisioni di spesa – non hanno idea di quello che il Governo stia spendendo, se sia temporaneo o permanente, di qualsiasi cosa si tratti. Si consideri (da VOX) quello che l’opinione pubblica conosce sul più importante dei nuovi programmi statali di questi anni [2]:

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Se le persone sono talmente disinformate su qualcosa di così importante, immaginarsi che esse eseguano a puntino tutti i calcoli che sono considerati nei modelli DSGE [3] è comico. Sicuramente essi si basano su regole generali che non fanno uso del genere di informazioni che esercitano un ruolo così grande nei nostri modelli.

Ciò detto, io credo ancora che il moltiplicatore non sia molto più grande di 1 – in effetti, attorno a 1,5; in parte per effetto dell’econometria, ma anche perché le tasse ed i trasferimenti finanziari agiscono come stabilizzatori automatici.

 

[1] Sull’origine di questa curiosa espressione relativa alla teoria economica dell’ “acqua dolce” – e dell’opposta teoria dell’ “acqua salata” – vedi a “freshwater economics” sulle note alla traduzione.

[2] Si tratta dei risultati di un sondaggio tra i cittadini americani sui costi delle nuova legge sanitaria di Obama. La domanda è relativa a tali costi, se essi siano stati inferiori al previsto, simili al previsto, superiori al previsto. È noto che i costi sono risultati inferiori. Solo il 5% ha scelto questa soluzione, il 42% ha risposto che sono stati superiori, il 40% ha risposto di non essere sicuro, il 10% che erano costi simili al previsto.

[3] Ovvero nei modelli dell’ Equilibrio Generale Dinamico Stocastico, che è il termine tecnico con il quale si indicano tali studi.

 

 

 

L’induzione retroattiva e Brad DeLong (per esperti) (dal blog di Krugman, 3 giugno 2015)

giugno 3, 2015

 

Backward Induction and Brad DeLong (Wonkish)

June 3, 2015 5:58 am

Brad DeLong is, unusually, unhappy with my analysis in a discussion of the inflationista puzzle — the mystery of why so many economists failed to grasp the implications of a liquidity trap, and still fail to grasp those implications despite 6 years of being wrong. Brad sorta-kinda defends the inflationistas on the basis of backward induction; I find myself somewhat baffled by that defense.

Actually, I find myself baffled both theoretically and empirically.

It’s true that the Hicksian framework I usually use to explain the liquidity trap is both short-run and quasi-static, and you might worry that its conclusions won’t hold up when you take expectations about the future into account. In fact, I did worry about that way back when. My work on the liquidity trap began as an attempt to show that IS-LM was wrong, that once you thought in terms of forward-looking behavior in a model that dotted all the intertemporal eyes and crossed all the teas it would turn out that expanding the monetary base was always effective.

But what I found was that the liquidity trap was still very real in a stripped-down New Keynesian model. And the reason was that the proposition that an expansion in the monetary base always raises the equilibrium price level in proportion only actually applies to a permanent rise; if the monetary expansion is perceived as temporary, it will have no effect at the zero lower bound. Hence my call for the Bank of Japan to “credibly promise to be irresponsible” — to make the expansion of the base permanent, by committing to a relatively high inflation target. That was the main point of my 1998 paper!

It’s true that some economists reading this didn’t believe it — basically because they believed that markets would regard any large increase in the monetary base as likely to become permanent. In his discussion of the 1998 paper, Ken Rogoff declared that

No one should seriously believe that the BOJ would face any significant technical problems in inflating if it puts it mind to the matter, liquidity trap or no. For example, one can feel quite confident that if the BOJ were to issue a 25 percent increase in the current supply and use it to buy back 4 percent of government nominal debt, inflationary expectations would rise.

But even in 1998 we had good reason not to believe this claim; here’s US monetary base and prices during the 1930s:

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And a few years after I published that paper, the BoJ put it to the test with an 80 percent rise in the monetary base that utterly failed to move inflation expectations. In general, Japanese experience gave us plenty of reason to realize that macroeconomics changes at the zero bound. So it’s still a puzzle that so many macroeconomists tried to apply non-liquidity-trap logic in 2009 — and just embarrassing that they’re still doing it.

One more thing: Brad says that we came into the crisis expecting business cycles and possible liquidity-trap phases to be short. What do you mean we, white man? Again, we had the example of Japan — and even aside from Rheinhart-Rogoff, it was obvious that Postmodern business cycles were different, with prolonged jobless recoveries.

In the end, while the post-2008 slump has gone on much longer than even I expected (thanks in part to terrible fiscal policy), and the downward stickiness of wages and prices has been more marked than I imagined, overall the model those of us who paid attention to Japan deployed has done pretty well — and it’s kind of shocking how few of those who got everything wrong are willing to learn from their failure and our success.

 

L’induzione retroattiva e Brad DeLong (per esperti)

Brad DeLong è scontento, in modo inconsueto, per la mia analisi in un dibattito sul mistero dei patiti dell’inflazione – il mistero del perché tanti economisti non sono riusciti a comprendere le implicazioni di una trappola di liquidità, ed ancora non riescono ad afferrare tali implicazioni, nonostante abbiano avuto torto per sei anni. Brad in qualche modo difende i patiti dell’inflazione sulla base dell’induzione retroattiva [1]; ed io sono stupefatto da una tale difesa.

In effetti, mi ritrovo stupefatto sia in termini teorici che empirici.

È vero che lo schema hicksiano è normalmente utilizzato per spiegare come la trappola di liquidità sia di breve periodo e quasi statica, e ci si potrebbe preoccupare che le sue conclusioni non reggano allorché si mettano nel conto le aspettative sul futuro. Di fatto, a quei tempi io mi preoccupavo di questo. Il mio lavoro sulla trappola di liquidità cominciò con un tentativo di spiegare che lo IS-LM era sbagliato, che un volta che si ragionava nei termini di una condotta che guarda in avanti entro un modello scrupoloso di tutte le caratteristiche intertemporali e di tutti gli specialismi [2], si sarebbe scoperto che l’espansione della base monetaria era sempre efficace.

Ma quello che io trovai era che la trappola di liquidità era ancora del tutto vera, in un modello neokeynesiano ridotto all’osso. E la ragione era che il concetto secondo il quale una espansione della base monetaria innalza sempre in proporzione il livello dei prezzi in equilibrio in effetti si applica ad una crescita permanente; se l’espansione monetaria è percepita come temporanea, essa non avrà effetto al limite inferiore dello zero dei tassi di interesse. Da lì venne il mio invito alla Banca del Giappone di “promettere in modo credibile di essere irresponsabile” – di rendere permanente la espansione della base monetaria, impegnandosi per un obbiettivo di inflazione relativamente elevato. Questo era il punto principale del mio saggio del 1998!

È vero che, nel leggere questa affermazione, alcuni economisti non ci credettero – fondamentalmente perché ritenevano che i mercati avrebbero considerato probabile che ogni ampio incremento della base monetaria divenisse permanente. Nella espressione del suo parere sul saggio del 1998, Ken Rogoff affermò che:

“Nessuno dovrebbe credere sul serio che la Banca del Giappone si troverebbe dinanzi a problemi tecnici di un qualche rilievo nell’inflazionare (la base monetaria), a seguito di riflessioni sulla possibilità o meno di una trappola di liquidità . Ad esempio, si può essere abbastanza persuasi che se la Banca del Giappone dovesse stabilire un aumento del 25 per cento nell’offerta di liquidità ed utilizzarne un 4 per cento per rimborsare il debito pubblico nominale, le aspettative inflazionistiche aumenterebbero.”

Sennonché, anche nel 1998 avevamo una buona ragione per non credere a questa affermazione; ecco l’andamento della base monetaria e dei prezzi durante gli anni ’30:

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E pochi anni dopo la pubblicazione di quello studio, la Banca del Giappone lo mise alla prova con un aumento dell’80 per cento della base monetaria, che non riuscì affatto a spostare le aspettative di inflazione. In generale, l’esperienza giapponese ci offrì una gran quantità di ragioni per comprendere che la macroeconomia cambia al limite dello zero. È dunque ancora un mistero come molti macroeconomisti cercarono di applicare nel 2009 una logica diversa dalla trappola di liquidità – ed è semplicemente imbarazzante che continuino a farlo.

Una cosa ancora: Brad dice che entrammo in crisi perché ci aspettavamo che i cicli economici e le possibili fasi della trappola di liquidità fossero brevi. Cosa intendi ‘uomo bianco’? [3] Ancora una volta, avevamo l’esempio del Giappone – e persino a non voler considerare Reinhart-Rogoff [4], era evidente che i cicli economici post-moderni erano diversi, con prolungate riprese senza crescita dei posti di lavoro.

Infine, se la crisi successiva al 2008 è stata molto più lunga di quello che mi aspettavo (in parte grazie ad una tremenda politica della finanza pubblica), e la rigidità verso il basso dei salari e dei prezzi è stata più marcata di quello che immaginavo, in generale il modello che coloro tra noi che avevano prestato attenzione al Giappone avevano messo in circolazione ha funzionato abbastanza bene – ed è in certo qual modo stupefacente quanto pochi, tra coloro che hanno capito tutto in modo sbagliato, abbiano voglia di imparare dai loro fallimenti e dai nostri successi.

 

 

[1] Ovvero (Wikipedia in inglese) “il processo di un ragionamento che risale indietro nel tempo, dall’esito di un problema o di una situazione, per definire una sequenza di azioni ottimali. Esso consiste anzitutto nel determinare l’ultimo momento nel quale si poteva prendere una decisione e scegliere cosa fare, a quel tempo, in una qualsiasi situazione. Utilizzando questa informazione, si può determinare cosa si poteva fare nel passaggio immediatamente successivo all’ultimo. Il processo prosegue retroattivamente sinché non si individua la migliore azione per ogni possibile situazione …”.

[2] Se non sbaglio, dovrebbe trattarsi di un triplo idioma.

Il primo è classico – “dot the i’s and cross the t’s” significa “mettere i puntini sulle ‘i’ e tagliare le ‘t’”, ovvero fare le cose con molto scrupolo.

Ma c’è qua anche un secondo idioma krugmaniano: le ‘i’ sono diventati le ‘intertemporal eyes” e le ‘t’ sono diventati i “teas”. Dovrebbe essere una assonanza, nella quale le ‘i’ diventano “osservazioni intertemporali” (il limite del modello IS-LM essendo sempre stato supposto nel suo essere un modello statico, che non tiene sufficientemente di conto dei fattori intertemporali).

Quanto alle “teas” – che sostituiscono le ‘t’ – si può scartare l’ipotesi che possa trattarsi di ‘tazze di tè’. Ma si può ricordare che l’espressione “cup of tea” ha il significato idiomatico di “la specialità di qualcuno”.

Naturalmente è tutto molto arrischiato e chi ha idee migliori può segnalarle.

[3] È un buffa espressione americana, forse di origine afroamericana e prima ancora derivante dall’epopea ‘indiana’, con la quale si vuole alludere alla completa estraneità di tali etnie con la mentalità degli uomini bianchi. Dunque, la si usa ironicamente per significare di non aver niente a che fare con la mentalità del proprio interlocutore.

[4] Ovvero, a non voler considerare lo studio sulla durata delle recessioni a cura degli economisti suddetti, che in questo caso sono citati come un riferimento analitico positivo.

 

 

 

Il mistero del patito dell’inflazione (2 giugno 2015)

giugno 2, 2015

Jun 2 5:59 am

 

The Inflationista Puzzle

Martin Feldstein has a new column on what he calls the “inflation puzzle” — the failure of inflation to soar despite the Fed’s large asset purchases, which led to a very large rise in the monetary base. As Tony Yates points out, however, there’s nothing puzzling at all about what happened; it’s exactly what you should expect when interest rates are near zero.

And this isn’t an ex-post rationale, it’s what many of us were saying from the beginning. Traditional IS-LM analysis said that the Fed’s policies would have little effect on inflation; so did the translation of that analysis into a stripped-down New Keynesian framework that I did back in 1998, starting the modern liquidity-trap literature.

We even had solid recent empirical evidence: Japan’s attempt at quantitative easing in the naughties, which looked like this:

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I’m still not sure why relatively moderate conservatives like Feldstein didn’t find all this convincing back in 2009. I get, I think, why politics might predispose them to see inflation risks everywhere, but this was as crystal-clear a proposition as I’ve ever seen. Still, even if you managed to convince yourself that the liquidity-trap analysis was wrong six years ago, by now you should surely have realized that Bernanke, Woodford, Eggertsson, and, yes, me got it right.

But no — it’s a complete puzzle. Maybe it’s because those tricksy Fed officials started paying all of 25 basis points on reserves (Japan never paid such interest). Anyway, inflation is just around the corner, the same way it has been all these years.

 

Il mistero del patito dell’inflazione

Martin Feldstein ha un nuovo articolo su quello che lui chiama “il mistero dell’inflazione” – il fatto che l’inflazione non schizzi in alto nonostante gli ampi acquisti di asset da parte della Fed, che hanno comportato una crescita assai ampia nella base monetaria. Come Toni Yates ha messo in evidenza, tuttavia, non c’è niente di misterioso in tutto quello che è successo: è esattamente quello che vi dovreste aspettare quando i tassi di interesse sono prossimi allo zero.

E questa non è una logica ex-post, è quanto molti di noi vengono dicendo dall’inizio. La tradizionale analisi del modello IS-LM diceva che le politiche della Fed avrebbero avuto poco effetto sull’inflazione; lo stesso diceva la traduzione di quella analisi in un essenziale modello neokeynesiano che avanzai nel passato 1998, avviando la moderna letteratura sulla trappola di liquidità.

Abbiamo anche solide recenti testimonianze empiriche: il tentativo giapponese della ‘facilitazione quantitativa’ negli anni 2000, che è apparso in questo modo [1]:

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Non sono ancora certo perché conservatori relativamente moderati come Feldstein non trovarono tutto questo convincente nel passato 2009. Suppongo di capire perché la politica li possa aver predisposti a vedere rischi di inflazione dappertutto, ma si trattava di un concetto chiaro come un cristallo, quale non s’era mai visto. Eppure, se anche aveste fatto in modo di convincervi che l’analisi della trappola di liquidità, sei anni orsono, era sbagliata, adesso dovreste aver compreso fuori da ogni dubbio che Bernanke, Woodford, Eggertsson e, in aggiunta, il sottoscritto avevamo ragione.

Invece no – è un mistero completo. Forse dipende dal fatto che i dirigenti propensi agli inganni della Fed avevano cominciato a pagare 25 punti base sulle riserve (il Giappone non ha mai pagato tali interessi) [2]. Comunque sia, l’inflazione è proprio dietro l’angolo, come è sempre stata in tutti questi anni.

 

 

[1] Sulla linea blu il forte aumento della base monetaria dal 2000 al 2005 e sulla linea rossa l’andamento piatto dell’inflazione nella esperienza giapponese.

[2] Non è una ammissione, ma una ironia. Negli anni passati, l’estremo tentativo di eludere la spiegazione della mancata inflazione sulla base della interpretazione della trappola di liquidità da parte dei conservatori, si era riferito al fatto che la Fed imponeva interessi modestissimi sulle riserve bancarie sugli asset acquistati, pur essendo tali interessi del tutto sproporzionati a spiegare il fenomeno della mancata inflazione. E del resto, il Giappone non le pagava.

 

 

 

La malattia finlandese (dal blog di Krugman, 1 giugno 2015)

giugno 1, 2015

 

Jun 1 7:38 am

The Finnish Disease

A followup to my post inspired by troubles in Finland: it’s worth emphasizing just how bad Finland’s performance has been. For Finns, the great depression they remember is the slump at the beginning of the 1990s, driven by a combination of a bursting housing bubble and the collapse of the Soviet Union next door. The result was a very nasty slump, and a delayed recovery. But this time, although the slump in per capita GDP never got quite as deep, has been far more persistent:

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OECD

Why can’t Finland recover this time? Debt is not a problem; borrowing costs are very low. But it’s all about the euro straitjacket. In 1990 the country could and did devalue, achieving a rapid gain in competitiveness. This time not, so that there is no quick way to adjust to adverse shocks:

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This shouldn’t come as a surprise; it’s the core of the classic Milton Friedman argument for flexible exchange rates, and in turn for the tradeoff at the core of optimum currency area theory. The trouble in Finland is what everyone expected to go wrong with the euro.

What’s going on in Greece represents a whole additional level of hurt, which nobody saw coming. But it’s important, I think, to realize that even countries that didn’t borrow a lot, didn’t experience large capital inflows, basically did nothing wrong by the official criteria, are nonetheless suffering in a major way.

 

La malattia finlandese

 

Un seguito al mio post ispirato dai guai della Finlandia: è il caso di sottolineare quanto sia stata negativa la prestazione finlandese. La grande depressione che i finlandesi si ricordano è il crollo agli inizi degli anni ’90, guidato dalla combinazione dell’esplosione della bolla immobiliare e del collasso dell’Unione Sovietica alla porta accanto. Il risultato fu un tremendo smottamento ed una ripresa assai lenta. Ma questa volta, sebbene il calo del PIL procapite non sia mai arrivato tanto in basso, è stato molto più persistente:

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OCSE[1]

Perché questa volta la Finlandia non si riprende? Il debito non è un problema; i costi dell’indebitamento sono molto bassi. Ma tutto dipende dalla camicia di forza dell’euro. Nel 1990 il paese poteva svalutare e svalutò, realizzando un rapido incremento di competitività. Questa volta no, e non c’è alcun modo di correggere gli impatti negativi [2]:

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Non dovrebbe essere una sorpresa; è il cuore della classica argomentazione di Milton Friedman sui di tassi di cambio flessibili, e al tempo stesso sullo scambio che è al centro della teoria dell’area valutaria ottimale. Il guaio in Finlandia è che tutti si aspettavano di finir male con l’euro.

Quello che sta accadendo in Grecia rappresenta un livello di danno del tutto aggiuntivo, del quale nessuno si era accorto. Ma è importante, credo, comprendere che persino paesi che non si erano molto indebitati, che non avevano conosciuto grandi flussi di capitali, che fondamentalmente non avevano fatto niente di sbagliato secondo i criteri ufficiali, stanno nondimeno soffrendo in modo significativo.

 

 

[1] La tabella indica l’andamento di due ben diverse ‘riprese’, quella in blu è relativa alla recessione del 1990, quella in rosso alla recessione del 2008. Il periodo che viene considerato in entrambi i casi è un periodo di 6 anni, e come si vede la crisi degli anni ’90 fu più profonda ma la ripresa rapida e netta; oggi (dati del 2014) la ripresa non si vede ancora.

[2] Il “real effective exchange rate” è il tasso di cambio nel confronto con un ‘paniere’ delle altre principali valute (dollaro statunitense, yen giapponese, euro etc.), ma corretto sulla base dell’inflazione. Se ben capisco, è questa correzione che differenzia il “real exchange rate” dal “nominal exchange rate”, giacché una valuta unica in una semplice area valutaria non comporta ovviamente una inflazione unica, cosicché non conta soltanto il nominale confronto  con le altre valute, ma anche il peso relativo dell’inflazione di un paese. Questo consente di rappresentare – sempre se capisco correttamente – in un’unica tabella un periodo storico nel quale sino al 1999 ci si riferisce al tasso di cambio del marco finlandese e successivamente all’euro, divenuto in quell’anno la moneta ufficiale della Finlandia. Il valore 1 (o 100) indica il livello al di sopra del quale la valuta utilizzata in quel paese è valutata maggiormente  delle valute del paniere, e al di sotto del quale essa è considerata di valore inferiore.

Come si nota nella tabella, la svalutazione del 1990 avvenne in modi efficaci, portando il tasso di cambio reale del marco finlandese da un valore di circa 130 ad un valore di circa 90. A partire dalla fine degli anni ’90, invece, l’adozione dell’euro non ha comportato alcuna sostanziale modifica del tasso di cambio e dunque non ha consentito alla Finlandia alcun incremento di competitività.

 

 

 

Quello che ancora non riusciamo a far nostro di Minsky (dal blog di Krugman, 1 giugno 2015)

giugno 1, 2015

 

The Case of the Missing Minsky

June 1, 2015 3:55 am

Gavyn Davis has a good summary of the recent IMF conference on rethinking macro; Mark Thoma has further thoughts. Thoma in particular is disappointed that there hasn’t been more of a change, decrying

the arrogance that asserts that we have little to learn about theory or policy from the economists who wrote during and after the Great Depression.

Maybe surprisingly, I’m a bit more upbeat than either. Of course there are economists, and whole departments, that have learned nothing, and remain wholly dominated by mathiness. But it seems to be that economists have done OK on two of the big three questions raised by the economic crisis. What are these three questions? I’m glad you asked.

As I see it, it makes sense to think of what happened in terms of three phases. First, a buildup of vulnerability, with rising leverage and an increasingly fragile financial system. Second, the acute phase of crisis, with bank runs or their functional equivalent, collapsing liquidity, and more. Then a long period of depressed employment and activity, which still isn’t over.

The questions then are how and why each of these things can/did happen. I think of these as the Minsky question — why do economies grow vulnerable over time ; the Bagehot question — why does all hell break loose now and then; and the Keynes question — how economies can stay depressed, and how such depressed economies work.

On the Keynes question, it’s true that we haven’t had a radical change in thinking, but that’s mainly because the old thinking still works pretty well. That is, the answer for people asking who would be the new Keynes turns out to be that Keynes is the new Keynes. Or maybe that’s Hicks — anyway, IS-LMish analysis worked well, and the economists who made fools of themselves were those who rejected the time-tested approaches.

What is new is that we have had a flowering of empirical work, and have much more econometric evidence on monetary and especially fiscal policy, price behavior, and more than we used to. Look, for example, at Nakamura/Steinsson’s survey, or at the Blanchard work on multipliers in the euro area. So this is a happy story: the existing framework worked fairly well, and is now buttressed by a lot of really good empirical evidence.

On the Bagehot question, economists were initially caught flat-footed, for two reasons: failure to realize that shadow banking had recreated the risk of bank runs, and failure to appreciate the problems of leverage because there is no room for such problems in representative-agent models. But it wasn’t very hard to fix these problems, or at least apply workable patches. Once you realized that repo was the new bank deposits, the basic crisis framework was already there; and there was already enough existing analysis of balance-sheet constraints and all that to make creation of a somewhat messy, inelegant, but usable set of models quite easy.

And here too we have seen a flowering of empirical work, e.g. Mian and Sufi on household debt.

Where we have not, as far as I can tell, made much progress is the Minsky question. Why did the system become so vulnerable? Was it deregulation (or failure of regulation to keep up with institutional change)? Simple forgetting, as memories of past crises faded? Excessively loose policy? I have views, but I have to admit that there isn’t a lot of either fresh thinking or hard evidence here.

Why is Minsky still mostly missing? Partly because asking how we got here may be less urgent than the question of what we do now. But also, I’d guess, because it’s hard. Bubbles, excessive leverage, and all that probably have a lot to do with the limits of rationality, and behavioral economics doesn’t provide anything like as much guidance as it should.

Still, I’m relatively positive in my assessment of the state of macroeconomics. Against mathiness and political ideology, the gods themselves contend in vain, but that’s not a problem with the models.

 

Quello che ancora non riusciamo a far nostro di Minsky

Gavyn Davis fornisce una buona sintesi della recente conferenza del FMI sul ripensamento della macroeconomia; Mark Thoma offre pensieri ulteriori. In particolare, Thoma è deluso che non ci siano state maggiori novità, e denuncia

“l’arroganza con cui si sostiene che avremmo poco da imparare, a proposito di teoria e di politica, dagli economisti che scrissero durante e dopo la Grande Depressione.”

È forse sorprendente, ma io sono più ottimista di entrambi. Naturalmente, ci sono economisti, e dipartimenti interi, che non hanno imparato niente e che restano interamente dominati dalla ossessione matematica. Sembra però che gli economisti si siano comportati bene su due delle tre questioni sollevate dalla crisi economica. Quali sono queste tre questioni? Sono contento me l’abbiate chiesto.

Per come giudico io, ha senso ragionare su quanto è avvenuto nei termini di tre fasi. La prima, un crescendo di vulnerabilità, con un rapporto di indebitamento in crescita ed un sistema finanziario sempre più fragile. La seconda, la fase acuta della crisi, con assalti agli sportelli bancari o con il loro equivalente funzionale, il crollo della liquidità ed altro ancora. Poi un lungo periodo di occupazione e di attività economica depressa, che non è ancora superato.

Le domande dunque sono come e perché ciascuna di queste tre cose è potuta accadere ed è effettivamente accaduta. Su tali domande io ragiono sulla base della domanda di Minsky [1] (perché le economie divengano vulnerabili nel tempo?), di quella di Bagehot (perché diavolo, ora e allora, è sfuggito tutto di mano?), e di quella di Keynes (come accade che le economie possano restare depresse e che tali economie depresse possano funzionare?).

Sulla domanda di Keynes, è vero che non abbiamo avuto un radicale mutamento di pensiero, ma questo è principalmente dipeso dal fatto che le vecchie idee funzionano ancora piuttosto bene. Ovvero, si scopre che la risposta a chi chiede chi sarebbe il nuovo Keynes è che il nuovo Keynes è Keynes stesso. O forse che è Hicks – in ogni modo la analisi del genere del modello IS-LM ha funzionato ottimamente, e gli economisti che si sono resi ridicoli erano gli stessi che avevano respinto gli approcci confermati dall’esperienza.

Quello che c’è di nuovo è che abbiamo avuto un rifiorire di studi empirici, ed abbiamo molte più prove econometriche sulla politica monetaria e particolarmente della finanza pubblica, sul comportamento dei prezzi e su altro, rispetto a quello a cui eravamo abituati. Si vedano, come esempi, il saggio di Nakamura e Steinsson [2], oppure il lavoro di Blanchard sui moltiplicatori nell’area euro. Questa dunque è una storia a buon fine: la struttura esistente ha retto abbastanza bene, ed è ora rafforzata da prove empiriche realmente soddisfacenti.

Quanto alla domanda di Bagehot [3], gli economisti inizialmente sono stati presi impreparati, per due ragioni: non avevano compreso che il sistema bancario ‘ombra’ aveva ricreato i rischi degli ‘assalti agli sportelli bancari’, e non erano stati capaci di apprezzare i problemi del rapporto di indebitamento crescente, perché non c’era posto per problemi del genere nei modelli del genere dell’ ‘agente rappresentativo’ C. Ma non era molto difficile ovviare a questi problemi, o almeno adottare rimedi funzionanti. Una volta che si comprendeva che i ‘repo’ erano i nuovi depositi bancari, c’era già la struttura di base della crisi; e c’era già una sufficiente analisi disponibile sui condizionamenti derivanti dagli equilibri patrimoniali e su tutto ciò che consente la creazione di una abbastanza semplice e utilizzabile serie di modelli, per quanto disordinata e inelegante.

Ed anche in questo caso abbiamo ora a disposizione una fioritura di studi empirici, ad esempio quello di Mian e Sufi [5]  sul debito delle famiglie.

Dove non avevamo fatto, per quanto posso capire, grandi progressi era sulla domanda di Minsky. Perché il sistema era diventato così vulnerabile? Era stata la deregolamentazione (o l’incapacità dei regolamenti a tenere il passo con i mutamenti istituzionali)? Semplici dimenticanze, allorché il ricordo delle crisi passate era svanito? Una politica eccessivamente approssimativa? Ho le mie opinioni a proposito, ma devo ammettere che in questo caso non c’è molto, né di pensieri originali né di testimonianze concrete.

Perché Minsky è ancora in gran parte un pensiero che non riusciamo a far nostro? In parte perché chiederci come siamo arrivati a questo punto è forse meno urgente della domanda relativa al cosa fare adesso. Ma anche, direi, perché non è semplice. Le bolle, il rapporto di indebitamento eccessivo e tutto il resto hanno probabilmente a che fare con i limiti della razionalità, e l’economia comportamentale non ci fornisce come dovrebbe niente che assomigli ad una guida adeguata.

Eppure sono relativamente ottimista nel mio giudizio sullo stato della macroeconomia. Contro l’ossessione matematica e l’ideologia politica anche gli dei si affannano invano, ma quello non è un problema com i modelli.

 

[1] Hyman Philip Minsky (Chicago, 23 settembre 191924 ottobre 1996) è stato  un economista statunitense, collocabile vicino al filone dei post-keynesiani, noto per la sua teoria dell’instabilità finanziaria e sulle cause delle crisi dei mercati. Nel suo libro principale (Keynes e l’instabilità del capitalismo, 2008) ha studiato i processi di finanziarizzazione dell’economia, della creazione di bolle speculative e delle successive crisi, come fenomeni caratteristici delle società capitalistiche, alla luce di una lettura keynesiana del funzionamento dei meccanismi economici. Probabilmente è la figura principale di economista keynesiano degli ultimi decenni, ampiamente sottovalutato, sino almeno alla crisi finanziaria del 2008. Un economista italiano che sottolineò la sua importanza fu Silvano Andriani, nel suo importante  “L’ascesa della finanza”, del 2006. Krugman stesso ha varie volte scritto di questa sottovalutazione, in un certo senso per il passato ammettendola anche da parte sua. In occasione del Convegno di Berlino uno dei principali esponenti di questo neo-minskysmo, Steve Keen, polemizzò abbastanza aspramente con Krugman, provocando alcuni suoi interventi (“Minsky e la metodologia”, post del 27 marzo 2012; “Misticismo bancario”, post sempre del 27 marzo 2012; “Misticismo bancario. Continuazione”, post del 30 marzo 2012).

[2] Due giovani economisti che operano al NBER (National Bureau of Economics Research), che vorremmo tradurre prossimamente su questo blog.

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[3] Un giornalista, imprenditore e scrittore di temi economici ma anche letterari, che visse nell’Ottocento (1826-1877). Nel contesto di questo post, il riferimento implicito è particolarmente ad un suo lavoro di storia finanziaria (“Lombard Street: una descrizione del mercato valutario”, 1873). In un certo senso, in varie occasioni (si vedano vari post di Krugman e di Brad DeLong) quello studio antico viene considerato pienamente soddisfacente per una risposta alla “domanda di Bagehot” alla quale qua si allude: come avviene che si producano sui mercati finanziari quei meccanismi cumulativi che portano alle crisi di panico finanziario.

[4] Gli economisti usano il termine ‘agente-rappresentativo’ per indicare categorie intere di soggetti che assumono decisioni economiche e di mercato ‘tipiche’, come ad esempio ‘i consumatori’ o ‘le imprese’. Un modello economico è definito del genere dell’ ‘agente-rappresentativo’ se assume che il comportamento dei soggetti di una certa categoria è identico.

[5] Di Atif Mian ed Amir Sufi vedi la traduzione in questo blog dell’articolo del 26 aprile 2014.

 

 

Quest’età di ottusi, versione Kansas (31 maggio 2015)

maggio 31, 2015

 

May 31 10:57 am

This Age of Derp, Kansas Edition

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Menzie Chinn notes the continuing failure of the Kansas experiment with supply-side tax cuts. And yes, it is an experiment — Gov. Brownback said it was, and by cutting taxes radically on the basis of ideology rather than any compelling event, Kansas in effect provided us with a natural experiment on exactly what such cuts accomplish. Menzie uses business indicators; I just look at employment growth since Brownback took office, compared with the nation as a whole (red line). No hint whatsoever of a supply-side boost, and of course a terrible fiscal crisis.

So how will this change GOP economic ideology? You know the answer: not at all. We live in an age of right-wing derp, of doctrines that just get repeated (and indeed strengthen their political hold) no matter how wrong they prove. Gold bugs and Austrians are more dominant in GOP circles than they were before seven years of wrongly predicting runaway inflation. Supply-siders are more dominant than ever despite the boom in California and the bust in Kansas.

Why this indifference to evidence? Partly it must be the closed right-wing media universe. Partly it’s political polarization, which means that in places like Kansas even the most spectacular policy failure doesn’t cost Republicans elections, whereas any hint of heresy will cost you the primary.

Anyway, it’s a remarkable picture.

 

Quest’età di ottusi [1] , versione Kansas

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Menzie Chinn osserva che l’esperimento del Kansas con i tagli al fisco derivanti dalla teoria economica dal lato dell’offerta, continuano a non avere successo. Ed è vero, si tratta di un esperimento – il Governatore Brownback lo aveva detto, e tagliando le tasse sulla base di una ideologia anziché di bisogno impellente, il Kansas ci sta in effetti esattamente fornendo un esperimento naturale su cosa tali tagli conseguono. Menzie usa gli indicatori di impresa; io osservo semplicemente i dati sulla crescita dell’occupazione dal momento in cui Brownback è entrato in carica, a confronto con la nazione nel suo complesso (linea rossa). Non c’è cenno di alcuna spinta dal lato dell’offerta, mentre c’è ovviamente una tremenda crisi finanziaria.

Quanto cambierà, dunque, l’ideologia economica del Partito Repubblicano? Sapete la risposta: per niente. A destra, viviamo in un’epoca di ottusi, di dottrine che vengono proprio ripetute in continuazione (e con ciò effettivamente rafforzano la loro presa politica), a prescindere da quanto si dimostrino sbagliate. I fautori dell’oro e gli ‘Austriaci’ sono più egemoni nei circoli repubblicani di quanto non fossero prima di sette anni di errate previsioni sull’inflazione fuori controllo. I sostenitori dell’economia dal lato dell’offerta sono più diffusi che mai, nonostante il boom in California e il disastro del Kansas.

Perché questa indifferenza ai dati di fatto? In parte deve dipendere dall’universo chiuso dei media della destra. In parte dipende dalla polarizzazione politica, il che significa che in posti come il Kansas il più spettacolare fallimento politico non comporta di perdere le elezioni, mentre ogni accenno di eresia comporterebbe di perdere le primarie.

In ogni modo, un quadro notevole.

 

 

[1] Mi pare una traduzione abbastanza accettabile. “Derp” ha un’origine onomatopeica, provenendo dal suono che un personaggio dei cartoni della serie South Park emette – sbattendosi un martello in testa – forse a significare la sua fatale inidoneità a tutto. Questo difetto di adeguatezza intellettiva, se capisco, può essere riferito al soggetto stesso o anche all’interlocutore dello stesso, quando l’altro dica una patente sciocchezza, o alla sciocchezza medesima.

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Ultima uscita prima del caos (30 maggio 2015)

maggio 30, 2015

 

May 30 5:17 am

Last Exit Before Chaos

There’s an odd summer-of-1914 feel to the current state of the Greek crisis. While some of the main players are, rightly, desperate to find a way to head off Grexit and all it entails, others – on the creditor as well as the debtor side — seem not just resigned to collapse but almost as if they’re welcoming the prospect, the way, a century ago, far too many Europeans actually seemed to welcome the end of messy, frustrating diplomacy and the coming of open war.

Is there still a way out? There should be. As I and others have been saying for a while, the arithmetic is actually quite clear: Greece cannot run a primary deficit, it cannot be forced to run a large primary surplus, so a small primary surplus is the obvious solution and better for all concerned than euro exit.

There is, one must admit, a new problem caused by the current confrontation itself: uncertainty has pushed Greece back into recession, and the primary surplus achieved last year has vanished. But given a deal it should be possible to arrange some temporary financing while a modest recovery puts the primary balance back into the black.

The big problem is how to get a deal given lack of trust on all sides. The Greeks feel, with justification, that they have been treated as a conquered province by callous and incompetent proconsuls, and balk at anything that seems like a return to the regime of the past 5 years. The institutions – looking over their shoulders at the Swabian housewife – don’t trust that the still-inexperienced Syriza government knows what it is doing, has the capacity to deliver, or is realistic about what has to be done.

Yet from what I hear there is still room for at least a temporary deal. Greece would have to deliver some concrete action – VAT hike, some adjustment on the pensions (but not a complete reform right now), maybe something on product markets. Enough so that Merkel and others can say that Greece is acting, but framed in such a way that Tsipras can say to his backers that he is not surrendering like his predecessors. Given something along these lines, the people who have been raising the bar could probably be forced to lower it again to something feasible. That is, it should be possible to get everyone to stand down.

There are just a few days left. Let’s hope that cool heads prevail.

 

Ultima uscita prima del caos

C’è una strana sensazione da estate del 1914 al punto attuale della crisi greca. Mentre alcuni protagonisti sono, giustamente, disperati di trovare un modo per evitare l’uscita della Grecia e tutto quello che comporterebbe, altri – dal lato dei creditori come da quello dei debitori – sembrano non solo rassegnati al collasso, ma quasi compiaciuti di quella prospettiva, nello stesso modo in cui, un secolo fa, anche troppi europei effettivamente sembravano essere compiaciuti della fine della confusa e frustrante diplomazia e dell’arrivo della guerra aperta.

C’è ancora una via d’uscita? Ci dovrebbe essere. Come io ed altri veniamo dicendo da un po’, in verità l’aritmetica è abbastanza chiara: la Grecia non può gestire un deficit primario e non può essere costretta a gestire un ampio avanzo primario, cosicché un piccolo avanzo primario è la soluzione ovvia, ed è migliore che non un’uscita dall’euro, per tutti quelli che sono coinvolti.

C’è, lo si deve ammettere, un nuovo problema provocato dallo stesso attuale scontro in corso: l’incertezza ha spinto la Grecia ancora più indietro nella recessione, e l’avanzo primario ottenuto l’anno passato è stato vanificato. Ma con un accordo dovrebbe essere possibile qualche finanziamento provvisorio, mentre una modesta ripresa riporterebbe l’equilibrio primario in positivo.

Il grande problema è come ottenere un accordo data la mancanza di fiducia di tutti gli schieramenti. I greci sentono, giustificatamente, di essere stati trattati come una provincia conquistata da proconsoli brutali e incompetenti, e rifiutano tutto quello che appaia come un ritorno al regime dei cinque anni passati. Le istituzioni – che devono tener presente la casalinga sveva [1] – non credono che l’ancora inesperto governo di Syriza sappia quello che sta facendo, abbia la capacità di portarlo a termine, o che sia realistico su quanto è necessario fare.

Tuttavia, da quanto apprendo, c’è ancora spazio per un accordo almeno temporaneo. La Grecia dovrebbe mettere in atto alcune iniziative concrete – un innalzamento dell’IVA, alcune correzioni sul sistema pensionistico (ma non una riforma completa, in questo momento), forse qualcosa sui mercati dei prodotti. Abbastanza da consentire alla Merkel e ad altri di affermare che la Grecia sta agendo, ma in una cornice tale che Tsipras possa dire ai suoi sostenitori che egli non si sta arrendendo come i suoi predecessori. Sulla base di queste premesse, le persone che stanno alzando l’asticella probabilmente sarebbero costrette ad abbassarla nuovamente, verso soluzioni fattibili. Vale a dire, dovrebbe essere possibile per tutti trovare un accomodamento.

Sono rimasti soltanto pochi giorni. Speriamo che prevalgano i nervi saldi.

 

[1] La “casalinga sveva” è il mito della frugalità della donna di casa tedesca, al quale ha fatto spesso riferimento la stessa Angela Merkel. Suppongo che in questo caso il letterale ‘guardare oltre le loro spalle’ possa essere tradotto nel senso di considerare il senso comune nazionale, di non offendere quel mito di supposta frugalità.

 

 

Disagio nordico (dal blog di Krugman, 29 maggio 2015)

maggio 29, 2015

 

May 29 1:27 pm

Northern Discomfort

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The FT has an interesting although garbled story about Finland’s economic woes. Ignore the numbers, which as best I can tell are all wrong (is this becoming an FT trademark?); more crucially, someone seems confused about the difference between wages and unit labor costs. If you go to the Conference Board numbers, you find that Finland has indeed seen a rapid rise in ULC, but not because of a wage explosion; it’s all about collapsing manufacturing productivity.

But the broader story here is that we’re increasingly seeing that the problems of the euro extend well beyond the troubles of southern European debtors. Economic performance has also been very bad in several northern nations with good credit ratings and low borrowing costs — Finland, Denmark (which isn’t on the euro but shadows it), the Netherlands.

What’s going on? Well, in the case of Finland we’re seeing the classic problems of asymmetric shocks in a currency area that isn’t optimal. Finland’s two main export sectors, forest products and Nokia, have tanked; this creates the need for a sharp fall in relative wages to make up for the lost markets, but because Finland doesn’t have its own currency anymore this adjustment must take the form of a slow, grinding internal devaluation (which is, by the way, why the garbled discussion of wages turns the story into nonsense).

The problems of the euro, in other words, weren’t caused by an outbreak of fiscal irresponsibility that won’t recur if the Greeks can be brought to heel; they weren’t even, in a deep sense, the result of big capital flows that won’t come back again. The whole single currency project was flawed from the start, and will keep generating new crises even if Europe somehow gets through this one.

 

Disagio nordico [1]

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Il Financial Times pubblica un racconto interessante, seppure ingarbugliato, sui guai economici della Finlandia. Trascurate i dati, il meglio che posso dirne è che sono tutti sbagliati (sta diventando un marchio di fabbrica del FT?); più determinante, qualcuno sembra si confonda sulla differenza tra salari e costi unitari del lavoro. Se andate ai dati di The Conference Board [2], scoprite che la Finlandia ha conosciuto in effetti una crescita rapida nei costi unitari del lavoro, ma non a causa di una esplosione salariale; tutto è dipeso da un collasso della produttività nel settore manifatturiero.

Ma la storia più generale in questo caso è che stiamo sempre di più constatando che i problemi dell’euro vanno ben oltre i guai dei debitori dell’Europa meridionale. Le prestazioni economiche sono state assai negative anche in varie nazioni del Nord con classificazioni sul credito positive e bassi costi di indebitamento – la Finlandia, la Danimarca (che non è nell’euro ma lo segue come un’ombra), l’Olanda.

Cosa sta succedendo? Ebbene, nel caso della Finlandia stiamo assistendo ai classici problemi degli shock asimmetrici in un’area valutaria non ottimale [3]. Due principali settori delle esportazioni finlandesi, i prodotti forestali e Nokia, sono calati bruscamente; questo crea la necessità di una brusca diminuzione dei salari relativi, ma poiché la Finlandia non ha più la sua propria valuta questa correzione deve avvenire nella forma di una lenta, pesante svalutazione interna (la qualcosa, per inciso, è la ragione per la quale quella confusionaria ricostruzione sui salari trasforma quel racconto in un nonsenso).

I problemi dell’euro, in altre parole, non furono prodotti da una esplosione di irresponsabilità nelle finanze pubbliche che non si ripeteranno se i Greci saranno ridotti all’obbedienza; essi non furono nemmeno, in sostanza, il risultato di grandi flussi di capitali che non avranno più luogo. L’intero progetto della valuta unica era difettoso dall’inizio, e continuerà a generare nuove crisi anche se l’Europa in qualche modo riuscirà a superare questa.

 

 

[1] La tabella mostra quanto alcuni paesi dell’Europa del Nord condividano i disagi delle nazioni europee in crisi. Come si nota la caduta del PIL procapite in Finlandia si è collocata, nel periodo 2007-2014, sostanzialmente agli stessi livelli di Spagna e Portogallo, appena un po’ meglio dell’Italia. Danimarca e Olanda seguono a ruota.

Il 27 maggio scorso, Timo Soini, sotto nella foto, il leader del partito populista ed euroscettico finlandese, è diventato Ministro degli Esteri e degli affari europei della nuova coalizione di centro destra.

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[2] Una associazione fondata nel 1916 di ricerca economica.

[3] Sul concetto di “shocks asimmetrici” si legga, tradotto in questo blog, l’intervento di Paul Krugman nel maggio del 2012 alla Conferenza annuale di Macroeconomia del National Bureau of Economic Research.

Questo è un estratto riferito a tale concetto: “Gli svantaggi di una singola valuta derivano da una perdita di flessibilità. Non si tratta solo del fatto che un’area valutaria è costretta ad una unica politica monetaria che deve andar bene per tutti; è ancora più importante la assenza di meccanismi di correzione. Per questa ragione sembrava agli ideatori dell’ OCA (Area Valutaria Ottimale), e continua a sembrare oggi, che i mutamenti nei prezzi relativi e nei salari siano molto più facilmente ottenibili attraverso la svalutazione della moneta che non attraverso la rinegoziazione dei contratti individuali. L’Islanda ha ottenuto una caduta del 25 per cento dei salari in relazione al centro Europa in un colpo solo, con la caduta del krona. La Spagna probabilmente ha bisogno di una analoga correzione, ma tale correzione, ammesso che possa davvero aver luogo, richiederà anni di brusca deflazione dei salari a fronte di una elevata disoccupazione.

Ma perché mai sono necessarie correzioni del genere? La risposta sono gli “shocks asimmetrici”. Un boom od una crisi generalizzata in un’area valutaria non presentano alcun problema particolare. Ma supponiamo, per fare un esempio tutt’altro che ipotetico, che un grande boom immobiliare porti alla piena occupazione ed alla crescita dei salari in una parte, ma solo in una parte, dell’area valutaria, dopodiché vada in crisi. L’eredità di quegli incrementi salariali dei tempi del boom sarà un settore manifatturiero non competitivo, e di conseguenza il bisogno di provocare un nuovo abbassamento dei salari, almeno relativi.

Dunque i vantaggi di una moneta unica comportano un costo potenzialmente elevato. Le teoria dell’area valutaria ottimale è relativa ad un bilancio comparato di quei vantaggi e di quei costi potenziali.”

 

 

 

 

 

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