Mar 21 3:41 pm
Everyone in the Republican Party knows that Reagan presided over an economy that has never been equalled, before or since. When I was on TV with Rand Paul, he confidently declared
When is the last time in our country we created millions of jobs? It was under Ronald Reagan …
Of course, it’s not true:
There was an even bigger job boom under Clinton than under Reagan, and Obama has now presided over three years of fairly rapid job growth, with the most recent year the fastest since the 90s.
But does this say anything about the presidents in question? Both the Reagan expansion and the Clinton expansion had much more to do with Federal Reserve policy than anything coming from the White House, and Obama’s macroeconomic policy has been hamstrung by GOP opposition almost from the beginning. There are presidents, and sometimes there are job booms when they are president, but the booms aren’t their doing.
But it is nonetheless the case that those Democratic booms vindicate liberal beliefs, while the Reagan boom does not, in any way, validate conservative ideology? Why? Because conservatives insisted that the Clinton and Obama booms were impossible.
I’m old enough to remember the cries of doom when Clinton pushed through an increase in top tax rates. If you were reading the WSJ editorial page, or Forbes, or listening to Newt Gingrich, you knew that it was time to sell all your stocks and wait for the depression.
And Obama, of course, was bringing on hyperinflationary collapse with his health reform and tax hikes at the top.
Needless to say, none of it happened; what the Democratic booms show is that you can strengthen the safety net and raise taxes on the wealthy without causing economic disaster.
But didn’t liberals make similar predictions of Reaganite disaster? Actually, no. As I’ve pointed out in the past, what happened under Reagan — tight money brought on a severe recession, but the economy recovered once money was loosened again, and the intervening period of slack brought inflation down — was exactly what the textbooks predicted.
If politics made any sense, Democrats would be celebrating Clinton in the way Republicans celebrate the blessed Ronald, and they’d be hailing Obama as Saint Bill’s second coming. Meanwhile Republicans would be fairly diffident about a pretty good job but not all that exceptional expansion that was mainly Paul Volcker’s doing, and was a long time ago.
Boom democratici
Tutti nel Partito Repubblicano sanno che il Presidente Reagan governò un’economia che non ebbe eguali, prima e dopo. Quando andai in televisione con Rand Paul, egli dichiarò con sicurezza:
“Quando fu l’ultima volta che creammo milioni di posti di lavoro nel nostro paese? Fu con Ronald Reagan ….”
Naturalmente, non è vero [1]:
Ci fu un boom dei posti di lavoro persino più grande con Clinton che con Reagan, e adesso Obama ha governato nel corso di tre anni di crescita abbastanza rapida di posti di lavoro, con l’anno più recente che è stato il più veloce dagli anni ’90.
Ma questo ci dice tutto sui Presidenti in questione?
Sia l’espansione con Reagan che quella con Clinton ebbero molto più a che fare con la politica della Federal Reserve che con qualcosa proveniente dalla Casa Bianca, e la politica macroeconomica di Obama è stata azzoppata sin dall’inizio dalla opposizione del Partito Repubblicano. Ci sono Presidenti, e talvolta ci sono espansioni dei posti di lavoro nel periodi dei loro incarichi, ma tali espansioni non sono il loro prodotto.
Ciononostante si dà il caso che quelle espansioni dei democratici giustifichino i convincimenti dei progressisti, mentre il boom di Reagan non avvalora, in alcun modo, l’ideologia conservatrice. Perché? Perché i conservatori affermarono ripetutamente che i boom di Clinton e di Obama erano impossibili.
Sono anziano abbastanza per ricordare le grida di disperazione quando Clinton fece approvare un aumento delle tasse per i più ricchi. Se leggevate le pagine editoriali del Wall Street Journal, o di Forbes, o davate retta a Newt Gingrich, sapevate che era il tempo di vendere tutte le vostre azioni e di aspettarvi la depressione.
E Obama, ovviamente, con la sua riforma sanitaria e i suoi incrementi fiscali per i più ricchi, stava provocando un collasso iperinflazionistico.
Non c’è bisogno di dire che non è accaduto niente del genere; quello che i boom democratici dimostrano è che si possono rafforzare i programmi della sicurezza sociale ed aumentare le tasse sui ricchi senza provocare disastri nell’economia.
Ma i progressisti non avanzarono previsioni analoghe di un disastro reaganiano? Per la verità, no. Come ho messo in evidenza in passato, quello che accadde con Reagan – una restrizione monetaria provocata da una grave recessione, ma l’economia si riprese una volta che la politica monetaria venne di nuovo allentata, e il periodo intermedio di fiacca crescita portò in basso l’inflazione – era esattamente quanto prevedevano i libri di testo.
Se la politica avesse un qualche senso, i democratici dovrebbero celebrare Clinton nel modo in cui i repubblicani celebrano San Ronald, e adesso saluterebbero Obama come una reincarnazione di San Bill. Nel frattempo, i repubblicani dovrebbero essere abbastanza cauti per una espansione dei posti di lavoro discreta, ma niente affatto eccezionale, che fu principalmente opera di Paul Volcker, ed avvenne tanto tempo fa.
[1] Reagan fu Presidente dal 1981 al 1989. In cifre assolute fu più rilevante l’incremento occupazionale negli anni di Clinton (1993-2001)- una tendenza più prolungata – ed anche il recupero con Obama è stato più significativo, partendo dai livelli molto bassi della crisi che coincisa con l’ultimo anno di Bush. Gli anni di Bush figlio (2001-2008), invece, furono i più mediocri.
marzo 20, 2015
Mar 20 12:10 pm
Still at SXSW, which accounts for lack of blog posts — I mean, seize the day and all that. Not much action this morning, except a discussion with Snoop Dogg, which I’m not going to; but whenever I think about Mr. Dogg, I think about Alan Simpson. Which brings me to the subject of this post.
BowlesSimpsonism — obsession with the deficit as the key economic problem, despite incredibly low borrowing costs by historical standards (and the inability of the Eek! Greece! crowd to come up with any plausible story about how a Greek-style crisis can happen to a country with debts in its own currency) — has been fading fast from the U.S. political scene. I wouldn’t go so far as to say that we have a rational macroeconomic discourse, with charlatans and cranks completely dominating half the political spectrum, but our Very Serious People have moved on, and may even feel a bit chastened.
As Simon Wren-Lewis has been documenting, however, British discourse seems stuck where ours was in 2011. Britain’s VSPs, very much including the news media, take it as axiomatic that the deficit is the dominant issue; terrible growth over the past 5 years (only slightly redeemed by an acceleration at the end of the period) and low productivity don’t seem to rate at all.
Yet objectively the deficit should have faded even more as an issue in Britain than it has in the US. Here are IMF estimates of the two countries’ structural (i.e., full employment) budget balances:
International Monetary Fund
You can see a couple of things here. One is that the acceleration of British growth, far from vindicating austerity, came just when there was a pause in austerity, a slowdown in the pace of tightening. As I’ve said in the past, if you have been repeatedly hitting yourself in the head with a baseball bat, you’ll feel much better when you stop; this doesn’t mean that hitting yourself in the head was a good idea.
The other thing you can see is that Britain has even less reason than the US to worry about deficits right now. So why the difference in VSP beliefs?
I’m actually not sure. One possibility is that the very harshness of US partisanship makes the ulterior motives of austerians harder to ignore. Another is that greater involvement of US academics in public debate has given the broadly Keynesian consensus of the profession — and yes, it is a consensus — greater traction.
Anyway, the sad result is that Britain is going into an election with bad, foolish economics not simply getting a hearing, but being presented by the news media as obvious, unchallengeable truth.
Perchè il dibattito economico inglese è così scadente?
Ancora al SXSW [1], il che spiega il difetto di post sul blog – voglio dire, non mi perdo le occasioni, e tutto il resto. Stamani non c’è molto da fare, a parte una dibattito con Snoop Dogg, al quale non ho intenzione di andare; ma ogni volta che penso al signor Dogg, penso ad Alan Simpson [2]. La qualcosa mi porta al tema di questo post.
Il “Bowles Simpsonismo” – l’ossessione per i deficit come problema economico cruciale, nonostante i costi dell’indebitamento, nelle serie storiche incredibilmente bassi (e l’impossibilità per la gente terrorizzata dalla Grecia di venirsene fuori con una spiegazione plausibile su come una crisi di tipo greco possa avvenire in un paese indebitato con la propria valuta) – è svanita rapidamente nello scenario politico statunitense. Non arriverei a sostenere che abbiamo un dibattito macroeconomico razionale, con gli stravaganti ed i ciarlatani che dominano completamente la metà dello spettro della politica, ma le nostre Persone Molto Serie sono passate oltre, e forse provano anche qualche pentimento.
Tuttavia, come Simon Wren-Lewis sta documentando, il dibattito inglese sembra bloccato al punto in cui era il nostro nel 2011. Le persone Molto Serie del Regno Unito, in gran parte inclusi i media dell’informazione, considerano assiomatico che il deficit sia il tema dominante; una crescita terribile nel corso degli ultimi 5 anni (solo leggermente riscattata da una accelerazione alla fine del periodo) e una bassa produttività non sembra meritino alcuna considerazione.
Tuttavia, il deficit, come problema, dovrebbe essere scomparso in Inghilterra ancora di più che negli Stati Uniti. Questa è la stima del FMI dei due equilibri strutturali di bilancio (ovvero, in condizioni di piena occupazione) [3]:
Fondo Monetario Internazionale
Potete notare qua un paio di cose. Una è che l’accelerazione della crescita inglese, lungi dall’essere un risarcimento per l’austerità, è intervenuta quando c’è stata una pausa nell’austerità, un rallentamento nel ritmo della restrizione. Come ho detto in passato, se vi siete picchiati ripetutamente in testa con una mazza da baseball, allorché vi fermate vi sentite molto meglio; il che non significa che picchiarvi in testa sia stata una buona idea.
L’altra cosa che si può notare è che l’Inghilterra ha anche meno ragione degli Stati Uniti per preoccuparsi in questo momento dei deficit. Perché, dunque, la differenza nei convincimenti delle Persone Molto Serie?
Per la verità, non ne sono certo. Una possibilità è che la asprezza della faziosità negli Stati Uniti renda più difficile trascurare i secondi fini dei patiti della austerità [4]. Un’altra è che il maggiore coinvolgimento nel dibattito pubblico degli accademici statunitensi ha fornito una maggiore spinta alla quasi unanimità della disciplina verso il keynesismo – è così, si tratta proprio di unanimità [5].
In ogni modo, il triste risultato è che l’Inghilterra sta andando verso elezioni con opinioni negative e sciocche sull’economia che non solo ottengono udienza, ma vengono anche presentate dai media alla stregua di una verità ovvia e inconfutabile.
[1] Se ho capito si tratta di un Festival annuale, musica e cinema, e sta per “South by Southwest”. Si svolge ad Austin, Texas, e talora ha in programma anche iniziative sui temi dell’istruzione, dell’ambiente e delle innovazioni produttive. Si consideri che Krugman è appassionato di musica.
[2] Il primo è un musicista, attore e produttore discografico. Il secondo è un uomo politico repubblicano americano, famoso soprattutto per aver copresieduto (assieme a Bowles, democratico) una commissione sul deficit nei primi anni della Presidenza Obama. Il nesso tra i due, Snoop Dogg e Simpson, non saprei dire quale sia.
[4] “Austerian” è da tempo un altro neologismo di Krugman. Sono i filoausteri, da non confondersi con gli “austrians”, che sono gli economisti di scuola austriaca (vedi note sulla traduzione).
[5] La connessione è interessante. Si tratta di un sondaggio tra gli economisti svolto dallo IGM Forum di Chicago. Ad esempio, alla domanda se le misure di sostegno all’economia varate da Obama nel 2009 abbiano migliorato – alla fine del 2010 – il livello di disoccupazione che si sarebbe avuto senza di esse, la risposta degli intervistati è stata la seguente: il 53% si è detto molto d’accordo, il 44% d’accordo e solo il 3% in disaccordo.
marzo 18, 2015
Mar 18 3:13 pm
As I mentioned yesterday, Romer and Romer have a new paper questioning the claim that recoveries are always slow after financial crises — and certainly slow recovery isn’t inevitable.
But I do think it’s important to realize that this dispute doesn’t invalidate a related point, namely, that the kind of recovery you can expect from a recession depends on the sources of that recession. Way back — before Lehman fell! — I argued that there was a distinction between modern and postmodern recessions. Pre-Great Moderation, recessions were brought on by the Fed, which raised rates to reduce inflation, then loosened the reins, producing a V-shaped recovery. Post-Great Moderation, with inflation low and stable, booms were allowed to run their course, so that recessions came from private-sector overreach — and the Fed had a much harder time engineering recovery. This was especially true after 2007, when we hit the zero sort-of lower bound.
You can see the difference clearly in a simple chart of interest rates and core inflation:
The recessions of 69-70, 73-5, and 81-82 were responses to inflation and the high rates the Fed imposed to fight it; the economy bounced back when the Fed was done. The recessions of 90-91, 2001, and 2007-9 were completely different.
And every time you hear someone claim that Obama failed because he didn’t have a Reaganesque business cycle, consider the comparison of monetary policy:
The Reagan recession involved a housing slump caused by the Fed, with a lot of pent-up demand that surged once the Fed had cut rates by 1000, that’s right, 1000 basis points. The Great Recession involved a housing slump that followed the mother of all bubbles, with a resulting overhang of both houses and debt — and interest rates could only fall a limited distance before hitting zero.
This doesn’t mean that a sustained slump was inevitable; we could have had a strong, sustained fiscal response. But that was prevented by the same people who now blame Obama for the delayed recovery.
Recessioni moderne e post moderne
Come ho riferito ieri, Romer e Romer hanno un nuovo studio che mette in dubbio la tesi secondo la quale le riprese sono sempre lente dopo le crisi finanziarie – e certamente la ripresa lenta non è inevitabile.
Ma io penso che sia davvero importante comprendere che questa disputa non invalida un aspetto connesso, vale a dire che il genere di ripresa che ci si può aspettare da una recessione dipende dalle origini di quella recessione. Nel passato – prima della caduta di Lehman! – sostenni che c’era un distinzione tra le recessioni moderne e postmoderne. Prima della Grande Moderazione [1], le recessioni venivano provocate dalla Fed, che elevava i tassi per ridurre l’inflazione, dopodiché allentava la presa, provocando una ripresa a forma di V. Dopo la Grande Moderazione, con l’inflazione bassa e stabile, alle espansioni venne consentito di avere il loro andamento, cosicché le recessioni derivarono da eccessi nel settore privato – e la Fed ebbe difficoltà molto maggiori a rendere possibile la ripresa. Questo fu particolarmente vero dopo il 2007, quando toccammo il limite più o meno inferiore allo zero (nei tassi di interesse).
Si può osservare la differenza in un semplice diagramma sui tassi di interesse e sulla inflazione sostanziale:
Le recessioni del 69-70, del 73-75 e dell’81-82 furono risposte all’inflazione e agli alti tassi che la Fed impose per combatterla; una volta che la Fed terminò il suo lavoro, l’economia rimbalzò. Le recessioni del 90-91, del 2001 e del 2007-2009 furono completamente diverse.
E tutte le volte che sentite qualcuno che sostiene che Obama ha fallito in quanto non ha avuto un ciclo economico paragonabile a quello reaganiano, considerate il confronto delle politiche monetarie:
La recessione di Reagan riguardò una crisi immobiliare provocata dalla Fed, con una gran quantità di domanda repressa che risalì una volta che la Fed ebbe tagliato 1000 , proprio così, 1000 punti base [2]. La Grande Recessione riguardò una crisi immobiliare che fece seguito alla madre di tutte le bolle, con una conseguente eccedenza sia di alloggi che di debito – ed i tassi di interesse poterono scendere di un tratto limitato, prima di raggiungere lo zero.
Questo non significa che una crisi perdurante fosse inevitabile; avremmo potuto avere una forte e prolungata risposta in termini di spesa pubblica. Ma questo fu impedito dalle stesse persone che oggi danno la responsabilità ad Obama per il ritardo nella ripresa.
[1] Ovvero l’epoca di relativa stabilità dei cicli economici che succedette ai primi anni ’80, e che durò grosso modo dal 1985 al 2005, come si può leggere in questo diagramma relativo alla crescita del PIL reale negli Stati Uniti (da Wikipedia):
[2] Un ‘punto base’ è una comune unità di misura per i tassi di interesse (e per altre percentuali finanziarie). Un punto base è eguale ad un centesimo di un 1%, ovvero ad uno 0,01% ed è usato per indicare il mutamento percentuale di uno strumento finanziario. La relazione tra mutamenti in percentuale e punti base può essere sintetizzata dallo schema seguente:
Di conseguenza, i 1000 punti base del taglio della Fed a cui si riferisce il post equivalgono ad una riduzione del 10% dei tassi di interesse.
marzo 17, 2015
Mar 17 2:11 pm
The other R&R — Christina and David Romer — have an interesting new paper questioning the other Reinhart-Rogoff result, the claim that financial crises consistently lead to deep, sustained slumps. I’m not ready to referee this one, at least not yet. Romer and Romer clearly have done an impressively systematic job of identifying financial distress in an objective way; but I wonder, very tentatively, if they’re looking at the wrong variable. My sense is that the aftermath of credit and housing bubbles is consistently remarkably bad – Alan Taylor and colleagues have been documenting this proposition — and that may not be well captured by reports of credit-market distress.
Still, Romer-Romer have some interesting thoughts about why recovery from the 2008 crisis was so slow. They suggest that hitting the zero lower bound may have been crucial. That’s actually why I was predicting a sluggish recovery well in advance, and in fact well before the Reinhart-Rogoff aftermath paper came out. And then there is the unprecedented fiscal austerity.
However this dispute eventually pans out, one thing should be clear: whether or not sluggish recovery from financial crisis is the norm, this particular episode didn’t have to happen. Better policy could have produced a much faster, stronger return to full employment.
Origini della lenta ripresa
Gli altri R&R [1] – Christina e David Romer – pubblicano una nuovo interessante studio che solleva quesiti sull’altro risultato di Reinhart-Rogoff, la tesi secondo la quale le crisi finanziarie portano regolarmente a recessioni profonde e prolungate. Non sono pronto a discutere di quest’ultimo, almeno non ancora. Romer e Romer hanno chiaramente condotto un impressionante sistematico lavoro di identificazione del disordine finanziario in termini oggettivi; ma mi chiedo, con qualche esitazione, se non abbiano considerato la variabile sbagliata. La mia sensazione è che i postumi delle bolle creditizie e immobiliari siano di solito considerevolmente negativi – concetto, questo, che è stato documentato da Alan Taylor e dai suoi colleghi – e che essi possano non essere stati compresi dai resoconti sulle difficoltà del mercato del credito.
Tuttavia, Romer-Romer avanzano alcuni pensieri interessanti sulle ragioni per le quali la ripresa dalla crisi del 2008 sia stata così lenta. Essi suggeriscono che toccare il limite inferiore dello zero (dei tassi di interesse) può aver avuto effetti cruciali. Quella è in effetti la ragione per la quale avevo previsto ben in anticipo una ripresa fiacca, di fatto ben prima che venisse fuori lo studio di Reinhart-Rogoff sulle conseguenze. Senza considerare che in seguito c’è stata l’austerità senza precedenti nei conti pubblici.
In qualunque modo alla fine questa disputa si risolva, una cosa dovrebbe essere chiara: che una lenta ripresa dalla crisi finanziaria sia o no la norma, questo episodio particolare non avrebbe dovuto accadere. Una migliore politica avrebbe potuto produrre un ritorno alla piena occupazione molto più veloce e più forte.
[1] Perché si abbrevia in R&R anche la coppia di economisti Reinhart-Rogoff. Mentre i Romer sono due economisti, anch’essi statunitensi, marito e moglie.
marzo 17, 2015
Mar 17 1:42 pm
Neil Irwin writes about concerns that a rising dollar will damage developing countries where corporations have borrowed in dollars; as he says, this raises echoes of the Asian crisis of the late 1990s and the Argentine crisis of 2002.
He does seem to go slightly astray at one point, however:
The biggest difference this time around is that private companies, not governments, have incurred debt in a currency not their own.
Actually, this time is not different: the Asian and Argentine crises were also about private-sector debt, with Asian public debt, in particular, quite low before the crisis hit. And a number of economists, myself included, independently developed models of leverage, currency mismatch, and balance sheet effects to make sense of the Asian crisis.
This point matters, I think, for a couple of reasons. On one side, if you paid attention to Asia in 1997-98 you were pre-inoculated against the temptation to fiscalize crisis narratives – the urge to see everything that goes wrong as the result of budget deficits. (This is one reason I reacted to Irwin’s piece; there’s already been a huge effort to retroactively fiscalize the euro crisis, and we need to push back against attempts to do the same to Asia.)
On the other side, I sometimes hear people declaring that until the 2008 crisis struck, economists paid no attention to private debt as a source of economic problems. But everyone who worked on Asia 1998 was very well aware of the problems debt and leverage could create. If we didn’t realize how vulnerable the rise in household debt made America, that was a failure of observation, not a deep conceptual problem.
As I’ve tried to say on a number of occasions, the 2008 crisis came as a surprise but not, at least for me, as a shock – I realized almost immediately that what was happening fitted quite well into existing frameworks. We knew about bank runs; once you realized that something essentially the same as a bank run could happen with repo and other forms of shadow banking, it took about 30 seconds to make sense of the post-Lehman funk. We knew about balance-sheet effects, both from Irving Fisher and from Asia; it wasn’t hard at all to transfer that understanding to the aftermath of the housing bubble.
I mean, I wrote a book titled The Return of Depression Economics in 1999. Not too hard to take on board the fact that it was coming true.
Tassi di cambio ed effetti degli equilibri patrimoniali
Neil Irwin scrive sulle preoccupazioni che un dollaro in ascesa danneggerà i paesi in via di sviluppo, dove le società sono indebitate in dollari; come egli sostiene, questo solleva echi della crisi asiatica degli anni ’90 e della crisi dell’Argentina del 2002.
Su un punto, tuttavia, egli sembra davvero un po’ perdersi:
“La grandissima differenza è che, questa volta, hanno contratto debiti in una valuta che non era la loro le società private, anziché i Governi”
Per la verità, questa volta non è diverso: le crisi dell’Asia e dell’Argentina riguardarono anche il debito del settore privato, con il debito pubblico asiatico, in particolare, che era abbastanza basso quando colpì la crisi. Ed un certo numero di economisti, incluso il sottoscritto, svilupparono ognuno per suo conto modelli relativi all’indebitamento, alla discordanza valutaria ed agli effetti degli equilibri patrimoniali che facevano comprendere il significato della crisi asiatica.
Penso che questo aspetto sia importante per un paio di ragioni. Da una parte, se si è prestata attenzione all’Asia negli anni 1997-1998 ci si è vaccinati dal tentativo di ridurre i racconti sulla crisi alla finanza pubblica – il bisogno di considerare tutte le cose che vanno male come risultato dei deficit di bilancio (questa è una ragione per la quale ho reagito all’articolo di Irwin; c’è già stato un grande sforzo per ridurre retroattivamente a problemi di finanza pubblica la crisi dell’euro, ed è necessario respingere i tentativi di fare la stessa cosa nei confronti dell’Asia).
D’altra parte, sento talvolta persone dichiarare che sino a che non colpì la crisi del 2008, gli economisti non avevano prestato attenzione al debito privato come fonte di problemi economici. Ma tutti coloro che lavorarono sull’Asia del 1998 erano ben consapevoli dei problemi che il debito ed il rapporto di indebitamento avrebbero potuto creare. Se non si comprese quanto la crescita del debito delle famiglie rese vulnerabile l’America, questo dipese da un difetto di attenzione, non da un profondo problema concettuale.
Come ho cercato di dire in un certo numero di occasioni, la crisi del 2008 costituì una sorpresa, ma non, almeno per me, un trauma – compresi quasi subito che quanto stava accadendo calzava abbastanza bene con i miei modelli esistenti. Conoscevamo i fenomeni delle corse agli sportelli; una volta che si capiva che qualcosa di sostanzialmente simile all’assalto agli sportelli bancari poteva accadere con i ‘repo’ [1] e con altre forme del sistema bancario ombra, ci volevano 30 secondi per dar senso al panico successivo alla vicenda della Lehman. Conoscevamo gli effetti di cattivi equilibri patrimoniali, da Irving Fischer e dalla esperienza asiatica; non era affatto difficile trasferire quella comprensione alle conseguenze della bolla immobiliare.
Voglio dire, nel 1999 scrissi un libro dal titolo “Il ritorno dell’economia delle depressioni”. Non era così difficile ammettere la circostanza che si stava avverando.
[1] Il repo è un’abbreviazione di repurchase agreement. Si tratta di uno strumento di gestione del danaro a breve: dei due contraenti, uno vende un titolo contro contanti, e allo stesso tempo si impegna a riacquistare quel titolo allo scadere di un breve periodo (dall’overnight a qualche mese), dietro pagamento del prezzo originario aumentato dell’interesse.
marzo 16, 2015
Mar 16 12:08 pm
We need a name for a syndrome related to, but not quite the same as, the Dunning-Kruger effect. That effect, you may or may not know, shows that truly incompetent people are so incompetent that they believe themselves competent.
So, my related phenomenon involves not competence but knowledge. The truly ignorant, I often find, don’t know that they’re ignorant — in fact, they’re often under the delusion of having deep knowledge and understanding.
Today’s case in point: Brad DeLong goes on a well-justified rant against David K. Levine, who apparently cannot even conceive of the possibility of a general deficiency of demand — which puts him a couple of centuries out of date.
What Brad may have forgotten, or perhaps never noticed, was Levine’s rant against me back in 2009, accusing me of failing to understand the depth and power of modern economic analysis.
Ragionando sui blog dell’ignoranza economica
Abbiamo bisogno di trovare un nome per la sindrome collegata, anche se non proprio la stessa, con l’effetto Dunning-Krueger [1]. Quell’effetto, può darsi che lo conosciate, mostra che le persone realmente incompetenti sono così incompetenti che si ritengono competenti.
Dunque, il mio fenomeno connesso non riguarda la competenza ma la conoscenza. Scopro di frequente che coloro che sono realmente ignoranti, non sanno di esserlo – nei fatti, si illudono spesso di avere una conoscenza ed una comprensione profonda.
L’esempio odierno a proposito: Brad DeLong si lascia andare ad una invettiva del tutto giustificata contro David K. Levine, che a quanto sembra non può neppure concepire un difetto generale della domanda – la qualcosa lo colloca indietro di un paio di secoli.
Quello che Brad forse ha dimenticato, o forse non ha mai notato, fu la filippica di Levine contro di me nel lontano 2009, accusandomi di non comprendere la profondità e il potere della analisi economica moderna.
[1] Due psicologi americani che nel 2000 vennero insigniti del satirico premio denominato “(Ig)Nobel” sulle “ricerche improbabili” per studi su questi temi.
marzo 16, 2015
Mar 16 9:59 am
Brad DeLong reminds me of Simon Wren-Lewis’s excellent piece on Eurozone fiscal policy, which emphasizes the extent to which European officials still don’t get the basic macroeconomics of their position. I realized, however, that recent discussion of secular stagnation — which seems like a realistic possibility for Europe, even more so than the US — adds a twist to the story, one that I’m not sure is widely appreciated.
The way to put both the basic argument and the twist is, I think, in terms of the neutral interest rate — the short-term interest rate that would produce full employment. In the aftermath of the financial crisis, this rate was clearly negative, which means — leaving the possibility of modestly negative rates aside — that conventional monetary policy had reached its limits. Most analyses, however, assume that this is a temporary condition. So the expected time path of the neutral rate looks like this:
What does this say about fiscal policy? Well, fiscal austerity in the first part of this figure, when the neutral rate is unattainable, is a terrible idea, even if you have high public debt. Why? Because multipliers are large, so that austerity has a large cost in lost output and unemployment; given hysteresis, it may even make the long-run fiscal situation worse. The appropriate policy during the era of the binding zero lower bound is fiscal stimulus to achieve full employment, and worry about debt later.
I think I was the first to quote St. Augustine here: “Grant me chastity and continence, but not yet.”
Within the euro area, as Simon correctly notes, there’s a question of allocation among countries, which should be decided on the basis of competitive adjustment, not debt burden: the average output gap should be zero, but countries in need of a relative fall in prices should run below potential, those in need of a relative rise run above potential, and fiscal policy should make it so.
But the assumption here is that the neutral rate will eventually rise, so that monetary policy can take over the job of achieving full employment. What if we have doubts about whether that will ever happen?
Well, that’s the secular stagnation question. In fact, I’d define secular stagnation as a situation in which the neutral interest rate is normally, persistently below zero. And this raises a puzzle: If we worry about secular stagnation, should we then say that St. Augustine no longer applies, because better days are never coming?
No.
The way to deal with secular stagnation, if we believe in our models, is to raise the long-run neutral interest rate above zero. If we can do this via structural reform and/or self-financing infrastructure investment, fine. If not, raise the inflation target.
And how do we get to the higher target inflation rate, when monetary policy is having trouble getting traction? Fiscal policy! If you’re really worried about secular stagnation, you should advocate a combination of a raised inflation target and a burst of fiscal stimulus to help the central bank get there.
So the St. Augustine approach is right either way, with secular stagnation suggesting the need to be even less chaste in the short run.
Sant’Agostino e la stagnazione secolare
Brad DeLong mi rammenta l’eccellente articolo di Simon Wren-Lewis sulla politica della finanza pubblica dell’eurozona, che pone l’accento su quanto i dirigenti europei non abbiano ancora compreso la macroeconomia di base della loro situazione. Mi sono reso conto, tuttavia, che il recente dibattito sulla stagnazione secolare – che sembra una possibilità realistica per l’Europa, ancor più che per gli Stati Uniti – aggiunga a quel racconto una torsione, che non sono sicuro sia ampiamente compresa.
Il modo per avanzare sia l’argomento fondamentale che quello relativo alla torsione penso che sia nei termini del tasso di interesse neutrale [1] – il tasso di interesse a breve termine che produrrebbe la piena occupazione. All’indomani della crisi finanziaria questo tasso era chiaramente negativo, il che significa che – lasciando da parte la possibilità di tassi modestamente negativi – la politica monetaria convenzionale ha raggiunto i suoi limiti. Gran parte delle analisi, tuttavia, suppongono che questa sia una condizione temporanea. Dunque, l’andamento atteso nel tempo del tasso neutrale appare nel modo seguente:
Cosa ci dice questo della politica della finanza pubblica? Ebbene, l’austerità della finanza pubblica nella prima parte di questo diagramma, quando il tasso di interesse neutrale è irraggiungibile, è un’idea terribile, anche se si ha un elevato debito pubblico. Perché? Perché i moltiplicatori sono ampi, cosicché l’austerità ha un grande costo in termini di produzione perduta e di disoccupazione; data l’isteresi [2], essa può rendere la situazione finanziaria di lungo periodo ancora peggiore. La politica appropriata nel periodo nel quale si è limitati dal limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse) è lo stimolo della spesa pubblica per realizzare la piena occupazione, e preoccuparsi del debito successivamente.
Penso, in questo caso, di essere stato il primo a citare Sant’Agostino [3]: “Concedimi la castità e la continenza, ma non ancora”.
All’interno dell’area euro, come osserva correttamente Simon, c’è un problema di distribuzione tra i paesi, che dovrebbe essere decisa sulla base di una correzione competitiva, non del peso del debito: il differenziale medio della produzione dovrebbe essere zero, ma i paesi che hanno bisogno di una discesa relativa dei prezzi dovrebbero correre al di sotto di quel potenziale, quelli che hanno bisogno di una crescita relativa dei prezzi dovrebbero correre sopra il potenziale, e ciò dovrebbe essere realizzato dalla politica della finanza pubblica.
Ma l’assunto in questo caso è che alla fine il tasso neutrale salirà, cosicché la politica monetaria potrà subentrare nel compito di realizzare la piena occupazione. Cosa accade se abbiamo dubbi sul fatto che questo possa mai accadere?
Ebbene, quella è la questione della stagnazione secolare. Di fatto, definirei la stagnazione secolare come una situazione nella quale il tasso di interesse neutrale è normalmente e in modo continuativo al di sotto dello zero. E questo solleva un interrogativo: dovremmo dire in quel caso che l’espressione di Sant’Agostino non si applica più, perché giorni migliori non verranno mai?
No.
Il modo di trattare la stagnazione secolare, se abbiamo fiducia nei nostri modelli, è quello di elevare sopra lo zero il tasso di interesse neutrale di lungo periodo. Se possiamo farlo attraverso la strada di riforme strutturali e/o di investimenti autofinanziati in infrastrutture, bene. Altrimenti, si deve elevare l’obbiettivo di inflazione.
E come possiamo avere un obbiettivo più elevato del tasso di inflazione, quando la politica monetaria è in difficoltà a produrre una spinta in avanti? Con la politica della spesa pubblica! Se siete davvero preoccupati della stagnazione secolare, dovreste sostenere una combinazione di un obbiettivo di inflazione accresciuto e di una fiammata di stimolo di spesa pubblica che aiuti la banca centrale ad arrivare a quel punto.
Dunque, l’approccio di Sant’Agostino è giusto in entrambi i casi, la stagnazione secolare indica la necessità di essere ancora meno casti nel breve periodo.
[1] Il tasso di interesse neutrale, o anche ‘naturale’, è un concetto che deriva dall’economista svedese Knut Wicksell ed è il tasso al quale il PIL reale sta crescendo al suo tasso tendenziale e l’inflazione è stabile. In questo senso coincide con il tasso che è coerente con la piena occupazione ‘possibile’. ‘Possibile’ e non letterale, perché la condizione che determina la quantità di occupazione consiste nel fatto che essa non provochi spinte inflattive, e questo coincide con un livello di disoccupazione considerato il minimo ragionevole (la Fed lo stima attorno al 5/5,5).
[2] L’Isteresi è il fenomeno per il quale il valore assunto da una grandezza che dipende da altri fattori è determinato non solo dagli ultimi valori di tali fattori, ma anche dai valori che essi avevano in precedenza, che in qualche modo cumulano i loro effetti sull’oggetto che si sta considerando. Più semplicemente, è il fenomeno per il quale un sistema reagisce in ritardo alle sollecitazioni e sconta la loro linea di tendenza complessiva. Il termine, derivante dal greco ὑστέρησις (hystéresis, “ritardo”), fu introdotto nel senso moderno da James Alfred Ewing nel 1890, ed è usato in generale nella teoria dei sistemi dinamici, quindi non solo in fisica, ma anche in biologia ed economia. (Wikipedia)
[3] Questo buffo adattamento della umanissima massima di Sant’Agostino all’economia della ‘trappola di liquidità’ venne per la prima volta escogitato da Krugman nel post “Bernanke di Ippona”, del 27 febbraio 2013, qua tradotto.
marzo 14, 2015
Mar 14 11:36 am
Tim Duy is having a debate with Scott Sumner, who insists that the strong dollar won’t hurt US growth.
I think we need to think about this both conceptually and quantitatively, and I’m not nearly so sanguine.
Sumner says that you can’t reason from a price change; the dollar doesn’t just move for no reason, so you have to go back to the underlying cause and ask what effect it has. Actually, asset price moves often have no clear cause — they’re bubbles, or driven by changes in long-term expectations, so you really do want to ask about the effects of price changes you can’t explain very well.
More specifically, Sumner is right that if the euro’s fall is being driven by expansionary monetary policy, this affects the U.S. through the demand channel as well as competitiveness, so it may be a wash. But I’ve already argued that the fall in the euro is much bigger than you can explain with monetary policy; it seems to reflect the perception that Europe is going to be depressed for the long term. And if that’s what drives the weak euro/strong dollar, it will hurt US growth.
Una nota sulla forza del dollaro
Tim Duy ha in corso una discussione con Scott Sumner, che insiste che il dollaro forte non danneggerà la crescita degli Stati Uniti.
Io penso che si debba ragionare di questo sia in termini concettuali che quantitativi, e non sono affatto così ottimista.
Sumner dice che non si può ragionare sulla base di un cambiamento del valore; il dollaro non si muove per nessuna ragione, dunque si deve risalire alla causa sottostante e chiedersi quale effetto abbia. In effetti, i mutamenti di valore di un asset spesso non hanno una causa chiara – possono essere bolle, oppure essere guidati da mutamenti nelle aspettative a lungo termine, cosicché si deve davvero porsi domande sugli effetti dei cambiamenti di valore che non si possono spiegare chiaramente.
Più in particolare, Sumner ha ragione a dire che se la caduta dell’euro fosse sospinta dalla politica monetaria espansiva, questa influenzerebbe gli Stati Uniti attraverso il canale della domanda altrettanto che attraverso la competitività, quindi sarebbe una sostanziale parità. Ma io ho già sostenuto che la caduta dell’euro è maggiore di quanto si possa spiegare con la politica monetaria; essa sembra riflettere la percezione che l’Europa sia destinata ad essere depressa per un lungo periodo. E se è quello che determina l’euro debole e il dollaro forte, esso danneggerà la crescita degli Stati Uniti.
marzo 14, 2015
March 14, 2015 11:25 am
When I tell people that macroeconomic analysis has been triumphantly successful in recent years, I tend to get strange looks. After all, wasn’t everyone predicting lots of inflation? Didn’t policymakers get it all wrong? Haven’t the academic economists been squabbling nonstop?
Well, as a card-carrying economist I disavow any responsibility for Rick Santelli and Larry Kudlow; I similarly declare that Paul Ryan and Olli Rehn aren’t my fault. As for the economists’ disputes, well, let me get to that in a bit.
I stand by my claim, however. The basic macroeconomic framework that we all should have turned to, the framework that is still there in most textbooks, performed spectacularly well: it made strong predictions that people who didn’t know that framework found completely implausible, and those predictions were vindicated. And the framework in question – basically John Hicks’s interpretation of John Maynard Keynes – was very much the natural way to think about the issues facing advanced countries after 2008.
So let me talk about where Hicksian analysis comes from.
What many macroeconomists don’t realize, I believe, is that Hicks on Keynes actually grows directly from Hicks’s own work on microeconomics — not mainly macroeconomics — embodied in his book Value and Capital. V&C was a seminal work on the economics of general equilibrium – that is, getting past one-market-at-a-time supply and demand to the interactions among markets. Hicks didn’t invent general equilibrium, of course, but he sought to turn it into a useful tool of analysis.
What’s the minimum interesting general equilibrium problem? The answer is, an economy with three goods, which means that there are two relative prices. You can think of such an economy as having three markets, but because of adding up you only need to look at two – if any two are in equilibrium, so is the third.
Geometrically, you can represent equilibrium in a three-good economy in a space defined by the two relative prices. Say that there are three goods, X, Y, and Z. Choose Z as the numeraire – the good in which prices are measured. Then we have the price of X on one axis, the price of Y on the other. There will be many combinations of those two prices at which the market for X clears, defining one schedule in this space; you can similarly define a schedule representing prices at which the market for Y clears, and yet again for Z. Where all three lines cross (remember the adding up) is the equilibrium for the economy as a whole.
What does this have to do with macroeconomics? Well, as Hicks realized, a minimal model of macro issues involves three markets: the markets for goods, bonds, and money (or, better, monetary base). If we assume that all three are gross substitutes – the most natural though not inevitable assumption – we get Figure 1:
We can make this more familiar by putting the interest rate – which moves inversely to the price of bonds – on the axis, which flips the figure upside down, and by removing one of the markets; what we get is Figure 2, which is basically IS-LM:
Figure 2
Wait, you say, isn’t IS-LM usually presented as a model of output, not the price level? Yes – but you can get there by invoking sticky prices and/or wages, so that there’s an upward-sloping aggregate supply curve, without changing the figure. In practice we think that AS is very, very flat in the short run, so that you do better by just putting GDP on the axis, but this is good enough for my purposes now.
A different kind of objection involves what, exactly, is going on behind these curves. On one side, can we just assume sticky prices without deriving them from first principles? Actually, yes – the evidence is overwhelming. Meanwhile, the demand for goods involves intertemporal decisions, driven by expectations about the future, so don’t we need to specify all of that explicitly? Well, no – of course we want to understand such things as well as we can, but is it really unreasonable to assume that lower interest rates mean higher demand under pretty much any detailed story?
A foolish insistence on microfoundations at all times and no matter what the issue is the hobgoblin of little minds.
So what is the payoff to this application of miniature general-equilibrium theorizing to macro? Even in normal times, this approach, Mickey Mouse as it looks, offers a big step up in sophistication from a lot of what you hear – including what you hear from economists who are all teched up but have no idea how to apply their equations to anything real. In particular, a lot of what you hear about macro issues is monocausal: money drives the price level, borrowing drives interest rates. What we already have here is an understanding that there isn’t that kind of clean separation, that money can affect interest rates and spending affect output.
But the really big payoff, as Hicks realized all the way back in 1937, is that this framework tells you what happens when interest rates get close to zero. We’re all doing a lot of head-scratching lately about negative rates, but still, it’s clear that there’s something like a floor, so that the picture looks something like Figure 3:
Figure 3
And that in turn says that once you hit that flat section – once you are in a liquidity trap – the rules change. Even huge increases in the monetary base won’t be inflationary – they shift MM to the right, but it makes no difference. Large budget deficits, which shift GG, won’t raise rates. However, changes in spending, positive or negative – e.g., harsh austerity — will have an unusually large effect on output, because they can’t be offset by changes in interest rates.
All of this was predicted in advance by those of us who understood and appreciated Hicksian analysis. And so it turned out. I call this a huge success story – one of the best examples in the history of economics of getting things right in an unprecedented environment.
The sad thing, of course, is that this incredibly successful analysis didn’t have much favorable impact on actual policy. Mainly that’s because the Very Serious People are too serious to play around with little models; they prefer to rely on their sense of what markets demand, which they continue to consider infallible despite having been wrong about everything. But it also didn’t help that so many economists also rejected what should have been obvious.
Why? Many never learned simple macro models – if it doesn’t involve microfoundations and rational expectations, preferably with difficult math, it must be nonsense. (Curiously, economists in that camp have also proved extremely prone to basic errors of logic, probably because they have never learned to work through simple stories.) Others, for what looks like political reasons, seemed determined to come up with some reason, any reason, to be against expansionary monetary and fiscal policy.
But that’s their problem. From where I sit, the past six years have been hugely reassuring from an intellectual point of view. The basic model works; we really do know what we’re talking about.
Figure 2 Figure 3
L’eccellente avventura di John e di Maynard
Quando dico alla gente che l’analisi macroeconomica è stata un successo trionfale negli anni recenti, tendo ad essere accolto con strane occhiate. Dopo tutto, non avevano previsto tutti una grande quantità di inflazione? Non hanno sbagliato tutto, gli operatori pubblici? Gli economisti accademici, non hanno avuto polemiche senza fine?
Ebbene, in quanto economista patentato io declino ogni responsabilità da Rick Santelli e da Larry Kudlow; parimenti dichiaro di non aver avuto alcuna colpa per Paul Ryan ed Olli Rehn. Quanto alle dispute degli economisti, ebbene, consentitemi di arrivarci tra poco.
Tuttavia, resto fermo nel mio giudizio. Lo schema macroeconomico di base al quale tutti ci dovremmo essere rivolti, quello schema che ancora si trova nella maggior parte dei libri di testo, ha funzionato in modo spettacolare: ha avanzato solide previsioni che la gente che non conosceva quello schema ha trovato del tutto non plausibili, e quelle previsioni hanno ricevuto conferma. E lo schema in questione – fondamentalmente l’interpretazione di John Hicks di John Maynard Keynes – è stato in buona misura il metodo naturale per riflettere sui temi che i paesi avanzati hanno fronteggiato dopo il 2008.
Consentitemi di parlare sulle origine della analisi hicksiana.
Io credo che quello che molti macroeconomisti non comprendono è che il pensiero di Hicks su Keynes si sviluppa direttamente a partire dallo stesso lavoro di Hicks sulla microeconomia – non in modo principale sulla macroeconomia – incarnato nel suo libro Valore e Capitale. Esso fu un lavoro fondamentale sull’economia dell’equilibrio generale – vale a dire, connettere la passata offerta e domanda di un-mercato-in-un-tempo-dato alle interazioni tra i mercati. Naturalmente, Hicks non inventò l’equilibrio generale, ma cercò di trasformarlo in uno strumento di analisi utile.
Qual è l’aspetto minimo che interessa il problema dell’equilibrio generale? La risposta è, un’economia con tre beni, il che significa che ci sono due prezzi relativi. Di tale economia si può ragionare come se avesse tre mercati, ma a causa del loro sommarsi avete bisogno di riferivi soltanto a due – se tutti e due sono in equilibrio, lo sarà anche il terzo.
Geometricamente, si può rappresentare l’equilibrio in una economia di tre beni in uno spazio delimitato da due prezzi relativi. Diciamo che ci sono tre beni, X, Y e Z. Scegliamo Z come numerario – il bene sulla base del quale i prezzi sono misurati. Avremo poi il prezzo di X su un asse e il prezzo di Y sull’altro. Ci saranno molte combinazioni di quei due prezzi alle quali il mercato di X ci guadagna, definendo un modello in questo spazio; analogamente si può rappresentare un modello nel quale il mercato di Y guadagna, e lo stesso vale per Z. L’equilibrio per l’economia nel suo complesso è laddove tutte e tre le linee si incrociano (si ricordi il loro sommarsi).
Che cosa ha a che fare tutto questo con la macroeconomia? Ebbene, come Hicks comprese, un modello minimale di temi macroeconomici riguarda tre mercati: il mercati dei beni, dei bond e della moneta (o meglio, della base monetaria). Se assumiamo che tutti e tre sono complessivamente intercambiabili – l’ipotesi più naturale anche se non inevitabile – otteniamo il diagramma 1:
Si può rendere tutto questo più familiare inserendo su un asse il tasso di interesse – che si muove inversamente al prezzo dei bond – la qualcosa capovolge la tabella dall’alto verso il basso, e togliendo uno dei mercati; quello che otteniamo è il diagramma 2, che è fondamentalmente il modello IS-LM:
Diagramma 2
Un momento, direte, il modello IS-LM non è di solito presentato come relativo alla produzione, e non al livello dei prezzi? Sì – ma potete arrivarci chiamando in causa i prezzi e/o i salari rigidi, cosicché la curva dell’offerta aggregata assume una inclinazione verso l’alto, senza modificare il diagramma. In pratica noi pensiamo che l’offerta aggregata sia davvero molto piatta nel breve periodo, cosicché si farebbe meglio a porre semplicemente il PIL sull’asse, ma questa soluzione è abbastanza buona per il nostro scopo attuale.
Obiezioni di diverso genere riguardano quello che, precisamente, nel frattempo accade dietro queste curve. Da una parte, possiamo proprio presupporre questi prezzi rigidi, senza derivarli dai principi primi? Per la verità, sì – le prove sono schiaccianti. Nel frattempo, la domanda di beni riguarda decisioni intertemporali, guidate dalle aspettative sul futuro. Non abbiamo dunque bisogno di specificare tutto ciò in modo esplicito? Ebbene, no. Naturalmente intendiamo comprendere tali cose meglio che possiamo, ma è davvero irragionevole supporre che tassi di interesse più bassi significhino una domanda più elevata, nel contesto di un qualche racconto abbastanza dettagliato?
In tutti i tempi e a prescindere dal tema, una sciocca insistenza sui fondamenti microeconomici è il folletto delle menti deboli.
Quale è dunque il risultato finale di questa applicazione di una teoria in miniatura dell’equilibrio generale, alla macroeconomia? Persino in tempi normali, questo approccio, che sembra una specie di Topolino, offre un grande passo in avanti di sofisticatezza rispetto ad una quantità di cose che si sentono dire – comprese quelle che si sentono da parte di economisti molto tecnicistici, che però non hanno idea di come applicare le loro equazioni a niente di reale. In particolare, una quantità di cose che si sentono sulle tematiche macroeconomiche sono monocausali: la moneta guida il livello dei prezzi, l’indebitamento guida i tassi di interesse. In questo caso quello che abbiamo già è una comprensione che non esiste quel genere di separazione netta, che la moneta può interessare i tassi di interesse e la spesa può interessare le produzione.
Ma il reale contributo, come Hicks comprese nel lontano 1937, è che questo modello vi dice cosa accade quando i tassi di interesse arrivano vicini allo zero. Di recente stiamo tutti rimuginando un bel po’ sui tassi negativi, eppure è chiaro che c’è qualcosa di simile ad un livello minimo, cosicché l’immagine appare come quella nel Diagramma 3:
Diagramma 3
E questo a sua volta ci dice che una volta che si raggiunge quel segmento piatto – una volta che si è in una trappola di liquidità – le regole cambiano. Persino vasti incrementi nella base monetaria non avranno effetti inflazionistici – essi spostano la linea MM verso destra, ma ciò non comporta alcuna differenza. Ampi deficit di bilancio, che spostano la linea GG, non accresceranno i tassi. Tuttavia, i mutamenti nella spesa, positivi o negativi – ad esempio, una dura austerità – avranno un inconsueto ampio effetto sulla produzione, perché non possono essere bilanciati da cambiamenti nei tassi di interesse.
Tutto questo venne previsto in anticipo da coloro tra noi che comprendevano ed apprezzavano l’analisi hicksiana. E questo è ciò che avvenne. Io la definisco una grande storia di successo – uno dei migliori esempi nella storia dell’economia di giusta comprensione delle cose in un contesto senza precedenti.
La cosa desolante, ovviamente, è che questa analisi incredibilmente appropriata non ha avuto un impatto particolarmente favorevole sulla politica effettiva. Principalmente è dipeso dal fatto che le Persone Molto Serie sono troppo serie per perder tempo con piccoli modelli; preferiscono affidarsi alla loro sensazione di quello che i mercati richiedono, che continuano a considerare infallibile nonostante che si sia mostrata sbagliata in tutti i casi. Ma non ha neppure aiutato la circostanza che anche molti economisti abbiano rigettato quello che avrebbe dovuto essere evidente.
Perché? In molti non hanno mai appreso i modelli della semplice macroeconomia – se essa non riguarda i fondamenti microeconomici e le aspettative razionali, deve essere priva di senso (curiosamente, gli economisti in quel campi si sono anche mostrati estremamente inclini a fondamentali errori di logica, probabilmente perché non hanno mai imparato a lavorare attraverso storie semplici). Altri, per quelle che sembrano ragioni politiche, sono apparsi determinati a venir fuori con qualche argomento, con qualsiasi argomento, purché fosse contrario alla espansione monetaria ed alla espansione della finanza pubblica.
Ma quello è un loro problema. Dal mio punto di osservazione, i sei anni passati sono stati ampiamente rassicuranti da un punto di vista intellettuale. Il modello di base funziona; sappiamo per davvero di cosa stiamo parlando.
marzo 13, 2015
Mar 13 3:48 pm
I haven’t been following Israeli politics at all — actually, if truth be told, after being out front so much against the Iraq venture, I’ve spent the era of financial crisis taking a personal vacation from Middle East issues. But I have noticed that Netanyahu is in big trouble — not over foreign policy and security, but over economics. Oddly, however, much of the reporting seems to either neglect or downplay the background here, which is the extraordinary rise in Israeli income inequality over the past generation. Here’s Israel compared with the US, from the LIS data:
LIS Data Center
When I first visited Israel in the early 1980s, it was still an egalitarian place, with a lot of the kibbutz spirit still around. Since the early 90s, however, the concentration of income and wealth has soared; at this point Israel may be the most unequal society in the advanced world, surpassing even the US. Goodbye kibbutz, hello Gilded Age.
No deep thoughts or analysis here, just pointing out something you should know.
Le elezioni sull’ineguaglianza di Israele
Non ho seguito per niente la politica israeliana – in effetti, per dire la verità, dopo esser stato tanto in prima linea contro l’avventura irakena, ho utilizzato l’epoca della crisi finanziaria per prendermi una vacanza dai temi del Medio Oriente. Ma ho notato che Netanyahu è nei guai – non sulla politica estera e sulla sicurezza, ma sull’economia. Stranamente, tuttavia, a questo proposito gran parte dei resoconti sembrano o trascurare o minimizzare lo scenario, che è rappresentato dalla straordinaria crescita, nel corso della ultima generazione, della ineguaglianza israeliana nei redditi. Ecco un confronto tra Israele e gli Stati Uniti, sulla base delle statistiche del Luxembourg Income Study [1]:
Quando visitai la prima volta Israele nei primi anni ’80, era ancora un posto egualitario, con molto spirito dei kibbutz in circolazione. Dai primi anni ’90, tuttavia, la concentrazione del reddito e della ricchezza è schizzata alle stelle; a questo punto Israele può essere la società più ineguale nel mondo avanzato, superando persino gli Stati Uniti. Addio kibbutz, saluti all’Età Dorata.
Non aggiungo in questo caso riflessioni profonde o analisi, metto solo in evidenza qualcosa che si dovrebbe conoscere.
[1] La tabella indica il cosiddetto ‘coefficiente di Gini’ nei due paesi. Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo. Si può incontrare la notazione con indice di Gini espresso in percentuale (0% – 100%), ovvero anche tra 0 e 100.(Wikipedia)
marzo 13, 2015
Mar 13 2:11 pm
The Greek government has deployed a lot of populist and nationalist rhetoric, and eurocrats seem shocked. But the miracle is that this hasn’t happened until now.
A few years ago, debtor-country governments might have gone along with austerity in the real belief that it would pay off in the form of a strong recovery. But the alleged technocrats of Brussels have lost all credibility on that front. Furthermore, while center-right governments are in some cases managing to hold on politically by posing as the only people who can do the painful but necessary stuff, center-left parties that take on the role of agents of austerity have imploded, in some cases essentially disappearing from the scene.
That said, as I’ve noted before, individual politicians — center-right especially, but center-left in some cases — may do OK personally even if their policies are wildly unpopular; they can become fixtures at Davos, look forward to appointments at the Commission or other European institutions. This has, I’d argue, acted as a deterrent to feeding the populist backlash voters are ever more ready to endorse.
But the current Greek government isn’t center-left, and its leading figures are never going to reemerge as Davos Man. For them, success must come in the form of support from their own voters rather than an international elite.
I’m not sure whether creditor governments understand this. Sometimes it seems as if they are expecting Tsipras to cave any day now. Other times it seems as if their plan is to turn Greece into an object lesson of what happens if you don’t go along. Most likely, there’s a lot of fuzzy-mindedness all around. But this is getting dangerous.
Cose da fare quando si è condannati a Davos
Il Governo Greco ha messo in circolazione un bel po’ di retorica populista e nazionalista, e gli eurocrati sembrano impressionati. Ma il miracolo è che sinora questo non era ancora successo.
Pochi anni orsono, i Governi dei paesi debitori potevano aver acconsentito all’austerità nel reale convincimento che essa avrebbe ripagato nella forma di una forte ripresa. Ma su quel fronte i presunti tecnocrati di Bruxelles hanno perso ogni credibilità. Inoltre, mentre i Governi di centro destra in alcuni casi stanno cercando in termini politici di resistere atteggiandosi come le sole persone che possono fare le cose dolorose ma necessarie, i partiti di centro sinistra che svolgono il ruolo di rappresentanti dell’austerità sono implosi, in alcuni casi fondamentalmente scomparendo dalla scena.
Ciò detto, come ho notato in precedenza, le singole personalità politiche – di centro destra, ma in alcuni casi di centro sinistra – possono a titolo personale convenire, anche se le loro politiche sono estremamente impopolari; possono diventare istituzioni a Davos, contare su future nomine alla Commissione o in altre istituzioni europee. Posso supporre che questo abbia funzionato come deterrente nell’alimentare quel rigetto populista che gli elettori sono persino più disposti ad appoggiare.
Ma l’attuale Governo greco non è di centro sinistra, e i personaggi che lo dirigono non saranno mai destinati a riemergere come ‘uomini di Davos’. Per essi, il successo deve avvenire nella forma del sostegno dei loro propri elettori, piuttosto che delle élite internazionali.
Non sono sicuro che i Governi creditori lo comprendano. Qualche volta sembra che stiano aspettando che Tsipras prima o poi molli. Altre volte sembra che il loro piano sia quello di trasformare la Grecia in una lezione dal vero di quello che succede se non si china la testa. La cosa più probabile è che ci sia un bel po’ di individui frastornati in giro. Ma questo sta diventando pericoloso.
marzo 13, 2015
Mar 13 9:41 am
I’ll spend much of this weekend at the New York Review of Books conference on what’s wrong with the economy and economists; and it seems to me that it’s important, in these things, to ask, “Compared to what?”
For this discussion, let’s leave out the unfortunately substantial number of economists who decided to throw basic macroeconomics out the window; that’s an important story, but a different one from what I want to talk about here. Let’s talk instead about economists who stayed with more or less standard textbook macroeconomics. How did they do?
Well, very few saw the crisis coming — mainly, I’d say, for two reasons. First, most economists (me too) failed to understand how the growth of shadow banking, which lacked a deposit-insurance safety net, had recreated the possibility of old-fashioned financial panics. Second, we didn’t pay nearly enough attention to household debt. So the crisis came as a surprise.
But these were failures of observation, not fundamental conceptual problems, and the sensible half of the profession quickly took them on board — basically realized that we were seeing old issues in new bottles. Or as I tend to think of it, we collectively went “Aha! Diamond-Dybvig-Irving Fisher yowza!” and all was clear.
What about after the crisis struck? Here, the theory of the liquidity trap came to the fore, and the sensible half made some startling predictions: massive expansion of central bank balance sheets would not be inflationary, large deficits would not drive up interest rates, austerity would depress economies by much more than it does in normal times. These were not obvious propositions — in fact, many people who thought they knew economics considered them absurd (“Who will buy all the debt that’s being issued? How can you possibly claim that printing that much money isn’t inflationary?”) But they proved right. These past six years have actually been a big win for basic Hicksian macroeconomics.
But, you may ask, compared to what? Well, consider the people Simon Wren-Lewis calls the “high priests”, people who are supposedly “close to the markets” and whose vast experience and intuition grant them insights denied to nerdy economists with their little models. How did they do? The answer is that they’ve spent these past six years declaring that we’re going to turn into Greece any day now (and it’s “regrettable” that it hasn’t happened yet), that we can boost the economy by cutting deficits, because confidence.
Great calls, guys. Remarkably, as Simon points out, politicians still hang on the words of these high priests. But the truth is that textbook economics and the economists who were willing to apply it have done vastly better.
Superesperti, alti prelati e lo stato dell’economia [1]
In questo fine settimana passerò molto tempo alla conferenza indetta dalla New York Review of Books su quello che non va nell’economia e tra gli economisti. In cose del genere, mi sembra importante chiedersi: “A confronto di cosa?”
Per questa discussione, lasciamo da parte il numero sfortunatamente elevato di economisti che decisero di buttare alle ortiche la macroeconomia di base; si tratta di una storia importante, ma di un genere diverso da quella di cui intendo parlare in questa occasione. Parliamo invece degli economisti che sono rimasti ai libri di testo più o meno abituali della macroeconomia. Nel loro caso, come è andata?
Ebbene, pochissimi previdero l’arrivo della crisi – principalmente direi, per due ragioni. La prima, la maggioranza degli economisti (compreso il sottoscritto) non compresero come la crescita del sistema bancario ombra, che mancava di reti di sicurezza assicurativa sui depositi, avesse ricreato la possibilità di situazioni di panico finanziario del genere del passato. La seconda, non prestammo sufficiente attenzione al debito delle famiglie. Dunque, la crisi arrivò a sorpresa.
Ma questi furono difetti di osservazione, non problemi concettuali fondamentali, e la parte ragionevole della disciplina economica rapidamente se ne fece carico – fondamentalmente capì che eravamo in presenza di vecchie tematiche confezionate in modo nuovo. Oppure, come preferisco pensare, collettivamente prorompemmo in un: “Ah! Ma guarda, Diamond-Dybvig-Irving Fisher! [2]”, e tutto divenne chiaro.
Cosa accadde, dopo che la crisi scoppiò? Ecco che venne allo scoperto la teoria della trappola di liquidità, e la parte ragionevole fece qualche notevole previsione: la massiccia espansione degli equilibri patrimoniali della banca centrale non avrebbe avuto effetti inflattivi, gli ampi deficit non avrebbero spinto in alto i tassi di interesse, l’austerità avrebbe depresso le economie molto di più di quello che provoca in tempi normali. Erano concetti non ovvi – di fatto, molte persone che pensavano di conoscere l’economia li considerarono assurdi (“Chi comprerà tutte quelle obbligazioni sul debito che sono state emesse? Come potete ragionevolmente sostenere che quello stampare tanta moneta non sia inflazionistico?”) Eppure si mostrarono giuste. Questi sei anni passati per la verità hanno costituito un grande successo per la macroeconomia Hicksiana [3] di base.
Ma, potete chiedervi, in relazione a cosa? Ebbene, si considerino gli individui che Simon Wren-Lewis chiama “alti prelati”, persone che si suppongono essere “vicine ai mercati” e la cui vasta esperienza ed intuito garantiscono loro le intuizioni che sono negate agli economisti superesperti, con i loro modesti modelli. Come si sono comportati costoro? La risposta è che hanno passato i sei anni passati a dichiarare, che un giorno o l’altro saremmo finiti nella stessa situazione della Grecia (e che era “deplorevole” che non fosse ancora accaduto), che possiamo incoraggiare l’economia tagliando i deficit, a causa della fiducia.
Belle scelte, signori miei. Il fatto rilevante, come dice Simon, è che gli uomini politici sono appesi alle parole di questi alti prelati. Ma la verità è che i libri di testo di economia e gli economisti che hanno avuto l’ostinazione di applicarli, hanno avuto risultati enormemente migliori.
[1] Sulla copertina della rivista Time del 1999 – ricordata im premessa di questo post – comparivano l’allora Presidente della Fed Alan Greenspan (in primo piano), il Segretario al Tesoro Robert Rubin all’epoca della Amministrazione Clinton (alla sinistra) e il Vice Segretario al Tesoro Lawrence Summers. Il titolo era “I predestinati alla salvezza del mondo: la storia segreta di come i Tre Moschettieri hanno impedito il collasso economico globale”. Naturalmente, dopo alcuni anni ci si ricordò di quella copertina, con frequente umorismo.
[2] Si tratta di tre economisti statunitensi. Peter Diamond, professore al MIT, è un esperto di tematiche della sicurezza sociale; Philip Dybvig – studioso di tematiche finanziarie – coautore con Diamond di un modello che esamina i rischi di ‘corse agli sportelli’ delle banche prive di sistemi di assicurazione sui depositi; Irving Fisher, infine, famose economista statunitense della prima parte del XIX Secolo.
E’ evidente che sono qua messi assieme, nel senso che tutti e tre studiarono in varie epoche diverse i fenomeni che sono esplosi nella crisi del 2008 (i primi due i sistema bancario “ombra”, Fisher le ‘crisi da debito’).
[3] John Richard Hicks fu un economista inglese molto famoso e discusso. Venne considerato da molti il principale interprete del Keynesismo (anche se il suo “Valore e Capitale” era in effetti contemporaneo alla pubblicazione dell’opera principale di Keynes), e da altri – tra i quali alcuni principali allievi di Keynes, come Joan Robinson – come una sorta di ‘traditore’ della ispirazione di fondo del keynesismo. Lui stesso ebbe idee diverse del suo contributo all’economia, e ne prese gradualmente le distanze. Ma il suo “Modello IS-LM” è il riferimento costante dei suoi sostenitori postumi, di Krugman in particolare. Il termine stesso “trappola di liquidità” fu formulato più esplicitamente da Hicks che non da Keynes. In questo blog appaiono di continuo riferimenti al suo contributo; se ne può trovare alcuni esempi sin dal saggio di Krugman del febbraio 2012 (“L’economia nella crisi”) e, prima ancora, nel saggio “La trappola del Giappone” del 1998.
marzo 12, 2015
Mar 12 3:30 pm
Ambrose Evans-Pritchard raises a good point about the debt-deflation effects on much of the world caused by a rising dollar; he also, in passing, mentions that some members of the FOMC apparently think that flows of capital into the US strengthen the case for a rate hike. Really?
Yes. From the most recent minutes:
Some participants suggested that shifts of funds from abroad into U.S. Treasury securities may have put downward pressure on term premiums; the shifts, in turn, may have reflected in part a reaction to declines in foreign sovereign yields in response to actual and anticipated monetary policy actions abroad. A couple of participants noted that the reduction in longer-term real interest rates tended to make U.S. financial conditions more accommodative, potentially calling for a somewhat higher path for the federal funds rate going forward.
Oh, dear.
A first-pass way to think about this is surely to suppose that the Fed sets U.S. interest rates, so that an increased willingness of foreigners to hold our bonds shows up initially as a rise in the dollar rather than a fall in rates. This may then induce a fall in rates because the stronger dollar weakens both growth and inflation, affecting Fed policy – but this means that the rate effect occurs because the capital inflow is contractionary, and is by no means a reason to tighten policy.
OK, you can just possibly come up with an argument under which foreigners come in with low risk premiums on longer-term bonds etc. etc., but it’s implausible. Basically, I suspect that the FOMC participants have forgotten their Mundell-Fleming, and are applying fixed-rate logic to a floating-rate problem.
Confusione di fondo alla FOMC [1]
Ambrose Evans-Pritchard solleva una ottima questione sugli effetti della inflazione da debito provocato in gran parte del mondo da un dollaro in ascesa; di passaggio, egli ricorda anche che alcuni componenti del FOMC sembrano ritenere che i flussi dei capitali negli Stati Uniti rafforzino gli argomenti per un elevamento dei tassi. E’ davvero così?
Sì. Dai verbali più recenti:
“Alcuni partecipanti hanno suggerito che gli spostamenti di fondi dall’estero ai titoli del Tesoro degli Stati Uniti possono provocare una spinta verso il basso dei rendimenti a più lunga scadenza [2]; gli spostamenti, a loro volta, possono in parte essere stati il riflesso di una reazione ai cali nei rendimenti sovrani all’estero, in risposta alle azioni di politiche monetarie estere effettive o anche soltanto rese note. Un paio di partecipanti hanno osservato che la riduzione dei tassi di interesse reali a lungo termine hanno teso a rendere le condizioni finanziarie degli Stati Uniti più soddisfacenti, potenzialmente in qualche modo richiedendo, per l’avvenire, un percorso per il tasso di finanziamento federale più elevato.”
Poveri noi!
Un modo preliminare per ragionare di questo aspetto è certamente quello di presumere che sia la Fed a definire i tassi di interesse degli Stati Uniti, cosicché una disponibilità accresciuta degli stranieri a detenere i nostri bond, all’inizio si manifesterà come una ascesa del dollaro anziché come una caduta dei tassi. Questo può successivamente indurre una caduta nei tassi perché il dollaro più forte indebolisce sia la crescita che l’inflazione, influenzando la politica della Fed – ma questo comporta che l’effetto del tasso si manifesta perché è il flusso dei capitali ad essere restrittivo, e non è in alcun senso una ragione per una politica restrittiva.
E’ vero, potete forse semplicemente venir fuori con l‘argomento secondo il quale gli stranieri arrivano con i premi per il basso rischio sui bond a più lungo termine etc. etc., ma non è plausibile. Fondamentalmente, ho il sospetto che i partecipanti al FOMC abbiano dimenticato le loro lezioni sui modelli di Mundell-Fleming, e stiano applicando una logica da tasso fisso ad un problema di tasso fluttuante.
[1] Al Comitato Federale sul Mercato Aperto, ovvero all’organismo della Fed responsabile delle decisioni fondamentali della politica monetaria.
[2] Il “term premium” è la quantità di rendimento di un bond a lungo termine che eccede il rendimento dei bond a breve termine.
marzo 11, 2015
Mar 11 4:38 pm
Back in the 60s and 70s — which I, sad to say, actually remember — there was much talk about the disintegration of the black family and of African-American values more generally, and how that was the root cause of America’s poverty problem. And the social dysfunction was clearly real. But was it cause or effect? William Julius Wilson, in When Work Disappears, famously argued that it was a symptom: good jobs in inner cities, where African-American men could take them, went away, and the cultural changes followed.
So, how could you test that hypothesis? Well, here’s an experiment: change the structure of the economy in such a way that a large class of white men — say, white men without a college degree — similarly lose access to good jobs. If Wilson was right, we’d expect to see a sharp decline in stable marriages, a rise in unwed births, growing drug use, and other forms of social disruption.
And that is, in fact, exactly what happened: William Julius Wilson was right. Which makes it remarkable to see people look at that very evidence and say that it shows that the real problem isn’t money, it’s values.
Quando scompaiono i valori
Nei passati anni ’60 e ’70 – che, fa tristezza dirlo, io effettivamente ricordo – c’era un gran parlare della disintegrazione delle famiglie di colore e più in generale dei valori degli afro-americani, e di come quella fosse la causa alla radice del problema della povertà in America. E la disfunzione sociale era chiaramente reale. Ma era una causa o un effetto? E’ noto che William Julius Wilson [1], nel libro “Quando scompare il lavoro”, sosteneva che si trattava di un sintomo: scomparvero i posti di lavoro buoni all’interno delle città, dove erano accessibili agli uomini afro-americani, e i mutamenti culturali furono una conseguenza.
Dunque, come si potrebbe verificare quella ipotesi? Ebbene, ecco un esperimento: si modifichi la struttura dell’economia in modo tale che una larga componente di uomini bianchi – diciamo, quelli tra di loro privi di laurea – perdano in modo simile la accessibilità ai posti di lavoro buoni. Se Wilson aveva ragione, ci dovremmo aspettare un brusco declino dei matrimoni stabili, una crescita delle nascite fuori dal matrimonio, una crescita nell’uso di sostanza stupefacenti ed altre forme di disordine sociale.
Ed è quanto, di fatto, è successo: William Julius Wilson aveva ragione. Con il che fa impressione vedere la gente che osserva quella autentica prova e dice che il problema non sono i soldi, ma i valori.
[1] William Julius Wilson è un sociologo statunitense nato nel 1935, che ha insegnato all’Università di Chicago, dal 1972 al 1996, e poi a quella di Harvard. I suoi studi sulla povertà, particolarmente sulle condizioni degli afroamericani, hanno contribuito in particolare a mettere in evidenza la complessa interazione di fenomeni politici e culturali – la cultura dei ghetti e l’intera storia dei diritti civili – e di fenomeni socioeconomici, quali quelli della evoluzione di molte metropoli americane, che hanno conosciuto grandi fenomeni di decentramento dell’occupazione. Tra l’altro mostrò come il fenomeno delle donne afroamericane sole e con figli spesso derivasse semplicemente dalla resistenza delle donne di colore a riconoscere i padri dei loro figli attraverso regolari matrimoni, sinché i padri non potevano mantenere una famiglia con redditi almeno paragonabili agli aiuti delle famiglie di origine.
marzo 11, 2015
Mar 11 4:26 pm
As part of another project, I was looking at CBO historical budget data, and realized that you can summarize a lot about all those much-denounced “entitlements” with this figure:
Congressional Budget Office
Here, income security is mainly EITC, food stamps, and unemployment benefits, plus a few other means-tested aid programs. Health is all major programs — Medicare, Medicaid/CHIP, and at the very end the exchange subsidies.
What this chart tells you right away:
La verità sui programmi assistenziali
Come parte di un altro progetto, stavo osservando la serie storica dei dati sul bilancio del Congressional Budget Office, e mi sono accorto che si può sintetizzare molto, a proposito di tutti quei famigerati “programmi assistenziali”, con questa tabella:
Ufficio Congressuale del Bilancio
In questo caso la ‘sicurezza del reddito’ (linea verde) sono principalmente i crediti di imposta sui redditi da lavoro, le tessere alimentari ed i sussidi di disoccupazione, in aggiunta ad altri programmi di aiuto basati sul reddito [1]. La salute (linea rossa) sono tutti i programmi importanti – Medicare, Medicaid, il Medicaid per i bambini [2] e proprio per ultimo i sussidi alle ‘borse’ sanitarie [3].
Vediamo subito quello che la tabella ci dice [4]:
1 La storia della ‘nazione degli assistiti’ è profondamente fuorviante. Fino alla crisi economica, i contributi per la ‘sicurezza sul reddito’ non avevano alcuna tendenza. Il solo modo per averne una sembra dipendere dal fatto che i programmi sulla base delle verifiche del reddito siano esplosi per l’inclusione di Medicaid, che è salita in parte per la crescita dei costi, in parte per una importante espansione della assistenza ai bambini (sapete, tutti quei fannulloni assistiti di undici anni!).
2 Quando le persone sostenevano che la spesa stava esplodendo con Obama, l’unica cosa che stava realmente accadendo era una crescita nei programmi di sostegno del reddito in un periodo di autentica difficoltà. Quegli individui sorridevano con un’aria di intesa e affermavano di sapere che la spesa sui nulla-facenti sarebbe diventata permanente. Così non è stato.
3 Se c’è un problema di spesa nel lungo periodo, esso riguarda ina parte assolutamente prevalente la spesa sanitaria. E su quel fronte, recentemente, stiamo facendo progressi considerevoli.
[1] Ovvero, per i quali sono necessari determinati livelli di reddito che devono essere verificati.
[2] Medicaid è il programma di assistenza sanitaria per i redditi più bassi e per i poveri. ‘CHIP’ è la versione particolare di quel programma per i figli.
[3] Ovvero, i sussidi che vengono attribuiti a seguito della riforma sanitaria ai cittadini che sono tenuti ad acquistare una assicurazione, ma hanno redditi bassi e vengono risarciti dal Governo Federale.
[4] Si consideri che la Tabella misura il peso dei vari programmi – il terzo dei quali è “Social Security”, ovvero la Previdenza Sociale, linea celeste – in percentuale sul PIL.
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