Blog di Krugman

Sesso, droga e tassi a zero (dal blog di Krugman, 29 maggio 2015)

 

May 29 6:52 am

Sex and Drugs and Zero Rates

Bloomberg has a clever chart, showing just how many traders have never seen an economy not at the zero lower bound:

z 736

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

This cries out, of course, for a callback to my favorite blog comment ever, on Kevin O’Rourke’s What Do Markets Want? Saith the commenter,

The markets want money for cocaine and prostitutes. I am deadly serious.

Most people don’t realize that “the markets” are in reality 22-27 year old business school graduates, furiously concocting chaotic trading strategies on excel sheets and reporting to bosses perhaps 5 years senior to them. In addition, they generally possess the mentality and probably intelligence of junior cycle secondary school students. Without knowledge of these basic facts, nothing about the markets makes any sense—and with knowledge, everything does.

Side benefit: read the caption on the Bloomberg chart, and note how bad economic analysis — the specific kind of bad analysis one finds on cable TV business news — gets presented, probably unknowingly, not even as opinion but as fact. “Inexperienced traders will have to tackle markets without the central bank’s artificially low interest rates …” [my emphasis]. Who says they’re artificially low? What does that even mean? It might mean rates below the Wicksellian natural rate, which is the rate that produces stable inflation — but with inflation consistently below the Fed’s target, this criterion would if anything say that rates are artificially high, propped up by the zero lower bound.

Anyway, this is an issue that has been hashed over many times, most recently by Ben Bernanke, saying pretty much exactly the same thing I said a year earlier. But someone at Bloomberg thinks it’s just a well-known fact that rates are artificially low, and so misinforms readers.

 

Sesso, droga e tassi a zero

Bloomberg presenta una diagramma ingegnoso, che mostra come molti operatori non abbiano mai visto un’economia che non fosse al limite inferiore dello zero nei tassi di interesse [1]:

z 736

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutto questo reclama inevitabilmente una citazione del migliore commento di tutti i tempi che io abbia mai letto su un blog, nell’articolo “Cosa vogliono davvero i mercati?” di Kevin O’Rourke. Così si espresse il commentatore:

“I mercati vogliono soldi per la cocaina e le prostitute. Lo dico assolutamente sul serio.

Gran parte delle persone non comprendono che “i mercati” sono in realtà laureati di scuole di management tra i 22 ed i 27 anni, che escogitano furiosamente strategie commerciali sui fogli di ‘excel’ e ne fanno resoconti a principali che hanno forse cinque anni più di loro. In aggiunta, in generale essi sono dotati della mentalità e magari della perspicacia di studenti di un ciclo di scuole secondarie superiori. Se non si conoscono questi fatti fondamentali, niente dei mercati diventa comprensibile – e si si conoscono, tutto diventa comprensibile.”

Un servizio aggiuntivo: si legga, sul diagramma di Bloomberg, il sottotitolo e si osservi come, probabilmente in modo inconscio, venga presentata una analisi economica scadente – quel genere particolare di analisi scadente che si trova sui notiziari delle televisioni via cavo che si occupano di economia – peraltro non come una opinione ma come un dato di fatto. “Operatori inesperti dovranno misurarsi con i mercati senza i tassi di interesse artificialmente bassi della banca centrale …” [sottolineatura mia]. Chi lo dice che sono artificialmente bassi? Cosa mai significa? Potrebbe significare tassi che sono al di sotto del tasso wickselliano naturale [2] – ma con l’inflazione costantemente al di sotto dell’obbiettivo della Fed, questo criterio significherebbe semmai che i tassi sono artificialmente alti, puntellati dal limite inferiore dello zero.

In ogni modo, questo è un tema che è stato sviscerato molte volte, più di recente da Ben Bernanke [3], che ha detto quasi esattamente le stesse cose che io dissi un anno fa. Ma qualcuno a Bloomberg pensa che sia semplicemente un fatto ben noto che i tassi di interesse siano artificialmente bassi, e di conseguenza disinforma i lettori.

 

 

[1] Il titolo del diagramma significa: “Il rialzo del tasso della Fed, per Wall Street è come un diventare maggiorenni”. Sottotitolo: “Mentre la Fed si prepara ad elevare i tassi, per la prima volta operatori inesperti dovranno misurarsi con mercati senza i tassi di interesse artificialmente bassi della banca centrale.”

In effetti sul diagramma, nel segmento con i tassi di interesse a zero dal 2009 al 2015, si legge che quasi un terzo degli operatori non hanno mai visto tassi di interesse diversi dallo zero.

[2] Johan Gustaf Knut Wicksell (Stoccolma, 20 dicembre 1851Stocksund, 3 maggio 1926) è stato un economista svedese. Wicksell, molto influenzato dalle visioni economiche di Léon Walras, Eugen von Böhm-Bawerk e David Ricardo, cercò di trovare una sintesi proprio tra questi tre importanti economisti. Il suo lavoro di creazione di una teoria economica sintetica gli valse l’appellativo di “economista degli economisti”. Partendo da presupposti marginalisti, e difendendo la distribuzione della ricchezza prodotta, Wicksell sostenne la necessità dell’intervento dello Stato per implementare lo stato sociale. Wicksell contribuì molto alla teoria dell’interesse, soprattutto attraverso l’opera del 1898, intitolata Geldzins und Güterpreise. Wicksell separò il concetto di interesse naturale da quello di interesse della moneta. Il primo è neutrale rispetto ai prezzi del mercato reale mentre il secondo è la mera visione dell’interesse del mercato dei capitali. (Wikipedia)

Il tasso di interesse neutrale, o anche ‘naturale’, è il tasso al quale il PIL reale sta crescendo al suo tasso tendenziale e l’inflazione è stabile. In questo senso coincide con il tasso che è coerente con la piena occupazione ‘possibile’. ‘Possibile’ e non letterale, perché la condizione che determina la quantità di occupazione consiste nel fatto che essa non provochi spinte inflattive, e questo coincide con un livello di disoccupazione considerato il minimo ragionevole (la Fed lo stima attorno al 5/5,5).

[3] Vedi in questo blog la traduzione del post di Bernanke (“Perché i tassi di interesse sono così bassi?”, 30 marzo 2015).

 

 

 

 

Lettonia: l’eccitazione è passata (28 maggio 2015)

maggio 28, 2015

 

May 28 1:04 pm

Latvia: The Thrill Is Gone

Back in 2013, when Olivier Blanchard presented a paper on Latvia at the Brookings Panel, many of the participants were bemused: why was the august panel devoting so much time to a country with the population of Brooklyn? But Latvia was, for a time, the great poster child for austerity.

Even then, as many of us pointed out (I was one of Olivier’s discussants) that role rested on shaky foundations; the main really good news about Latvia, rapid productivity growth, arguably had more to do with the catchup of a very poor country by European standards than with macro policy.

And now, as Frances Coppola notes, the era of rapid bounce back has stalled out. Here’s Latvia as compared with another small peripheral economy (even fewer people, although comparable GDP) that followed very different policies:

z 735

 

 

 

 

 

 

 

 

Eurostat

And no, Latvia’s rapid pre-crisis growth says nothing at all about the success of its post-crisis policies — if anything, it should set the bar for success higher.

Truly, nothing much here to justify all that triumphalism.

 

Lettonia: l’eccitazione è passata

Nel 2013, quando Olivier Blanchard presentò un saggio sulla Lettonia al Brooking Panel, molti dei partecipanti rimasero sconcertati: perché quel prestigioso comitato dedicava tanto tempo ad un paese con la popolazione di Brooklyn? Ma, per un certo periodo, la Lettonia fu il grande riferimento pubblicitario dell’austerità.

Anche allora, come molti di noi misero in evidenza (io fui un degli interlocutori di Olivier in quel dibattito) quel ruolo si basava su fondamenti traballanti; la vera principale buona notizia sulla Lettonia, una crescita della produttività molto rapida, aveva probabilmente molto più a che fare con il fatto che un paese molto povero si era rimesso al passo degli standard europei che non con la politica macroeconomica.

E adesso, come osserva Frances Coppola, l’epoca del grande rimbalzo si è bloccata. Ecco un confronto tra la Lettonia e un’altra piccola economia periferica (con ancora meno abitanti, seppure con un PIL comparabile) che ha seguito politiche molto diverse:

z 735

 

 

 

 

 

 

 

 

Eurostat

 

E no, la rapida crescita precedente alla crisi non ci dice niente del successo delle sue politiche successive alla crisi – semmai, dovrebbe collocare più in alto la barra del successo.

Per la verità qua non c’è niente che giustifichi quel trionfalismo.

 

Note preliminari sull’ineguaglianza e sulla organizzazione urbana (27 maggio 2015)

maggio 27, 2015

 

Preliminary Notes on Inequality and Urbanism

May 27, 2015 8:53 am

Edited slightly from first version

Tim Wu has an interesting piece about the phenomenon of vacant storefronts in booming New York neighborhoods, which by coincidence dovetails with a number of conversations I’ve been having here at the Said Business School in Oxford, where several people are interested in the changing economic geography of London and its links to globalization.

The empty-store phenomenon is interesting, and cries out for a bit of modeling, which I won’t do right now. But it’s part of a broader story of big money moving in to desirable neighborhoods, and in the process destroying what makes them desirable. And this in turn has me thinking, blurrily — this is just a start — about the relationship between inequality and urbanism. Not as a diatribe — I think it’s a fairly complex issue — but just as an interesting thing, especially if you’re in the process of moving into a big city.

Some thoughts:

First, when it comes to things that make urban life better or worse, there is absolutely no reason to have faith in the invisible hand of the market. External economies are everywhere in an urban environment. After all, external economies — the perceived payoff to being near other people engaged in activities that generate positive spillovers — is the reason cities exist in the first place. And this in turn means that market values can very easily produce destructive incentives. When, say, a bank branch takes over the space formerly occupied by a beloved neighborhood shop, everyone may be maximizing returns, yet the disappearance of that shop may lead to a decline in foot traffic, contribute to the exodus of a few families and their replacement by young bankers who are never home, and so on in a way that reduces the whole neighborhood’s attractiveness.

On the other hand, however, an influx of well-paid yuppies can help support the essential infrastructure of hipster coffee shops (you can never have too many hipster coffee shops), ethnic restaurants, and dry cleaners, and help make the neighborhood better for everyone.

What does history tell us? Politically, I’d like to say that inequality is bad for urbanism. That’s far from obvious, however. Jane Jacobs wrote The Death and Life of Great American Cities right in the middle of the great postwar expansion, an era of widely shared economic growth, relatively equal income distribution, empowered labor — and collapsing urban life, as white families fled the cities and a combination of highway building and urban renewal destroyed many neighborhoods.

And when a partial urban revival began, it was arguably associated with forces driven by or associated with rising inequality. Affluent types in search of a bit of cool — probably 5 percenters rather than 1 percenters, and more or less David Brooks’s Bobos (bourgeois bohemians) drove gentrification and revival in urban cores; in New York, at least, large number of poorly paid but striving immigrants drove the revival of outer borough neighborhoods like Jackson Heights or Brighton Beach.

Still, we’re now arguably looking at something new, as the really wealthy — domestic malefactors of great wealth, but also oligarchs, princelings, and sheiks — buy up prime real estate and leave it vacant, creating luxury-shopping wastelands at best (I know, snobbish Upper West Side bias), expensive ghost districts at worst.

Anyway, interesting to think about, and for me a welcome diversion from dark thoughts about Greece.

 

Note preliminari sull’ineguaglianza e sulla organizzazione urbana

Leggermente corrette da una prima versione

Tim Wo pubblica un interessante articolo sul fenomeno delle ‘vetrine vuote’ [1] nella espansione dei quartieri periferici di New York, che per combinazione coincide con un certo numero di colloqui che sto avendo qua, alla Saïd [2] Business School di Oxford, dove varie persone sono interessate ai mutamenti della geografia economica di Londra ed al rapporto di tutto questo con la globalizzazione.

Il fenomeno dei negozi vuoti è interessante, e chiede con evidenza un qualche modello, che non voglio esporre in questo momento. Ma è parte di un racconto più ampio dei grandi capitali che si spostano verso quartieri appetibili, e in questo processo distruggono quello che li rendeva appetibili. E a sua volta questo mi porta a riflettere in modo indefinito (questo è solo un inizio) sulla relazione tra eguaglianza ed urbanizzazione. Non nella forma di un’invettiva – penso che sia una questione discretamente complicata – ma solo come una cosa interessante, in particolare se state trasferendovi in una grande città.

Alcuni pensieri.

Il primo: quando si ragiona della cose che rendono la vita urbana migliore o peggiore, non c’è assolutamente alcuna ragione di credere nella mano invisibile del mercato. Dopo tutto, le economie esterne – il vantaggio che si intuisce dallo star vicini ad altre persone impegnate in attività che generano ricadute positive – è la prima ragione dell’esistenza delle città. E questo a sua volta comporta che i valori di mercato possono produrre molto facilmente incentivi alla distruzione. Quando, ad esempio, una filiale di una banca occupa lo spazio in precedenza occupato da un amatissimo negozio di quartiere, tutti cercano di sfruttarne al meglio i vantaggi, tuttavia la scomparsa di quella bottega può portare ad una diminuzione di pedoni che passeggiano, contribuendo all’esodo di alcune famiglie ed alla loro sostituzione con giovani banchieri che non stanno mai in casa, e così via, in modi che riducono l’attrattività complessiva del quartiere.

D’altra parte, è pur vero che giovani rampanti ben pagati possono aiutare a sostenere l’infrastruttura fondamentale dei caffè alla moda (caffè alla moda non ce n’è mai troppi), di ristoranti esotici e di lavanderie a secco, e contribuire a rendere il quartiere migliore per tutti.

Tutto questo cosa ci dice? Politicamente, direi che l’ineguaglianza è negativa per l’organizzazione delle città. Tuttavia, è lungi dall’essere ovvio. Jane Jacobs scrisse “La morte e la vita delle grandi città americane” proprio nel mezzo della grande espansione postbellica, un’epoca di crescita economica ampiamente condivisa, di distribuzione del reddito relativamente equa, di maggior potere dei lavoratori – e di contro di crisi nella vita urbana, quando le famiglie bianche fuggivano dalle città ed una combinazione di costruzione della viabilità principale e di riqualificazione urbanistica distrusse molti quartieri.

E quando riprese in parte la vita nelle città, essa fu verosimilmente connessa con fattori provocati o associati ad una crescente ineguaglianza. Individui benestanti in cerca di un po’ di fresco – probabilmente facenti parte del 5 per cento dei più ricchi e non dell’1 per cento, chi più chi meno bohémien borghesi (quelli che David Brooks chiama “bobos”) guidarono la gentrificazione [3] ed il risveglio dei centri urbani; almeno a New York, un ampio numero di immigrati con poveri stipendi ma con aspirazioni guidarono la ripresa di quartieri nei distretti più esterni, come Jackson Heights o Brighton Beach.

Eppure, adesso stiamo assistendo a qualcosa di nuovo, come individui realmente ricchi – malfattori autoctoni dotati di grandi ricchezze, ma anche oligarchi, principini e sceicchi – che acquistano immobili di prima qualità e li lasciano vuoti, nel migliore dei casi creando aree desolate di negozi di lusso, nel peggiore dei casi costosi distretti fantasma (capisco che la mia possa sembrare una tendenza snob da Upper West Side [4]).

In ogni caso, cose interessanti su cui ragionare, e per me una felice diversione dai pensieri bui sulla Grecia.

[1] L’articolo di Tim Wo descrive la situazione di un quartiere di New York, il West Village, nel quale crescono le chiusure a tempo indeterminato di vari negozi. Il quartiere è ricco – un reddito medio di circa 120.000 dollari annui – ed il fenomeno non deriva da precedenti specifiche difficoltà economiche di quegli esercizi; piuttosto da improvvisi enormi aumenti del costo degli affitti, che mettono fuori mercato quelle attività. Il punto è che in seguito quei negozi possono restare chiusi anche per anni. Con quale logica economica? L’unica logica che si può immaginare è la scommessa speculativa di futuri interessi a quelle locazioni da parte di attività disposte a pagare affitti molto maggiori. In un certo senso, dunque, non è la povertà, ma la possibile ricchezza futura che porta a quei fallimenti.

“Vetrine vuota” (“vacant storefronts”) – oppure “shuttered storefronts” (“impostoni chiusi”) – indica dunque la chiusura di attività commerciale; ma più precisamente indica un prolungato periodo di inattività, nel quale i negozi restano vuoti e non sono sostituiti da altri esercizi simili.

[2] Correggiamo la denominazione dell’Istituto di Oxford (da “Said” a “Saïd”) perché in effetti il termine proviene dal primo benefattore dell’istituto, un miliardario siriano-saudita di nome Wafic Saïd.

[3] Termine coniato nel 1964 da R. Glass e con il quale si intende quel fenomeno di rigenerazione e rinnovamento delle aree urbane che manifesta, dal punto di vista sociale e spaziale, la transizione dall’economia industriale a quella postindustriale. La gentrificazione è tipica delle «città globali», associata alle politiche a indirizzo neoliberale, con forte permeabilità delle arene pubbliche locali agli interessi del capitale privato. Gli effetti della g. consistono in un radicale mutamento delle aree più depresse (inner city) delle città industriali in termini sia di ambiente costruito – attraverso la demolizione, ricostruzione o riqualificazione dei quartieri storici in via di decadenza – sia della composizione sociale. (Treccani)

[4] L’Upper West Side è un quartiere dell’isola newyorkese di Manhattan. Il quartiere ha la reputazione di essere l’area di New York City con maggiori lavoratori in ambito culturale ed artistico, mentre l’East Side è tradizionalmente il quartiere dei lavoratori di affari e commercio. (Wikipedia)

z 734

 

 

 

L’uscita della Grecia e il giorno dopo (blog di Krugman, 25 maggio 2015)

maggio 25, 2015

 

May 25 9:24 am

Grexit and the Morning After

We just had another electoral earthquake in the euro area: Podemos-backed candidates have won local elections in Madrid and Barcelona. And I hope that the IFKAT — the institutions formerly known as the troika — are paying attention.

The essence of the Greek situation is that the actual parameters of a short-run deal are clear and unavoidable: Greece can’t run a primary budget deficit, because nobody will lend it new money, and it won’t (and basically can’t) run a large primary surplus, because you can’t squeeze even more blood from that stone. So you would think that an agreement for Greece to run a modest primary surplus over the next few years would be easy to reach — that is what will happen, so why not make it official?

But now the IMF is playing bad cop, declaring that it cannot release funds until Syriza toes the line on pensions and labor market reform. The latter is dubious economics — the IMF’s own research doesn’t support enthusiasm about structural reforms, especially in the labor market. The former probably recognizes a real problem — Greece probably can’t deliver what it has promised pensioners — but why should this be an issue over and above the general question of the primary surplus.

What I would urge everyone to do is ask what happens if Greece is in fact pushed out of the euro. (Yes, Grexit — ugly word, but we’re stuck with it.)

It would surely be ugly in Greece, at least at first. Right now the core euro countries believe that the rest of the euro area can handle it, which might be true. Bear in mind, however, that the supposed firewall of ECB support has never actually been tested. If markets lose faith and the time for ECB purchases of Spanish or Italian bonds arises, will it really happen?

But the bigger question is what happens a year or two after Grexit, where the real risk to the euro is not that Greece will fail but that it will succeed. Suppose that a greatly devalued new drachma brings a flood of British beer-drinkers to the Ionian Sea, and Greece starts to recover. This would greatly encourage challengers to austerity and internal devaluation elsewhere.

Think about it. Just the other day the Very Serious Europeans were hailing Spain as a great success story, a vindication of the whole program. Evidently the Spanish people don’t agree. And if the anti-establishment forces have a recovering Greece to point to, the discrediting of the establishment will accelerate.

One conclusion, I guess, is that Germany should try to sabotage Greece post-exit. But I hope that will be considered unacceptable.

So think about it, IFKATs: are you really sure you want to start going down this road?

 

L’uscita della Grecia e il giorno dopo

Abbiamo avuto un altro terremoto elettorale nell’area euro: i candidati sostenuti da Podemos hanno vinto le elezioni locali a Madrid e Barcellona. Ed io spero che l’IFKAT – l’istituzione precedentemente nota come troika – stia prestando attenzione.

La sostanza della situazione greca è che gli attuali parametri di un accordo di breve periodo sono chiari ed ineludibili: la Grecia non può gestire un deficit di bilancio primario perché nessuno gli presterà nuovi soldi, e non vorrà (fondamentalmente non potrà) gestire un ampio avanzo primario, perché non si può spremere ancora più sangue da una pietra. Dunque, si penserebbe che un accordo nel quale la Grecia gestisca un modesto avanzo primario nei prossimi anni dovrebbe essere facile da raggiungere – e se è quello che accadrà, perché non renderlo ufficiale?

Ma ora il FMI sta facendo la parte del poliziotto cattivo, che non può concedere finanziamenti finché Syriza non si mette in riga con la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro. Quest’ultima è economicamente dubbia – la stessa ricerca del FMI non conferma l’entusiasmo sulle riforme strutturali, specialmente sul mercato del lavoro. L’altra riforma probabilmente riguarda un problema vero – la Grecia probabilmente non può dare ai propri pensionati quello che gli ha promesso – ma non c’è ragione che questo sia un problema che si aggiunge alla questione generale dell’avanzo primario.

Quello che solleciterei tutti a chiedersi è che cosa accadrà se la Grecia sarà di fatto spinta fuori dall’euro (sì, il Grexit – brutta parola, ma è lì che siamo impantanati).

Sarebbe certamente preoccupante per la Grecia, almeno agli inizi. In questo momento i paesi del centro dell’euro credono che il resto dell’area euro potrebbe reggere l’impatto, il che potrebbe esser vero. Si tenga a mente, tuttavia, che il presunto sistema di protezione del sostegno della BCE non è mai stato effettivamente messo alla prova. Se i mercati perdono la fiducia e viene fuori il momento degli acquisti di bond spagnoli o italiani da parte della BCE, cosa accadrà realmente?

Ma la questione più grande è quello che accadrà un anno o due dopo l’uscita della Grecia, laddove il rischio reale per l’euro non è che la Grecia fallisca, ma che abbia successo. Supponiamo che una nuova dracma fortemente svalutata porti un’ondata di bevitori di birra inglesi sul Mar Ionio, e che la Grecia cominci a riprendersi. Questo in grande misura incoraggerebbe gli sfidanti dell’austerità e della svalutazione interna in tutti gli altri paesi.

Ci si rifletta. Solo pochi giorni orsono gli Europei Molto Seri salutavano la Spagna come una grande storia di successo, un risarcimento per l’intero loro progetto. È evidente che il popolo spagnolo non condivide quell’opinione. E se le forze ostili a questi assetti istituzionali possono indicare l’esempio di una Grecia che si riprende, il discredito di quegli assetti istituzionali avrà una accelerazione.

Suppongo che una possibile soluzione potrebbe essere un tentativo di sabotaggio della Grecia da parte della Germania, nel periodo successivo all’uscita. Ma voglio sperare che sarà considerata inaccettabile.

Dunque rifletteteci, signori dell’IFKAT: siete proprio sicuri di volervi incamminare su questa strada?

 

Regimi e regressioni (per esperti) (dal blog di Krugman, 23 maggio 2013)

maggio 23, 2015

 

May 23 3:33 am

Regimes and Regressions (Wonkish)

Some people have asked me about the chart in this post on interest rates and their effect: why did I truncate the time period, so as not to include the past couple of decades? I actually did explain my reasoning right there in the post (although I should know by now that careful reading is, let’s say, not a universal skill), but let’s revisit that anyway — and while we’re at it, let me talk about the broader principle involved.

Here’s what I said in the post:

Here’s the inverse of the Fed funds rate versus housing starts during the period when major moves in monetary policy were mainly driven by concerns about inflation (as opposed to bursting bubbles) [emphasis added]

To see what I was talking about, compare the interest-rate housing correlation in the early 1980s with the correlation after 2006 (sorry, you may have to squint a bit):

z 728

 

 

 

 

 

In the left panel, you see the Fed funds rate seesawing as the Fed tried to grapple with inflation — and you see housing starts move strongly in the opposite direction, plunging when rates rose and soaring when they fell. In the right panel, however, you see housing starts and interest rates moving in the same direction — plunging together. So is there no relationship?

Bad answer. The situations are different in a fundamental way. In the 80s interest rates were being driven by fear of inflation; from the point of view of the housing market, they were more or less endogenous. In the post-2006 period they were being driven largely by the housing bust itself. So the 80s experience was a sort of natural experiment in the effects of rate changes, whereas more recent events are an illustration of reverse causation.

And I’ve been arguing for a long time that there was a regime shift in the late 1980s, that as inflation fears were replaced by the Great Moderation, we entered an era of postmodern recessions in which monetary policy was trying to clean up after bubbles rather than curb inflation.

The point, then, is that when you look for the effects of monetary policy, it’s often important to distinguish between eras when interest rates are a cause and eras when they’re an effect — and it’s not that hard to know which eras we’re talking about.

The same principle applies to fiscal policy. I do a lot of scatterplots over the period from 2009 onward, because that’s the era of panic-driven austerity, when big changes in spending and taxes were a response to fears and arguably exogenous to real GDP. A scatterplot that includes other eras — in particular, eras when the zero lower bound wasn’t binding and governments weren’t worried about bond vigilantes — is not going to give the same result.

Again, we’re looking for reasonable approximations to natural experiments here. Really clean natural experiments are hard to find, but some eras provide better experiments than others.

 

Regimi e regressioni (per esperti)

Alcune persone mi hanno fatto domande sul diagramma che compare in questo post [1] sui tassi di interesse e sui suoi effetti: perché ho interrotto la serie temporale, in modo da non includere i due decenni passati? Effettivamente avevo spiegato il mio ragionamento proprio in quel post (sebbene dovrei ormai sapere che una lettura scrupolosa non è, diciamo così, una dote universale), ma in ogni modo torniamo ad esaminarla – e, già che ci siamo, consentitemi di parlare sul principio più generale che è implicito.

Ecco cosa avevo scritto nel post:

Ecco la relazione inversa tra i tassi di riferimento della Fed e gli avvii di attività di costruzione di edifici durante il periodo nel quale gli spostamenti nella politica monetaria furono direttamente guidati dalle preoccupazioni sull’inflazione (ovvero, nel caso opposto dello scoppio delle bolle) [sottolineature aggiunte]”

Per capire di cosa stavo parlando, confrontate la correlazione tra tassi di interesse ed edilizia nei primi anni ’80 con quella dopo il 2006 (spiacente, dovete un po’ aguzzare la vista):

z 728

 

 

 

 

 

Nel riquadro di sinistra, vedete il tasso di riferimento della Fed oscillare mentre la Fed cercava di cimentarsi con l’inflazione – e vedete gli avvii della attività edilizia muoversi fortemente nella direzione opposta, cadendo quando i tassi salgono e risalendo quando essi scendono. Nel riquadro di destra, tuttavia, vedete gli avvii delle attività edilizie ed i tassi di interesse muoversi nella stessa direzione – crollando assieme. Dunque, non c’è correlazione?

Risposta sbagliata. Le situazioni sono diverse in un senso fondamentale. Negli anni ’80 i tassi di interesse venivano guidati dalla paura dell’inflazione; dal punto di vista del mercato delle abitazioni, essi erano più o meno endogeni. Nel periodo successivo al 2006 essi venivano guidati in gran parte dallo stesso crollo del settore dell’edilizia. Dunque l’esperienza degli anni ’80 fu una specie di esperimento naturale sugli effetti dei cambiamenti nel tasso, mentre gli eventi più recenti sono una illustrazione di un rapporto di causa opposto.

Ed io vengo sostenendo da molto tempo che negli ultimi anni ’80 avvenne un cambiamento di regime, che le paure dell’inflazione vennero sostituite dalla Grande Moderazione ed entrammo nell’epoca delle recessioni post moderne, nelle quali la politica monetaria cerca di rimettere in ordine dopo le bolle, anziché tenere a freno l’inflazione.

Il punto, allora, è che quando si cercano gli effetti della politica monetaria, è di solito importante distinguere tra le epoche nella quali i tassi di interesse sono una causa e quelle nelle quali essi sono un effetto – e non è difficile stabilire di quali epoche stiamo parlando.

Lo stesso principio si applica alla politica della finanza pubblica. Io faccio un mucchio di grafici a dispersione nel periodo dal 2009 in avanti, perché quella è stata l’epoca della austerità guidata dal panico, quando i grandi cambiamenti nella spesa pubblica e nelle tasse furono una risposta alle paure e furono probabilmente esogeni rispetto al PIL reale. Un grafico a dispersione che includa altre epoche – in particolare periodi nel quali il limite inferiore dello zero non era condizionante ed i Governi non erano preoccupati per i ‘guardiani dei bond’ – non è destinato a dare lo stesso risultato.

Inoltre, in questo caso stiamo cercando approssimazioni ragionevoli ad esperimenti naturali. Esperimenti naturali realmente puliti sono difficili da trovare, ma qualche epoca fornisce esperimenti migliori di altre.

 

[1] “Io sto tra gli stupidi”, del 20 maggio.

Pigrizia ipocrita (22 maggio 2015)

maggio 22, 2015

 

May 22 11:51 am

Hypocritical Sloth

Yesterday Politico posted a hit piece on Elizabeth Warren, alleging that she’s being hypocritical in her opposition to a key aspect of TPP, that’s interesting in several ways. First, it was clearly based on information supplied by someone close to or inside the Obama administration – another illustration of the poisonous effect the determination to sell TPP is having on the Obama team’s intellectual ethics. Second, the charge of hypocrisy was ludicrous nonsense – “You say you’re against allowing corporations to sue governments, yet you were a paid witness against a corporations suing the government!” Um, what?

And more generally, the whole affair is an illustration of the key role of sheer laziness in bad journalism.

Think about it: when is the charge of hypocrisy relevant? Basically, only when a public figure is preaching about individual behavior, and perhaps holding himself or herself up as a role model. So yes, it’s fair to go after someone who preaches morality but turns out to be a crook or a sexual predator. But articles alleging that someone’s personal choices are somehow hypocritical given their policy positions are almost always off point. Someone can declare that inequality is a problem while being personally rich; they’re calling for policy changes, not mass self-abnegation. Someone can declare our judicial system flawed while fighting cases as best they can within that system — until policy change happens, you have to live in the world as it is.

Oh, and it’s very definitely OK to advocate policies that would hurt one’s own financial interests — it’s just bizarre when the press suggests that there’s something insincere and suspect when high earners propose tax increases.

So why are charges of hypocrisy so popular? Mainly, I think, as a way to avoid taking on policy substance. Is Elizabeth Warren right or wrong about TPP? Never mind, let’s sneer at her for having been a prominent law professor.

The same motives drive the preoccupation with flip-flopping. You once said that deficits were bad, now you say that they’re OK. Hah! Never mind whether deficits are in fact OK right now, and whether either the situation has changed or you have learned something. (As someone pointed out, both Mitt Romney and Hillary Clinton have rejected policies they used to support — but Romney has rejected policies that worked, while Clinton has rejected policies that didn’t. A bit of a difference.)

So maybe this head-scratchingly weird hit on Warren will serve as a teachable moment, a reminder that journalism about policy should be, you know, journalism about policy.

 

Pigrizia ipocrita

Ieri Politico ha pubblicato un articolo a sensazione su Elizabeth Warren che è in vari sensi interessante, sostenendo che ella sta diventando ipocrita nella sua opposizione ad un aspetto cruciale del TPP. In primo luogo, è chiaramente basato su un’informazione offerta da qualcuno vicino o interno alla Amministrazione Obama – un’altra manifestazione dell’effetto velenoso che la determinazione a far accettare il TPP sta avendo sull’etica intellettuale della squadra di Obama. In secondo luogo, l’accusa di ipocrisia è apparsa una ridicola assurdità – “Dici di essere contraria a che le imprese facciano causa ai Governi, tuttavia sei stata testimone a pagamento contro società che facevano causa al Governo!” Imbarazzante. Che cosa?

E più in generale, tutta la faccenda dimostra il ruolo fondamentale della pura e semplice pigrizia nel cattivo giornalismo.

Ci si rifletta: quand’è che l’accusa di ipocrisia è rilevante? Fondamentalmente, solo quando una personalità pubblica, uomo o donna, fa una predica sulle condotte individuali, e magari sostiene di avere un comportamento esemplare. Dunque sì, è giusto attaccare qualcuno che predica la moralità ma si rivela essere un furfante oppure di sfruttare sessualmente altre persone. Ma articoli che sostengono che le scelte personali di qualcuno sarebbero in qualche modo ipocrite data la loro posizione politica, sono quasi sempre fuori luogo. Si può dichiarare che l’ineguaglianza è un problema pur essendo personalmente ricchi; lo si fa per sostenere mutamenti politici, non una abnegazione di massa. Qualcuno può dichiarare che il nostro sistema giudiziario è carente nel mentre combatte meglio che può singoli episodi dentro quel sistema – sinché non avviene un cambiamento politico, si può solo vivere nel mondo così com’è.

Inoltre, è senz’altro molto positivo sostenere politiche che danneggerebbero i propri interessi finanziari – è proprio curioso quando la stampa indica che, allorché persone con alti guadagni propongono aumenti fiscali, ci deve essere qualcosa di insincero e di sospetto.

Perché dunque le accuse di ipocrisia sono così diffuse? Principalmente, io penso, perché sono un modo per evitare la sostanza politica. Ha ragione o torto Elizabeth Warren a proposito del TPP? Non importa, piuttosto scherniamola per essere stata una eminente docente di diritto.

Gli stessi motivi guidano la preoccupazione nel rivedere le proprie posizioni. Una volta avete detto che i deficit sono negativi, mentre adesso dite che non ci sono problemi. Risata sarcastica! Non conta che i deficit siano davvero a posto in questo momento, e neppure che la situazione sia cambiata o che abbiate imparato qualcosa (come qualcuno ha messo in evidenza, sia Mitt Romney che Hillary Clinton hanno respinto politiche che un tempo sostenevano – solo che Romney ha respinto politiche che funzionavano, mentre la Clinton ha respinto politiche che non funzionavano. C’è un po’ di differenza).

Dunque, forse questo lambiccato e stravagante attacco alla Warren funzionerà come un episodio istruttivo, un promemoria sul fatto che il giornalismo che si occupa di politica dovrebbe essere, sapete, giornalismo che si occupa di politica.

 

La nascita dei blog (22 maggio 2015)

maggio 22, 2015

 

May 22 2:05 am

Blogging Begins

z 727

 

 

 

 

 

Brad DeLong has a little note on how and when he began blogging, which comes at a perfect moment for me — I’m scheduled to talk with some Oxford undergraduates about changing forms of communication in economics, and Brad’s note both tells his own story and jogs my memory about how things changed in the late 1990s.

In my own case, I began writing online in 1996, when Michael Kinsley signed me up to write a monthly column for Slate. This was still traditional column-writing — length constraints were less rigid, editing less intrusive, and gratification less delayed than in print, but still relatively old-fashioned. But it did get me accustomed to the online format.

Then came the Asian financial crisis. Everyone was scrambling to make sense of what was happening, and both events and new ideas were coming far too fast for traditional publications to keep up. So I began posting little essays, thoughts, and models on my MIT home page — which is still extant! No blogging software; I just uploaded stuff and put links on the page. But it was still effectively a form of blogging, and it turned out that a lot of people read it. That’s where I put my initial efforts to model the liquidity trap, my thoughts on macro, and more. Most of the links there seem to still work, by the way.

Other people were doing some similar things; and Nouriel Roubini took things to the next step by creating an Asian financial crisis page (which seems to be gone) that acted as a compendium and clearing house for most of the interesting stuff being written on the subject. So by the end of the 1990s a lot of the substantive discussion of international macroeconomics and finance was already taking place online, bypassing the traditional channels.

A proper blog came much later, when I realized that I wanted a place to put the backstory behind my Times columns; the Times added a Twitter feed (which I didn’t even know existed until Andy Rosenthal casually mentioned that I had 600,000 followers). And so here we are today.

 

 

 

 

 

 

La nascita dei blog

Brad DeLong ha una piccola nota su come e quando cominciò col suo blog, che arriva nel mio caso in un momento adattissimo – è in programma un mio colloquio con alcuni studenti universitari di Oxford sui mutamenti delle forme di comunicazione in economia, e la nota di Brad racconta la sua storia personale ed anche mi sollecita e ricordare quanto, negli ultimi anni ’90, le cose sono cambiate.

Nel mio caso, cominciai a scrivere online nel 1996, quando Michael Kinsley mi assunse per pubblicare un articolo mensile su Slate. Era ancora una scrittura tradizionale di articoli – i limiti di lunghezza erano meno rigidi, le correzioni meno invadenti e la soddisfazione meno ritardata che sulla carta stampata, ma ancora relativamente vecchio stile. Ma mi fece abituare al formato online.

Poi venne la crisi finanziaria asiatica. Tutti si arrampicavano sugli specchi per dare un senso a quanto stava succedendo, e sia i fatti che le nuove idee si affacciavano con esagerata velocità perché le pubblicazioni tradizionali stessero al passo. Così cominciai a pubblicare piccoli saggi, pensieri e modelli sulla mia home page del MIT – che tuttora esistono! Non esisteva il software dei blog; semplicemente caricavo la mia roba e mettevo le connessioni sulla pagina. E tuttavia era un forma di blogging, e si scoprì che la leggeva un mucchio di gente. Fu lì che formulai i miei sforzi iniziali per modellare la trappola di liquidità, i miei pensieri sulla macroeconomia ed altro ancora. Per inciso, gran parte delle connessioni sembrano funzionare ancora.

Altre persone stavano facendo cose simili; e Nouriel Roubini portò le cose ad un passo successivo creando una pagina sulla crisi finanziaria asiatica (che sembra si sia persa) che funzionava come un compendio ed una camera di compensazione delle cose interessanti che venivano scritte su quel tema. Dunque, alla fine degli anni ’90 molta della discussione sostanziale della macroeconomia e della finanza internazionale stava già prendendo posto nella comunicazione online, aggirando i canali tradizionali.

Un blog vero e proprio venne molto dopo, quando compresi che volevo un posto nel quale collocare la storia recondita dei miei articoli sul Times; il Times aggiunse un collegamento diretto con Twitter (che non sapevo nemmeno esistesse, finché Andy Rosenthal per caso mi face presente che aveva 600.000 seguaci). E così siamo arrivati ad oggi.

 

Tariffe in rapporto alle valute (21 maggio 2015)

maggio 21, 2015

 

May 21 8:26 am

Tariffs Versus Currencies

While it’s not remotely in the same league as the execrable Daley op-ed, the CEA report in support of TPP is, as Josh Bivens notes, an odd document. It’s not wrong, or not mostly wrong — I don’t even share all of Bivens’s complaints. It’s just off-topic; at best, it’s a celebration of the results of all the trade liberalization that has taken place since the 1930s, and tells us nothing about policy when trade barriers are already very low, and “trade” agreements are actually about investment and intellectual property.

As I said, the report doesn’t make any clearly false claims — I do think Furman et al are too scrupulous for that. But there is some missing context. The very first bullet point declares, in bold type, that

U.S. businesses must overcome an average tariff hurdle of 6.8 percent, in addition to numerous non-tariff barriers (NTBs), to serve the roughly 95 percent of the world’s customers outside our borders.

You’re clearly meant to think of 6.8 as a big number. Is it?

Actually, no. There are various ways to think about that; one is to compare those tariffs with the kind of currency fluctuations that occur all the time. Here’s the recent history of the dollar:

z 726

 

 

 

 

 

 

 

 

That’s a 20 percent rise between the summer of last year and early 2015, partly given back recently. Since inflation is low everywhere, that’s more or less one-for-one a loss in competitiveness by US exporters, and far bigger than the tariff barriers.

Non-tariff barriers (NTBs) add to the wedge, of course. But even they are no big deal.

 

Tariffe in rapporto alle valute

Pur non essendo neanche lontanamente della stessa serie dell’abominevole commento di Daley [1], il rapporto del Comitato dei Consulenti Economici a sostegno del TPP, come osserva Josh Bivens, è un documento bizzarro. Non è sbagliato, o non è principalmente sbagliato – io neppure condivido tutte le lamentele di Bivens. È soltanto fuori tema; nel migliore dei casi è una celebrazione dei risultati della liberalizzazione del commercio che ha avuto luogo a partire dagli anni ’30, e non ci dice niente a proposito della politica allorquando le barriere sono già molto basse, e gli accordi “commerciali” in effetti riguardano gli investimenti e la proprietà intellettuale.

Come ho detto, questo rapporto non avanza alcun argomento chiaramente falso – penso davvero che Furman e i suoi colleghi siano troppo scrupolosi per cose del genere. Ma in qualche modo manca il contesto. Il primissimo elenco, in grassetto, dichiara che:

“le imprese statunitensi devono superare l’ostacolo di una tariffa media del 6,8 per cento, in aggiunta a numerose barriere non-tariffarie (NTBs), per essere a disposizione di circa il 95 per cento della clientela mondiale fuori dai confini.”

Chiaramente siete indotti a pensate al 6,8 per cento come ad una gran cifra. È così?

No, per la verità. Ci sono vari modi di riflettere sulla cosa; uno è quello di confrontare quelle tariffe con il genere di fluttuazioni valutarie che intervengono in continuazione. Ecco la storia recente del dollaro:

z 726

 

 

 

 

 

 

 

Tra l’estate dell’anno passato e gli inizi del 2015 c’è stata una crescita del 20 per cento, in parte regredita di recente. Dal momento che l’inflazione è dappertutto bassa, quella è una perdita di competitività per gli esportatori statunitensi più o meno di uno ad uno, ed è molto più grande delle barriere tariffarie.

Naturalmente, le barriere non tariffarie si aggiungono al cuneo. Ma persino esse non sono una gran cosa.

 

[1] Dell’articolo di Daley, Krugman si è occupato in un post del 19 maggio.

 

Nessuno si occupa del deficit (21 maggio 2015)

maggio 21, 2015

 

May 21 5:29 am

Nobody Cares About the Deficit

Sitting here in the UK, where everyone continues to believe that budget deficits are the central issue despite overwhelming evidence to the contrary, it’s refreshing to look home once in a while and contemplate the utter collapse of the deficit-scold agenda.

One way to see this is to track the disappearance of Alan Simpson from the radar; another is to look at polls that ask people to name important issues. For example, CNN/ORC has been asking consistent questions for several years; here’s the percentage of voters naming the budget deficit as the most important issue:

January 2013: 23 percent

May/June 2014: 15 percent

Sept. 2014: 8 percent

In the most recent CBS/NYTimes poll, which was open-ended, the deficit didn’t even make it onto the list.

And you know what? The public is right, and the Very Serious People were and are wrong.

 

Nessuno si occupa del deficit

Standomene qua nel Regno Unito, dove tutti continuano a credere che i deficit di bilancio siano la questione centrale nonostante la schiacciante evidenza del contrario, è confortante guardare ogni tanto alle cose di casa nostra e contemplare il completo collasso della agenda delle Cassandre del deficit.

Un modo per accorgersene è seguire la scomparsa di Alan Simpson dal radar; un altro è quello di dare un’occhiata ai sondaggi che chiedono alle persone di indicare i temi importanti. Ad esempio, la CNN/ORC ha posto per alcuni anni quesiti con una certa coerenza; ecco la percentuale degli elettori che indicano il deficit di bilancio come il problema più importante:

Gennaio 2013: 23 per cento

Maggio/giugno 2014: 15 per cento

Settembre 2014: 8 per cento.

Nel recente sondaggio della CBS/New York Times, che era indeterminato, il deficit non è neppure finito nella lista.

E sapete cosa? La gente ha ragione, e le Persone Molto Serie avevano ed hanno torto.

 

 

Io sono tra gli stupidi (dal blog di Krugman, 20 maggio 2015)

maggio 20, 2015

 

I’m With Stupid

May 20, 2015 6:26 am

Via FT Alphaville, James Montier has an interesting piece castigating economists for their “interest rate idolatry”, their belief that central bank-set interest rates matter a lot for the economy and that therefore it is useful, at least conceptually, to think about the “natural” rate of interest that would lead the economy to full employment. There is no evidence that interest rates matter in that way, he says, and economists who talk about natural rates are simply engaged in groupthink.

In particular, he identifies three blind and/or stupid economists leading everyone astray: Janet Yellen, Larry Summers, and yours truly.

Well, it could be true; there’s plenty of stupidity in the world, and much of it imagines itself wise. But in my experience people who declare confidently that “economists don’t understand X” usually turn out to be wrong both about X and about what economists understand. As I wrote in one context, often what they imagine to be a big conceptual or empirical failure is just a failure of their own reading comprehension.

Let me also say that if you were going to look for economists who blindly repeat doctrine, without the intelligence or courage to challenge conventional wisdom, neither Janet Yellen nor Larry Summers would be top picks.

So Montier offers a lot of evidence that interest rates move a lot, which isn’t news to anyone, and then one argument he apparently thinks is a big thing economists don’t know — that business investment is basically unaffected by interest rates. Who would have suspected such a thing? Well, everyone. Here’s what I wrote some years ago:

Back in the old days, when dinosaurs roamed the earth and students still learned Keynesian economics, we used to hear a lot about the monetary “transmission mechanism” — how the Fed actually got traction on the real economy. Both the phrase and the subject have gone out of fashion — but it’s still an important issue, and arguably now more than ever.

Now, what you learned back then was that the transmission mechanism worked largely through housing. Why? Because long-lived investments are very sensitive to interest rates, short-lived investments not so much. If a company is thinking about equipping its employees with smartphones that will be antiques in three years, the interest rate isn’t going to have much bearing on its decision; and a lot of business investment is like that, if not quite that extreme. But houses last a long time and don’t become obsolete (the same is true to some extent for business structures, but in a more limited form). So Fed policy, by moving interest rates, normally exerts its effect mainly through housing.

But Montier seems to have forgotten about housing, which is actually a fairly common problem among certain kinds of econocritics.

And do interest rates move housing? Here’s the inverse of the Fed funds rate versus housing starts during the period when major moves in monetary policy were mainly driven by concerns about inflation (as opposed to bursting bubbles):

z 725

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Looks like a relationship to me. And I would say that for many economists of a certain age, the events of the early 1980s were especially important in convincing us that monetary policy can matter a lot. Paul Volcker decided to tighten; interest rates soared, housing collapsed, and the economy plunged into a deep recession. He decided that the economy had suffered enough, rates plunged, housing surged, and it was morning in America.

Beyond that, the general proposition that money matters also rests on a lot of careful empirical work — in fact, on two styles of careful work. There’s the Romer-Romer narrative approach, which examines Fed minutes to identify “episodes in which there were large monetary disturbances not caused by output fluctuations”, and the Sims approach, which uses time-series methods. Both find that monetary policy does indeed matter.

Are there times when monetary policy — or at least conventional monetary policy — can’t do the job? Of course. Summers and I have been talking about the zero lower bound since the 1990s — he introduced the argument that the ZLB justifies a positive inflation target, I brought liquidity-trap analysis out of the mists and back into modern economics.

The bottom line here is that there’s plenty of real stupidity in the world; we don’t need to add to the cloud of confusion with a critique of imaginary stupidity.

 

Io sono tra gli stupidi

Sul blog Alphaville del Financial Times, James Montier pubblica un pezzo interessante nel quale se la prende con gli economisti per la loro “idolatria del tasso di interesse”, la loro convinzione che i tassi di interesse stabiliti dalle banche centrali siano molto importanti per l’economia e che di conseguenza sia utile, almeno concettualmente, riflettere sul tasso di interesse “naturale” che guiderebbe l’economia verso la piena occupazione. Non c’è alcuna prova, egli dice, che i tassi di interesse siano importanti in quel senso, e gli economisti che parlano di tassi di interesse naturali sono semplicemente impegnati in un ‘conformismo di gruppo’ [1].

In particolare, egli identifica tre economisti ciechi e/o stupidi che conducono tutti sulla cattiva strada: Janet Yellen, Larry Summers ed il sottoscritto.

Ebbene, potrebbe esser vero: c’è una gran quantità di stupidi nel mondo, e in gran parte si ritengono saggi. Ma nella mia esperienza la gente che dichiara con sicurezza che “gli economisti non capiscono la cosa X” in genere si scopre che sbagliano sia sulla cosa X che su quello che gli economisti non capiscono. Come scrissi in un particolare contesto [2], spesso quello che essi immaginano essere un fallimento concettuale ed empirico è solo un fallimento della loro propria capacità di intendere ciò che leggono.

Consentitemi anche di dire che se andate a guardare gli economisti che ripetono ciecamente le loro dottrine, senza l’intelligenza o il coraggio di sfidare i pregiudizi, né Janet Yellen né Larry Summers sarebbero nei primi posti in classifica.

Dunque, Montier offre molte prove che i tassi di interesse si spostano molto, il che non è una novità per nessuno, e poi un argomento che in apparenza egli pensa sia una gran cosa che gli economisti ignorano – che gli investimenti delle imprese non sono fondamentalmente influenzati dai tassi di interesse. Chi avrebbe mai sospettato una cosa del genere? Beh, tutti. Ecco ciò che scrissi alcuni anni orsono:

“Nei tempi passati, quando i dinosauri andavano a zonzo sulla terra e gli studenti ancora imparavano l’economia keynesiana, eravamo abituati a sentir parlare molto del “meccanismo di trasmissione” monetario – in che modo effettivamente la Fed riusciva a dare impulso all’economia reale. Sia quella espressione che il tema sono passati di moda – ma è ancora una questione importante, probabilmente più che mai.

Ora, quello che si imparava allora era che il meccanismo di trasmissione funzionava in gran parte attraverso l’edilizia. Perché? Perché gli investimenti che durano a lungo sono molto sensibili ai tassi di interesse, quelli con effetti a breve non altrettanto. Se un’impresa sta pensando di dotare i suoi addetti con telefoni cellulari che in tre anni diventeranno antichi, il tasso di interesse non è destinato a pesare molto sulla sua decisione; ed una quantità di investimenti di impresa sono di quel genere, anche se non esattamente così esagerati. Ma le abitazioni durano un lungo periodo e non diventano obsolete (la stessa cosa in qualche misura è vera per gli impianti delle imprese, ma in forma più limitata). Dunque la politica della Fed, muovendo i tassi di interesse, fondamentalmente esercita i suoi effetti tramite l’edilizia.”

Ma Montier sembra essersi dimenticato dell’edilizia, la qualcosa per la verità è un problema abbastanza comune tra alcuni tipi di critici economici.

E i tassi di interesse spostano per davvero l’edilizia? Ecco la relazione inversa [3] tra i tassi di riferimento della Fed e gli avvii di attività di costruzione di edifici durante il periodo nel quale gli spostamenti nella politica monetaria furono direttamente guidati dalle preoccupazioni sull’inflazione (ovvero, nel caso opposto dello scoppio delle bolle):

z 725

 

 

 

 

 

 

 

 

A me pare che una relazione ci sia. E direi che per gli economisti di una certa età, gli eventi dei primi anni ’80 furono particolarmente importanti nel convincerci che la politica monetaria poteva contare molto. Paul Volcker decise una restrizione; i tassi di interesse salirono alle stelle, l’edilizia crollò e l’economia sprofondò in una recessione profonda. Egli decise che l’economia aveva sofferto abbastanza, i tassi crollarono, l’edilizia risalì e fu il ‘buongiorno’ in America [4].

Oltre a ciò, il concetto generale che la moneta è importante si basa anche su una quantità di scrupolosi studi empirici – in sostanza, lavori scrupolosi di due generi. C’è l’approccio narrativo dei Romer, marito e moglie, che esamina i verbali della Fed per identificare “episodi nei quali avvennero vasti disordini monetari non provocati da fluttuazioni nella produzione”, e l’approccio di Sims, che utilizza il metodo delle serie temporali. Entrambi arrivano alla conclusione che la politica monetaria effettivamente è importante.

E ci sono i periodi nei quali la politica monetaria – o almeno una convenzionale politica monetaria – non può fare la sua funzione? Ovviamente. Summers e il sottoscritto siamo venuti argomentando sul limite inferiore dello zero sin dagli anni ’90 – egli introdusse la tesi che il limite inferiore dello zero giustifica un obbiettivo positivo di inflazione, io tirai fuori dalle nebbie l’analisi della trappola di liquidità per reintrodurla nella economia moderna.

La morale della favola è che nel mondo c’è una abbondanza di stupidità vera; non abbiamo bisogno di aumentare la cappa di confusione con una critica della stupidità immaginaria.

 

 

[1] La definizione di “groupthink” su Sapere.it: “Neologismo che si forma dall’unione delle parole inglesi group, gruppo, e think, pensare, dunque “pensiero di gruppo”. Il groupthink sacrifica qualsivoglia pensiero e visione, gusto e sensibilità individuali per un punto di vista di gruppo che, coeso, decide come comportarsi. Il senso di questo termine non ha proprio un’accezione positiva, in quanto di frequente per non mandare in crisi la stabilità di pensiero del gruppo si mettono da parte i ragionevoli dubbi individuali e si decide anche in maniera sconsiderata.”

[2] Un post del 19 marzo 2013 qua tradotto.

[3] La linea blu indica i tassi di riferimento della Fed e viene stimata con le percentuali in evidenza sul lato sinistro della tabella. La crisi volutamente provocata dall’allora Governatore Paul Volcker, che corrispondeva alla volontà di mettere sotto controllo l’inflazione, ha la sua punta nel 1980, quando i tassi si avvicinarono al 20%. La linea rossa indica il numero di nuove costruzioni avviate, che è indicato al lato destro della tabella. Come grosso modo si nota, una salita dei tassi di interesse di solito comporta un calo nell’attività edilizia; una diminuzione dei tassi di solito comporta una ripresa della attività. Ovviamente, la relazione non è così meccanica; può accadere che l’edilizia reagisca a tassi che aumentano con un ritardo di un paio di anni (vedi gli andamenti nel 1988-1990), oppure che reagisca ad un diminuzione del tassi con un certo ritardo o con una maggiore gradualità (vedi gli anni ’90).

[4] “E’ giorno, America” – o “Buongiorno America” – era il titolo di una trasmissione radiofonica di Ronald Reagan che ebbe molto successo ed influenzò il suo successo elettorale al secondo mandato.

 

 

 

I Conservatori e Keynes (20 maggio 2015)

maggio 20, 2015

 

May 20 2:29 am

Conservatives and Keynes

z 723

 

 

 

 

 

 

 

 

Tony Yates asks, “Why can’t we all get along?” Lamenting another really bad, obviously political defense of austerity, he declares that

it’s disappointing that the debate has become a left-right thing. I don’t see why it should.

But the debate over business-cycle economics has always been a left-right thing. Specifically, the right has always been deeply hostile to the notion that expansionary fiscal policy can ever be helpful or austerity harmful; most of the time it has been hostile to expansionary monetary policy too (in the long view, Friedman-type monetarism was an aberration; Hayek-type liquidationism is much more the norm). So the politicization of the macro debate isn’t some happenstance, it evidently has deep roots.

Oh, and some of us have been discussing those roots in articles and blog posts for years now. We’ve noted that after World War II there was a concerted, disgraceful effort by conservatives and business interests to prevent the teaching of Keynesian economics in the universities, an effort that succeeded in killing the first real Keynesian textbook. Samuelson, luckily, managed to get past that barrier — and many were the complaints. William Buckley’s God and Man at Yale was a diatribe against atheism (or the failure to include religious indoctrination, which to him was the same thing) and collectivism — by which he mainly meant teaching Keynesian macroeconomics.

What’s it all about, then? The best stories seem to involve ulterior political motives. Keynesian economics, if true, would mean that governments don’t have to be deeply concerned about business confidence, and don’t have to respond to recessions by slashing social programs. Therefore it must not be true, and must be opposed. As I put it in the linked post,

So one way to see the drive for austerity is as an application of a sort of reverse Hippocratic oath: “First, do nothing to mitigate harm”. For the people must suffer if neoliberal reforms are to prosper.

If you think I’m being too flip, too conspiracy-minded, or both, OK — but what’s your explanation? For conservative hostility to Keynes is not an intellectual fad of the moment. It has absolutely consistent for generations, and is clearly very deep-seated.

 

 

 

 

 

 

 

 

I Conservatori e Keynes

Tony Yates si chiede: “Perchè non riusciamo tutti ad andare d’accordo?”. Nel mentre si lamenta per un’altra pessima difesa dell’austerità, ovviamente in termini politici, egli dichiara:

“è deludente che il dibattito sia diventato una questione tra destra e sinistra. Io non ne vedo il motivo.”

Ma il dibattito sulla teoria del ciclo economico è sempre stato una questione tra destra e sinistra. In particolare, la destra è sempre stata profondamente ostile al concetto che una politica espansiva della spesa pubblica possa dare un contributo oppure che l’austerità possa essere dannosa; per gran parte del tempo è stata anche ostile ad una politica monetaria espansiva (in una prospettiva di lungo periodo, il monetarismo alla Friedman fu una aberrazione; il liquidazionismo alla Hayek rappresenta molto di più la norma). Dunque, la politicizzazione del dibattito macroeconomico non è una combinazione, ha evidentemente radici profonde.

Va anche detto che sono anni che alcuni di noi vengono discutendo in articoli ed in post sui blog tali radici. Abbiamo osservato che dopo la Seconda Guerra Mondiale ci fu un vergognoso sforzo concertato tra i conservatori e gli interessi delle imprese per impedire l’insegnamento dell’economia keynesiana nelle università, uno sforzo che ottenne il risultato di liquidare il primo vero libro di testo keynesiano. Samuelson, fortunatamente, riuscì ad oltrepassare quella barriera – e in molti se ne lamentarono. Il libro di William Buckley “Dio e l’uomo a Yale” fu una diatriba contro l’ateismo (o la mancata inclusione dell’indottrinamento religioso, che per lui era la stessa cosa) e il collettivismo – espressione con la quale egli principalmente intendeva l’insegnamento della macroeconomia keynesiana.

Di cosa si parla, dunque? Le spiegazioni migliori sembrano relative a motivazioni politiche recondite. La teoria economica keynesiana, se è giusta, comporterebbe che i Governi non si devono preoccupare tantissimo della fiducia delle imprese, e non devono rispondere alle recessioni tagliando i programmi sociali. Di conseguenza, non deve essere giusta, deve essere l’opposto. Come scrissi nel post relativo a questo stesso tema:

“Dunque, un modo di osservare la spinta verso l’austerità è una specie di applicazione inversa del giuramento di Ippocrate: ‘Prima di tutto, non far niente per attenuare il danno’. Perché, se le riforme neoliberiste devono prosperare, la gente deve soffrire.”

Se pensate che sono un po’ troppo uscito di testa, che abbia una mentalità troppo incline a vedere cospirazioni, o entrambe le cose, va bene – ma quale è la vostra spiegazione? Keynes non è una intellettuale moda passeggera. È del tutto coerente da generazioni, ed ha chiaramente radici profonde.

 

 

Tpp: convincere in modo sbagliato (19 maggio 2015)

maggio 19, 2015

 

May 19 8:38 am

The Mis-selling of TPP

One of the great blog posts of all time was from Daniel Davies, who declared — apropos of Iraq — that

Good ideas do not need lots of lies told about them in order to gain public acceptance.

It’s a good dictum; and if you see a lot of lies, or at least misdirection, being used to sell a policy you should be very, very concerned about said policy.

And the selling of TPP just keeps getting worse.

William Daley’s pro-TPP op-ed in today’s Times is just awful, on multiple levels. No acknowledgment that the real arguments are not about trade but about intellectual property and dispute settlement; on top of that a crude mercantilist claim that trade liberalization is good because it means more exports; some Dean Baker bait with numbers — $31 billion in trade surplus! All of 0.2 percent of GDP!

But what really annoyed me, even if it’s not necessarily the worst bit, was this:

But today, of the 40 largest economies, the United States ranks 39th in the share of our gross domestic product that comes from exports. This is because our products face very high barriers to entry overseas in the form of tariffs, quotas and outright discrimination.

Actually, no. We have a low export share because we’re a big country. Here’s population versus exports as a percentage of GDP for OECD countries:

z 722

 

 

 

 

 

 

 

 

Population isn’t the only determinant — geography matters too, as the contrast between Luxembourg (in the middle of Europe) and Iceland shows. But claiming that the relatively low US export share says anything at all about trade barriers makes me want to bang my head against a wall.

If this is the best TPP advocates can come up with, this is not looking like a good idea.

 

Tpp: come convincere in modo sbagliato

Uno dei più grandi commenti su un blog di tutti i tempi fu scritto da Daniel Davies, che, a proposito dell’Iraq, dichiarò:

“Le buone idee non hanno bisogno che si raccontino tante bugie per guadagnare il consenso dell’opinione pubblica.”

È una buona massima; e se osservate che vengono utilizzate tante bugie, o almeno un indirizzo fuorviante nel convincere su una politica, dovreste essere altamente preoccupati per tale politica.

E l’azione di convincimento sul TPP comincia proprio a peggiorare.

Il commento di William Daley a favore del TPP sul Times di oggi è proprio tremendo, in molti sensi. Nessun riconoscimento che gli argomenti veri non riguardano il commercio ma la proprietà intellettuale e la regolamentazione dei contenziosi; in cima a tutto la rozza tesi mercantilista che la liberalizzazione commerciale è positiva perché significa più esportazioni; qualche specchietto per le allodole alla Dean Baker con i numeri – 31 miliardi di dollari di surplus commerciale! Soltanto lo 0,2 per cento del PIL!

Ma quello che mi ha realmente indispettito, anche se non si tratta necessariamente della parte peggiore, è stato questo:

“Ma oggi, tra le 40 maggiori economie, gli Stati Uniti si collocano al 39° posto quanto a quota del prodotto interno lordo che viene dalle esportazioni. Questo dipende dal fatto che i nostri prodotti devono fare i conti con barriere di ingresso all’estero molto elevate nella forma di tariffe, di contingenti e di discriminazioni in generale.”

Per la verità no. Noi abbiamo una quota bassa di esportazioni perché siamo un grande paese. Ecco il rapporto tra popolazione ed esportazioni come percentuale del PIL per i paesi dell’OCSE:

z 722

 

 

 

 

 

 

 

 

La popolazione non è l’unico fattore determinante – conta anche la geografia, come mostra il contrasto tra il Lussemburgo (nel mezzo dell’Europa) e l’Islanda. Ma pretendere che la quota relativamente bassa delle esportazioni degli Stati Uniti significhi alcunché sulle barriere commerciali mi fa venire la voglia si sbattere la testa contro un muro.

Se è questo il meglio che i sostenitori del TPP riescono ad escogitare, non sembra proprio una buona idea.

 

Trucchi stupidi dell’austerità (19 maggio 2015)

maggio 19, 2015

 

May 19 3:05 am

Stupid Austerity Tricks

Against willful stupidity, the gods themselves contend in vain. So it’s no surprise that Simon Wren-Lewis is having a hard time of it. Still, it’s amazing just how dependent the pro-austerity camp has become on one dumb trick — misunderstanding, or pretending to misunderstand, the difference between levels and rates of change.

Take basic national income accounting (and ignore the foreign sector, for simplicity): the basic GDP identity is

GDP = C + I + G

or, if you want to look at changes,

Change in GDP = Change in C + Change in I + Change in G

If you’re trying to understand how fiscal policies — which affect both government purchases G and, via taxes and transfers, consumption C — move the economy, you can tell a story either in terms of levels or in terms of changes; in the end, it shouldn’t matter, because these stories should be consistent.

Now, the story Simon has been telling all along, and which I essentially picked up in my Guardian piece, is that the Cameron government did a lot of fiscal tightening in its first two years, but not much thereafter (illustrated in this case by cyclically adjusted balances):

z 721

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Furthermore, almost everyone concedes that this is in fact what happened.

And what you’d expect from this time path of policy is that the current level of GDP would still be below what it would have been otherwise, but that the negative impact on the rate of growth of GDP would have occurred only in the first couple of years, not thereafter; hence the pickup in growth since 2013 isn’t inconsistent with the view that austerity is a drag on the economy. I don’t think this is a hard point; surely it’s not a point anyone who writes regularly on economics should have trouble getting straight.

Yet what we get over and over are pieces that get this simple point wrong. Austerity critics say that the pace of fiscal tightening slowed after 2012 — aha, you’re claiming that austerity was reversed, which it wasn’t! You said that cutting spending depresses the economy relative to where it would have been otherwise — aha, you’re all wrong, because the economy started growing again in 2013!

This is, not to put too fine a point on it, stupid — and it has to be willfully stupid, because the people writing such stuff have to know better.

I’m actually used to such things; people are constantly pulling phrases out of stuff I’ve written, claiming that I was saying something I wasn’t. The way to assess such claims is to look at the overall shape of the argument I was making. If, for example, I was writing many pieces about the dangers of a slow, jobless recovery, then no, I wasn’t endorsing the Obama administration’s forecast of a V-shaped recovery, even if you can find a pull-quote that, taken out of context, might be read to say that; and so on.

Anyway, what you really learn from this “debate” is how weak one side really is. If you can’t make your argument without messing up levels versus changes and deliberately misreading simple statements, you must not have much of a case.

 

Trucchi stupidi dell’austerità

Contro la stupidità intenzionale, gli stessi Dei si affannano invano. Dunque, non è una sorpresa che Simon Wren-Lewis abbia un momento difficile per cose del genere. Eppure, è sorprendente quanto lo schieramento dell’austerità sia proprio diventato dipendente da un trucco sciocco – l’incomprensione, o la finta incomprensione, della differenza tra livelli e tassi di cambiamento.

Prendiamo la contabilità di base del reddito nazionale (e per semplicità ignoriamo il settore estero): l’equazione di base del PIL è:

GDP = C (consumi privati) + I (investimenti delle imprese) + G (spesa pubblica)

Oppure, se volete osservare i mutamenti:

 

Mutamento nel PIL = mutamento nei consumi + mutamento negli investimenti + mutamento nella spesa pubblica.

 

Se state cercando di capire come le politiche della finanza pubblica – che influenzano sia gli acquisti pubblici (G) che, attraverso le tasse ed i trasferimenti, i consumi privati (C) – muovano l’economia, potete utilizzare un racconto in termini di livelli o in termini di cambiamenti; alla fine non dovrebbe contare, perché questi racconti dovrebbero essere coerenti.

Ora, la storia che Simon viene raccontando da tempo, e dalla quale io ho fondamentalmente tratto spunto nel mio lungo articolo sul Guardian [1], è che il Governo Cameron provocò una vasta restrizione della finanza pubblica nei suoi primi due anni, ma non molta in seguito (in questo caso illustrata sulla base di saldi corretti in considerazione del ciclo economico) [2]:

z 721

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inoltre, quasi tutti ammettono che questo è di fatto quello che è successo.

E quello che vi aspettereste da questo andamento nel tempo della politica è che l’attuale livello del PIL dovrebbe ancora essere al di sotto di quello che sarebbe stato altrimenti, ma che l’impatto negativo sul tasso di crescita del PIL sarebbe intervenuto solo nei primi due anni, non in seguito; di conseguenza la risalita nella crescita a partire dal 2013 non è incoerente con il punto di vista secondo il quale l’austerità comporta un prelievo sull’economia. Non penso che si tratti di un punto difficile; sicuramente non è un punto che chiunque scriva regolarmente di cose economiche dovrebbe far fatica a comprendere correttamente.

Tuttavia, quello che riceviamo in continuazione sono articoli che presentano questo semplice aspetto in modo sbagliato. I critici dell’austerità dicono che il ritmo della restrizione della finanza pubblica è rallentato dopo il 2012 – ecco, state sostenendo che l’austerità venne rovesciata, mentre non fu cosi! Dite che tagliare la spesa pubblica deprime l’economia in rapporto a quello che sarebbe stato altrimenti – ecco, sbagliate tutto, perché l’economia ha ricominciato a crescere con il 2013!

Questo, per esprimermi in modo non troppo gentile, è stupido – ed è intenzionalmente stupido, perché coloro che scrivono roba del genere non possono non saperne di più.

In effetti sono abituato a cose simili: c’è gente che tira continuamente fuori cose che ho scritto, sostenendo che stavo dicendo cose che non avevo detto. Il modo per valutare tali affermazioni è quello di guardare alla forma generale della tesi che stavo avanzando. Se, ad esempio, stavo scrivendo vari articoli sui pericoli di una ripresa lenta e senza posti di lavoro, in quel caso no, non stavo appoggiando la previsione della Amministrazione Obama di una ripresa a forma di V, anche se potete trovare una citazione che, fuori dal contesto, potrebbe essere letta in quel senso; e così via.

In ogni modo, quello che effettivamente si apprende da questo “dibattito” è quanto sia realmente debole uno schieramento. Se non potete svolgere i vostri argomenti senza confondere i livelli con i cambiamenti e intenzionalmente fuorviando affermazioni semplici, dovete soffrire di qualcosa.

 

 

 

[1] Si tratta di una lunga intervista sul giornale britannico, che non ho potuto tradurre perché le tre o quattro tabelle principali non sono riuscito a scaricarle. Una di esse è utilizzata in questo post, in una versione accessibile.

[2] È evidente, sulla base dei dati sia dell’OCSE, che del FMI che dell’apposito Ufficio del Parlamento inglese, che negli anni 2009-2010 la politica restrittiva dell’austerità britannica ha avuto effetti forti e crescenti, mentre dal 2011 o si è ridotta o almeno non ha continuato a crescere.

 

 

 

 

Il commercio e il declino della occupazione manifatturiera negli Stati Uniti (19 maggio 2015)

maggio 19, 2015

 

May 19 2:01 am

Trade and the Decline of U.S. Manufacturing Employment

As Matthew Yglesias notes, many people believe that US manufacturing has disappeared because it has all moved to China and Mexico — but they’re largely wrong. I’m not sure that pointing to measures of industrial production is the bet way to make this point, however. A better approach, or so I’d argue, is to ask how much of the decline in manufacturing employment would have been avoided if we weren’t running big trade deficits.

Let’s start with the US trade balance in manufactured goods. Or actually let’s use a pretty good proxy that’s easy to pull up from FRED, the nonag-nonoil balance — non-agricultural exports minus non-petroleum imports. Here it is as a share of GDP:

z 719

 

 

 

 

 

 

 

 

We had rough balance in this measure 40 years ago, exporting about as much in the way of manufactured goods as we imported; nowadays it’s a persistent deficit on the order of 3 percent of GDP. That 3 percent matters — it’s a pretty major obstacle in efforts to achieve full employment, because it’s a drag on the overall demand for US goods and services.

But it’s not the main explanation, or even close, for the decline in manufacturing employment as a share of the total, which is down around 15 points since 1970:

z 720

 

 

 

 

 

 

 

 

You might be tempted to say that the widening trade deficit in manufactures accounts for 20 percent of this long-term decline — 3 points out of 15 — but even that is an exaggeration, because not every dollar of manufactured exports (or imports) corresponds to a dollar of manufacturing value-added.

For the most part, in other words, declining manufacturing employment isn’t due to trade. Again, that doesn’t mean that trade deficits are OK, or that trade hasn’t had other effects. But even if we’d had a highly protectionist world or in some other way had blocked the move into trade deficit, we’d still have seen most of the great decline in industrial jobs.

 

Il commercio e il declino della occupazione manifatturiera negli Stati Uniti

Come osserva Matthew Yglesias, molte persone credono che il settore manifatturiero degli Stati Uniti sia scomparso perché si è tutto spostato in Cina o in Messico – ma hanno in gran parte torto. Tuttavia, non sono sicuro che indicare i dati della produzione industriale sia il modo migliore per dimostrarlo. Un approccio migliore, così almeno mi parrebbe, è chiedersi quanto del declino della occupazione manifatturiera sarebbe stato evitato se non avessimo gestito grandi deficit commerciali.

Partiamo dall’equilibrio commerciale nei beni manifatturieri negli Stati Uniti. Oppure, per la verità, utilizziamo un indicatore indiretto abbastanza buono che è facile estrarre dai dati della FRED [1], il bilancio al netto dell’agricoltura e del petrolio – le esportazioni non agricole meno le importazioni non petrolifere. Eccolo come quota del PIL:

z 719

 

 

 

 

 

 

 

 

In questa misurazione abbiamo grosso modo un equilibrio che risale a 40 anni orsono, quando di beni manifatturieri si esportava altrettanto di quello che si importava; ai nostri giorni c’è un deficit stabile nell’ordine del 3 per cento del PIL. Quel 3 per cento conta – è un ostacolo abbastanza importante agli sforzi di ottenere la piena occupazione, giacché è un fattore che limita la domanda complessiva di beni e servizi statunitensi.

Ma non è la spiegazione principale, o neppure la più vicina, del declino dell’occupazione manifatturiera come quota di quella totale, che è scesa del 15 per cento a partire dal 1970:

z 720

 

 

 

 

 

 

 

 

Si sarebbe tentati di dire che il deficit commerciale che si allarga nei generi manifatturieri pesi per il 20 per cento del declino a lungo termine – 3 punti su 15 – ma anche questa è una esagerazione, dato che non tutti i dollari delle esportazioni manifatturiere (o delle importazioni) corrispondono ad un dollaro di valore aggiunto manifatturiero.

Per la maggior parte, dunque, il declino dell’occupazione manifatturiera non è dovuto al commercio. Di nuovo, questo non significa che i deficit commerciali vadano bene, o che il commercio non abbia avuto altri effetti. Ma anche se fossimo in un mondo altamente protezionista, o se avessimo bloccato in altro modo questo spostamento verso il deficit commerciale, avremmo comunque conosciuto gran parte del grande declino dei posti di lavoro nell’industria.

 

[1] FRED sta per Federal Reserve Economic Data, un osservatorio curato dalla Fed di St. Louis.

 

 

 

 

I fori di Manhattan (18 maggio 2015)

maggio 18, 2015

 

May 18 7:05 am May

Wormholes of Manhattan

The FT informs us that Amazon is now making deliveries in New York using the subway system:

Two delivery workers pushing large trolleys of Amazon parcels on the subway said the company was using underground trains for most Prime Now deliveries because traffic on Manhattan’s gridlocked streets made it impossible to honour a 60-minute guarantee.

Good for them — delivery trucks are actually a big source of negative externalities in New York, so getting them off the streets — even at the expense of more crowded subways — has to be a good thing.

But let me say that the article is slightly unfair in attributing the subways’ advantage solely to traffic congestion. The New York subways are actually almost miraculous in their ability — I know, only most of the time — to get you uptown or downtown incredibly fast. (Crosstown, not so much). The secret is the four-track system, with express trains running in the middle and locals on the sides. Those expresses, stopping only every 25 or 30 blocks (between 1.2 and 1.5 miles) seem almost to take you instantaneously across large distances.

For me, and for other people I know, that unique feature plays a surprisingly large role in making New York life easy and productive.

 

I fori di Manhattan

Il Financial Times ci informa che Amazon sta adesso facendo consegne utilizzando il sistema della metropolitana:

“Due lavoratori addetti alle consegne spingendo grandi carrelli di colli di Amazon nella metropolitana, hanno detto che la società sta utilizzando i treni sotterranei per gran parte delle consegne ‘Prime Now’ [1] a causa del traffico nelle ingorgate strade di Manhattan che rende impossibile rispettare la garanzia di consegna entro 60 minuti.”

Buon per loro – i camion delle consegne sono effettivamente una grande fonte di esternalità negative a New York, cosicché toglierli dalle strade – anche a spese di metrò più affollati – deve essere una cosa positiva.

Ma lasciatemi notare che l’articolo è leggermente ingiusto nell’attribuire al sistema della metropolitana unicamente il vantaggio rispetto alla congestione del traffico. Le metropolitane di New York sono per la verità quasi miracolose per le loro capacità – lo so, con qualche eccezione – di portarvi su e giù con incredibile velocità (la linea che attraversa la città, non altrettanto). Il segreto è il sistema a quattro binari, con i treni espressi che corrono nel mezzo e quelli locali ai lati. Quegli espressi, fermandosi soltanto ogni 25 o 30 isolati (tra 1,2 e 1,5 miglia) sembrano quasi trasportarvi in modo istantaneo attraverso grandi distanze.

Per me, e per altri che conosco, quel solo aspetto gioca un ruolo sorprendentemente importante nel rendere la vita a New York semplice e produttiva.

 

[1] In questo modo viene definito il servizio di pronta consegna (un’ora):

z 718

 

 

 

 

 

 

 

 

« Pagina precedentePagina successiva »

Archivio