Blog di Krugman

Ritocchi all’austerità (22 aprile 2015)

 

Apr 22 8:23 am

Airbrushing Austerity

Ken Rogoff weighs in on the secular stagnation debate, arguing basically that it’s Minsky, not Hansen — that we’re suffering from a painful but temporary era of deleveraging, and that normal policy will resume in a few years.

As far as I can tell, however, Rogoff doesn’t address the key point that Larry Summers and others, myself included, have made — that even during the era of rapid credit expansion, the economy wasn’t in an inflationary boom and real interest rates were low and trending downward — suggesting that we’re turning into an economy that “needs” bubbles to achieve anything like full employment.

But what I really want to do right now is note something else, which is visible in the Rogoff piece and in many other things one reads lately — a backward-looking view of the austerity fever that swept policymaking circles in 2010 and airbrushes out the reality of intellectual folly. You see this sort of thing when people who predicted soaring interest rates from crowding out right away now claim that they were only talking about long-term solvency; when people who issued dire warnings about runaway inflation say that they were only suggesting a risk, or maybe talking about financial stability; and so on down the line.

So, in Rogoff’s version of austerity fever all that was really going on was that policymakers were excessively optimistic, counting on a V-shaped recovery; all would have been well if they had read their Reinhart-Rogoff on slow recoveries following financial crises.

Sorry, but no — that’s not how it happened. When I wrote about fear of invisible bond vigilantes and belief in the confidence fairy, I wasn’t inventing stuff out of thin air.

David Cameron didn’t say “Hey, we think recovery is well in hand, so it’s time to start a modest program of fiscal consolidation.” He said “Greece stands as a warning of what happens to countries that lose their credibility.” Jean-Claude Trichet didn’t say “Yes, we understand that fiscal consolidation is negative, but we believe that by the time it bites economies will be nearing full employment”. He said

As regards the economy, the idea that austerity measures could trigger stagnation is incorrect … confidence-inspiring policies will foster and not hamper economic recovery, because confidence is the key factor today.

I can understand why a lot of people would like to pretend, perhaps even to themselves, that they didn’t think and say the things they thought and said. But they did.

 

Ritocchi all’austerità

Ken Rogoff interviene sul dibattito sulla stagnazione secolare, sostenendo in sostanza che riguarda Minsky, non Hansen – che stiamo sopportando un periodo doloroso ma temporaneo di riduzione dei rapporti di indebitamento, e che una politica normale riprenderà tra pochi anni.

Per quanto posso dire, tuttavia, Rogoff non affronta il punto chiave che Larry Summers ed altri, compreso il sottoscritto, hanno avanzato – che persino durante l’epoca della rapida espansione del credito, l’economia non era in un boom inflazionistico e i tassi di interessi reali erano bassi e tendevano a scendere – indicando che stavamo trasformandoci in un’economia che “ha bisogno” di bolle per realizzare qualcosa che assomigli alla piena occupazione.

Ma quello che realmente sento il bisogno di fare in questo momento è notare qualcosa d’altro, che è visibile nel pezzo di Rogoff e in altre cose che si leggono di recente – un punto di vista retrospettivo della febbre dell’austerità che dilagò nei circoli degli operatori politici nel 2010 e che corregge con qualche ritocco la realtà di quella follia intellettuale. Potete osservare una cosa del genere quando le persone che avevano previsto che i tassi di interesse sarebbero saliti alle stelle per effetto dell’improvviso ‘spiazzamento’ [1], ora sostengono che stavano solo parlando di solvibilità a lungo termine; quando le persone che mettevano in circolazione terribili ammonimenti sull’inflazione fuori controllo, dicono che stavano soltanto indicando un rischio, o magari parlando della stabilità finanziaria; e così via con argomenti del genere.

Dunque, nella versione di Rogoff della febbre dell’austerità tutto ciò che accadde fu che gli operatori politici erano eccessivamente ottimistici, e contavano su una ripresa a forma di V; sarebbe tutto andato bene se essi si fossero studiati Reinhart-Rogoff a proposito delle lente riprese che fanno seguito alle crisi finanziarie.

No, sono spiacente, ma non è quello che accadde. Quando io scrissi sulla paura degli invisibili guardiani del bond e sulla fede nella fata della fiducia, non mi stavo inventando cose dal nulla.

David Cameron non diceva “Signori, pensiamo che la ripresa sia a portata di mano, quindi è il momento di avviare un modesto programma di consolidamento della finanza pubblica”. Egli disse: “La Grecia costituisce un ammonimento di quello che accade ai paesi che perdono la loro credibilità”. Jean-Claude Trichet non disse “Sì, comprendiamo che il consolidamento della finanza pubblica è negativo, ma crediamo che per il tempo in cui esso farà soffrire le economie, ci saremo avvicinati alla piena occupazione”. Egli disse:

“A proposito dell’economia, l’idea che l’austerità inneschi la stagnazione non è corretta … le politiche che ispirano fiducia promuoveranno e non danneggeranno la ripresa economica, perché il fattore chiave di oggi è la fiducia”.

Posso capire il motivo per il quale molte persone vorrebbero fingere, persino con se stesse, di non aver pensato e detto le cose che pensarono e dissero. Ma lo fecero.

 

[1] “Spiazzamento” degli investimenti privati, i quali avrebbero sofferto gli effetti di un eccessivo debito pubblico.

Il doppio passo della stabilità (21 aprile 2015)

aprile 21, 2015

 

Apr 21 5:53 am

The Stability Two-Step

Yes, I’m wide awake at a ridiculous hour thanks to jet lag. Why do you ask?

A couple of weeks ago Ben Bernanke wrote a detailed takedown of … somebody, who has been arguing that money should be tighter even in a depressed economy, so as to safeguard financial stability. It was actually about John Taylor and maybe the BIS. Now Tony Yates goes after Taylor much more directly. This is all good stuff — but I wonder whether it’s making the issue more complex than it needs to be.

The thing that strikes me about the financial stability group is that they are all permahawks. Taylor and the BIS have often argued that money is too loose; have they ever, at least in the past two decades, argued that it is too tight? Not that anyone has noticed.

But if monetary policy is too expansionary on a sustained basis, surely we expect to see accelerating inflation. And there have in fact been repeated warnings from this group that inflation is about to take off. But what we see instead is this:

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You might expect some rethinking, given this absence of inflationary trouble to materialize. But the only rethinking that seems to happen is a search for new reasons to make the same complaints about loose money. Inflation is still perpetually looming — no argument is ever abandoned — but now loose money is also a danger to financial stability.

As Yates suggests, this is especially strange when it takes the form of attributing the financial crisis to deviations from the Taylor rule. That rule was devised to produce stable inflation; it would be a miracle, a benefaction from the gods, if that rule just happened to also be exactly what we need to avoid bubbles. But even aside from Taylor’s insistence that he, and only he, can offer the One True Rule, the two-step — the ever-changing rationale for never-changing policy — is reason in itself to discount the whole thing.

Let me also add that if it’s really that easy for monetary errors to endanger financial stability — if a deviation from perfection so small that it leaves no mark on the inflation rate is nonetheless enough to produce the second-worst financial crisis in history — this is an overwhelming argument for draconian bank regulation. Modest monetary mistakes will happen, so if you believe that these mistakes caused the global financial crisis you must surely believe that we need to do whatever it takes to make the system less fragile. Strange to say, however, I don’t seem to be hearing that from Taylor or anyone else in that camp.

It’s all very odd stuff. And you should worry a lot about the possibility that one of these days the Fed may be run by people who think this way.

 

Il doppio passo della stabilità

Sì, sono completamente sveglio a quest’ora ridicola grazie al fuso orario. Perché lo chiedete?

Un paio di settimane fa Ben Bernanke scrisse una dettagliata e completa critica su …. qualcuno, che ha scritto che la politica monetaria dovrebbe essere restrittiva anche in una economia depressa, in modo da salvaguardare la stabilità finanziaria. Per la verità si trattava di John Taylor e forse della BIR [1]. Adesso Tony Yates attacca Taylor molto più direttamente. Sono tutte cose molto buone – ma io mi chiedo se non si stia facendo diventare quel tema più complicato di quanto ce ne sia bisogno.

La cosa che mi stupisce a proposito del gruppo della stabilità finanziaria è che tutti loro restano i ‘falchi’ di sempre. Taylor e la BIR hanno spesso sostenuto che la politica monetaria è troppo facile; hanno mai detto, almeno nei due decenni passati, che essa era troppo restrittiva? No, come può constatare chiunque.

Ma se la politica monetaria è troppo espansiva su basi prolungate, di sicuro ci aspettiamo di vedere una accelerazione nell’inflazione. E ci sono stati di fatto ripetuti ammonimenti, da parte di questo gruppo, secondo i quali l’inflazione stava decollando. Ma quello che abbiamo osservato è invece stato questo:

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Vi sareste attesi un qualche ripensamento, considerato che le difficoltà inflazionistiche non si sono materializzate. Ma il solo ripensamento che sembra sia intervenuto è stata la ricerca di nuove ragioni per avanzare le medesime lamentele sulla politica monetaria facile. L’inflazione è ancora eternamente incombente – nessun argomento è mai abbandonato – ma ora la moneta facile è anche un pericolo per la stabilità finanziaria.

Come suggerisce Yates, questo è particolarmente strano quando prende la forma dell’attribuire la crisi finanziaria a deviazioni dalla regola di Taylor. Quella regola era stata concepita per produrre una inflazione stabile; sarebbe un miracolo, una benedizione divina, se davvero accadesse che quella regola sia anche esattamente quello di cui abbiamo bisogno per evitare le bolle. Ma anche a prescindere dalla insistenza di Taylor secondo la quale lui, e solo lui, può offrire l’Unica Vera Regola, il doppio passo – il cambiare sempre argomenti per non cambiare mai politica – è il motivo in sé per non prendere in considerazione l’intera faccenda.

Consentitemi di aggiungere che se è davvero così facile che gli sbagli monetari mettano in pericolo la stabilità finanziaria – se una deviazione dalla perfezione così piccola che non lascia alcun segno sull’inflazione è nondimeno sufficiente per produrre la seconda più grave crisi finanziaria della storia – questo sarebbe un argomento schiacciante per una regolamentazione draconiana delle banche. Ci saranno ancora modesti errori di politica monetaria, cosicché se si crede che questi errori abbiano provocato la crisi finanziaria globale si deve di sicuro anche credere che si debba fare qualunque cosa per rendere il sistema meno fragile. Strano a dirsi, tuttavia, ma non sembra di sentire niente del genere da parte di Taylor o di chiunque altro, in quel campo.

È tutta roba molto strana. E ci si dovrebbe preoccupare molto della possibilità che uno di questi giorni la Fed possa essere gestita da persone che ragionano in questo modo.

 

 

[1] Banca Internazionale dei Regolamenti, con sede in Basilea.

L’aggregazione (degli investimenti) e il paradosso del risparmio (dal blog di Krugman, 19 aprile 2015)

aprile 19, 2015

 

Apr 19 5:35 am

Crowding In and the Paradox of Thrift

As Francesco Saraceno notes, the IMF’s research department, which was always excellent, has become an extraordinary source of information and ideas in this Age of Blanchard. In particular, these days you can pretty much count on the semiannual World Economic Outlook to offer some dramatic new insight into how the world works. And the latest edition is no exception.

The big intellectual news here is Chapter 4, on business investment. As the report notes, weak business investment has been a major reason for global economic weakness. But why is business investment weak?

Broadly speaking, there are two views out there. One is that we have a special problem of lack of business confidence, driven by fiscal worries, failure to make needed structural reforms, and maybe even careless rhetoric. The U.S. right, in particular, is fond of the “Ma! He’s looking at me funny!” hypothesis – the claim that President Obama, by occasionally suggesting that some businessmen have behaved badly, has hurt their feelings and perpetuated the slump.

The other view is that business investment is weak because the economy is weak. Specifically, it is that the effects of household deleveraging and fiscal consolidation have produced slow growth, which has reduced the incentive to add capacity – the “accelerator” effect – leading to low investment that further reduces growth.

The IMF comes down strongly for the second view. In fact, if anything it finds that business investment has held up a bit better than one might have expected in the face of economic weakness:

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This is, interestingly, something I concluded a while back looking at U.S. data, during the height of the he’s-looking-at-me-funny era.

But wait, there’s more.

In order to deal with the problem of reverse causation – weak investment can cause weak growth as well as vice versa – the IMF adopts an “instrumental variables” approach. Loosely speaking, it looks for episodes of weak growth that are clearly caused by other factors, so that it can be sure that falling investment is an effect rather than a cause. And the instrument it uses is fiscal consolidation. That is, it finds cases where spending cuts and/or tax hikes depress demand and hence investment.

What it doesn’t say explicitly is that in using this procedure, it manages in passing both to refute a very widely held but false belief about deficits and to confirm a highly controversial Keynesian proposition.

The false belief is that government deficits necessarily “crowd out” investment, so that reducing deficits should free up funds that lead to higher investment. Not so, says the IMF: when governments introduce deficit-reduction measures, investment falls instead of rising. This says that the deficits were crowding investment in, not out.

And there’s another way to look at it: when governments introduce austerity measures, they are trying to reduce their net borrowing – in effect, they are raising their savings rate. What the IMF tells us is that such attempts to increase saving actually lead to lower, not higher, investment – and since saving equals investment, actual savings fall. So what we have here is an empirical confirmation of the existence of the paradox of thrift!

Remarkable stuff. Someone tell Wolfgang Schäuble.

 

L’aggregazione (degli investimenti) [1] e il paradosso del risparmio

Come nota Francesco Saraceno, il dipartimento di ricerca del FMI, che è stato sempre eccellente, nell’Era di Blanchard [2], è diventato una fonte straordinaria di informazioni e di idee. In particolare, di questi tempi si può in pratica affidarsi alla edizione semestrale di World Economic Outlook, dove vengono offerte alcune spettacolari nuove intuizioni su come il mondo va avanti. E l’ultima edizione non fa eccezione.

La grande novità intellettuale si trova al capitolo 4, relativo agli investimenti delle imprese. Come nota il rapporto, gli investimenti deboli delle imprese sono stati una ragione importante della debolezza economica globale. Ma perché gli investimenti delle imprese sono fiacchi?

Su tale questione, parlando in termini generali, ci sono due punti di vista. Uno è che siamo in presenza di un particolare problema di mancanza di fiducia da parte delle imprese, determinato dalle preoccupazioni per la finanza pubblica, dalla mancata realizzazione di necessarie riforme strutturali, e forse anche da prese di posizione malaccorte. La destra americana, in particolare, è affezionata all’ipotesi del “Mamma, mi guarda male![3] – la pretesa seconda la quale il Presidente Obama, avendo occasionalmente suggerito che alcuni imprenditori si sarebbero comportati negativamente, avrebbe ferito i loro sentimenti e perpetuato la crisi.

L’altro punto di vista è che gli investimenti sono deboli perché l’economia è debole. In particolare, sono gli effetti della riduzione del rapporto di indebitamento delle famiglie e del consolidamento delle finanze pubbliche che hanno prodotto la crescita lenta, che hanno ridotto l’incentivo ad aumentare la capacità produttiva – l’effetto di “accelerazione” – portando ad investimenti modesti cha hanno ulteriormente ridotto la crescita.

Il FMI prende con forza posizione a favore del secondo punto di vista. Di fatto, esso scopre semmai che gli investimenti delle imprese sono stati un po’ migliori di quello che ci si sarebbe aspettati a fronte della debolezza economica [4]:

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Si tratta, in modo interessante, della stessa conclusione alla quale ero giunto in passato osservando i dati degli Stati Uniti, all’apice del periodo del “mi sta guardando male!”.

Ma c’è anche di più.

Allo scopo di misurarsi con l’ipotesi di una origine opposta – i deboli investimenti possono provocare una crescita debole, come all’opposto – il FMI adotta un approccio delle “variabili strumentali”. Parlando in termini approssimativi, esso osserva episodi di crescita debole che sono stati chiaramente provocati da altri fattori, in modo che si può esser certi che la caduta dell’investimento sia stata un effetto, anziché una causa. E lo strumento che utilizza è il consolidamento delle finanze pubbliche. Vale a dire, esso individua i casi nei quali i tagli alla spesa e/o gli incrementi fiscali hanno depresso la domanda e di conseguenza gli investimenti.

Quello che non dice esplicitamente è che utilizzando questa procedura, esso riesce incidentalmente sia a confutare l’ampiamente condiviso ma falso convincimento sui deficit, sia a confermare un concetto keynesiano che è oggetto di ampie controversie.

Il falso convincimento è quello secondo il quale i deficit statali necessariamente “spiazzano” gli investimenti, in modo tale che una riduzione dei deficit dovrebbe aiutare a liberare finanziamenti che condurrebbero ad investimenti (privati) più elevati. Non è così, dice il FMI: quando i Governi introducono misure di riduzione dei deficit, gli investimenti cadono invece di salire. Questo ci dice che i deficit hanno provocato una maggiore aggregazione degli investimenti, anziché escluderli gli uni con gli altri.

E c’è un altro modo di guardare al fenomeno: quando i Governi introducono misure di austerità, essi stanno provando a ridurre il loro indebitamento netto – in sostanza, stanno alzando il loro tasso di risparmio. Quello che il FMI ci dice è che, in effetti, tali tentativi di aumentare i risparmi portano a investimenti minori, non maggiori – e dal momento che i risparmi sono pari agli investimenti, i risparmi effettivi calano. Dunque, quella che abbiamo è una conferma empirica dell’esistenza del ‘paradosso del risparmio’ [5].

Cose importanti. Qualcuno le dica a Wolfgang Schäuble.

 

[1] Come spesso, l’uso delle preposizioni dinanzi ai verbi tipico della lingua inglese, non è facilmente traducibile. In economia esiste il concetto del “crowding out” – che in genere in italiano si traduce con “spiazzamento” – secondo il quale il deficit pubblico comporta che gli Stati si appropriano di risorse che “spiazzano” gli investimenti privati, per la semplice ragione che li sottraggono. Il concetto opposto, che viene qua espresso con un “crowding in”, lo traduciamo con “aggregazione”, che è abbastanza comprensibile.

[2] Olivier Blanchard, economista di orientamento keynesiano della ‘leva’ dei principali economisti allevati al MIT (Bernanke, Draghi, lo stesso Krugman e in qualche misura anche Larry Summers), dal 2008 è capoeconomista del FMI e la sua direzione ha provocato un cambiamento di orientamenti e di metodi sensibile:

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[3] Espressione ironica coniata in un post del 2014 ed usata in seguito varie volte da Krugman.

[4] La Tabella offerta dal FMI – con un titolo secondo il quale “le dimensioni della crisi negli investimenti delle imprese a partire dalla crisi riflettono la debolezza dell’attività economica” – osservando la differenza tra l’andamento effettivo (linea nera) e quello previsto (linea rossa), osserva anche che per “ampi gruppi di economie avanzate, ci sono modesti investimenti inesplicabili”.

[5] Era l’espressione che Keynes utilizzò per analizzare il fenomeno simile, seppur più generale, secondo il quale una contemporanea tendenza di tutti i soggetti a risparmiare provoca una diminuzione della domanda ed un impoverimento della crescita tali da ridurre i risparmi effettivi.

Note sulla Grecia (dal blog di Krugman, 19 aprile 2015)

aprile 19, 2015

 

Apr 19 5:05 am

Notes on Greece

OK, that was intense. I’ll write more about my visit, but right now (from Frankfurt, where I’m laying over for a couple of hours) I want to make a data point. about just how much adjustment Greece has done.

First, on the fiscal side, Greece has made an incredible adjustment — close to 20 percent of potential GDP, or the U.S. equivalent of about $3 trillion per year (not our usual 10-year calculation) in spending cuts and tax hikes:

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IMF

Second, Greece has accepted roughly a 25 percent cut in nominal private-sector labor costs, or more than 30 percent relative to the euro average, far more than anyone else:

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Eurostat

You can make a pretty good case that the costs of this adjustment were so large that Greece would have been better off exiting the euro in 2010. You can make an even better case that Greece would have been much better off if it had never joined in the first place. But at this point these are sunk costs. If Greece can negotiate a halfway reasonable compromise, one that more or less pauses further austerity, it’s hard to see that the risks of exit would be worth it.

And the creditors would be equally well served by such a compromise.

So is it going to happen? Well, it’s the right thing to do — which tells you nothing.

 

Note sulla Grecia

É così, è stato un periodo intenso. Scriverò di più sulla mia visita, ma in questo momento (da Francoforte, dove sto facendo una sosta per un paio d’ore) voglio fare un punto sulle statistiche, a proposito di quanto sia stata rilevante la correzione messa in atto dalla Grecia.

Anzitutto, dal lato delle finanze pubbliche, la Grecia ha operato una correzione incredibile – vicina al 20 per cento del PIL potenziale, ovvero l’equivalente di circa 3.000 miliardi di dollari all’anno (non il calcolo decennale cui siamo soliti) in tagli alle spese ed aumenti fiscali:

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FMI

 

In secondo luogo, la Grecia ha accettato un taglio grosso modo del 15 per cento nei costi nominali del lavoro nel settore privato, ovvero di più del 30 per cento in rapporto alla media euro, assai di più di chiunque altro:

z 644

 

 

 

 

 

 

 

 

Eurostat

 

Si può avanzare l’argomento che i costi di questa correzione sono stati talmente ampi che la Grecia avrebbe fatto meglio ad uscire dall’euro nel 2010. Si può avanzare la tesi persino più forte, secondo la quale la Grecia avrebbe fatto prima di tutto molto meglio se non avesse mai aderito. Ma a questo punto i costi sono sprofondati. Se la Grecia può negoziare un ragionevole compromesso a mezza strada, del genere di qualcosa che più o meno interrompa una ulteriore austerità, è difficile pensare che i rischi di un’uscita valgano la candela.

E da un compromesso del genere i creditori sarebbero altrettanto ben compensati.

Dunque, è quello che accadrà? Ebbene, sarebbe la cosa giusta da fare – il che non ci dice niente.

La non linearità, gli equilibri multipli ed il problema degli effetti troppo stravaganti (per esperti) (15 aprile 2015)

aprile 15, 2015

 

Nonlinearity, Multiple Equilibria, and the Problem of Too Much Fun (Wonkish)

April 15, 2015 8:12 am

There’s been another blogospheric debate on methodology, this time involving a currently fashionable critique of mainstream macroeconomics — namely, that it’s too reliant on linear models and fails to make allowance for multiple equilibria. Frances Coppola and Wolfgang Munchau are leading the charge, with Roger Farmer (I think) in support; Brad DeLong and Tony Yates beg to differ. So do I.

There’s plenty wrong with macroeconomics as practiced, and plenty more wrong with macroeconomists as practitioners — and I haven’t been shy about pointing these failings out. But this is the wrong line of attack, for two reasons.

First, claims that mainstream economists never think about, and/or lack the tools to consider, nonlinear stuff and multiple equilibria and all that are just wrong. Tony Yates notes Munchau declaring that the zero lower bound is a minefield that economists have avoided; what? As Yates says,

The implication is ‘ooh, look at this really obvious real world thingy that economists just can’t deal with’. But actually, they can and do, and it’s embraced by 100s of papers now, since Krugman wrote the first modern one in 1998.

What about multiple equilibria? Well, most of my academic macroeconomic work is in international macro, especially on currency crises, and in that sub-field multiple equilibria — oh, and the effects of leverage and balance sheet effects — is a long-standing part of the approach. Here’s my 1999 paper on a multiple-equilibrium approach to the Asian financial crisis. For that matter, Diamond-Dybvig — the standard model for thinking about bank runs — is all about multiple equilibria and self-fulfilling prophecies.

So if your assertion is that economists don’t have the tools to think about such things, and/or are too boring and conventional to go there, well, that’s just uninformed. Been there, done that.

But maybe the complaint is simply that economists don’t do enough nonlinear analysis. And I can say personally that while I am, I think, pretty well aware of the possibilities of multiple equilibria and all that, they aren’t the staple of my analysis. There is, however, a reason for that: that kind of stuff is too easy and too much fun.

When you first start playing around with multiple-equilibrium models — in my generation that generally happened in grad school — there’s a period of enthusiasm. Crazy things can happen! Anything can happen! I can write down a model in which X leads to Z instead of Y!

Also, you can call spirits from the vasty deep. But will they come when you do call?

The point is that it’s quite easy, if you’re moderately good at pushing symbols around, to write down models where nonlinearity leads to funny stuff. But showing that this bears any relationship to things that happen in the real world is a lot harder, so nonlinear modeling all too easily turns into a game with no rules — tennis without a net. And in my case, at least, I ended up with the guiding principle that models with funny stuff should be invoked only when clearly necessary; you should always try for a more humdrum explanation.

So, was the crisis something that requires novel multiple-equilibrium models to understand? That’s far from obvious. The run-up to crisis looks to me more like Shiller-type irrational exuberance. The events of 2008 do have a multiple-equilibrium feel to them, but not in a novel way: once you realized that shadow banking had recreated the hazards of unregulated traditional banking, all you had to do was pull Diamond-Dybvig off the shelf.

And since the crisis struck, as I’ve argued many times, simple Hicksian macro — little equilibrium models with some real-world adjustments — has been stunningly successful. Notice, by the way, that in the linked post I do include the zero lower bound — no minefield here — which in turn makes the model nonlinear, with a qualitative change in behavior when the economy is sufficiently depressed that the zero bound is binding. But all that comes straight out of a quite simple framework, with no huffing and puffing and diatribes against conventional economics.

As I said, there are plenty of problems with economics. But I’d argue that ranting about the need for new models is not helpful; in policy terms, our problem has been refusal to use the pretty successful models we already have.

 

La non linearità, gli equilibri multipli ed il problema degli effetti troppo stravaganti (per esperti)

C’è stato un altro dibattito blogosferico sulla metodologia, questa volta riguardante critiche attualmente di moda alla macroeconomia prevalente [1] – in particolare, che essa si basa troppo sui modelli lineari e non riesce a dare considerazione agli equilibri multipli [2]. Frances Coppola e Wolfgang Munchau guidano la carica, con Roger Farmer (mi sembra) a sostegno; Brad DeLong a Tony Yates prendono le distanze. Come faccio io.

C’è una quantità di cose sbagliate nella macroeconomia per come è praticata, ed una quantità di cose sbagliare nei macroeconomisti come praticanti – e io non sono stato certo timido nell’indicare questi difetti. Ma per due ragioni questa è la linea di attacco sbagliata.

Il primo, le pretese che i macroeconomisti convenzionali non abbiano mai riflettuto, e/o abbiano difettato degli strumenti per considerare, le questioni della non linearità e degli equilibri multipli, e tutto il resto, sono proprio sbagliate. Tony Yates osserva che Munchau ha dichiarato che il limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse) è un campo minato che gli economisti hanno evitato. Che cosa? Come dice Yates,

“L’implicazione è di questo genere: ‘Suvvia, si consideri questa faccenduola talmente evidente nel mondo reale, con la quale gli economisti proprio non riescono a fare i conti!’. Ma in realtà, ce li possono fare e ce li fanno, e a questo punto essa è accolta da centinaia di studi, dal momento in cui Krugman ne scrisse la prima versione moderna nel 1998.”

E cosa dire degli equilibri multipli? Ebbene, gran parte del mio lavoro accademico di macroeconomia è sull’economia internazionale, in particolare sulle crisi valutarie, e in quella sotto disciplina degli equilibri multipli – per non dire degli effetti della riduzione dell’indebitamento e degli effetti degli (s)quilibri patrimoniali – sono una componente di lunga data del mio approccio. Ecco in questa connessione un mio saggio del 1999 sull’approccio di multi-equilibrio alla crisi finanziaria asiatica [3]. Nello stesso senso, il Diamond-Dybvig [4] – il modello standard per ragionare degli assalti agli sportelli bancari – è tutto relativo agli equilibri multipli ed alle profezie che si autoavverano.

Dunque, se la vostra asserzione è che gli economisti non hanno gli strumenti per ragionare di cose del genere, e/o sono troppo noiosi e convenzionali per arrivarci, ebbene, siete semplicemente disinformati. Non si tratta certo di novità.

Ma forse la lamentela è semplicemente che gli economisti non fanno a sufficienza analisi non lineari. E personalmente posso dire che, mentre penso di essere abbastanza ben consapevole delle possibilità degli equilibri multipli (e cose simili), essi non sono la base della mia analisi. Questo ha, tuttavia, una sua ragione: quel genere di cose sono troppo facili e fanno anche non pochi scherzi.

Quando per la prima volta cominciate a giocare attorno ai modelli di equilibrio multiplo – che nella mia generazione di solito accadeva negli anni della laurea magistrale – c’è un periodo di entusiasmo. Succedono cose pazzesche! Può succedere di tutto! Posso buttar giù un modello nel quale X porta a Z invece cha a Y!

Potete anche richiamare gli spiriti dalle immense profondità. Ma gli spiriti verranno, al vostro richiamo?

Il punto è che, se siete moderatamente bravi nel fare quello che volete con i simboli, è abbastanza semplice buttar giù dei modelli nei quali la non linearità conduce a effetti stravaganti. Ma dimostrare che questo comporta una relazione con cose che accadono nella realtà è molto più difficile, cosicché la modellazione non lineare con troppa facilità si trasforma in un gioco senza regole – come giocare a tennis senza la rete. E nel mio caso, io almeno mi risolsi al principio guida secondo il quale i modelli con implicazioni stravaganti dovrebbero essere invocati solo quando chiaramente necessari; dovreste sempre cercare spiegazioni più noiose.

Dunque: la crisi, per essere compresa, era qualcosa che richiedeva nuovi modelli di equilibrio multiplo? E’ tutt’altro che evidente. Il periodo precedente alla crisi a me sembra maggiormente simile all’esuberanza irrazionale del genere di quella di Shiller. Gli eventi del 2008 davvero hanno dato l’impressione dell’equilibrio multiplo, ma non in modo insolito: una volta che si comprende che il sistema bancario ombra aveva ricreato gli azzardi del tradizionale sistema bancario senza regole, tutto quello che si doveva fare era tirar giù dagli scaffali il modello Diamond-Dybvig.

E dal momento che la crisi è scoppiata, come ho sostenuto in molte occasioni, una semplice macroeconomia hicksiana – piccoli modelli di equilibrio con qualche correzione derivante dal mondo reale – ha prodotto in modo sorprendente un risultato positivo. Si osservi, per inciso, che nel post che ho messo in connessione ho incluso il limite inferiore dello zero – non c’è alcun campo minato – che a sua volta rende il modello non lineare, alla stregua di un cambiamento qualitativo di comportamenti quando l’economia è sufficientemente depressa da rendere il limite inferiore dello zero vincolante. Ma tutto questo deriva direttamente da uno schema abbastanza semplice, senza che ci si debba agitare e polemizzare contro l’economia convenzionale.

Come ho detto, ci sono molti problemi con la teoria economica. Ma ritengo che sproloquiare sulla necessità di nuovi modelli non aiuti; in termini politici, il nostro problema è stato il rifiuto di utilizzare modelli abbastanza risolutivi che avevamo già a disposizione.

 

[1] Normalmente traduciamo “mainstream macroeconomics” con “macroeconomia prevalente”. E’ forse una traduzione insoddisfacente, ma è anche una questione piuttosto complicata.

Da una parte l’espressione porta istintivamente alla memoria la polemica di Keynes contro la “saggezza convenzionale” dell’economia classica (ed anche in quel caso occorrerebbe precisare che economisti diversi hanno definito ‘classiche’ scuole diverse l’una dall’altra. Keynes si riferiva soprattutto a Marshall, che del resto trattava con molto maggiore riguardo di altri; per Marx la classicità era quella di Ricardo, ‘sviata’ da altre successive interpretazioni ‘neoclassiche’. Ma un altro ‘neoclassicismo’ ha costituito nei decenni passati il motivo principale delle contese della scuola keynesiana – per quanto sia stato un fenomeno che si è dipanato per circa un secolo – e quest’ultimo non era esattamente l’aspetto di maggiore rilievo nella polemica di Keynes, dato che alla sua epoca, della Grande Depressione, non appariva ancora come il suo interlocutore principale).

Ma, venendo all’oggi, se si traducesse con l’italiano “convenzionale” – che pure sarebbe anche una soluzione corretta – sembrerebbe implicita una critica che in realtà non è nelle intenzioni di Krugman. Come mostra questo stesso post, Krugman di solito principalmente difende il ‘corpo’ delle acquisizioni prevalenti nei decenni passati della teoria economica (che talora semplifica con l’espressione “la macroeconomia dei libri di testo”, forse avendo in mente il più prestigioso di quei libri di testo, del Premio Nobel Paul Samuelson) , e considera il suo stesso contributo all’interno di quel ‘mainstream’. Naturalmente, quei decenni hanno visto la contesa di diverse scuole economiche: a destra, per dir così, quella di lontana derivazione austriaca, ravvivata nella scuola americana dell’ “acqua dolce”; a sinistra il keynesismo ( o la sua versione ‘neo’). Ed anche questa distinzione, nella sua ricostruzione, è meno ovvia di quanto potrebbe sembrare; ad esempio, egli ha spesso fatto una considerevole eccezione per alcuni aspetti del contributo di Milton Friedman, che egli non omologa in modo semplicistico al primo orientamento.

Per questo traduciamo di solito ‘mainstream macroeconomics’ con “macroeconomia prevalente”. Di solito, credo che Krugman voglia sottolineare questo aspetto della ‘prevalenza’, anche se la faccenda è complicata dal fatto che egli oggi considera quell’approccio prevalente, mentre due o tre decenni orsono era ben consapevole che rischiava di essere prevalente la scuola economica ‘conservatrice’.

[2] Nella teoria economica dominante fino agli anni trenta del secolo scorso gli economisti neoclassici sostenevano che in una economia di mercato l’equilibrio possibile fosse soltanto uno perché, con tutti i mercati con concorrenza pura e senza poteri per ciascun operatore, il sistema economico si sarebbe sempre e da solo riportato all’equilibrio di piena occupazione. Pertanto la politica economica non aveva alcun ruolo e semmai doveva seguire regole ferree per non interferire con le leggi del mercato … Ci volle la Teoria Generale di John Maynard Keynes per dimostrare che l’economia di mercato non ha come unico punto di equilibrio quello corrispondente alla piena occupazione, ma può avere equilibri “multipli”. Se cade la produzione, cade l’occupazione e quindi cade la domanda. Se cade la domanda cade la produzione e si avvia una spirale perversa verso il basso. Il problema è che se i mercati sono a concentrazione oligopolistica e non nella teorica concorrenza pura, alla caduta della produzione può seguire una caduta di domanda e può quindi determinarsi, a qualunque livello, un equilibrio con disoccupazione. Senza intervento pubblico l’economia non si muove da quel punto e la disoccupazione non rientra, né il sistema nel suo complesso sarà mai in grado di tornare alla piena occupazione.

Da Mario Baldassarri, “f! formiche” – 13/05/2020

[3] Il saggio aveva il titolo “Equilibri patrimoniali, il problema dei trasferimenti e le crisi finanziarie”, Paul Krugman, MIT, 1999.

[4] Il modello di Diamond-Dybvig (1983) è un modello teorico che si propone di spiegare le modalità attraverso cui si determina un fenomeno di run bancario (corsa agli sportelli), fornendo al contempo una rappresentazione teorica del meccanismo attraverso cui le banche creano liquidità. Il modello rappresenta ad oggi il punto di riferimento teorico per la spiegazione dei fenomeni considerati, e non a caso di esso sono state proposte varie riformulazioni successive. (Wikipedia)

 

 

 

Una vittoria contro le ombre (11 aprile 2015)

aprile 11, 2015

 

Apr 11 11:21 am

A Victory Against the Shadows

There are two big lessons from GE’s announcement that it is planning to get out of the finance business. First, the much maligned Dodd-Frank financial reform is doing some real good. Second, Republicans have been talking nonsense on the subject. OK, maybe point #2 isn’t really news, but it’s important to understand just what kind of nonsense they’ve been talking.

GE Capital was a quintessential example of the rise of shadow banking. In most important respects it acted like a bank; it created systemic risks very much like a bank; but it was effectively unregulated, and had to be bailed out through ad hoc arrangements that understandably had many people furious about putting taxpayers on the hook for private irresponsibility.

Most economists, I think, believe that the rise of shadow banking had less to do with real advantages of such nonbank banks than it did with regulatory arbitrage — that is, institutions like GE Capital were all about exploiting the lack of adequate oversight. And the general view is that the 2008 crisis came about largely because regulatory evasion had reached the point where an old-fashioned wave of bank runs, albeit wearing somewhat different clothes, was once again possible.

So Dodd-Frank tries to fix the bad incentives by subjecting systemically important financial institutions — SIFIs — to greater oversight, higher capital and liquidity requirements, etc.. And sure enough, what GE is in effect saying is that if we have to compete on a level playing field, if we can’t play the moral hazard game, it’s not worth being in this business. That’s a clear demonstration that reform is having a real effect.

Now, the more or less official GOP line is that the crisis had nothing to do with runaway banks — it was all about Barney Frank somehow forcing poor innocent bankers to make loans to Those People. And the line on the right also asserts that the SIFI designation is actually an invitation to behave badly, that institutions so designated know that they are too big to fail and can start living high on the moral hazard hog.

But as Mike Konczal notes, GE — following in the footsteps of others, notably MetLife — is clearly desperate to get out from under the SIFI designation. It sure looks as if being named a SIFI is indeed what it’s supposed to be, a burden rather than a bonus.

A good day for the reformers.

 

Una vittoria contro le ombre

Ci sono due grandi lezioni nell’annuncio che General Electric sta programmando l’uscita dagli affari della finanza. Anzitutto, la tanto diffamata riforma finanziaria Dodd-Frank sta producendo risultati reali positivi. La seconda, i repubblicani su tale questione hanno detto cose insensate. Ammetto che il punto 2 non è realmente una novità, ma è importante comprendere esattamente il genere di insensatezze che sono venuti dicendo.

GE Capital era la quintessenza dell’esempio di una ascesa del sistema bancario ombra. Sotto i profili più importanti essa agiva come una banca; ma era effettivamente priva di regole, e dovette essere salvata attraverso soluzioni specifiche che comprensibilmente fecero infuriare molte persone per aver mandato i contribuenti allo sbaraglio per irresponsabilità private.

Penso che la maggioranza degli economisti credano che l’ascesa del sistema bancario ombra abbia meno a che fare con i vantaggi reali di tali banche fittizie, di quanti non ne abbia avuti per effetto della arbitrarietà dei regolamenti – vale a dire, istituti come GE Capital consistettero interamente nello sfruttamento di una mancanza di adeguata supervisione. E l’opinione generale è che la crisi del 2008 intervenne in parte più o meno ampia perché l’evasione delle regole aveva raggiunto il punto nel quale un’ondata di vecchio stampo di corsa agli sportelli, sebbene in qualche modo in forme diverse, era una volta ancora possibile.

E’ per questo che la Dodd-Frank cerca di correggere gli incentivi negativi sottoponendo gli “istituti finanziari importanti da un punti di vista sistemico” (SIFI) ad una vigilanza maggiore [1], alle condizioni di capitali e liquidità superiori etc. E di fatto, quello che la GE sta dicendo è che se si deve competere con regole uguali per tutti, se non si può approfittare del ricorso all’azzardo morale [2], non merita di restare in questo affare. Quella è la chiara dimostrazione che la riforma sta avendo un effetto reale.

Ora, la linea più o meno ufficiale del Partito Repubblicano è che la crisi finanziaria non ebbe niente a che fare con le banche fuori controllo – dipese tutta da Barney Frank che in qualche modo costrinse poveri banchieri innocenti a fare prestiti a Quella Gente [3]. E a destra tale linea afferma anche che con la designazione degli istituti SIFI, nella sostanza, si invita a comportarsi in modo negativo, giacché gli istituti così definiti sanno di essere troppo grossi per fallire, e possono cominciare a fare la bella vita appropriandosi dello strumento dell’azzardo morale.

Ma, come osserva Mike Konczal [4], la GE – seguendo le orme di altri, in particolare di MetLife – ha chiaramente perso la speranza di sottrarsi al peso della definizione come istituto SIFI. Pare dunque accertato che la denominazione di SIFI è in effetti quello che si supponeva fosse, un peso piuttosto che una facilitazione.

Un buon giorno per i riformatori.

 

[1] In effetti, come spiega questo stesso post più oltre, la legge Dodd-Frank – tramite la previsione dell’obbligo di definire come “istituti importanti dal punto di vista sistemico” gli istituti finanziari parabancari rilevanti – ottiene l’effetto di estendere ad essi forme di regolamentazione che nel passato erano inesistenti.

[2] “Moral hazard” è, come è noto, un termine con il quale in microeconomia si definisce “una forma di opportunismo post-contrattuale, che può portare gli individui a perseguire i propri interessi a spese della controparte, confidando nella impossibilità, per quest’ultima, di verificare la presenza di dolo o negligenza”. (Wikipedia)

Nel caso in questione, l’azzardo morale poteva dipendere dalla sostanziale deresponsabilizzazione di un sistema bancario ombra deregolamentato (ad esempio, non tenuto a regole di mantenimento di una quota di capitali propri adeguata ai rischi).

[3] Frank è un congressista democratico, che si era occupato attivamente della questione dei mutui per la prima casa, e successivamente divenne uno dei ‘padri’ della riforma del sistema finanziario. Entrò nel mirino del Partito Repubblicano per l’influenza che aveva avuto nel sostenere le politiche delle due principali agenzie pubbliche che si occupavano dei mutui. In realtà, il fenomeno dei cosiddetti mutui “subprime” – ovvero dei prestiti concessi a persone che si rivelarono, con la crisi, insolventi – riguardò massimamente istituti di credito privati, facenti parte appunto del sistema bancario ombra che era prosperato al riparo da ogni regola. Frank, in precedenza, aveva avuto anche una certa notorietà, per essere stato il primo uomo politico americano ad aver rivendicato la propria omosessualità; la qual cosa non deve essere stata del tutto estranea, immagino, alla aggressione subita in seguito, quando la destra lo indicò in modo abbastanza ridicolo come il primo responsabile delle crisi finanziaria del 2008.

L’espressione “Quella Gente”, come si sarà notato altre volte, sta in generale ad indicare, nel linguaggio della destra americana, i meno abbienti, preferibilmente di colore.

[4] Di Mike Konczal, che si occupa spesso in modo attento dei problemi della legislazione sul sistema finanziario americano, si può leggere si questo blog l’articolo del 13 dicembre 2013 “Il 2013 è stato una anno cattivo per i lobbisti di Wall Street”.

Apple e lo Stato dell’auto sorveglianza (dal blog di Krugman, 10 aprile 2015)

aprile 10, 2015

 

Apple and the Self-Surveillance State

April 10, 2015 2:53 pm

Like lots of people, I’m paying attention to the Apple Watch buzz, and doing some of my own speculation. Needless to say, I have no special expertise here. But what the heck; I might as well put my own thoughts out there.

So, here’s my pathetic version of a grand insight: wearables like the Apple watch actually serve a very different function — indeed, almost the opposite function — from that served by previous mobile devices. A smartphone is useful mainly because it lets you keep track of things; wearables will be useful mainly because they let things keep track of you.

As I’ve written before, these days I wear a Fitbit, not because I want precise metrics on my fitness regime — which I’m probably not getting — but precisely because the thing spies on me all the time, and therefore doesn’t let me lie to myself about my efforts. And to get that benefit, I don’t need to be able to read information off the device — the basic version is just a blank band, communicating its information by Bluetooth. All I need is to be able to check up on myself once or twice a day.

Now, in this case the only intended recipient of this information is myself, although for all I know the NSA, the Machine, and Samaritan are tracking me too. (If you’re not watching Person of Interest, you should be.) But it’s easy to imagine how a wristband that provides information to others could be very useful — easy to imagine because it already happens at Disney World, where the Magic Band tracks you, letting rides know that you have bought a ticket, restaurants know that you’ve arrived and what table you’re sitting at, and more.

And yes, I know that your phone can do some of this; but a wearable can gather more information while being, you know, wearable.

But will people want a Disney-like experience out in the alleged real world? Almost surely the answer is yes.

Consider the Varian rule, which says that you can forecast the future by looking at what the rich have today — that is, that what affluent people will want in the future is, in general, something like what only the truly rich can afford right now. Well, one thing that’s very clear if you spend any time around the rich — and one of the very few things that I, who by and large never worry about money, sometimes envy — is that rich people don’t wait in line. They have minions who ensure that there’s a car waiting at the curb, that the maitre-d escorts them straight to their table, that there’s a staff member to hand them their keys and their bags are already in the room.

And it’s fairly obvious how smart wristbands could replicate some of that for the merely affluent. Your reservation app provides the restaurant with the data it needs to recognize your wristband, and maybe causes your table to flash up on your watch, so you don’t mill around at the entrance, you just walk in and sit down (which already happens in Disney World.) You walk straight into the concert or movie you’ve bought tickets for, no need even to have your phone scanned. And I’m sure there’s much more — all kinds of context-specific services that you won’t even have to ask for, because systems that track you know what you’re up to and what you’re about to need.

Yes, it can sound kind of creepy. Even if there are protocols that supposedly set limits, revealing only what and to whom you want, there will tend to be an expansion of your public profile and contraction of your private space — not to mention the likelihood that the NSA, the Machine, and Samaritan are watching regardless. But two points here. First, most people probably don’t have that much to be private about; most of us don’t actually have double lives and deep secrets — at most we have minor vices, and the truth is that nobody cares. Second, lack of privacy is actually part of the experience of being rich — the chauffeur, the maids, and the doorman know all, but are paid not to tell, and the same will be be true of their upper-middle-class digital versions. The rich already live in a kind of privatized surveillance state; now the opportunity to live in a gilded fishbowl is being (somewhat) democratized.

So that’s my two cents (which purchase as much in digital terms as several hundred dollars back when). I think wearables will become pervasive very soon, but not so that people can look at their wrists and learn something. Instead, they’ll be there so the ubiquitous surveillance net can see them, and give them stuff.

 

Apple e lo Stato dell’auto sorveglianza

Seguo, come molte persone, lo scalpore che sta provocando Apple Watch [1], e sto facendo qualche mia personale riflessione. Non è il caso di dire che non ho alcuna particolare esperienza in materia. Ma che diavolo: avrò bene il diritto di mettere in giro qualche mio pensiero!

Ecco, dunque, la mia versione meschinella di una stupenda intuizione: oggetti che si possono tenere indosso come l’orologio della Apple possono effettivamente essere utili per una funzione assai diversa – in effetti, quasi la funzione opposta – rispetto a quella per cui erano utili i precedenti congegni mobili. Uno smartphone è utile principalmente perché vi consente di tener traccia delle cose; questi oggetti che si indossano saranno utili principalmente perché sono le cose che tengono traccia di voi stessi.

Come ho scritto altre volte, di questi tempi io indosso un Fitbit [2], non perché voglia la misurazione precisa del regime della mia forma fisica – ma esattamente perché quell’oggetto mi spia per tutto il tempo, e di conseguenza non mi permette di raccontarmi bugie sugli sforzi che faccio. E per ottenere un vantaggio del genere, non ho bisogno di sfogliare le informazioni dal congegno – la versione fondamentale è solo una striscia bianca, che comunica l’informazione attraverso Bluetooth [3]. Tutto quello di cui ho bisogno è essere capace di controllarmi una o due volte al giorno.

Ora, in questo caso, l’unico beneficiario programmato di questa informazione sono io medesimo, sebbene sappia che la NASA, la Macchina e il Samaritano mi stanno anch’essi seguendo (se non state guardando il programma Person of interest, dovreste farlo [4]). Ma è facile immaginare come un braccialetto che fornisce informazioni a qualcuno, potrebbe essere molto utile – facile da immaginare perché già accade a Disney World [5], dove il Bracciale Magico vi segue, consente alle giostre di sapere che avete acquistato il biglietto, ai ristoranti di sapere che siete arrivati e a quale tavolo vi state sedendo, ed altro ancora.

Ed è vero, so che il vostro telefono può fare alcune di queste cose; ma un oggetto che si indossa può riunire più informazioni nel mentre. Inoltre, sapete, è indossabile.

Ma le persone vorranno portar fuori, nel cosiddetto mondo reale, una esperienza del tipo di quella di Disneyland? Quasi sicuramente la risposta è affermativa.

Si consideri la regola di Varian [6], che dice che si può prevedere il futuro osservando quello che i ricchi hanno a disposizione oggi – cioè, quello che le persone benestanti vorranno nel futuro è, in generale, qualcosa che oggi possono permettersi solo coloro che sono veramente ricchi. Ebbene, una cosa chiarissima se spendete un po’ di tempo attorno ai ricchi – ed una delle pochissime cose che io, che in generale non mi preoccupo mai dei soldi, talvolta invidio – è che i ricchi non sono gente che ‘aspetta in linea’. Hanno galoppini che assicurano che c’è un’automobile in attesa sul marciapiede, che il maître direttamente li accompagnerà al tavolo, che c’è un componente dello staff che consegna loro le chiavi e che i loro bagagli sono già nella stanza.

Ed è abbastanza evidente come, per i semplici benestanti, braccialetti intelligenti potrebbero replicare alcune di queste cose. Il vostro programma delle prenotazioni fornisce al ristorante i dati necessari per riconoscere il vostro bracciale, e forse fa in modo che il vostro tavolo appaia sul vostro orologio, cosicché non dovete girovagare all’entrata, ma solo camminare e sedervi (il che accade già a Disneyland). Andate direttamente al concerto o al film per i quali avete prenotato i biglietti, senza nemmeno sia stato necessario scannerizzarli dal telefono. E sono persuaso che ci sia molto di più – tutti i tipi di servizi in contesti particolari che non avrete neppure bisogno di richiedere, perché i sistemi che seguono le vostre tracce sanno che vi spettano e di che cosa avete bisogno.

E’ vero, può sembrare un po’ raccapricciante. Persino se ci sono protocolli che si suppone pongano dei limiti, che stabiliscano che cosa si vuole e per chi lo si vuole, essi tenderanno a costituire una espansione del vostro profilo pubblico ed una contrazione del vostro spazio privato – per non dire della probabilità che la NASA, la Macchina e il Samaritano vi stiano osservando in ogni caso. Ma ci sono a questo proposito due aspetti. Il primo, la maggioranza delle persone non ha così tanto privato di cui curarsi; la maggioranza di noi non hanno in verità doppie vite e profondi segreti – al massimo abbiamo qualche vizio secondario, e la verità è che non interessa a nessuno. In secondo luogo, il difetto di privacy è in effetti una componente dell’essere ricchi – l’autista, le domestiche e il portiere sanno ogni cosa, ma sono pagati per non dirlo, e così sarà anche per la loro versione digitale a disposizione delle classi medio alte. I ricchi vivono già in un sorta di sorveglianza statale privatizzata; adesso l’opportunità di vivere in un vaschetta dorata per pesci rossi (in qualche modo) costituisce un progresso democratico.

Dunque, questo è il mio contributo da due soldi (che in termini digitali vale quanto svariate centinaia di dollari dei tempi andati). Io penso che gli ‘oggetti indossabili’ diventeranno molto presto pervasivi, ma non al punto che le persone possano guardare ai loro polsi ed imparare qualcosa. Piuttosto, saranno presenti in modo tale che la rete della sorveglianza ubiquitaria possa osservarli, e dar loro cose di qualche natura.

 

[1] Da ‘Milano Finanza’ di oggi, martedì 14 aprile:

“Debutto record per Apple Watch, il primo smartwatch del colosso di Cupertino che ha debuttato in nove Paese venerdì totalizzando, secondo le prime stime, un milione di ordini nei soli Stati Uniti. Secondo i dati elaborati dalla società di ricerca Slice Intelligence, nei soli Stati Uniti il nuovo dispositivo ha toccato il milione di pezzi, confermando quindi le aspettative elevatissime degli analisti per l’ultimo gadget di Apple, che dovrebbe toccare quota 20 milioni di unità vendute nel primo anno surclassando gli analoghi dispositivi basati sul sistema operativo Android di Google e prodotti da una pletora di società, a partire da Samsung, Lg e Asus.”

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[2] Un braccialetto che monitora l’attività fisica di chi lo porta.

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[3] Nelle telecomunicazioni Bluetooth è uno standard tecnico-industriale di trasmissione dati per reti personali senza fili (WPAN: Wireless Personal Area Network). Fornisce un metodo standard, economico e sicuro per scambiare informazioni tra dispositivi diversi attraverso una frequenza radio sicura a corto raggio. (Wikipedia)

[4] Pare che sia una serie televisiva che narra di una storia analoga; ovvero di un ‘informatore’ tecnologico che segue le condotte di individui posti sotto controllo, ma potenzialmente di una infinità di persone. Il programma era niente più che una commedia, ma si è scoperto che una situazione non molto dissimile era in atto nel mondo reale.

La “Macchina” ed il “Samaritano” sono i nomi di due progetti informatici che, nella fiction, configurano stadi diversi di quei programmi di intelligenze artificiali da ‘Grande Fratello’. Protagonista del racconto è un ex ingegnere informatico: Arthur Thomas Claypool. E questo è l’ingegnere protagonista (il volto un po’ provato dipende forse dal fatto che nella storia ha un tumore al cervello):

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[5] Walt Disney World è il gigantesco parco dei divertimenti della omonima società, sito a Buena Vista, presso Orlando, in Florida. In genere, noi chiamiamo Disneyland le versioni europee. E il “Bracciale Magico” è appunto uno strumento con il quale si possono fare varie cose, compresa la prenotazione di un post al ristorante.

[6] Hal Ronald Varian (Wooster, 18 marzo 1947) è un economista statunitense specializzato in microeconomia ed economia dell’informazione.

La sterzata di Leffer (10 aprile 2015)

aprile 10, 2015

 

Apr 10 10:03 am

The Laffer Swerve

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Congressional Budget Office

Jim Tankersley has a good article on Arthur Laffer’s never-stronger influence on the Republican party, with just one seriously misleading statement:

Laffer’s ideas have also grown out of fashion with much of the mainstream economic community. There is an entire branch of economic literature that uses detailed equations to show cutting top tax rates does not spark additional growth.

No, Laffer hasn’t “grown out of fashion” with mainstream economics — he was never in fashion. There was never any evidence to support strong supply-side claims about the marvels of tax cuts and the horrors of tax increases; even freshwater macroeconomists, despite their willingness to believe foolish things, never went down that road.

And nothing in the experience of the past 35 years has made Lafferism any more credible. Since the 1970s there have been four big changes in the effective tax rate on the top 1 percent: the Reagan cut, the Clinton hike, the Bush cut, and the Obama hike. Republicans are fixated on the boom that followed the 1981 tax cut (which had much more to do with monetary policy, but never mind). But they predicted dire effects from the Clinton hike; instead we had a boom that eclipsed Reagan’s. They predicted wonderful things from the Bush tax cuts; instead we got an unimpressive expansion followed by a devastating crash. And they predicted terrible things from the tax rise after Obama’s reelection; instead we got the best job growth since 1999.

And when I say “they predicted”, I especially mean Laffer himself, who has a truly extraordinary record of being wrong at crucial turning points. As Bruce Bartlett pointed out a few years ago, Laffer was even wrong during the Reagan years: he predicted that the Reagan tax hikes of 1982, which partially reversed earlier cuts, would cripple the economy; “morning in America” promptly followed. Oh, and let’s not forget his 2009 warnings about soaring interest rates and inflation.

The question you should ask, then, is why this always-wrong economic doctrine now has a stronger grip on the GOP than ever before.

It wasn’t always thus. George W. Bush’s inner circle clearly had little use for the likes of Laffer; they engaged in a lot of deceptive advertising about the economy (and a few other things), but they never made extravagant supply-side claims — and remember that Greg “charlatans and cranks” Mankiw served as chairman of the Council of Economic Advisers. But since 2009 the GOP has swerved hard right into fantasy land — and it has done so despite a remarkable string of dead-wrong predictions by the people peddling that fantasy.

Tankersley quotes me as saying that it’s about wanting economists who tell them what they want to hear, which is self-evidently true. But that kind of wishful thinking is always around. What seems to have happened to American conservatives is that they have lost all the checks and balances that used to limit that kind of solipsism. And of course it’s not just economic policy.

What do we do in the face of a major party gone mad?

 

La sterzata di Leffer

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Congressional Budget Office

 

Jim Tankersley ha un buon articolo sulla influenza di Arthur Laffer [1], che non è mai stata più forte sul Partito Repubblicano, che contiene soltanto una affermazione seriamente inesatta:

“Le idee di Laffer sono anche passate di moda presso gran parte della comunità economica principale. C’è un’intera branca della letteratura economica che utilizza equazioni dettagliate per mostrare che i tagli alle tasse sui più ricchi non innescano una crescita aggiuntiva.”

No, Laffer non è “passato di moda” nell’economia prevalente – egli non è mai stato di moda. Non c’è mai stata alcuna prova per sostenere le pretese dell’economia dal lato dell’offerta sulle meraviglie degli sgravi fiscali e sugli orrori degli aumenti delle tasse; persino i macroeconomisti dell’ “acqua dolce” [2], nonostante la loro disponibilità a credere in cose sciocche, non sono mai scesi su quell’indirizzo.

E niente nella esperienza degli ultimi 35 anni ha reso il ‘lafferismo’ in qualche modo più credibile. A partire dagli anni ’70 ci sono stati quattro grandi cambiamenti nelle aliquote fiscali effettive dell’1 per cento dei più ricchi: i tagli di Reagan, gli incrementi di Clinton, i tagli di Bush e gli incrementi di Obama. I repubblicani sono fissati sulla espansione che seguì gli sgravi fiscali del 1981 (che ebbe molto di più a che fare con la politica monetaria, ma lasciamo perdere). Ma avevano previsto effetti tremendi dagli incrementi di Clinton; invece si ebbe una espansione che eclissò quella di Reagan. Avevano previsto cose terribili dagli aumenti fiscali dopo la rielezione di Obama; invece abbiamo avuto la migliore crescita dei posti di lavoro a partire dal 1999.

E quando dico “avevano previsto”, intendo in particolare lo stesso Laffer, che ha un record veramente straordinario nel fare sbagli nei momenti di svolta cruciali. Come mise in evidenza alcuni anni orsono Bruce Bartlett, Laffer si sbagliò persino durante gli anni di Reagan: aveva previsto che gli aumenti fiscali del 1982, che in parte invertirono i tagli precedenti, avrebbero danneggiato l’economia; quello che seguì fu immediatamente il periodo del “buongiorno in America” [3]. E, infine, non dimentichiamo le sue messe in guardia del 2009 sui tassi di interesse e sull’inflazione che sarebbero saliti alle stelle.

La domanda che dovreste porvi, dunque, è perché questa dottrina economica sempre dalla parte del torto abbia una presa sul Partito Repubblicano, che oggi è più grande che mai.

Non è sempre stato così. Chiaramente, la cerchia più ristretta di Bush fece poco uso di personaggi come Laffer; essi si impegnarono in un bel po’ di consigli fallaci sull’economia (e su poche altre cose), ma non avanzarono mai tesi stravaganti dal lato dell’offerta – e si ricordi che il Greg Mankiw degli “eccentrici e stravaganti”[4], operò come Presidente della Commissione dei Consulenti Economici. Ma, a partire dal 2009, il Partito Repubblicano ha sterzato nettamente a destra, in un territorio fantastico – e lo ha fatto nonostante una serie considerevole di previsioni completamente sbagliate da parte delle persone che mettevano in circolazione quelle fantasie.

Tankersley mi cita quando io dico che ciò dipende dal desiderio di disporre di economisti che dicono quello che si vuole sentir dire, la qualcosa è evidentemente vera di per sé. Ma quel modo di ragionare basato sui desideri è sempre in circolazione. Quello che a me sembra sia accaduto ai conservatori americani è che hanno perduto l’abitudine a quelle forme di controllo e di equilibrio con le quali limitavano quella sorta di solipsismo. E ovviamente questa non è davvero politica economica.

Cosa fare, dinanzi ad un importante partito che è uscito di testa?

 

[1] Arthur Betz Laffer (Youngstown, 14 agosto 1940) è un economista statunitense, sostenitore della teoria dell’offerta, che divenne molto influente negli anni dell’amministrazione Reagan, tanto da esserne uno dei massimi consiglieri economici negli anni della sua presidenza. Laffer è conosciuto principalmente per la sua curva di Laffer. La curva ipotizza che se la pressione fiscale è troppo alta, le entrate fiscali calano, in virtù dei disincentivi a aumentare -in presenza di aliquote elevate- l’attività lavorativa. Sebbene non rivendichi la paternità di questo concetto, rimane popolare un incontro con esponenti repubblicani prima delle elezioni presidenziali del 1980. Leggenda vuole che Laffer incontrò Reagan in un ristorante e, scarabocchiando la curva su un tovagliolo, lo convinse della bontà della propria teoria. (Wikipedia)

 

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[2] E’ il termine con il quale curiosamente si definisce una intera scuola economica americana dell’ultimo mezzo secolo, di orientamento conservatore o neoclassico o anti keynesiano. Il nome deriva dal fatto che essa era particolarmente forte nelle zone interne, ovvero nelle Università del Nord nella regione dei Laghi, con centro a Chicago. Al contrario, la scuola keynesiana era più forte nelle università delle aree costiere dei due oceani, e per questo venne chiamata dell’ “acqua salata”.

[3] Era il titolo di una trasmissione radiofonica dello stesso Reagan, che ebbe un grande successo e favorì la sua rielezione alla presidenziali del 1984, dove il candidato democratico Walter Mondale – che era stato vicepresidente con Carter – subì una grande sconfitta.

[4] Professore di economia e consigliere economico di Bush, che usò quella espressione proprio per liquidare quelle posizioni economiche che si affidavano agli effetti miracolistici degli sgravi fiscali verso i ricchi.

Ben Bernanke e gli eterni falchi (8 aprile 2015)

aprile 8, 2015

 

Apr 8 8:11 am

BB and the Permahawks

Ben Bernanke comes down firmly against the idea that concerns about financial instability should lead central banks to raise interest rates even in a depressed economy. Good — and I was especially pleased to see him citing the Swedish example and the Ignoring of Lars Svensson as a case study.

One odd thing, however, is that I’m not at all sure that most people — even economists — would be able to figure out who, exactly, Bernanke is arguing with. And that is, I think, an important omission. We can and should have a pure economics debate about appropriate interest rate policy; but if we’re trying to understand the political economy — and we should, because this is about getting good decisions as well as good analysis — it is definitely relevant to note that the people making the financial stability argument for higher rates are permahawks, who keep coming up with new justifications for an unchanging policy demand.

Take, as possibly the most prominent advocate of the financials stability argument, the Bank for International Settlements. Originally (2011), the BIS demanded rate hikes to head off the alleged threat of inflation:

Central banks need to start raising interest rates to control inflation and may have to act faster than in the past, the Bank for International Settlements said.

“Tighter global monetary policy is needed in order to contain inflation pressures and ward off financial stability risks,” the BIS said in its annual report published yesterday in Basel, Switzerland. “Central banks may have to be prepared to raise policy rates at a faster pace than in previous tightening episodes.”

“The world economy is growing at a historically respectable rate of around 4 percent,” Caruana said. “The resurgence of demand has put concerns about deflation behind us. Accordingly, the need for continued extraordinary monetary accommodation has faded.”

Hmm:

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Since the inflation warning proved wrong, and deflation risks turned out to be far from over, you might expect some reconsideration of the policy demand. Instead, however, you get new reasons for the same policy:

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Note that suggestion that easy money reduces the incentive for “reform”, which in Europe as in America tends to take the form of cuts in social spending. This is quite close to the position of conservatives in the US, who seem annoyed that the Fed’s policies have prevented the crisis they were sure was imminent as a result of liberal big spending.

Anyway, I think Ben Bernanke did us a bit of a disservice by not linking to whoever it is he’s arguing with. It would help to know that John Taylor and the BIS are on the other side, because this would let readers place their position here in context with their other positions.

 

Ben Bernanke e gli eterni falchi

Ben Bernanke interviene con fermezza contro l’idea che le preoccupazioni per l’instabilità finanziaria dovrebbero portare ad elevare i tassi di interesse anche con una economia depressa. E’ una cosa positiva – e sono particolarmente compiaciuto di veder citare l’esempio svedese e il disconoscimento della posizione di Lars Svensson come oggetti da studiare.

Una cosa strana, tuttavia, è che io non sono affatto sicuro che la maggior parte delle persone – persino degli economisti – sarebbero nelle condizioni di immaginarsi con chi, esattamente, Bernanke stesse disputando. Potremmo e dovremmo avere un dibattito puramente economico sulla politica appropriata dei tassi di interesse; ma se stiamo cercando di farci un’idea sulla politica economica – e dovremmo farlo, dato che la questione riguarda il prendere buone decisioni, oltreché l’avere buone analisi – è di sicuro rilevante osservare che le persone che avanzano l’argomento della stabilità finanziaria per tassi di interesse più elevati sono gli ‘eterni falchi’ [1], che continuano a venirsene fuori con giustificazioni sempre nuove per una richiesta politica immutabile.

Si prenda, come il probabilmente più eminente sostenitore dell’argomento della stabilità finanziaria, la Banca dei Regolamenti Internazionali. Agli inizi (2011) la BRI chiedeva rialzi nei tassi per scongiurare la pretesa minaccia di inflazione:

“Le banche centrali hanno bisogno di cominciare al alzare i tassi di interesse per controllare l’inflazione e poter essere nelle condizioni di agire più rapidamente che nel passato, ha affermato la Banca dei Regolamenti Internazionali.

‘Una politica monetaria globale più restrittiva è necessaria allo scopo di contenere le spinte inflazionistiche e di tener lontani i rischi per la stabilità finanziaria’, ha affermato la BRI nel suo rapporto annuale pubblicato ieri a Basilea, Svizzera. ‘Le banche centrali possono dover essere nelle condizioni di elevare i tassi di riferimento ad un ritmo più veloce di precedenti episodi restrittivi’.

…..

“L’economia mondiale sta crescendo ad un tasso storicamente rispettabile di circa il 4 per cento” ha affermato Caruana. “La risalita della domanda ha posto le preoccupazioni sulla deflazione alle nostre spalle. Di conseguenza, il bisogno di una prolungata agevolazione monetaria è venuto meno.”

Avrei qualche dubbio:

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Dal momento che gli ammonimenti sull’inflazione si sono mostrati infondati, e che i rischi della deflazione sono risultati tutt’altro che finiti, vi sareste aspettati una qualche riconsiderazione su quella richiesta politica. Abbiamo invece ricevuto nuovi argomenti a favore della stessa politica:

z 624Caruana della BIR mette in guardia che un   contesto di bassi tassi consenta una dilazione  nelle riformeIl dirigente della BIR ammonisce che i regolatori potrebbero ‘star combattendo l’ultima guerra’, e invita i banchieri centrali a spingere per un ‘ritorno a finanze pubbliche sostenibili’.

 

 

z 624Caruana della BIR mette in guardia dai rischi di bassi tassi di interesse    

Jaime Caruana afferma che i bassi tassi di interesse hanno creato una situazione da ‘svantaggio della prima mossa’ che impedisce che i tassi salgano e alimenta l’instabilità finanziaria.

Si noti l’idea secondo la quale la moneta facile riduce l’incentivo per “le riforme”, che in Europa come in America tendono a prendere le forme dei tagli alla spesa sociale. Questa è abbastanza vicina alla posizione dei conservatori negli Stati Uniti, che sembrano irritati perché le politiche della Fed hanno impedito la crisi che erano sicuri fosse imminente, in conseguenza della grande spesa pubblica dei progressisti.

In ogni caso, io penso che Ben Bernanke, in un certo senso, non ci abbia aiutato, non chiarendo con chi stava polemizzando, chiunque egli fosse. Sarebbe stato utile sapere che John Taylor e la BRI sono dell’altro schieramento, perché avrebbe consentito di collocare la loro posizione nel contesto delle loro altre posizioni.

 

[1] “Perma” è un prefisso che può indicare, nei contesti più diversi, una condizione di permanenza (come nel caso di “permafrost”, che indica i terreni permanentemente ghiacciati, ad esempio nel Nord Europa).

L’economia del “love” (7 aprile 2015)

aprile 7, 2015

 

Apr 7 11:05 am

Economics of Love

Not love as in romance; love as in tennis, meaning zero. Cecchetti & Schoenholtz argue that “zero matters” in macroeconomics; specifically, both the zero almost-lower bound on interest rates and downward wage rigidity make the case that deflation or for that matter very low inflation is a bad thing.

Just to note: This is exactly the point I’ve made a number of times, talking about the two zeroes. Not complaining here — many people have made this point, and we need them to keep making it.

The message instead is for those people — you know who you are — who imagine that the macroeconomics in this blog and in my column is somehow way out there on the left. In reality, I’m almost depressingly mainstream. It’s the other side in these debates that is showing lots of creativity, coming up with novel and innovative arguments about why we should do stupid things.

 

L’economia del “love” [1]

Non l’amore come nelle storie d’amore; “love” come nel tennis, dove significa zero. Cecchetti e Schoenholtz [2] sostengono che “lo zero conta” in economia; in particolare, sia lo zero al limite quasi-inferiore dei tassi di interesse che la rigidità dei salari verso il basso comportano che la deflazione che peraltro un’inflazione molto bassa siano cose assai negative.

Solo una annotazione: è esattamente l’argomento che ho avanzato numerose volte, parlando dei due zeri [3]. In questo caso non mi lamento – in molti hanno posto questa argomento, ed abbiamo bisogno che continuino a farlo.

Il mio messaggio è piuttosto nei confronti di quelle persone – sapete a chi mi riferisco – che si immaginano che la macroeconomia in questo blog e negli articoli sia in qualche modo una bizzarria tipica della sinistra. In realtà, io sono convenzionale in modo quasi deprimente. E’ l’altro schieramento in questa discussione che sta mostrando molta creatività, venendosene fuori con argomenti originali ed innovativi, sulle ragioni per le quali dovremmo fare cose stupide.

 

[1] Come spiega subito il post, in questo caso “love” ha il significato di zero, come nel gergo tennistico. E’ il termine usato dall’arbitro per indicare lo zero nel punteggio o set di un giocatore. Es. 15-0 “fifteen-love”, oppure tre giochi a zero “is three games to love”. Tale termine deriva dal francese l’oeuf, l’uovo, che allude alla forma del simbolo dello zero.

[2] La connessione è con un articolo apparso sul blog ‘Moneyandbanking”, a cura dei due economisti. Stephen Cecchetti è un italoamericano, di origini lucchesi.

[3] La connessione è con il post del 10 settembre 2013, qua tradotto con il titolo “Licenza di ristagnare”. Ma più ampiamente, si veda “Una riconsiderazione degli obbiettivi di inflazione”, la relazione di Krugman alla conferenza della BCE di Sintra del maggio 2014.

Il futuro della finanza pubblica II: il debito non è sufficiente? (dal blog di Krugman, 7 aprile 2015)

aprile 7, 2015

 

The Fiscal Future II: Not Enough Debt?

April 7, 2015 10:53 am

 

Continuing my meditation on Brad DeLong’s meditation on the fiscal future. Brad doesn’t just argue that governments should be bigger in the future; he also argues that governments have historically not had enough debt, and should have more.

Why? Because, he says, r-g — the difference between the real rate of interest on government debt and the rate of economic growth — has been consistently negative. Why is this significant?

Well, we normally imagine that if a government engages in deficit spending now, it will have to engage in compensating austerity of some form later — even if it doesn’t plan to pay of the debt, it will still have to cut spending or raise taxes so as to run a primary, non-interest surplus if it wants to stabilize the ratio of debt to GDP.

But when r is less than g, a higher debt stabilizes itself: erosion of the debt ratio by growth means that no primary surplus is needed. So you can eat your cake and have it too. A bigger debt lets the government do useful things, like invest in infrastructure; it gives investors the safe assets they want; and it need not lead to any future pain as long as you don’t do foolish things like join a currency union with no well-defined lender of last resort.

But is r really less than g for all major players? Brad uses the average interest rate on debt, which I haven’t had time to compute. What I’ve done is use the 10-year bond rate — which is somewhat higher than the rate Brad uses, I believe — and examine the G7 over the period 1993-2007. And I think we get some interesting insights.

First, all of the G7 paid roughly the same real interest rate, using GDP deflators to measure inflation:

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As I’ve noted before, this doesn’t mean that the Wicksellian natural rate was the same everywhere; in the case of Japan, at least, the actual rate was well above the rate consistent with full employment. In any case, however, arbitrage looks quite strong.

However, countries differed a lot in their growth rates, so that r-g varies considerably. And this raises the question, did the “right” countries have a lot of debt?

Compare debt ratios in 2007 with r-g estimated over the 1993-2007 period:

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For English-speaking members of the G7, r-g is slightly positive, but would be negative if I used a broader interest definition. But it was much higher in Japan, Italy, and Germany, which all had slow growth over this period — and Japan and Italy also had high debt. (The causation almost surely ran from slow growth to high debt, not the other way around.)

This suggests, I think, that Brad’s case for higher debt, while powerful, doesn’t apply to everyone. It’s a good case for English speaking members of the G7 and also for Germany looking forward (the 10-year index yield is -1 percent). Unfortunately, the biggest debt accumulations have come in economies that have much lower growth — mainly demography in Japan, productivity collapse in Italy.

No strong moral here, but I do think we need to be careful not to assume that the US case generalizes to everyone. Hellenization — assuming that we’re all Greece — has been a big problem in recent years; but Americanization — assuming that the US is representative — could be a problem too.

 

 

Il futuro della finanza pubblica II: il debito non è sufficiente?

Proseguendo la mia riflessione sul ragionamento di Bard DeLong sul futuro della finanza pubblica. Brad non solo sostiene che nel futuro i governi dovrebbero essere più grandi; sostiene anche che storicamente i governi non hanno avuto un debito sufficiente, e dovrebbero averne di più.

Perché? Perchè, egli dice, “r-g” – la differenza tra il tasso di interesse reale sul debito pubblico e il tasso di crescita dell’economia – è stata regolarmente negativa. Perché questo è significativo?

Ebbene, normalmente ci immaginiamo che se un governo si impegna nel presente alla spesa in deficit, dovrà impegnarsi successivamente in una austerità di compensazione di qualche forma – anche se esso non programma di ripagare il debito, dovrà pure tagliare la spesa o alzare le tasse in modo da realizzare un avanzo primario, al netto degli interessi, se vuole stabilizzare la percentuale del debito sul PIL.

Ma quando r è inferiore a g, un debito più alto si stabilizzerà da solo: l’erosione della percentuale del debito da parte della crescita, comporta che non è necessario alcun avanzo primario. Potete avere la botte piena e la moglie ubriaca. Un debito più elevato consente al Governo di fare cose utili, come investire in infrastrutture; dà agli investitori gli asset sicuri che desiderano; e non c’è bisogno che comporti nessuna sofferenza futura, sinché non fate cose stupide come aderire ad un’unione monetaria senza un ben definito prestatore di ultima istanza.

Ma r è davvero inferiori a g per tutti i principali protagonisti? Brad utilizza il tasso di interesse medio sul debito, che io non ho avuto il tempo di calcolare. Quello che ho fatto è stato utilizzare il tasso di interesse sui bond decennali – che credo sia un po’ più alto del tasso che Brad usa – ed esaminare i dati del G7 nel periodo 1993-2007. E penso che se ne derivano alcuni spunti interessanti.

Prima di tutto, tutti i componenti del G7 hanno grosso modo pagato lo stesso tasso di interesse reale, utilizzando il deflatore del PIL per misurare l’inflazione:

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Come ho osservato in precedenza [1], questo non significa che il tasso naturale wickselliano sia stato lo stesso dappertutto; almeno nel caso del Giappone, il tasso effettivo è stato molto al di sopra del tasso coerente con la piena occupazione. Tuttavia, in ogni caso l’arbitraggio sembra abbastanza forte [2].

Tuttavia, i paesi hanno avuto differenze molto grandi nei loro tassi di crescita, in modo tale che “r-g” varia considerevolmente. E questo solleva la domanda se siano stati i paesi “giusti” ad aver avuto grandi debiti.

Si confrontino le percentuali del debito nel 2007 con i dati sulla differenza tra tassi di interesse reali sul debito e tassi di crescita, nel periodo 1993-2007:

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Per i paesi del G7 di lingua inglese, la differenza “r-g” è leggermente positiva, ma sarebbe negativa se utilizzassi una definizione di interesse più larga. Ma essa è stata molto più alta in Giappone, Italia e Germania, che hanno tutti avuto in quel periodo una lenta crescita – e il Giappone e l’Italia hanno anche avuto un debito elevato (il fattore di causa sicuramente procede dalla lenta crescita al debito elevato, non all’inverso).

Questo indica, penso, che la tesi di Brad per un debito più elevato, mentre è suggestiva, non si applica a tutti. E’ un buon argomento per i membri del G7 di lingua inglese e, guardando in avanti, per la Germania (il rendimento dei bond decennali indicizzati è al meno 1 per cento). Sfortunatamente, le più grandi accumulazioni di debito sono intervenute in economie che hanno una crescita molto più bassa – per l’effetto principale della demografia in Giappone, del collasso della produttività in Italia.

In questo caso non c’è un grande insegnamento, ma io penso che per davvero dobbiamo essere scrupolosi nel non considerare che il caso degli Stati Uniti si generalizzi a tutti. La ‘ellenizzazione’ – l’assumere che siamo tutti come la Grecia – negli anni recenti è stato un grande problema; ma anche l’americanizzazione – l’assumere gli Stati Uniti come rappresentativi – potrebbe essere un problema.

 

 

[1] La connessione con il post del 1 aprile scorso, qua tradotto “Trappole di liquidità locali e globali”.

[2] In economia e finanza, in senso generale, per arbitraggio di intende il trarre vantaggio da una differenza di prezzi tra due o più mercati. Forse in questo caso si riferisce alla differenza tra tassi di interesse nominali e reali.

Il futuro della finanza pubblica I; la provocatoria tesi di una amministrazione pubblica più vasta (dal blog di Krugman, 6 aprile 2015)

aprile 6, 2015

 

The Fiscal Future I: The Hyperbolic Case for Bigger Government

April 6, 2015 1:54 pm

 

Brad DeLong has posted a draft statement on fiscal policy for the IMF conference on “rethinking macroeconomics” — and I’m shocked, in a good way. As regular readers may have noticed, Brad and I share many views, so I expected something along lines I have also been thinking. Instead, however, Brad has come up with what I believe are seriously new ideas — enough so that I want to do two posts, following different lines of thought he suggests.

What Brad argues are two propositions that run very much counter to the prevailing wisdom, especially among Very Serious People. First, he argues that we should not only expect but want government to be substantially bigger in the future than it was in the past. Second, he suggests that public debt levels have historically been too low, not too high. In this post I consider only the first point.

So, how big should the government be? The answer, broadly speaking, is surely that government should do those things it does better than the private sector. But what are these things?

The standard, textbook answer is that we should look at public goods — goods that are non rival and non excludable, so that the private sector won’t provide them. National defense, weather satellites, disease control, etc.. And in the 19th century that was arguably what governments mainly did.

Nowadays, however, governments are involved in a lot more — education, retirement, health care. You can make the case that there are some aspects of education that are a public good, but that’s not really why we rely on the government to provide most education, and not at all why the government is so involved in retirement and health. Instead, experience shows that these are all areas where the government does a (much) better job than the private sector. And Brad argues that the changing structure of the economy will mean that we want more of these goods, hence bigger government.

He also suggests — or at least that’s how I read him — the common thread among these activities that makes the government a better provider than the market; namely, they all involve individuals making very-long-term decisions. Your decision to stay in school or go out and work will shape your lifetime career; your ability to afford medical treatment or food and rent at age 75 has a lot to do with decisions you made when that stage of life was decades ahead, and impossible to imagine.

Now, the fact is that people make decisions like these badly. Bad choices in education are the norm where choice is free; voluntary, self-invested retirement savings are a disaster. Human beings just don’t handle the very long run well — call it hyperbolic discounting, call it bounded rationality, whatever, our brains are designed to cope with the ancestral savannah and not late-stage capitalist finance.

When you say things like this, libertarians tend to retort that if people mess up on such decisions, it’s their own fault. But the usual argument for free markets is that they lead to good results — not that they would lead to good results if people were more virtuous than they are, so we should rely on them despite the bad results they yield in practice. And the truth is that paternalism in these areas has led to pretty good results — mandatory K-12 education, Social Security, and Medicare make our lives more productive as well as more secure.

Now, Brad argues that we’re going to need even more of this kind of paternalism. An aging population and the demand for a more highly educated work force certainly push in that direction. It’s less clear, I’d say, that health care will be a big driver, since the rate of growth of health spending seems to have slowed.

But he certainly has the principle right. To think about the growth of government, we need to look at the range of things government does well, a range that goes well beyond the narrow concept of public goods.

 

Il futuro della finanza pubblica I; la provocatoria tesi di una amministrazione pubblica più vasta

Brad DeLong ha pubblicato una comunicazione in bozza per la Conferenza del FMI sul “ripensare la macroeconomia” – e ne sono rimasto colpito, in senso positivo. Come forse i lettori affezionati hanno notato, Brad e il sottoscritto condividono molte opinioni, cosicché mi aspettavo qualcosa di simile a quello su cui sto anch’io ragionando. Invece Brad si e fatto avanti con quelle che credo siano sul serio idee nuove – al punto che intendo scrivere due post, seguendo i differenti percorsi del ragionamento che egli suggerisce.

Ciò che Brad sostiene sono due concetti che vanno davvero in una direzione opposta delle convenzioni prevalenti, particolarmente tra le Persone Molto Serie. Il primo, egli sostiene che per il futuro non dovremmo soltanto aspettarci, ma desiderare un governo che sia sostanzialmente più ampio del passato. Il secondo, egli suggerisce che i livelli del debito pubblico sono stati, nelle serie storiche, troppo bassi e non troppo alti. In questo post mi riferisco soltanto al primo argomento.

Dunque, quanto dovrebbe essere ampio il governo? La risposta, parlando in termini generali, è che di sicuro il governo dovrebbe fare quelle cose che fa meglio del settore privato. Ma quali sono queste cose?

La risposta di un normale libro di testo è che dovremmo guardare ai beni pubblici – beni che non sono in competizione e che non si possono eliminare, cosicché il settore privato non è destinato a fornirli. La difesa nazionale, i satelliti metereologici, il controllo delle malattie, etc. E nel diciannovesimo secolo questo era probabilmente quello che i governi facevano principalmente.

Ai nostri giorni, tuttavia, i governi si occupano di molto di più – istruzione, pensioni, assistenza sanitaria. Si può sostenere che ci sono vari aspetti dell’istruzione che sono un bene pubblico, ma in realtà questa non è la ragione per la quale ci basiamo sui governi per fornire la maggior parte dell’istruzione, e non è affatto la ragione per la quale il governo è in tal modo coinvolto nei sistemi pensionistici e sanitari. Piuttosto, l’esperienza dimostra che quelle sono aree nelle quali il governo fa un lavoro (molto) migliore che non il settore privato. E Brad sostiene che la modifica della struttura dell’economia comporterà che desidereremo avere maggiori beni di questa natura, di conseguenza maggiore governo.

Egli suggerisce anche – o almeno questo è il modo in cui io lo intendo – il filo comune che rende, all’interno di queste attività, il servizio governativo migliore di quello privato; precisamente, esse riguardano tutte individui che assumono decisioni a lunghissimo termine. La vostra decisione di restare negli studi o di uscirne per lavorare conformerà la carriera della vostra intera esistenza; la vostra possibilità di permettervi le cure mediche o il cibo e di andare in pensione a 75 anni ha molto a che fare con le decisioni che avete preso in un periodo precedente di decenni, quando era impossibile immaginarlo.

Ora, il punto è che le persone prendono decisioni di questa natura con difficoltà. Scelte sbagliate nell’istruzione sono la norma dove la scelta è libera; accantonamenti pensionistici volontari che vengono investiti in proprio sono un disastro. Semplicemente, gli essere umani non riescono a gestire in modo appropriato il lunghissimo periodo – chiamatela avventatezza [1] esagerata, chiamatela razionalità limitata, qualsiasi cosa sia, i nostri cervelli sono progettati per far fronte alle savane ancestrali, non alla finanza capitalistica più recente.

Quando si dicono cose come questa, i ‘libertariani’ [2] tendono a controbattere che i disastri personali sono colpa di chi prende tali decisioni. Ma nel caso dei liberi mercati l’argomento consueto è che sono quei mercati che portano a buoni risultati – non che essi porterebbero a buoni risultati se le persone fossero più virtuose di quello che sono, e dunque dovremmo basarci su di essi, nonostante i risultati negativi che nella pratica producono. E la verità è che, in queste aree, quella forma di paternalismo (pubblico) ha portato a risultati discreti – la scuola dell’obbligo, la Previdenza Sociale e Medicare rendono le nostre vite più produttive e più sicure.

Ora, Brad sostiene che avremo sempre più bisogno di questo genere di paternalismo pubblico. Una popolazione che invecchia e la domanda di una forza lavoro con più alti livelli di istruzione certamente spingono in quella direzione. E’ meno chiaro, direi, se l’assistenza sanitaria sarà un fattore altrettanto importante, dato che il tasso di crescita della spesa sanitaria sembra aver rallentato.

Ma il suo principio è certamente quello giusto. Per pensare ad una crescita delle funzioni di governo, dobbiamo guardare alla gamma di cose che il governo fa meglio, una gamma che va ben oltre il concetto ristretto di beni pubblici.

 

 

[1] Traduco “discount” nel senso di “non tenere in adeguata considerazione, trascurare”.

[2] Per il termine “libertariano” si può leggere questa estrema sintesi della vita e del pensiero di Ayn Rand, considerata la capostipite di tale ideologia, che si trova nelle note sulla traduzione:

“Ayn Rand, è lo pseudonimo di  Alisa Zinov’yevna Rosenbaum O’Connor (San Pietroburgo, 2 febbraio1905New York, 6 marzo1982);  scrittrice, filosofa e sceneggiatrice statunitense di origine russa. La sua filosofia e la sua narrativa insistono sui concetti di individualismo, egoismo razionale (“interesse razionale”) e ed etica del capitalismo, nonché sulla sua opposizione al comunismo ed a ogni forma di collettivismo socialista e fascista. Il pensiero cosiddetto “oggettivista” della Rand ha – come anche tutto il “libertarianism” – molteplici origini liberali, anarchiche, antitotalitarie ed anche, più singolarmente, capitalistiche; spesso con esiti irreligiosi. Ma il mito dell’industriale creativo soffocato dalla burocrazia e costretto ad una resistenza addirittura “militante” – che è il tema del suo romanzo “Atlas Shrugged” –  è certamente una passione americana, nel senso almeno che sarebbe arduo immaginarlo come tema di un romanzo, altrove. Più recentemente, il libro della Rand è stato indicato come riferimento favorito da parte di molti repubblicani americani.” Una immagine di Ayn Rand:

Risultati immagini per ayn rand

Questo spiega anche perché il termine “libertariano” è praticamente intraducibile con espressioni apparentemente contigue – ad esempio: radicale, o liberista – che in realtà alludono a ben altro, nel pensiero politico europeo, pur presentando occasionali somiglianze. Neanche mi pare si possa immaginare che si tratti di una ideologia organica, cresciuta nel tempo con una sua struttura di approfondimenti, di ricerca e di organizzazione interna, al pari di altre ideologie del secolo passato.

Forse è più giusto concepire il fenomeno del “libertarianismo” come tipicamente americano; una sorta di attrazione che agisce in modo ‘carsico’ sul conservatorismo americano, in certi momenti storici collegando le politiche presenti ad una sensibilità antica e per qualche aspetto fondativa di una parte del pensiero politico di quel paese. L’idea, della quale Krugman parla altrove, di una “economia forte per una completa assenza di regole” , è il caposaldo di questa mitologia libertariana fuori del tempo. Ma, in effetti, nel periodo recente quella attrazione è tornata a risultare evidente in movimenti come il Tea Party e in una componente probabilmente oggi maggioritaria del Partito Repubblicano.

 

 

 

John Galt odia Ben Bernanke (3 aprile 2015)

aprile 3, 2015

 

Apr 3 5:53 pm

John Galt Hates Ben Bernanke

Ah: I see that there was a Twitter exchange among Brad DeLong, James Pethokoukis, and others over why Republicans don’t acknowledge that Ben Bernanke helped the economy, and claim credit. Pethokoukis — who presumably gets to talk to quite a few Republicans from his perch at AEI — offers a fairly amazing explanation:

B/c many view BB as enabling Obama’s spending and artificially propping up debt-heavy economy in need of Mellon-esque liquidation

Yep: that dastardly Bernanke was preventing us from having a financial crisis, curse him.

Actually, there’s a lot of evidence that this was an important part of the story. As I pointed out a couple of months ago, Paul Ryan and John Taylor went all-out conspiracy theory on the Bernanke Fed, claiming that its efforts were not about trying to fulfill its mandate, but rather that

This looks an awful lot like an attempt to bail out fiscal policy, and such attempts call the Fed’s independence into question.

Basically, leading Republicans didn’t just expect a disaster, they wanted one — and they were furious at Bernanke for, as they saw it, heading off the crisis they hoped to see. It’s a pretty awesome position to take. But it makes a lot of sense when you consider where these people were coming from.

After all, what is Atlas Shrugged really about? Leave aside the endless speeches and bad sex scenes. What you’re left with is the tale of how a group of plutocrats overthrow a democratically elected government with a campaign of economic sabotage.

Look, I know it sounds harsh to say that Republicans opposed QE in large part out of fear that it would work, and deliver a success to a president they hated. I mean, the next thing you know I’ll be accusing them of crazy things they would never do, like deliberately trying to undermine delicate nuclear negotiations. Oh, wait.

 

John Galt odia Ben Bernanke

Ma guarda! Mi accorgo che c’è stato uno scambio su Twitter tra Brad DeLong, James Pethokoukis ed altri sulle ragioni per le quali i repubblicani non riconoscono che Ben Bernanke ha aiutato l’economia, e ne vantano il merito. Pethokoukis – che presumibilmente può parlare a un po’ di repubblicani a causa della sua posizione alla AEI [1] – offre una spiegazione piuttosto sorprendente:

“Perché molti considerano Ben Bernanke come colui che ha permesso la spesa pubblica di Obama ed ha sostenuto artificialmente una economia con un debito pesante che aveva bisogno di una liquidazione alla Mellon [2].”

Proprio così: quell’ignobile Bernanke ci ha impedito di avere una crisi finanziaria, accidenti a lui!

In effetti, ci sono molte prove che questo sia un aspetto importante della vicenda. Come sottolineai un paio di mesi fa, Paul Ryan e John Taylor se ne uscirono con la teoria della cospirazione sulla Fed di Bernanke, sostenendo che i suoi sforzi non riguardavano il cercar di onorare il suo mandato, ma piuttosto:

“Questo sembra davvero il tentativo di un salvataggio della politica della finanza pubblica, e tentativi del genere chiamano in causa l’indipendenza della Fed.”

Fondamentalmente, i dirigenti repubblicani non soltanto si aspettavano un disastro, ne volevano uno – ed erano infuriati con Bernanke perché, da quanto vedevano, ci stava portando fuori dalla crisi che speravano di vedere. Una posizione del genere è piuttosto fantastica. Ma ha un senso, quando si considera da dove viene questa gente.

Dopo tutto, quale era il tema di Atlas Shrugged [3]? Lasciate da parte gli sproloqui e le pessime scene di sesso. Quello che rischiate di dimenticarvi è il racconto di come un gruppo di plutocrati si sbarazza di un Governo democraticamente eletto attraverso una campagna di sabotaggio economico.

Vedete, so che sembra un po’ aspro dire che i repubblicani si opposero alla ‘facilitazione quantitativa’ in larga parte per il timore che essa funzionasse, e consegnasse un successo al Presidente che essi odiavano. Voglio dire, sapete che la prossima cosa li accuserò di cose pazzesche che mai farebbero, come provare deliberatamente a far saltare delicati negoziati sul nucleare. Eppure, date tempo al tempo!

 

[1] Lo American Enterprise Institute for Public Research, una Fondazione privata di netto orientamento conservatore degli Stati Uniti.

[2] Andrew W. Mellon, banchiere americano che fu Segretario al Tesoro dal 1921 al 1932. Le sue “liquidazioni” sono famose, probabilmente, soprattutto per l’aneddoto che venne raccontato dal Presidente Herbert Hoover, che presiedette nei primi tempi della disastrosa Grande Depressione. Hoover raccontò, a sua parziale giustificazione, che i consigli che gli venivano dal suo Segretario al Tesoro dinanzi alle prime manifestazioni della crisi finanziaria erano state tutte di quel genere: “Liquidate i sindacati, liquidate le azioni, liquidate il settore immobiliare …. Tutto questo purgherà il nostro sistema del suo marcio.” Ciononostante, venne immortalato in un francobollo:

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[3] Il titolo del romanzo della scrittrice Ayn Rand, icona della destra americana.

Simmetrie scozzesi (3 aprile 2015)

aprile 3, 2015

 

Apr 3 10:01 am

Symmetric Scots

Mervyn King gave the Graham lecture at Princeton last night, provoking a crisis of technology: he didn’t come with PowerPoint, but did want a lectern, which Princeton proved unable to provide. He had a lot of interesting things to say — boy, is he hard on euro area policymakers, and as I heard him he’s surprisingly sympathetic to the current Greek leadership. But wearing my technical international economist hat, I thought the most interesting discussion involved the hypothetical case of an independent Scotland using the pound as its currency.

I’ve written a fair bit about this, and my approach, given my background, was to view this issue through the lens of optimum currency area theory. This theory mainly focuses on the problem of responding to asymmetric shocks — a slump in Spain while Germany booms, etc.. We know, or we think we know, that when this happens fiscal integration — Florida can count on Washington to pay for pensions and medical care, Spain has no comparable cushion — is crucial. European experience since 2009 has also led us to focus on banking integration or the lack thereof.

What Mervyn suggested, however (after I pressed him a bit) was that these issues are relatively unimportant in the Scottish case. Scottish banks, he argued, aren’t really Scottish at this point — so much of their ownership and business is outside Scotland that they’re effectively English, so they would surely retain lender-of-last resort privileges from the Bank of England and be bailed out if necessary by Westminster. And he also argued that Scotland’s business cycle is closely correlated with the rest of the UK, so that asymmetric shocks of the kind experienced by euro area countries — or US regions — would be minor.

Interesting. I do remember that back in the early 1990s many euro advocates assured us that asymmetric shocks wouldn’t be a problem; in reality, the boom and bust in intra-European capital flows gave rise to the mother of all asymmetric shocks. On the other hand, Scotland doesn’t have a lot of warm beachfront real estate for people to speculate in …

 

Simmetrie scozzesi

La scorsa notte Mervyn King [1] ha tenuto la “Graham Lecture[2], provocando un collasso della tecnologia: non era venuto munito di Power Point, ma voleva a tutti i costi un leggio, che Princeton è stato incapace di fornirgli. Aveva molte cose interessanti da dire – ragazzi, è un personaggio severo con gli operatori politici dell’area euro, e da come l’ho compreso è sorprendentemente in sintonia con l’attuale gruppo dirigente greco. Ma, dal momento che indossavo la casacca della mia specialità tecnica di economista internazionale, ho pensato che la cosa più interessante poteva riguardare il tema ipotetico di una Scozia indipendente che utilizzi la sterlina come sua valuta.

Su questo argomento ha scritto un po’, e il mio approccio, dati i miei precedenti, concerneva il valutare questo tema attraverso le lenti della teoria dell’area valutaria ottimale. Questa teoria si concentra principalmente sul problema delle risposte agli ‘shock asimmetrici’ – una crisi in Spagna mentre la Germania è in forte espansione etc. Noi sappiamo, o pensiamo di sapere, che quando questo accade è cruciale l’integrazione della finanza pubblica – la Florida può contare su Washington per pagare le pensioni e l’assistenza sanitaria, la Spagna non ha alcun ammortizzatore paragonabile. L’esperienza europea a partire dal 2009 ci ha anche portato a concentrarci sull’integrazione bancaria, o sulla sua mancanza.

Quello che Mervyn ha tuttavia suggerito (dopo che io gli avevo un po’ fatto pressione), è stato che questi temi sono relativamente poco importanti nel caso scozzese. A questo punto, ha sostenuto, le banche scozzesi non sono effettivamente scozzesi – tanta parte della loro proprietà e dei loro affari sono esterni alla Scozia, al punto che in effetti sono inglesi, cosicché godrebbero certamente dei privilegi di prestatore di ultima istanza da parte della Banca di Inghilterra, e se necessario sarebbero salvate da Westminster. Egli ha anche affermato che il ciclo economico scozzese è strettamente correlato con il resto del Regno Unito, cosicché gli shock asimmetrici del genere di quelli sperimentati dai paesi dell’area euro – o delle regioni degli Stati Uniti – sarebbero minori.

Interessante. Io ricordo che agli inizi dei passati anni ’90 molti sostenitori dell’euro ci assicuravano che gli shock asimmetrici non sarebbero stati un problema; in realtà, la grande espansione ed il crollo dei flussi di capitale all’interno dell’Europa ci hanno regalato l’avvento della madre di tutti gli shock asimmetrici. D’altra parte, la Scozia non ha molto patrimonio immobiliare su caldi lungomari sui quali fare speculazioni …

 

[1] Mervyn Allister King è stato Governatore della Banca di Inghilterra e Presidente del Comitato della Politica Monetaria del Regno Unito dal 2003 al 2013. Nel 2013, quando venne sostituito da Mark Carney, venne nominato dalla Regina Elisabetta Pari del Regno Unito, ed entrò nella Camera dei Lord col titolo di Barone King di Lothbury.

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[2] Ovvero, una conferenza in occasione del consueto evento che all’Università di Princeton viene intitolato a Frank D. Graham, che fu docente di economia in quella Università dal 1921 al 1949.

Sconcezze percettive (3 aprile 2015)

aprile 3, 2015

 

Apr 3 9:45 am

Perceptual Sleaze

The resemblance between America’s right and a doomsday cult is something quite a few people have noticed: when various prophecies of disaster, from hyperinflation to an Obamacare death spiral, failed to materialize, the people predicting those disasters simply found new ways to maintain their faith. So Jonathan Chait’s detailed takedown of denialism about Obamacare’s success is well done, but not all that distinctive.

What he does put his finger on, however, is another aspect of the “debate” (it doesn’t really deserve to be dignified with that term): reliance not on substantive arguments about policy, but on public perceptions. In the case of health reform, this amounts to the assertion that it has failed because many Americans continue to believe the opponents’ lies.

This is a cheap, dishonest way to argue — but it’s also very widely used, and not just on the U.S. right. I’m doing some work on the UK austerity debate, and what’s striking to me is how crucial a role this kind of argument from perception plays in Simon Wren-Lewis’s “mediamacro”.

Consider, as a prominent example, the FT’s editorial from 2013 declaring austerity vindicated. At no point does the editorial actually take on the economics. Instead, it declares that “Mr. Osborne has won the political argument”, and dismisses actual economic analysis — a resumption of growth when fiscal consolidation pauses is exactly what you should expect — as too complicated for the voters, bless their pretty little heads.

Let’s be clear about the bad faith this involves. It’s perfectly OK to point out that elections seem to turn on the recent rate of growth rather than a true assessment of economic performance. What’s not OK is blurring the distinction between that kind of political analysis and a real analysis of how policy worked. And when people do that kind of blurring to make the case for policies they prefer, it’s deeply sleazy, no matter who they are.

 

Sconcezze percettive

La somiglianza tra la destra Americana e un culto da giorno del giudizio è qualcosa di cui poche persone si sono accorte: quando svariate profezie di disastro, dall’iperinflazione alla spirale fatale della riforma sanitaria di Obama, non si sono materializzate, coloro che prevedevano tali disastri hanno semplicemente trovato nuove ragioni per mantenere la loro fede. Dunque, la dettagliata demistificazione di Jonathan Chait del bisogno di negare il successo della riforma sanitaria di Obama è appropriata, ma non è affatto distintiva.

Il punto dove egli davvero mette il dito, tuttavia, è un altro aspetto del “dibattito” (in realtà, non merita di essere chiamato in quel modo): il basarsi non su argomenti sostanziali che riguardano la politica, ma sulle percezioni dell’opinione pubblica. Nel caso della riforma sanitaria, questo comporta il giudizio che essa sia fallita perché molti americani continuano a credere alle bugie degli oppositori.

Questo è un modo di ragionare disonesto e a buon mercato – ma è anche molto ampiamente utilizzato, e non solo dalla destra americana. Sto lavorando un po’ sul dibattito sull’austerità nel Regno Unito, e quello che mi colpisce è il ruolo cruciale che questo genere di argomento derivante dalla percezione gioca in quella che Simon Wren-Lewis definisce “macromedia”.

Si consideri, come esempio illustre, l’editoriale del 2013 del Financial Times, che affermava che l’austerità era stata pienamente confermata. In effetti, in nessun punto l’editoriale trattava di economia. Dichiarava invece che “il signor Osborne ha vinto sul piano dell’argomentazione politica”, e liquidava l’analisi economica – una ripresa della crescita quando il consolidamento delle finanze pubbliche si era interrotto è esattamente quello che vi dovreste aspettare – come troppo complicata per gli elettori, che Dio li benedica per il loro modesto acume.

E’ bene esser chiari sulla malafede che questo comporta. E’ del tutto giustificato mettere in evidenza che le elezioni sembrano riguardare il tasso di crescita più recente, piuttosto che un vero e proprio giudizio sulle prestazioni economiche. Quello che non è giustificato è appannare la distinzione tra quel genere di analisi e una analisi reale su come la politica ha funzionato. E quando ci sono persone che provocano quel genere di appannamento per perorare la causa delle politiche che prediligono, si tratta di una grande porcheria, a prescindere da chi esse siano.

 

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