August 10, 2021
What a difference a few votes in Georgia made! Actually, about $4 trillion worth of difference. Upset victories in the January Senate runoffs gave Democrats narrow control of Congress, and they’re exploiting that narrow control to push a hugely ambitious spending agenda. President Biden might not get all of the public investment and social spending he’s asking for, but it looks likely that he’ll get most of it.
Part of the spending will come via a bipartisan infrastructure bill that passed the Senate today. The rest will come via a much larger bill, whose outlines were laid out Monday, that Democrats plan to pass on a party-line vote that bypasses the filibuster.
This two-step legislative process is playacting, and everyone involved knows it — although voters might not. Republicans went along with some infrastructure spending to create the (false) impression that they aren’t implacably opposed to anything Biden might propose. Biden chose to let them play that game to create the equally false impression that he really believes in the possibility of bipartisanship.
One thing that struck me, however, is the interesting dividing line between what Republicans were willing to vote for and what they won’t even pretend to support. The bipartisan bill is pretty much all about “hard” infrastructure; it’s all steel and concrete. The Democratic resolution has some of that, especially things like clean-energy technologies. But the bulk of the proposed investment spending seems to involve “soft” stuff like child tax credits, child care, universal pre-K and free community college.
Why this division of playacting — I mean labor? Republicans appear to believe, or at least think their constituents believe, that only tangible, physical investment is real.
This is, however, an outmoded view. Maybe we once had an economy whose productive capacity depended on visible assets like factories and machinery; these days our most valuable companies derive their value mainly from knowledge rather than physical capacity, and spending on intangible intellectual property accounts for more than a third of business investment:
The private sector gets less physical.FRED
Beyond that, it’s a somewhat surprising fact that we have much better evidence for high returns on public spending on people, especially children, than we have for high returns on infrastructure investment.
Why? Assessing the payoff to infrastructure spending is surprisingly hard, because we don’t get to observe the counterfactuals. We can surmise that America would be significantly poorer today if Eisenhower hadn’t created the Interstate Highway System, but we can’t directly measure that alternate history. We can guess that the New York metro area’s economic prospects would look a lot better if Chris Christie hadn’t killed plans for a new rail tunnel under the Hudson, but we’ll never know for sure how much damage he did.
Analysts can and do try to assess the benefits from individual infrastructure projects, like Boston’s Big Dig — and it’s far better to engage in that kind of analysis than to leave things purely subjective. But even for an individual project, that kind of analysis tends to involve a lot of assumptions — how much worse would traffic have been without the project? How much value should we place on time lost to traffic jams? And assessing the returns on a national infrastructure program in the hundreds of billions is, at best, an educated guessing game.
When it comes to investment in people, by contrast, we often do get to observe the counterfactuals.
The food stamp program, for example, was rolled out gradually across America, not introduced immediately on a nationwide basis. So was Medicaid, which was also enhanced in a series of discrete steps in the decades after its creation.
These gradual rollouts provide us with natural experiments. Economists can compare the life trajectories of Americans who received food stamps or Medicaid in their early years with those of otherwise similar Americans who didn’t, or the experiences of those who benefited from Medicaid enhancements with the experiences of slightly older Americans who didn’t.
And what these comparisons show are big positive effects of social spending. Children who had access to food stamps grew up into healthier, more productive adults than those who didn’t — so much so that the government eventually recouped much, possibly all, of what it spent upfront in higher revenue and lower spending on things like disability payments. Basically, enhancing the social safety net for children is an investment in the future, and the available evidence suggests that it’s an investment with high returns.
In the months ahead, I’m sure we’ll hear many conservative denunciations of wasteful spending and probably mockery of progressives who talk about “human infrastructure.” But the evidence for big returns on spending on people is actually a lot more concrete than the evidence for payoffs to spending on, well, concrete
Il caso difficile degli investimenti leggeri,
di Paul Krugman
Che differenza hanno fatto pochi voti dela Georgia! In sostanza, circa 4 milia miliardi di dollari di differenza. Le vittorie sugli spareggi al Senato diedero a gennaio ai democratici il controllo del Congresso, ed essi lo stanno sfruttando per portare avanti una agenda di spesa molto ambiziosa. Il Presidente Biden potrebbe non ottenere tutto l’investimento pubblico e la spesa sociale che sta chiedendo, ma è probabile che ne ottenga la maggior parte.
Parte della spesa arriverà attraverso una proposta di legge bipartisan sulle infrastrutture che sarà approvata dal Senato oggi. Il resto arriverà tramite una proposta di legge molto più ampia, le cui linee generali sono state illustrate lunedì, che i democratici hanno in mente di approvare con una votazione a maggioranza relativa che oltrepassi l’ostruzionismo.
Il procedimento legislativo in due stadi è in corso di simulazione, e tutti i soggetti coinvolti lo sanno – sebbene gli elettori potrebbero non conoscerlo. I repubblicani hanno aderito a una certa spesa sulle infrastrutture per generare la (falsa) impressione di non essere implacabilmente contrari ad ogni cosa che Biden potrebbe proporre. Biden ha scelto di consentire loro di fare quel gioco per creare l’impressione egualmente non veritiera che egli creda realmente nella possibilità della collaborazione tra i due partiti.
Tuttavia, una cosa che mi ha colpito è stata la linea di divisione tra i repubblicani che sono disponibili a votare a favore e quelli che non vorranno neppure fingere di sostenerla. La proposta di legge bipartisan riguarda quasi tutta le infrastrutture “materiali”; è tutta sull’acciaio e sul cemento. La risoluzione [1] dei democratici contiene qualcosa di ciò, in particolare cose come le tecnologie per l’energia pulita. Ma il grosso delle spese di investimenti proposte sembra riguardino oggetti “immateriali” come il crediti di imposta sui figli, l’assistenza all’infanzia, gli asili nido per tutti e le università pubbliche gratuite.
Perché questa messinscena – voglio dire questa divisione del lavoro? I repubblicani sembrano credere, o almeno pensare che la loro base elettorale creda, che solo gli investimenti tangibili, materiali siano reali.
Questo, tuttavia, è un punto di vista antiquato. Forse un tempo avevamo un’economia la cui capacità produttiva dipendeva da asset visibili come gli stabilimenti e i macchinari; di questi tempi le nostre società di maggior valore derivano quel valore principalmente dalla conoscenza piuttosto che dalla potenzialità meteriale, e la spesa sulla proprietà intellettuale intangibile pesa più di un terzo degli investimenti di impresa:
Il settore privato diventa meno materiale. Fonte: FRED [2]
Oltre a ciò, c’è il fatto in qualche modo sorprendente che abbiamo prove molto migliori per gli elevati rendimenti della spesa pubblica sulle persone, particolarmente sui bambini, di quelli che abbiamo sugli elevati rendimenti sulle infrastrutture.
Perché? Stabilire il vantaggio di una spesa infrastrutturale è sorprendentemente difficile, perché non riusciamo a cogliere i fattori che lo contraddicono. Noi possiamo supporre che l’America sarebbe oggi considerevolmente più povera se Eisenhower non avesse creato il Sistema delle Autostrade Interstatali, ma non possiamo misurare direttamente una storia alternativa. Possiamo immaginare che le prospettive economiche dell’area metropolitana di New York apparirebbero assai migliori se Chris Christie [3] non avesse liquidato i programmi per un nuovo tunnel ferroviario sotto l’Hudson, ma non sapremo mai con certezza quanto danno abbia provocato.
Gli analisti possono e in effetti cercano di stabilire i vantaggi derivanti da singoli progetti infrastrutturali, come la Grande Diga di Boston – ed è assai meglio impegnarsi in analisi del genere anziché lasciare le cose a giudizi meramente soggettivi. Ma persino per un progetto singolo, quel genere di analisi tende a riguardare una gran quantità di assunti – quanto sarebbe stato peggiore il traffico senza il progetto? Quanto grande valore dovremmo attribuire al tempo perso negli intasamenti del traffico? E stabilire i rendimenti di un programma infrastrutturale nazionale in centinaia di miliardi è, nel migliore dei casi, un indovinello erudito.
Quando si passa agli investimenti sulle persone, all’opposto, noi abbiamo di frequente i dati che mostrano quali sarebbero stati i fatti di un eventuale indirizzo opposto.
Il programma degli aiuti alimentari, ad esempio, si è venuto sviluppando gradualmente in America, non essendo stato introdotto dagli inizi su basi nazionali. Lo stesso fu per Medicaid, che venne migliorato nei decenni successivi alla sua creazione in una serie di passi distinti.
Questi sviluppi graduali ci offrono una sorta di esperimenti naturali. Gli economisti possono confrontare le traiettorie di vita degli americani che hanno ricevuto gli aiuti alimentari o Medicaid nei loro primi anni con quelle di altri americani assimilabili che non li hanno ricevuti, oppure le esperienze di coloro che hanno tratto vantaggio dai potenziamenti di Medicaid con quelle degli americani leggermente più anziani che non li hanno conosciuti.
E quello che questi confronti mostrano sono i grandi effetti positivi della spesa sociale. I bambini che hanno avuto accesso agli aiuti alimentari sono diventati adulti più sani e più produttivi di quelli che non l’hanno avuto – in modo tale che il Governo alla fine ha recuperato molto, se non tutto, quello che aveva speso, a fronte di entrate fiscali maggiori e di spesa minore su cose come i sussidi per le disabilità. Fondamentalmente, rafforzare le reti della sicurezza sociale per i bambini è un investimento sul futuro, e le prove disponibili dimostrano che è un investimento con elevati rendimenti.
Sono sicuro che nei mesi futuri ascolteremo molte denunce dei conservatori sugli sprechi di spesa pubblica e probabilmente molta ironia sui progressisti che parlano di “infrastrutture umane”. Ma le prove sui rendimenti elevati della spesa sulle persone sono effettivamente assai più concrete delle prove sui vantaggi nello spendere, proprio così, sul cemento [4].
[1] Il riferimento pare sia al documento sulle linee generali della seconda proposta, illustrata lunedì dai democratici.
[2] La tabella mostra l’evoluzione degli investimenti nazionali lordi del settore privato nei prodotti della proprietà intellettuale. La voce è una sottocategoria degli investimenti lordi privati complessivi, degli investimenti fissi, degli investimenti in capitali come stabilimenti e macchinari (“nonresidential”) etc. e, da quanto capisco, è espressa in frazioni di miliardi di dollari.
[3] Repubblicano, Governatore nel New Jersey nel 2009, quando si oppose e impedì la realizzazione di quell’opera pubblica che pare avrebbe migliorato in modo sostanziale gli accessi e le uscite da New York.
[4] Gioco di parole: “concrete” in inglese significa sia “concreto” che “cemento”.
agosto 9, 2021
Aug. 6, 2021
By Paul Krugman
For many of us, Chad Bown of the Peterson Institute for International Economics — a boutique think tank specializing in, duh, international economics — has become the go-to guy for current developments in trade policy. His work tracking the evolution of Donald Trump’s trade war was invaluable.
Now he has a highly informative new paper with Thomas Bollyky on the vaccine supply chain. I won’t lie: There’s a lot of detail, and the paper is fairly heavy going. But it’s full of useful details, and it also, I’d argue, tells us some interesting things about the nature of world trade in the 21st century.
One thing that caught my eye — probably not the most important thing, but one close to my heart — is that the story of global vaccine production demonstrates the continuing relevance of the so-called New Trade Theory, or as some now call it, the “old New Trade Theory.”
Background: Here’s a sample graphic from Bown and Bollyky, showing what’s involved in the production of the Pfizer vaccine:
The shots made round the world.Credit…Peterson Institute for International Economic
Producing these vaccines is evidently a complicated process, involving facilities in many locations, presumably implying a lot of cross-border shipments of vaccine ingredients. Notably, in Pfizer’s case all these facilities are in the United States and Western Europe, which is typical across pharma firms, although other companies have a few facilities in Brazil and India.
So where do vaccine supply chains fit into the theory of international trade?
If you’ve ever taken an economics course, you probably learned about the theory of comparative advantage, which says that countries trade to take advantage of their differences. The classic original example, from the early-19th-century economist David Ricardo, involved the exchange of English cloth for Portuguese wine.
Comparative advantage is a powerful, illuminating theory — especially because it shows why countries export goods they’re relatively good at producing even if they’re less productive in those industries than potential competitors. Bangladesh is a low-productivity nation across the board (although it has been improving), but its productivity disadvantage is less pronounced in apparel than in other industries, so it has become a major clothing exporter.
In the 1960s and 1970s, however, a number of economists began suggesting that comparative advantage was an incomplete story. World trade had been growing over time, but much of that growth involved trade between countries that didn’t seem very different — the United States and Canada, for example, or the nations of Western Europe. Furthermore, what these countries were selling to each other looked pretty similar: There was a lot of “intra-industry” trade like the large-scale, two-way trade in autos and related goods across the U.S.-Canada border.
What was going on? A few economists had long noted that comparative advantage wasn’t the only possible reason for international trade. Countries might also trade because production of some goods involves increasing returns — there are advantages to large-scale production, which creates an incentive to concentrate production in a few countries and export those goods to other countries. Automotive trade between the United States and Canada was a classic example: After the countries established a free-trade agreement for autos in 1965, North American car companies achieved economies of scale by limiting the range of items produced in Canada, exporting these goods and importing other items from the United States.
But if trade reflected increasing returns rather than country characteristics, which countries would end up producing which goods? It might be largely random, the result of accidents of history.
There was, however, remarkably little economic literature on increasing-returns trade until the late 1970s. Economists don’t like to talk about stuff they find hard to model, and trade models with increasing returns tended to be messy and confusing. Eventually, however, some economists came up with clever ways to cut through the confusion, in papers like this 1980 piece in the American Economic Review:
Niftiness is necessary.Credit…American Economic Review
(I’ll note, with all due immodesty, that the journal would later name this one of the 20 top papers published in its first century of operation.)
God, I was young!
Anyway, history has a sense of humor. No sooner had economists come up with nifty models of trade between similar countries, driven by economies of scale, than the world economy took a hard turn away from that kind of trade toward trade between dissimilar countries driven by things like large differences in wages.
World trade exploded from the mid-1980s until around 2008, a process sometimes called hyperglobalization:
Globalization gets hyper.Credit…World Bank
And where trade growth in the ’60s and ’70s had largely involved advanced economies selling stuff to each other, hyperglobalization involved a surge in exports of manufactured goods from relatively low-wage developing countries:
Everything old was new again.Credit…World Bank
So we had a New Trade Theory, but the new trade we were actually getting was much better explained by, well, old trade theory.
So what does all this have to do with vaccine supply chains? Well, as I already noted, vaccine ingredients are mainly produced in advanced countries — countries that are very similar in their education levels, overall level of technological competence and more. So why wasn’t each advanced country producing the whole ensemble of vaccine-related inputs? Here’s what Bown and Bollyky say:
“The business model that much of the pharmaceutical industry had shifted toward over the previous 25 years involved fragmentation. As tariffs and other trade barriers had fallen globally, information and communications technology (ICT) developed, shipping and logistics efficiency increased, and protection of intellectual property rights steadily improved. The fact that trade could play a greater role in distributing pharmaceutical products globally meant that companies could operate fewer plants but at a larger scale.” [Emphasis mine.]
Hey, it’s New Trade Theory in action! And it sure looks as if there was a lot of random historical contingency determining national roles in the pattern of specialization. Europe was initially very dependent on Britain’s exports of lipids — but I doubt that there’s something about British culture that makes the country especially good at lipids. It’s just one of those accidents that play a big role in economic geography.
Is there a moral to this story? There’s been a lot of backlash against globalization over the past decade, to some extent justified: Advocates of free-trade agreements oversold their benefits and understated the disruptions they might cause. But the case of vaccine production illustrates a positive side of globalization we tend to forget. These miracle vaccines are incredibly complex products that would have been hard to develop and produce in any one country, even one as large as the United States. A global market made it possible to deliver all the specialized inputs that are saving thousands of lives as you read this.
Quello che ci dice l’offerta dei vaccini sul commercio internazionale,
di Paul Krugman
Per molti di noi, Chad Bown del Peterson Institute per l’Economia Internazionale – un centro di ricerca esclusivo specializzato, ovviamente, in economia internazionale – è diventato la persona a cui ricorrere per gli attuali sviluppi della politica commerciale. Il suo lavoro nel seguire l’evoluzione della guerra commerciale di Donald Trump fu prezioso.
Adesso egli pubblica un nuovo saggio altamente chiarificatore assieme a Thomas Bollyky sulla catena dell’offerta dei vaccini: ci sono molti dettagli e il saggio è abbastanza difficile da seguire. Ma i suoi dettagli sono del tutto utili, e, aggiungerei, lo studio ci dice alcune cose interessanti sulla natura del commercio mondiale nel ventunesimo secolo.
Una cosa che ha catturato la ma attenzione – probabilmente non la cosa più importante, ma quella a cui sono affezionato – è che il racconto della produzione globale dei vaccini dimostra la perdurante rilevanza della cosiddetta Nuova Teoria del commercio, o come qualcuno la chiama, la “vecchia Nuova Teoria del Commercio”.
Un po’ di contesto: ecco il grafico rappresentativo di Bown e Bollyky, che mostra ciò che è coinvolto nella produzione del vaccino Pfizer:
Le iniezioni che si fanno a giro per il mondo. Fonte: Peterson Institute for International Economics
Produrre questi vaccini è evidentemente un processo complicato, che include strutture in molte località e presumibilmente implica molte spedizioni transfrontaliere degli ingredienti del vaccino. In particolare, nel caso di Pfizer tutte queste strutture sono negli Stati Uniti e in Europa Occidentale, il che è tipico tra le imprese farmaceutiche, sebbene altre società abbiano un certo numero di strutture in Brasile e in India.
Dov’è dunque che le catene dell’offerta dei vaccini entrano in rapporto con la teoria del commercio internazionale?
Se avete mai partecipato ad un corso di economia, probabilmente avete appreso la teoria del vantaggio comparativo, che dice che i paesi commerciano per avvantaggiarsi delle loro diversità. L’esempio classico originario, dall’economista del diciannovesimo secolo David Ricardo, riguardava lo scambio tra i tessuti inglesi e il vino del Portogallo.
Il vantaggio comparativo è una teoria potente e illuminante – specialmente perché mostra la ragione per la quale i paesi esportano beni che essi sono relativamente bravi a produrre, anche se in quelle industrie sono meno produttivi dei loro potenziali competitori. Il Bangladesh è una nazione a bassa produttività su scala globale (sebbene stia migliorando), ma il suo svantaggio di produttività è meno pronunciato nell’abbigliamento che in altre industrie, cosicché è diventato un importante esportatore di vestiti.
Tuttavia, negli anni ’60 e ’70 un certo numero di economisti cominciarono a suggerire che il vantaggio comparativo era una storia incompleta. Il commercio globale è venuto crescendo nel corso del tempo, ma buona parte di quella crescita ha riguardato gli scambi tra paesi che non sembrano molto diversi – gli Stati Uniti e il Canada, ad esempio, o le nazioni dell’Europa Occidentale. Inoltre, quello che questi paesi venivano vendendo gli uni agli altri pareva abbastanza simile: c’era molto commercio “intraindustriale”, come il commercio su larga scala in entrambe le direzioni di automobili e di prodotti connessi attraverso la frontiera statunitense-canadese.
Cosa stava accadendo? Un certo numero di economisti avevano notato da tempo che il vantaggio comparativo non era l’unica ragione possibile del commercio internazionale. I paesi potevano anche commerciare perché la produzione di alcuni beni riguarda rendimenti crescenti – ci sono vantaggi nella produzione su larga scala, che creano un incentivo a concentrare la produzione in pochi paesi ed a esportare quei prodotti ad altri. Il commercio delle auto tra Stati Uniti e Canada era un classico esempio: dopo che i paesi stabilirono un accordo di libero scambio per le automobili nel 1965, le società automobilistiche nord americane realizzarono economie di scala limitando la gamma degli articoli prodotti in Canada, esportando quei prodotti e importandone altri dagli Stati Uniti.
Ma se il commercio rifletteva i rendimenti crescenti anziché le caratteristiche del paese, quali paesi avrebbero finito per produrre quali beni? Poteva essere in buona parte casuale, il risultato di casi fortuiti della storia.
Tuttavia, esisteva una letteratura economica considerevolmente scarsa sui rendimenti crescenti nel commercio sino alla fine degli anni ’70. Gli economisti non amavano parlare di cose che trovavano difficile inserire in un modello, ed i modelli commerciali con i rendimenti crescenti tendevano ad essere problematici e confusi. Alla fine, tuttavia, emersero alcuni economisti che in modi intelligenti si aprirono un varco in questa confusione, in saggi come questo pezzo pubblicato nel 1980 sulla Rivista Economica Americana:
Ci vuole genialità. Fonte: Rivista economica Americana[1]
(osserverò, con tutta la dovuta immodestia, che la rivista avrebbe in seguito citato questo saggio come uno dei 20 più importanti pubblicati nel suo primo secolo di attività).
Dio buono, ero giovane!
In ogni modo, il racconto ha il suo lato comico. Gli economisti erano appena venuti fuori con modelli ingegnosi del commercio tra i paesi simili, guidati dalle economie di scala, che l’economia del mondo girò le spalle da quel tipo di commerci verso un commercio tra paesi dissimili guidato da fattori come le grandi differenze nei salari.
L’economia del mondo, dalla metà degli anni ’80 al 2008, esplose in un processo che talvolta viene chiamato di iperglobalizzazione:
La globalizzazione diventa ‘iper’. Fonte: Banca Mondiale
E laddove la crescita del commercio negli anni ’60 e ’70 aveva largamente riguardato le economie avanzate che vendono roba l’una con l’altra, l’iperglobalizzazione riguardò una crescita delle esportazioni dei prodotti manifatturieri dai paesi in via di sviluppo con salari relativamente bassi:
Tutto il vecchio divenne ancora nuovo. Fonte: Banca Mondiale [2]
Così, avemmo una Nuova Teoria del Commercio, ma il nuovo commercio che effettivamente stavamo ottenendo era spiegato molto meglio, proprio così, dalla vecchia teoria del commercio.
Dunque, cosa ha a che fare tutto questo con le catene dell’offerta del vaccino? Ebbene, come ho già notato, gli ingredienti dei vaccini sono principalmente prodotti nei paesi avanzati – paesi che sono molto simili nei loro livelli di istruzione, nel livello complessivo di competenza tecnologica, e altro ancora. Perché dunque non è accaduto che ogni paese avanzato producesse l’intero insieme dei fattori connessi con il vaccino? Ecco quello che dicono Bown e Bollyky:
“Il modello economico di gran parte dell’industria farmaceutica si è spostato verso ed oltre la frammentazione che riguardò i 25 anni passati. Come le tariffe ed altre barriere commerciali sono globalmente cadute, la tecnologia dell’informazione e della comunicazione (ICT) si è sviluppata, l’efficienza delle spedizioni e della logistica si è accresciuta e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale è regolarmente migliorata. Il fatto che il commercio abbia potuto giocare un ruolo maggiore nella distribuzione dei prodotti farmaceutici ha comportato che le società potevano disporre di un minor numero impianti ma su scala più larga” [sottolineature mia].
Osservate: è la Nuova Teoria del Commercio in azione! E appare certo che ci fu molta contingenza storica casuale a determinare i ruoli nazionali negli schemi della specializzazione. Agli inizi l’Europa era molto dipendente dalle esportazioni inglesi dei lipidi – ma io dubito che ci sia qualcosa nella cultura britannica che rende il paese particolarmente bravo nei lipidi. Si tratta di uno di quegli accidenti che giocano un grande ruolo nella geografia economica.
C’è una morale, in questa storia? Nel passato decennio, c’è stato un grande contraccolpo contro la globalizzazione, in buona misura giustificato: i sostenitori degli argomenti del libero commercio avevano sopravvalutato i loro benefici e sottovalutato le turbative che possono provocare. Ma il caso della produzione dei vaccini mostra un aspetto della globalizzazione che tendiamo a dimenticare. Questi vaccini miracolosi sono prodotti incredibilmente complessi che sarebbe difficile produrre e sviluppare in un solo paese, anche se ampio come gli Stati Uniti. Un mercato globale ha reso possibile ottenere tutti gli input specializzati che stanno salvando, mentre voi leggete tutto questo, migliaia di vite umane.
[1] Si tratta della premessa del saggio. È il caso di ricordare che uno sfondo di ironica immodestia nel citare se stesso e nei commenti successivi non è così inappropriato, se si considera che con quel lavoro Krugman venne premiato col Nobel in economia. In estrema sintesi, la premessa annuncia che nella Prima sezione del saggio sarebbe stato presentato il modello di base del commercio. Per chi volesse sapere qualcosa di più sulla storia di quel Premio Nobel, la lettura che posso consigliare è lo stesso discorso che Krugman pronunciò l’8 dicembre 2008, nel quale egli ricostruisce il dibattito economico relativo di quegli anni, con riferimenti a vari altri premi Nobel, compresi Stiglitz e Spence. La traduzione di quel discorso si trova tradotta su FataTurchina: “LA RIVOLUZIONE DEI RENDIMENTI CRESCENTI NEL COMMERCIO E LA GEOGRAFIA, di Paul Krugman. Discorso in occasione del ricevimento del Premio Nobel, 8 dicembre 2008”.
[2] La tabella mostra la crescita delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo misurate come percentuali del PIL globale, dal 1985 al 2008.
agosto 3, 2021
July 30, 2021
By Paul Krugman
So Joe Biden appears to have his bipartisan infrastructure deal. Of course, progressives will be bitterly disappointed if that’s the end of the story. But it probably won’t be. In the end, Democrats will probably pass a second bill through reconciliation, adding several trillion dollars in “soft” investment — especially spending on children, which almost surely will have bigger economic payoffs than repairing roads and bridges, important as that is.
But today’s newsletter won’t be about legislative maneuvering. Instead, I want to talk about a funny thing that has happened to economic policy debate, detailed in a recent article by Jim Tankersley. Suddenly, Republicans have become Keynesians, while Democrats are talking about the supply side.
Traditionally, Democrats sought to justify big spending plans, like the Obama stimulus, by arguing that they were needed to boost demand in a weak economy. This was even true to a limited degree about the arguments made for the American Rescue Plan, the $1.9 trillion package Biden got enacted soon after taking office — although as its name suggests, the plan was pitched largely as disaster relief rather than as Keynesian stimulus.
Republicans, by contrast, derided Keynesian arguments. In the aftermath of the 2008 financial crisis, they called for cutting spending, not increasing it, buying fully into the doctrine of “expansionary austerity” — the claim that spending cuts would actually increase demand by inspiring confidence (or as I put it, they believed in the confidence fairy).
When justifying their own plans for tax cuts, Republicans generally didn’t argue that those cuts would increase demand. Instead, they invoked supposed supply-side effects: Reduced taxes, they claimed, would increase incentives to work and invest, expanding the economy’s potential. Democrats generally ridiculed these claims.
For what it’s worth, the evidence suggests that Democrats were right and Republicans wrong on both counts. The case for expansionary austerity was overwhelmingly refuted by experience, especially in the euro area, while the Keynesian multiplier-type analysis was vindicated. Supply-side economics has yet to offer a single convincing success story; the underwhelming results of the 2017 Trump tax cut are just the latest entry in an unbroken record of failure.
But a funny thing has happened. Republicans are now warning that Biden’s spending plans will cause the economy to overheat, feeding inflation — which is basically a Keynesian position, although it’s being used to argue against government expenditure. I guess the confidence fairy has left the building. Or maybe G.O.P. economics is situational — Keynesian or not depending on which position can be used to argue against Democratic spending plans.
Democrats, on the other hand, are arguing that their spending plans, while partly about social justice, will also have positive supply-side effects, raising the economy’s long-run potential.
What can we say about these claims on each side?
Concerns that Biden’s long-term spending plans will pump up demand in an economy that we hope will already be more or less at full employment aren’t entirely silly. It is, however, important to bear three things in mind.
First, while the numbers being talked about are big, they’re 10-year spending plans, so annual spending will be in the hundreds of billions, not trillions — and the U.S. economy is very big. Here’s the Congressional Budget Office’s projection of potential G.D.P. over the next decade:
It’s a big, big, big, big economy.Credit…FRED
That cumulates to $295 trillion over the next 10 years, so even $4 trillion of spending is only 1.3 percent of G.D.P.
Second, the spending will be paid for with taxes to a considerable extent, so that net stimulus will be smaller than the headline numbers. It’s true that the pay-fors are likely to involve a lot of smoke and mirrors, and if that isn’t the most budget wonk thing I’ve ever written, I don’t know what is. Still, the “fiscal impulse” probably won’t be very big. And though we obviously don’t have details on most of what is likely to happen, we can look at the projected year-by-year deficit effects of the Biden budget proposal from earlier this year:
Not that stimulative.Credit…Office of Management and Budget
Even at its peak, this is a much smaller stimulus than the American Rescue Plan, which was around 8 percent of G.D.P.
Finally, there’s good reason to argue that the U.S. economy needs sustained fiscal stimulus, even at full employment. The argument for secular stagnation — persistent weakness of demand, so that interest rates are very low even in good times — remains strong. This prospect raises concerns about future economic management: The Fed probably won’t have enough room to cut rates to fight off future recessions. So some persistent deficit spending to give the Fed more room to act would actually be prudent.
In fact, I’ve said on a number of occasions that I’m concerned that Biden is being too fiscally responsible, that we could do with more deficit spending going forward than he seems to want.
Overall, then, the Republican case that Biden’s proposals are dangerously inflationary — while not as bad as some of what comes out of that party — is pretty weak.
What about supply-side economics, Democrat-style? Unlike Republicans, who have consistently promised economic miracles that never arrive, Democrats are being very cautious about their supply-side claims. Nonetheless, progressive economists believe that there will be large long-term payoffs to spending more on infrastructure, research and especially aid to children.
And they expect fairly quick results if the reconciliation bill includes “family-friendly” policies like paid parental leave and child care, which they believe would increase female participation in the paid work force. I suspect that most Americans have no idea how much we’ve fallen behind on that front relative to other advanced countries with policies that make it easier for mothers to maintain their careers:
Women not at (paid) work.Credit…OECD
So there’s a pretty good case that Democratic supply-side economics will actually work.
Anyway, the bottom line is that there has been a weird role reversal in how the parties talk about economic policy. Republicans have gone all Keynesian, while Democrats are talking about the supply side. However, only one of the parties seems to be making sense.
I repubblicani keynesiani, i democratici sostenitori dell’economia dal lato dell’offerta?
Di Paul Krugman
Sembra dunque che Joe Biden abbia un accordo di entrambi i partiti sulle infrastrutture. Ovviamente, i progressisti sarebbero amaramente delusi se la storia finisse a questo punto. Ma probabilmente non sarà così. Alla fine, i democratici probabilmente approveranno una seconda proposta di legge attraverso l’isituto della riconciliazione, aggiungendo svariati miliardi di dollari in investimenti “leggeri” – in particolare spesa sui bambini, che quasi sicuramente avrà maggiori vantaggi per l’economia che non riparare strade e ponti, per quanto siano importanti.
Ma la newsletter di oggi non sarà sulla manovra legislativa. Voglio invece parlare di una cosa curiosa che è avvenuta nel dibattito economico, messa in evidenza da un articolo di Jim Tankersley. All’improvviso, repubblicani sono diventati keynesiani, mentre i democratici stanno parlando dell’economia dal lato dell’offerta.
Tradizionalmente, i democratici cercavano di giustificare grandi programmi di spesa, come lo stimolo di Obama, sostenendo che erano necessari per incoraggiare la domanda in un’economia debole. In una limitata misura questo era vero anche per gli argomenti avanzati con il Piano Americano di Salvataggio, il pacchetto da 1.900 miliardi di dollari che Biden varò appena entrato in carica – sebbene, come suggerisce il nome stesso, quel programma venne promosso in gran parte come assistenza nell’emergenza, piuttosto che come uno stimolo keynesiano.
Di contro, i repubblicani irridevano agli argomenti keynesiani. In seguito alla crisi finanziaria del 2008, chiesero di tagliare la spesa, non di aumentarla, aderendo pienamente alla dottrina dell’ “austerità espansiva” – la pretesa che tagliando la spesa si sarebbe effettivamente incrementata la domanda diffondendo la fiducia (ovvero, come mi espressi io, credevano nella fata della fiducia).
Nel giustificare i loro piani per i tagli alle tasse, in generale i repubblicani non sostenevano che quei tagli avrebbero incrementato la domanda. Sostenevano che ridurre le tasse avrebbe aumentato gli incentivi a lavorare ed a investire, espandendo il potenziale dell’economia. In generale, i democratici irridevano a queste pretese.
Per quello che vale, le prove indicano che i democratici avevano ragione e i repubblicani avevano torto su entrambi gli aspetti. L’argomento dell’austerità espansiva venne confutato in modo schiacciante dai fatti, specialmente nell’area euro, mentre venne risarcita l’analisi keynesiana del moltiplicatore. L’economia dal lato dell’offerta deve ancora offrire una unica storia di successo; i deludenti risultati degli sgravi fiscali di Trump del 2017 sono solo l’ultima voce di una ininterrotta serie di fallimenti.
Ma è accaduta una cosa buffa. Adesso i repubblicani stanno mettendo in guardia che i piani di spesa di Biden provocheranno un surriscaldamento dell’economia, alimentando l’inflazione – che è fondamentalmente una posizione keynesiana, sebbene venga utilizzata contro la spesa pubblica. Mi immagino che la fata della fiducia abbia lasciato l’edificio. O forse il Partito Repubblicano è ‘situazionale’ – keynesiana o no, tutto dipende dalla posizione che può essere usata per contrastare i piani di spesa dei democratici.
I democratici, da parte loro, stanno sostenendo che i loro programmi di spesa, mentre in parte riguardano la giustizia sociale, avranno anche effetti positivi dal lato dell’offerta, aumentando il potenziale a lungo termine dell’economia.
Cosa si può dire di queste tesi su entrambi gli schieramenti?
Le preoccupazioni secondo le quali i programmi di spesa di Biden gonfieranno la domanda in un’economia che noi speriamo già sarà più o meno in piena occupazione, non sono del tutto sciocche. Tuttavia, è importante tenere a mente tre cose.
La prima: mentre i numeri dei quali abbiamo parlato sono grandi, essi riguardano programmi di spesa decennali, dunque la spesa annuale sarà in centinaia di miliardi, non in migliaia – e l’economia americana è molto grande. Ecco la previsione dell’Ufficio del Bilancio del Congresso sul PIL potenziale nel prossimo decennio:
È un’economia molto, molto grande Fonte: FRED [1]
Questo assomma a 295 mila miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, dunque persino 4.000 miliardi di spesa sono soltanto l’1,3 per cento del PIL.
In secondo luogo, la spesa verrà ripagata in una notevole misura tramite le tasse, cosicché lo stimolo netto sarà inferiore ai numeri complessivi. È vero che le coperture riguardano in gran parte fumo negli occhi, e ammetto che questa non sia la cosa più minuziosa relativa ad un bilancio che abbia mai scritto. Eppure, l’ “impulso della finanza pubblica” probabilmente non sarà grandissimo. E sebbene ovviamente non abbiamo i dettagli sulla maggior parte di ciò che è probabile accada, possiamo osservare gli effetti previsti sul deficit anno per anno della proposta di bilancio di Biden, a partire dagli inizi di quest’anno:
Uno stimolo non così forte. Fonte: Ufficio della Gestione e del Bilancio
Persino al suo punto più alto, questo è uno stimolo molto minore del Piano Americano di Salvataggio, che era attorno all’8 per cento del PIL [2].
Infine, c’è una buona ragione per sostenere che l’economia statunitense ha bisogno di un prolungato stimolo della finanza pubblica, seppure con la piena occupazione. La tesi della stagnazione secolare – una persistente debolezza della domanda, cosicché i tassi di interesse sono molto bassi persino in tempi buoni – resta forte. La prospettiva solleva preoccupazioni sulla gestione futura dell’economia: la Fed probabilmente non avrà margini sufficienti per tagliare i tassi per combattere recessioni future. Dunque una qualche persistente spesa in deficit per dare alla Fed più margini sarebbe effettivamente prudente.
Di fatto, ho affermato in un certo numero di occasioni di essere preoccupato che Biden sia troppo responsabile sul lato della finanza pubblica, che andando avanti dovremmo fare più spesa in deficit di quella che lui sembra volere.
Nel complesso, allora, l’argomento repubblicano secondo il quale le proposte di Biden sono pericolosamente inflazionistiche – sebbene non così negativa come alcune delle cose che vengono da quel partito – è abbastanza debole.
Che dire dell’economia dal lato dell’offerta, stile democratici? Diversamente dai repubblicani, che hanno promesso in continuazione miracoli economici che non arrivano mai, i democratici restano molto molto cauti sulle loro tesi dal lato dell’offerta. Ciononostante, gli economisti progressisti credono che ci saranno grandi vantaggi a lungo termine nello spendere maggiormente sulle infrastrutture, sulla ricerca e particolarmente sull’aiuto ai bambini.
E si aspettano risultati abbastanza veloci se la proposta di legge nella fase di riconciliazione [3] includerà politiche a favore della famiglia come il congedo pagato per i genitori e gli asili nido, che credono accrescerebbero la presenza delle donne tra la forza lavoro pagata. Ho l’impressione che la maggioranza degli americani non si rendano conto di quanto siamo caduti in basso su quel fronte, a confronto di altri paesi avanzati con politiche rendono più facile per le madri il mantenimento delle loro carriere:
Donne non al lavoro (pagato). Fonte: OCSE [4]
Dunque, c’è una possibilità abbastanza buona che l’economia dal lato dell’offerta dei democratici effettivamente funzioni.
In ogni modo, la morale della favola è che c’è stata una bizzarra inversione di ruoli nei modo in cui i partiti parlano di politica economica. I repubblicani sono diventati tutti keynesiani, mentre i democratici stanno parlando dell’economia dal lato dell’offerta. Tuttavia, solo uno dei due partiti sembra dire cose sensate.
[1] La tabella mostra le previsioni di un Ufficio Studi della Fed sull’andamento del PIL potenziale nominale da oggi al 2031.
[2] Ovvero, se capisco, la tabella si riferisce soltanto alla manovra di spesa contenuta nel bilancio, e non ai provvedimenti urgenti già assunti con il programma di emergenza.
[3] Come spiegato altre volte, la “riconciliazione” è uno strumento regolamentare del Congresso statunitense, che prevede che le misure economiche che in prima battuta avrebbero bisogno di essere approvate con maggioranze qualificate (misure che modificano gli equilibri di bilancio), possono alla fine passare da un procedura semplificata, che consente di approvarla anche con maggioranze semplici. I democratici pare che non abbiano quasi mai utilizzato questa possibilità, mentre nel periodo più recente i repubblicani ne hanno fatto frequente uso, ad esempio nel 2017 con gli sgravi fiscali di Trump. Adesso anche i democratici sono intenzionati ad usarla, recuperando in sede di ‘riconciliazione’ buona parte delle proposte economiche sulle quali non c’è accordo di entrambi i partiti.
[4] La Tabella mostra il tasso di occupazione delle donne nella principale età lavorativa (in genere stimata tra i 25 ed i 54 anni). Gli Stati Uniti hanno una percentuale di dieci punti inferiore alla Svezia.
luglio 29, 2021
July 27, 2021
Obviously I have political views on these issues, and my students know that, but I try as hard as I can both to distinguish my preferences from the evidence and to give a fair hearing to other views. In particular, I like to tell the students that on the really big issues, the argument is essentially a philosophical debate about values rather than policy analysis, and that there’s a legitimate conservative position that no amount of wonkery can debunk.
But right now I’m wondering how I’ll manage to give my potted version of political philosophy with a straight face.
I usually teach this stuff as a dispute between John Rawls and Robert Nozick. (A note to real philosophers: Yes, I know I’m drastically oversimplifying.) Rawls wrote a famous book titled “A Theory of Justice” in which he argued for a thought experiment: Imagine yourself being asked to choose a form of society to live in before knowing which role in that society you’d end up playing. You might be heir to a huge fortune, but you might be desperately poor. What kind of society would you choose?
Rawls argued, basically, that you’d go for a big welfare state, with highly progressive taxation and a strong social safety net. And most liberals are more or less Rawlsian — less in the sense that their sense of social justice disappears, or at least gets greatly attenuated, at the water’s edge: A full-on Rawlsian would surely advocate massive foreign aid.
But leave that aside. What’s the conservative position? I usually invoke Nozick’s book “Anarchy, State, and Utopia,” which centers on the concept of freedom of choice. In the Nozickian worldview people should have the right to act as they like, so long as it doesn’t hurt others, and this principle of freedom should prevail even if you might prefer that some people have more and others less.
Nozick acknowledged that there would have to be some limits to libertarianism: Individuals can’t simply refuse to pay the taxes that support national defense, nor does freedom of choice include the freedom to, say, dump toxic waste into a river. But the Nozickian view does call for a government as limited as possible, certainly much smaller than the big welfare states all advanced countries currently operate.
And I can’t say that Nozick’s view is wrong — nor can anyone say it’s right. It all depends on your values.
But here’s the thing: My usual effort to offer maximum sympathy to the conservative position falls apart completely when one tries to make sense of the U.S. right’s response to Covid-19. Oh, people have used the usual words — we’ve been hearing a lot about freedom. But their actions have been so far from any defensible notion of libertarianism that they take hypocrisy to a whole new level.
I mean, suppose you declare that people should be free to make their own choices so long as others aren’t hurt. How does this apply to refusing to wear a mask or get vaccinated? In both cases the actions taken in the name of liberty very much come at others’ expense; indeed, the main point of mask-wearing has always been to protect other people, not yourself. And while sheer self-preservation should be a good enough reason to get vaccinated, refusing the shots for whatever reason is also putting other peoples’ lives at risk by keeping the pandemic going.
It has also been amazing to watch many conservatives do a complete 180 on the rights of business owners. We’ve seen repeated court cases in which conservatives insisted that employers had the right to deny employees benefits based on the owners’ religious beliefs, sellers could refuse to provide service to gay couples and so on. What you do with your business, the doctrine seemed to be, was up to you.
But in the pandemic we suddenly had conservative politicians trying to prohibit stores from requiring that their customers wear masks, trying to prohibit cruise ships from requiring that passengers be vaccinated, and so on. All that rhetoric of freedom suddenly didn’t apply when it came to protecting public health.
OK, I’m not naïve: I’ve long argued that there are very few true libertarians in American politics, that the language of freedom is largely used to defend privilege. I also understand that the anti-vaccination campaign was driven in large part by cynical political calculation: There are politicians and media figures who consider it more important that President Biden fail than that their supporters/viewers live.
But for all my cynicism, I didn’t think it would get this raw.
As it happens, it’s looking as if the cynical political calculation has backfired — the Delta variant surge in low-vaccination states has become too obvious to ignore — and we’re now seeing a desperate scramble by various politicians and media figures to get on the right side of the issue. And my guess is that over the next few months we’ll get a de facto vaccine mandate enforced, not by law, but by employers terrified of becoming Covid hot spots.
But it has been quite an education. I’ll continue to teach the logic of libertarian opposition to the welfare state. But I won’t pretend that it represents any significant political force.
L’anno e mezzo durante il quale è morta la libertà,
di Paul Krugman
Una volta all’anno io insegno in un seminario universitario chiamato “Economia dello Stato assistenziale”, che si occupa di temi che vanno dalle pensioni, alla assistenza sanitaria, alla assicurazione di disoccupazione, con una forte attenzione ai confronti internazionali – perché queste sono aree della politica nelle quali i diversi paesi hanno preso indirizzi sorprendentemente differenti. Per inciso, nessuno fa tutte le cose in modo giusto o sbagliato. Ad esempio, gli Stati Uniti fanno un lavoro abbastanza buono sulle pensioni ma un orribile lavoro sulla assistenza sanitaria, mentre la Francia fa l’opposto.
Ovviamente ho le mie opinioni su questi temi, e i miei studenti lo sanno, ma cerco il più possibile sia di distinguere le mie preferenze dalle prove, sia di fornire una giusta accoglienza ad altri punti di vista. In particolare, mi piace dire agli studenti che sui temi realmente importanti, il nodo è essenzialmente il dibattito filosofico sui valori piuttosto che l’analisi della politica, e che c’è una legittima posizione conservatrice che nessuna dose di supponente competenza [1] può confutare.
Ma in questo momento mi sto chiedendo come riuscirò a fornire onestamente questa mia versione concentrata della filosofia politica.
Di solito insegno queste cose nella forma di una disputa tra John Rawls e Robert Nozick (nota per i veri cultori della filosofia: so che sto esagerando drasticamente con la semplificazione). Rawls scrisse un libro famoso dal titolo “Una teoria della giustizia” nel quale sosteneva un esperimento di pensiero: immaginate che vi venga chiesta una forma di società nella quale vivere, prima che conosciate il ruolo che finirete per avere in quella società. Potreste ereditare una enorme fortuna, ma potreste essere disperatamente poveri. Che genere di società scegliereste?
Rawls, fondamentalmente, sosteneva che dovreste essere a favore di un grande Stato assistenziale, con una tassazione fortemente progressiva e una forte rete di sicurezza sociale. E la maggioranza dei liberali progressisti sono più o meno rawlsiani – lo sono meno nel senso che la loro percezione della giustizia sociale scompare, o almeno viene fortemente attenuata, nei casi limite: un rawlsiano integrale sosterrebbe certamente un aiuto all’estero massiccio.
Ma lasciamo da parte questo aspetto. Quale è la posizione conservatrice? Di solito io mi appello al libro di Nozick “Anarchia, Stato e Utopia”, che si concentra sul concetto di libertà di scelta. Nella concezione del mondo di Nozick le persone dovrebbero avere il diritto di agire come preferiscono, finché questo non reca danni agli altri, e questo principio di libertà dovrebbe prevalere anche se si potrebbe preferire che alcune persone abbiano di più ed altre di meno.
Nozick riconosceva che avrebbero dovuto esserci alcuni limiti al libertarianesimo [2]: le persone non possono semplicemente rifiutarsi di pagare le tasse che sostengono la difesa nazionale, né la libertà di scelta può comprenderead esempio, di riversare rifiuti tossici in un fiume. Ma il punto di vista di Nozick è a favore di un governo il più limitato possibile, certamente molto più ristretto dei grandi Stati assistenziali che attualmente operano in tutti i paesi avanzati.
E io non posso dire che il punto di vista di Nozick sia sbagliato – come nessuno può dire che sia giusto. Dipende tutto dai propri valori.
Ma il punto è lì: il mio consueto sforzo di offrire il massimo di comprensione alla posizione conservatrice va in pezzi quando si cerca di di dare un senso alla risposta delle destra statunitense al Covid 19. Senza dubbio le persone hanno usato le parole consuete – sentiamo un gran discorrere di libertà. Ma le loro azioni sono talmente lontane da ogni difendibile concetto di libertarianesimo che portano l’ipocrisia ad un livello interamente nuovo.
Intendo dire, supponiamo che si affermi che le persone dovrebbero essere libere di fare le proprie scelte finchè non vengono danneggiati gli altri. Come questo si applica al rifiuto di indossare una mascherina o di venire vaccinati? In entrambi i casi le azioni assunte nel nome della libertà vanno molto a spese degli altri; in effetti, il senso principale dell’indossare le mascherine è sempre stato proteggere le altre persone, non se stessi. E mentre la salvaguardia personale dovrebbe essere una buona ragione sufficiente per essere vaccinati, rifutare le iniezioni per qualsiasi ragione corrisponde anche a mettere a rischio la vita delle altre persone, consentendo alla pandemia di continuare.
È anche sorprendente osservare come i conservatori abbiano fatto una inversione completa a 180 gradi sui diritti dei proprietari di impresa. Abbiamo visto ripetuti processi nei tribunali nei quali i conservatori ribadivano che i datori di lavoro avevano il diritto di negare sussidi agli impiegati basandosi sulle convinzioni religiose dei proprietari, che i i venditori potevano rifiutare di fornire servizi alle coppie gay, e altro ancora. La dottrina sembrava essere, quello che fai con la tua impresa, sono affari tuoi.
Ma nella pandemia all’improvviso abbiamo avuto politici conservatori che cercavano di proibire ai negozi di richiedere che i loro clienti indossassero le mascherine, che cercavano di proibire alle navi da crociera che i passeggeri fossero vaccinati, e così via. Tutta quella retorica sulla libertà d’un tratto non si applicava quando si arrivava alla protezione della salute pubblica.
Chiariamolo, non sono ingenuo: da molto tempo sostengo che non ci sono veri libertariani nella politica americana, che il linguaggio della libertà è ampiamente utilizzato per difendere i privilegi. Capisco anche che la campagna contro la vaccinazione è in gran parte guidata da calcoli cinici: ci sono politici e personaggi dei media che considerano più importante che il Presidente Biden fallisca, piuttosto che restino in vita i loro sostenitori/ascoltatori.
Ma con tutto il mio cinismo, non pensavo che esso potesse diventare così crudo.
Adesso accade che il calcolo politico cinico pare si ritorca contro di loro – la crescita della variante Delta negli Stati con bassa vaccinazione è diventata troppo evidente da ignorare – e stiamo assistendo ad una corsa disperata da parte di vari politici e personaggi dei media a collocarsi dalla parte giusta della disputa. E la mia congettura è che nel giro di pochi mesi avremo di fatto un obbligo di vaccinazione disposto non dalla legge, ma dai datori di lavoro terrorizzati dall’arrivo di focolai di Covid.
Ma tutto questo è stato abbastanza istruttivo. Continuerò a insegnare la logica dell’opposizione libertariana allo stato assistenziale. Ma non fingerò che essa rappresenti una quache significativa forza politica.
[1] “Wonkery” non è un termine, per quanto ne so, che si trova facilmente nei dizionari. Deriva da “wonk”, raro anch’esso ma che di solito si suggerisce di tradurre con qualcosa come “secchione”, che per noi è uno studioso meticoloso e un po’ pedante. Vari post più tecnici di Krugman spesso recano l’avvertimento “wonking out”, decisamente intraducibile, che è come dire “esercizio di pedanteria”. Ma il termine probabilmente non ha in americano tutto il senso negativo che ha “secchione/pedante” in italiano; è più un via di mezzo tra “esperto” e “supponente”.
[2] “Libertariano” è un termine di solito utilizzato per definire la ideologia di una sorta di destra ultraliberistica, antistatalistica e in un certo senso ‘libertaria’, che è abbastanza caratteristica degli Stati Uniti. Come ho spiegato altre volte nelle note, non sarebbe appropriato tradurre il termine “libertarianesimo” con concetti solo apparentemente prossimi dell cultura europea (ad esempio, radicalismo, o ‘liberalismo’, né tantomeno anarchismo). Il ‘libertarianesimo’ è il regno della ‘libertà’, ma particolarmente nel senso della libertà Né mi risulta che questa ideologia sia sostenuta dal pensiero di autorevoli filosofi; essa in genere rammentata ancora oggi per le concezioni di Ayn Rand, singolare scrittrice del novecento, scrisse il suo principale romanzo (“La rivolta di Atlante”) verso la metà del secolo passato.
Ma Robert Nozick è stato (è morto nel 2002) probabilmente l’eccezione: professore ad Harvard, egli ha effettivamente ‘veicolato’ la altrimenti un po’ primordiale teoria libertariana negli ambienti accademici.
Quindi, nel suo caso “libertarianism” va in effetti tradotto alla lettera, ovvero in riferimento al movimento libertariano.
E questa è una foto di Nozick:
luglio 25, 2021
July 23, 2021
By Paul Krugman
Like many people, I put on some pounds during the pandemic. Not catastrophic — I kept working out, and I think my cardio fitness has held up. But I was doing a lot less walking than normal, and also, in retrospect, engaged in too much comfort eating.
So now I’m doing what has worked for me in the past: going hungry, with restricted calories, two or three days a week. This is not proselytizing — the best diet is the one you can actually keep to, and I just happen to have a personality more suited to brief self-inflicted spasms of suffering than to maintaining sustained self-discipline.
But why does intermittent fasting work, when it does? You might think that people would just splurge on non-fasting days, making up for the lost calories. Apparently, however, they don’t — there’s only so much you can consume before your stomach hurts, so people eat a bit more than normal after a fast day, but not enough to prevent weight loss.
Why am I providing you with what surely seems like Too Much Information? Because it is, I believe, relevant to how we should think about the economy over the next year or so.
Back in March, when Congress passed the $1.9 trillion American Rescue Plan, some economists — most prominently and vehemently Larry Summers, but he wasn’t alone — began warning that the plan would lead to dangerous inflation.
You might think that the spike in consumer prices over the past few months has vindicated these warnings, but actually what we’ve been seeing so far isn’t at all the story Summers and others were telling. Recent inflation has been all about spot shortages as the economy tries to recover from pandemic disruptions — surging prices of used cars, all by themselves, account for a remarkably large fraction of the past few months’ price rises.
This kind of inflation will probably be transitory. Lumber prices, which some view as a sign of things to come, have fallen. Wholesale used car prices appear to have leveled off. There are some indications that the shortage of computer chips is easing.
No, the story from the inflation worriers was about the risk of a much broader form of inflation. Consumers, they pointed out, were already sitting on a huge stash of savings — about $2.6 trillion, according to Moody’s — that had been built up during the pandemic, when they couldn’t spend because everything was locked down. In fact, savings rates during the pandemic hit levels we hadn’t seen since World War II, when spending was restricted by rationing:
Spend we couldn’t. Credit…FRED
And then the federal government handed out a lot of money — those $1,400 stimulus checks, enhanced unemployment benefits, child care allowances. Add that to those excess savings, and we’ve got something like $4.5 trillion (insert Dr. Evil voice) in cash floating around, which is a lot even in a $22 trillion economy.
The argument of our latter-day inflationistas is that all of this portends a huge surge of pent-up consumer spending, which will overheat the economy and result in broad-based inflation that will be costly to bring back under control.
Now, one response would be to invoke Milton Friedman’s famous permanent income hypothesis. Way back in 1957, Friedman argued that consumer spending depends not on current income, but on the income people expect to have over the longer term. An implicit side effect is that consumer spending should also depend on wealth, but not too strongly, because people will try to spread wealth-based spending over a long period too. A Friedman-type analysis would say that both the savings accumulated during the pandemic and the stimulus checks will have only modest effects on consumer spending, because households will spend down their windfall over a number of years, not all at once.
OK, while Friedman’s hypothesis has proved very useful in understanding consumption, it has also been proved wrong in detail. Consumers don’t base spending decisions entirely on current income, but they react a lot more to short-term income than permanent income theory says they should. That’s partly because many people — even some among the wealthy — are cash-constrained, wanting to spend more than their income but unable or unwilling to borrow. It may also be because people don’t make lifetime budget plans the way economists sometimes assume; they engage in “mental accounting” that may lead them to spend more of a windfall than they would if they were engaged in hyper-rational planning.
So maybe people will spend a lot of their 2020 savings and their 2021 stimulus checks after all, justifying the inflationistas’ fears.
Or maybe not. Because consumption during the pandemic was … odd.
The last time we saw saving on this scale was, as I said, during World War II. And here’s the thing: While there was some wartime rationing of many goods, for the most part people were unable to buy consumer durables, like cars and washing machines. This set the stage for a huge surge in spending as people were able to fill the backlog of durable goods purchases they had been forced to postpone under rationing:
Pandemic “rationing” was different.Credit…FRED
This time, however, durable goods purchases held up fine; if anything, after a brief drop during the first weeks of lockdown, they increased:
People kept buying stuff.Credit…FRED
So this was an odd consumer slump, in which people were blocked from consuming services like restaurant meals and hotel stays, but remained able to buy stuff — and may in fact have bought more stuff than usual to compensate for the service constraints: Pelotons instead of trips to the gym, kitchen remodelings instead of going out to eat.
This creates a situation very different from the one that prevailed after World War II. Then, people rushed to buy the cars and home appliances they had been prevented from buying under rationing. That is, there really was a lot of pent-up demand. But you can’t suddenly eat all the restaurant meals you didn’t get to eat during lockdown; people will probably spend a few months dining out more than usual, and they may engage in some revenge vacation and travel. But there’s a limit to how much of that you can do — just as there’s a limit to how much you can stuff yourself after a fast day. See, I told you my TMI would be relevant!
So my guess is that there’s less to those huge excess savings numbers and big stimulus numbers than meets the eye. Overheating is still possible, and the Fed should keep its eye on that possibility. But the big numbers aren’t as scary as they seem.
Cosa hanno in comune i miei digiuni intermittenti e i rischi di inflazione,
di Paul Krugman
Come molte persone, durante la pandemia ho messo su qualche chilo. Non in modo catastrofico – ho continuato a lavorare e penso che la mia forma cardio abbia resistito. Ma facevo meno camminate del normale e, giudicando a cose fatte, mi son dato troppo da fare in mangiate di consolazione.
Dunque, adesso sto facendo quello che in passato aveva funzionato: due o tre giorni alla settimana, con poche calorie, patisco la fame. Questo non è proselitismo- la dieta migliore quella è quella alla quale effettivamente ci si attiene, e si dà il caso che io abbia una personalità più adatta a brevi auto inflitti spasmi di sofferenza che non a mantenere una disciplina prolungata.
Ma perché il digiuno intermittente funziona, quando funziona? Potreste pensare che nei giorni di non digiuno le persone si lascino andare, recuperando le calorie perse. A quanto sembra, tuttavia, non lo fanno – c’è un limite a quello che si può consumare prima che faccia male allo stomaco, cosicché le persone dopo un giorno di digiuno mangiano un po’ più del normale, ma non tanto da impedire una perdita di peso.
Perché mi sto dilungando in quello che certamente vi sembrerà un eccesso di confidenze? Perché, credo, è rilevante per come dovremmo ragionare, nei prossimi anni o giù di lì, sull’economia.
Nel marzo passato, quando il Congresso approvò il Piano Americano di Salvataggio da 1.900 miliardi di dollari, alcuni economisti – il più eminente e il più veemente fu Larry Summers, ma non fu il solo – cominciarono ad ammonire che il piano avrebbe portato ad una pericolosa inflazione.
Potreste pensare che il picco nei prezzi al consumo dei mesi passati abbia confermato questi ammonimenti, ma in effetti quello che abbiamo visto non è stata sinora la storia che Summers ed altri stavano raccontando. L’inflazione recente ha riguardato interamente carenze puntuali frequenti quando l’economia cerca di riprendersi da disordini pandemici – la crescita dei prezzi delle auto usate, da sola, pesa per una frazione considerevolmente ampia delle crescita dei prezzi dei pochi mesi passati.
Questo genere di inflazione sarà probabilmente transitoria. I prezzi del legname, che alcuni considerano un segno di ciò che sta arrivando, sono caduti. I prezzi all’ingrosso delle auto usate sembrano livellati. Ci sono alcune indicazioni per le quali la carenza di micro conduttori si sta attenuando.
No, il racconto di coloro che erano in ansia per l’inflazione riguardava il rischio di una forma di inflazione molto più generale. Essi mettevano in rilievo che i consumatori erano già seduti su una enorme scorta di risparmi – secondo Moody’s, circa 2.600 miliardi di dollari – che avevano represso durante la pandemia, quando non potevamo spendere perché tutto era bloccato. Di fatto, i tassi di risparmio durante la pandemia hanno raggiunto livelli che non si erano visti dalla Seconda Guerra Mondiale, quando la spesa era ristretta dal razionamento:
Spendere non potevamo. Fonte: FRED
E in seguito il Governo federale ha distribuito un sacco di soldi – quegli assegni di sostegno di 1.400 dollari, i sussidi di disoccupazione aumentati, le agevolazioni per gli asili nido. Si aggiungano a ciò i risparmi eccedenti, e abbiamo avuto qualcosa come 5.400 miliardi di dollari (qua entra la voce del dr. Male [1]) di fluttuazione di contante in circolazione, che è molto, anche in una economia da 22 mila miliardi di dollari.
L’argomento dei nostri inflazionisti dell’ultim’ora è che tutto questo preannuncia una enorme crescita della spesa per consumi repressa, che sovra riscalderà l’economia e avrà il risultato di una inflazione con una ampia base che sarà costoso riportare sotto controllo.
Ora, una risposta sarebbe invocare la famosa ipotesi di Milton Friedman sul reddito permanente. Nel passato 1957, Friedman sostenne che le spese di consumo non dipendono dal reddito del momento, ma dal reddito che le persone si aspettano di avere nel più lungo termine. Un effetto collaterale implicito è che la spesa di consumo dovrebbe dipendere anche dalla ricchezza, ma non in modo esagerato, perché le persone cercheranno di distribuire la spesa basata sulla ricchezza anche nel lungo periodo. Una analisi del genere di quella di Friedman direbbe che sia i risparmi accumulati durante la pandemia che gli assegni di sostegno avranno effetti solo modesti sulle spese di consumo, perché le famiglie spenderanno le loro inaspettate fortune in un certo numero di anni, non tutte assieme.
È vero, mentre l’ipotesi di Friedman si è mostrata molto utile nella comprensione dei consumi, si è anche dimostrata sbagliata nel dettaglio. I consumatori non basano le decisioni di spesa sul reddito del momento, ma reagiscono molto di più al reddito a breve termine di quanto direbbe la teoria del reddito permanente. Ciò in parte dipende dal fatto che molte persone – compresi alcuni tra i ricchi – sono limitati dal contante, vogliono spendere di più del loro reddito ma sono impossibilitati o indisponibili a indebitarsi. Può anche dipendere dal fatto che le persone non fanno i programmi di bilancio nel modo che talvolta suppongono gli economisti; operano sulla base di una “contabilità a mente” che può portarle a spendere di più di una inaspettata fortuna di quello che farebbero se si basassero su una programmazione iperrazionale.
Dunque, in fin dei conti le persone spenderanno buona parte dei loro risparmi del 2020 e delle misure di sostegno del 2021, giustificando i timori degli inflazionisti.
O forse no. Perché i consumi durante la pandemia sono stati … strani.
L’ultima volta che vedemmo risparmi di queste dimensioni fu, come ho detto, durante la Seconda Guerra Mondiale. E lì è il punto: finché durante la guerra ci fu il razionamento di molti prodotti, come le automobili e le lavatrici, la maggior parte delle persone erano impossibilitate ad acquistare beni durevoli. Questa costituì la premessa per un grande crescita della spesa quando le persone furono nelle condizioni di saziarsi degli arretrati degli acquisti di beni durevoli che erano state costrette a dilazionare con il razionamento:
Il “razionamento” pandemico è stata una cosa diversa. Fonte: FRED [2]
Questa volta, tuttavia, gli acquisti di beni durevoli hanno resistito bene; semmai, dopo una breve caduta nelle prime settimane del lockdown, sono aumentati:
La gente ha continuato ad acquistare roba. Fonte: FRED [3]
Dunque questa è stata una strana caduta dei consumi, nella quale le persone erano impedite nel consumo dei servizi come i pranzi ai ristoranti e i soggiorni negli alberghi, ma restavano capaci di acquistare oggetti – e forse di fatto ne hanno acquistati più del solito per compensare le limitazioni nei servizi: i Peleton [4] invece dei viaggi in palestra, la ristrutturazione delle cucine invece di andare a pranzo fuori.
Questo determina una situazione molto diversa da quella che prevaleva durante la Seconda Guerra Mondiale. Allora, le persone si precipitarono ad acquistare le macchine e gli elettrodomestici che erano impediti a comprare sotto il razionamento. Ovvero, c’era realmente una gran quantità di domanda repressa. Ma non si può all’improvviso consumare tutti i pasti al ristorante che non si sono potuti consumare durante il lockdown; le persone probabilmente spenderanno alcuni mesi più del solito nel mangiare fuori, e forse si prenderanno qualche rivincita in vacanze e viaggi. Ma c’è un limite a quanto di può fare – proprio come c’è un limiti a quanto si può abbuffarsi dopo un giorno di digiuno. Vedete, l’avevo detto che le mie eccessive confidenze sarebbero state importanti!
Dunque, la mia ipotesi è che ci sia meno di quello che sembra in quegli enormi dati sugli eccessi di risparmi e nei numeri sulle grandi misure di sostegno. Il surriscaldamento è ancora possibile, e la Fed dovrebbe continuare a tenere quella possibilità sotto osservazione. Ma i dati non sono così tremendi come sembrano.
[1] Il dr. Male è il seguente personaggio di un film di fantascienza, con una espressione inorridita:
[2] La Tabella mostra l’andamento dei consumi personali di beni durevoli – in rapporto al PIL – in un periodo che va dal 1930 al 2020. Come si vede il crollo negli anni della guerra fu molto più grande che non quello recente (anche se non mi pare questo spieghi il motivo per il quale il calo recente sia tutto nel corso del primo decennio del 2000).
[3] L’andamento di questa seconda tabella è diverso da quella sopra. Probabilmente perché questo misura la spesa assoluta sui beni durevoli, mentre quello misurava la spesa in rapporto al PIL.
[4] Biciclette per fare ginnastica all’interno delle abitazioni.
luglio 18, 2021
July 16, 2021
By Paul Krugman
This time it really is Infrastructure Week. Democrats have agreed on the broad outline of a big public investment program, to be passed through reconciliation on top of a much smaller bipartisan “hard” infrastructure program. As I noted in my column Friday, big spending has gotten its groove back.
But there has been another major policy development: It’s Infrastructure Week, but it’s also Carbon Tariff Week. The Democratic proposal says in general terms, although without specifics, that we should levy tariffs on imports from countries that don’t take sufficient steps to limit greenhouse gas emissions. On the same day, the European Union laid out, in much greater detail, plans to impose a carbon border adjustment mechanism — which I’m afraid everyone will call a carbon tariff, even though CBAM is a great acronym. (See? Bam!)
So how should we think about carbon tariffs? From past experience, I know that we’ll hear a number of voices denouncing them as a new form of protectionism and/or asserting that they’re illegal under international trade law. These voices should be ignored.
First, let’s talk about priorities, people. Yes, protectionism has costs, but these costs are often exaggerated, and they’re trivial compared with the risks of runaway climate change. I mean, the Pacific Northwest — the Pacific Northwest! — has been baking under triple-digit temperatures, and we’re going to worry about the interpretation of Article III of the General Agreement on Tariffs and Trade?
And some form of international sanctions against countries that don’t take steps to limit emissions is essential if we’re going to do anything about an existential environmental threat. Developing countries, especially but not only China, are already responsible for most carbon dioxide emissions; even a big effort to decarbonize on the part of the United States and Europe will accomplish little unless it’s matched by efforts in other nations. Furthermore, “industry will just move to China” is a favorite argument of domestic opponents of climate action, so the politics of such action depend crucially on having an answer to that claim.
Given these considerations, it seems almost trivial to point out that carbon tariffs aren’t actually protectionist and should be considered legal under international trade law. But I do think those are points worth making, if only because this happens to be a topic I’ve thought about and worked on for many years.
To understand the law and economics of carbon tariffs, it’s helpful to consider the economics and legality of value-added taxes (VATs), a major revenue source in many countries (although not the United States). Trust me, it’s a highly relevant comparison.
A VAT is, on paper, a tax paid by producers: If a country has a 15 percent VAT, a company that produces, say, furniture must pay a tax equal to 15 percent of its sales — minus the taxes it can show were paid by the companies selling it wood, fabric and so on. The advantage of such a system is that the private sector does a lot of the work of enforcement, since each company has an incentive to make sure that its suppliers pay their fair share.
But who pays the tax in the end? Normally, all those taxes on producers end up being passed on in higher prices, so that a 15 percent VAT is, in effect, a 15 percent national sales tax.
Now, VATs are always accompanied by “border adjustments”: Importers must pay the tax on the goods they import, while exporters get a rebate equal to the tax paid on what they export. This makes perfect sense when you think of a VAT as a sales tax. You wouldn’t want a situation where shoppers at Walmart pay sales tax only on American-made goods, while Chinese products are exempt. And you also wouldn’t want to charge sales tax on U.S. goods being sold to other countries.
This point is widely misunderstood. U.S. businesses, in particular, often look at the border adjustments imposed by countries with VATs and see them as tariffs and export subsidies that give their competitors an unfair advantage. They are, however, wrong on the economics. And the World Trade Organization considers VAT-related border adjustments legal, because they are necessary to carry out a domestic policy that, in principle at least, doesn’t distort international trade. That is, border adjustments don’t tilt the playing field; they actually level it.
So what does all this have to do with carbon tariffs? You can think of national policies designed to limit greenhouse gas emissions as ways to induce a country’s residents to take into account the emissions resulting from the production of the goods they consume. This is obviously true if a nation imposes a carbon tax, or a cap-and-trade system, in which businesses must purchase licenses to pollute. It’s also true, although in a harder-to-measure sense, when countries impose regulations like mileage and clean-energy standards.
The point is that many climate-change policies can be seen as a form of tax on domestic consumers. And as with a VAT, both the economics and, I believe, the law (I’m not a trade lawyer, although I think I understand this issue) say that border adjustments, in this case a carbon tariff, are appropriate parts of a climate strategy. That is, if a country lacks an adequate climate policy, the price of goods imported from that country should reflect an estimate of the greenhouse gases emitted during their production.
What might make carbon tariffs slightly trickier than VAT border adjustments is the likelihood that an important part of climate policy will involve regulations rather than a straight carbon tax. In that case, while a carbon tariff remains clearly justifiable as a way to level the playing field for domestic and foreign producers, setting the appropriate level of the tariff won’t be easy — it won’t be as simple as charging the same VAT rate on imports as that imposed on domestic products. A fair bit of estimation and imputation will be involved, and there will no doubt be arguments about the numbers.
But while getting border adjustments right will be tricky, this trickiness isn’t a reason to do nothing. Carbon border adjustments are clearly the right thing to do, and better to do them imperfectly than not at all.
So two cheers for carbon tariffs.
Wait — why only two cheers? Because carbon tariffs affect only goods that are exported and hence are only a partial solution to the problem of countries that don’t do their part in reducing greenhouse gas emissions.
Consider the case of China, which says that it plans to reduce emissions but is still building a large number of coal-fired power plants. If advanced countries impose carbon tariffs, this will give China an incentive to reduce the carbon dioxide emitted in producing its steel exports. But it won’t impose any penalty for carbon emissions from the power plants that supply China’s cities with electricity. And those emissions, which aren’t related to international trade, are almost surely a bigger threat to the environment than emissions associated with exports.
To fully address the problem of international cooperation, then, carbon tariffs that level the playing field wouldn’t be enough. We’d have to go beyond that to the threat of sanctions against nations behaving irresponsibly.
And that would, I’m afraid, be illegal under current trade law, because it would mean intervening in policies that have traditionally been considered purely domestic. Now, given the threat of climate change, our response should be to revise or ignore trade law. But that would be a big step and won’t happen right away.
For now, carbon tariffs are what we can reasonably expect to happen. And they should happen as soon as possible.
Due evviva per le tariffe sul carbonio,
di Paul Krugman
Questa volta è davvero la ‘settimana delle infrastrutture’ [1]. I democratici hanno concordato sull’indirizzo generale di un grande programma di investimenti pubblici, da approvarsi con lo strumento della ‘riconciliazione’ [2] in aggiunta ad un più piccolo programma di infrastrutture “materiali” condiviso da entrambi i partiti. Come ho notato nel mio articolo di venerdì, la grande spesa è tornata in voga.
Ma c’è stato un altro importante sviluppo politico: questa è la settimana delle infrastrutture, ma è anche la settimana della Tariffa sul Carbonio. La proposta democratica afferma in termini generali, sebbene senza dettagli, che dovremmo imporre tariffe sulle importazioni da paesi che non fanno sufficienti progressi per limitare le emissioni dei gas serra. Nello stesso giorno l’Unione Europea ha esposto, con molto maggiore dettaglio, programmi per imporre un meccanismo di correzione al confine sul carbonio – che purtroppo tutti chiameranno una tariffa sul carbonio, anche se CBAM è un grande acronimo (Vedete? È una botta! [3]).
Dunque, cosa dovremmo pensare delle tariffe sul carbonio? Dalla esperienza del passato, so che sentiremo un certo numero di voci che le denunceranno come una nuova forma di protezionismo e/o sosterranno che sono illegali alla luce della legge internazionale del commercio. Voci che dovrebbero essere ignorate.
Gente, parliamo prima delle priorità. È vero, il protezionismo ha dei costi, ma essi sono spesso esagerati, e sono banali al confronto con i rischi di un cambiamento climatico fuori controllo. Voglio dire, il Nordovest del Pacifico – il Nordovest del Pacifico! – sta cuocendo sotto temperature a tre cifre [4], e noi dobbiamo preoccuparci della interpretazione dell’Articolo III dell’Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio?
E una qualche forma di sanzioni internazionali contro i paesi che non fanno passi per limitare le emissioni è essenziale se vogliamo fare qualcosa su una minaccia all’ambiente esistenziale. I paesi in via di sviluppo, in particolare ma non soltanto la Cina, sono già responsabili per le maggiori emissioni di anidride carbonica; persino un grande sforzo per decarbonizzare da parte degli Stati Uniti e dell’Europa realizzerà poco se non è accompagnato da sforzi di altre nazioni. Inoltre “l’industria si sposterà in Cina” è un argomento favorito degli avversari interni della iniziativa sul clima, cosicché la politica su tale iniziativa dipende fondamentalmente dall’avere una risposta su tale argomento.
Date queste considerazioni, sembra quasi banale mettere in evidenza che le tariffe sul carbonio non sono effettivamente protezionistiche e dovrebbero essere considerate legali per la legge internazionale del commercio. Ma penso che quelli siano aspetti meritevoli di essere avanzati, se non altro perché questo sembra essere un tema sul quale abbiamo riflettuto e lavorato per molti anni.
Per capire la legislazione e l’economia delle tariffe sul carbonio, è utile considerare l’economia e la legalità delle imposte sul valore aggiunto (IVA), una importante fonte di entrate in molti paesi (sebbene non negli Stati Uniti). Potete credere che questo è un confronto molto significativo.
Una IVA è, sulla carta, una tassa pagata dai produttori: se un paese ha un 15 per cento di IVA, una società che produce, ad esempio, mobili deve pagare una tassa pari al 15 per cento delle sue vendite – al netto delle tasse che essa può dimostrare sono state pagate dalle società che le vendono legname, tessuti ed altro ancora. Il vantaggio di un tale sistema è che il settore privato fa molto del lavoro per la messa in atto della legge, dal momento che ogni società ha un incentivo a garantire che i suoi fornitori paghino la loro giusta quota.
Ma alla fine chi paga la tassa? Normalmente, tutte quelle tasse sui produttori finiscono con l’essere trasferite su prezzi più alti, cosicché un’IVA del 15 per cento, in sostanza, è una tassa del 15 per cento sulle vendite nazionali.
Ora, l’IVA è sempre accompagnata da “correzioni alla frontiera”: gli importatori debbono pagare la tassa sui beni che importano, mentre gli esportatori ottengono una riduzione pari alle tasse pagate su quello che esportano. Questo ha perfettamente senso quando si pensa all’IVA come ad una tassa sulle vendite. Non si vorrebbe una situazione nella quale i clienti di Walmart paghino tasse sulle vendite soltanto sui prodotti fatti in America, mentre i prodotti cinesi sono esenti. E non si potrebbe voler caricare tasse sulle vendite sui prodotti statunitensi che vengono venduti a altri paesi.
Questo aspetto è generalmente frainteso. Le imprese americane, in particolare, spesso guardano alle correzioni alla frontiera imposte da paesi con l’IVA e le considerano come tariffe e sussidi all’esportazione che danno ai loro competitori un ingiusto vantaggio. Tuttavia, dal punto di vista economico, esse sbagliano. E l’Organizzazione Mondiale del Commercio considera le correzioni alla frontiera connesse con l’IVA legali, perché esse sono necessarie per effettuare una politica interna che, almeno in linea di principio, non distorca il commercio internazionale. Ovvero, le correzioni alla frontiera non alterano l’equilibrio del campo di gioco; in effetti lo livellano.
Dunque, cosa tutto questo ha a che fare con le tariffe sul carbonio? Si può pensare delle politiche nazionali concepite per limitare le emissioni dei gas serra, come modi per indurre i residenti di un paese a mettere nel conto le emissioni che derivano dalla produzione dei prodotti che consumano. Questo è ovviamente vero nel caso di una nazione che impone una tassa sul carbonio, o un sistema cap-and-trade [5], nel quale le imprese devono acquistare licenze per inquinare. È anche vero, sebbene in un senso più difficile da misurare, quando i paesi impongono regolamentazioni come gli standard sui consumi di carburante e sulle energie pulite.
Il punto è che molte politiche contro il cambiamento climatico possono essere considerate come una forma di tassazione dei consumatori nazionali. E come per l’IVA, sia l’economia che, io credo, la legge (non sono un esperto legale di commercio, ma penso di comprendere la materia) affermano che le correzioni alla frontiera, in questo caso una tariffa sul carbonio, siano componenti appropriate di una strategia sul clima. Ovvero, se un paese manca di una adeguata politica sul clima, il prezzo dei beni importati da quel paese dovrebbe riflettere una stima dei gas serra emessi durante la loro produzione.
Quello che renderebbe la tariffe sul carbonio leggermente più difficoltose delle correzioni al confine dell’IVA è la probabilità che una parte importante della politica climatica riguarderà i regolamenti, anziché una diretta tassa sul carbonio. In quel caso, mentre un tariffa sul carbonio rimane chiaramente giustificabile come un modo per livellare il campo di gioco per i produttori nazionali e stranieri, fissare il livello appropriato della tariffa non sarà facile – non sarà semplice come caricare lo stesso tasso di IVA sulle importazioni, pari a quello imposto sui prodotti nazionali. Sarà necessaria una certa misura di stima e di dimostrazione, e senza dubbio ci saranno contese sui dati.
Ma mentre avere giuste correzioni alla frontiera sarà difficile, questa difficoltà non è una ragione per non fare niente. Gli aggiustamenti sul carbonio alla frontiera sono la cosa giusta da fare, e meglio farli in modo imperfetto che non farli affatto.
Dunque, due evviva per le tariffe sul carbonio.
Ma un momento – perché solo due evviva? Perché le tariffe sul carbonio influenzano solo i prodotti che vengono esportati e di conseguenza sono soltanto una soluzione parziale al problema dei paesi che non fanno la loro parte nella riduzione delle emissioni dei gas serra.
Si consideri la Cina, che dice di programmare la riduzione delle emissioni ma sta ancora costruendo un gran numero di centrali elettriche alimentato a carbone. Se i paesi avanzati impongono tariffe sul carbonio, questo darà alla Cina un incentivo per ridurre l’anidride carbonica emessa producendo le sue esportazioni di acciaio. Ma non costituirà alcuna penalizzazione per le emissioni di carbonio dalle centrali elettriche che riforniscono le città cinesi di elettricità. E quelle emissioni, che non sono connesse con il commercio internazionale, sono quasi certamente una minaccia maggiore per l’ambiente delle emissioni dipendenti dalle esportazioni.
Per affrontare pienamente il problema della cooperazione internazionale, allora, le tariffe sul carbonio che livellano il campo di gioco non sarebbero sufficienti. Dovremmo andare oltre ciò, sino alla minaccia di sanzioni contro le nazioni che si comportano irresponsabilmente.
E quello sarebbe, temo, illegale per le attuali leggi commerciali, perché comporterebbe l’intervento in politiche che sono state tradizionalmente considerate puramente nazionali. Ora, considerata la minaccia del cambiamento climatico, la nostra risposta dovrebbe essere quella di rivedere o di ignorare la legge sul commercio. Ma ciò sarebbe un passo molto impegnativo e non accadrà in breve tempo [6].
Per adesso, le tariffe sul carbonio sono quanto possiamo ragionevolmente aspettarci che accada. E dovrebbe accadere prima possibile.
[1] La “settimana delle infrastrutture” venne più volta annunciata nel passato da Trump, senza che mai si materializzasse un programma repubblicano al proposito.
[2] Ovvero, con una votazione, in ultima istanza, di provvedimenti finanziari a maggioranza relativa, in relazione a temi che, nell’esame in prima istanza di una Camera, richiedono la maggioranza qualificata. In pratica, lo strumento denominato della “riconciliazione” è un modo per superare l’ostruzionismo delle minoranze. Uno strumento che in passato i democratici non hanno utilizzato per fair play istituzionale; e che invece Trump utilizzò senza tanti scrupoli per i suoi provvedimenti di sgravi fiscali sulle società e sui ricchi.
[3] Di questi tempi Krugman di frequente ironizza sull’abuso di acronimi nel linguaggio politico statunitense …
[4] Suppongo che il riferimento sia alle coste nord occidentali del Pacifico, California e Canada. Quanto al riferimento alle temperature a tre cifre, naturalmente si spiega con una misurazione in gradi Fahrenheit, che effettivamente è stata superata sino a 120 gradi, pari a circa 49 gradi Celsius.
[5] Letteralmente, del “mettere un limite e consentire gli scambi” in materia di inquinamento ambientale – ovvero mettere un limite all’inquinamento (“cap”) e premiare chi sta sotto quel limite, anche permettendogli di ‘vendere’ (“trade”) il proprio comportamento virtuoso a chi resta provvisoriamente sopra i limiti, che dunque pagano obbligatoriamente un prezzo. L’acquisto di ‘punti’ dai più virtuosi – che detengono quei ‘punti’ per effetto delle loro tecnologie – essendo un modo provvisorio per i meno virtuosi per restare nella legalità.
[6] Se non sbaglio – mi permetto di aggiungere – ci sarebbe un altro problema piuttosto serio. Certamente, la Cina e le economie asiatiche sono gli ‘attuali’ maggiori emissori di anidride carbonica, semplicemente perché rappresentano la grande maggioranza della popolazione mondiale. Ma il cambiamento climatico è dato dall’accumulo storico di emissioni inquinanti, ed è dato anche dalla diversità dai livelli dei consumi, in particolare di elettricità, tra i vari paesi del mondo. Il potenziale inquinante emesso da quei paesi – o meglio, i suoi effetti sul clima – sono l’ultimo ‘arrivo’ in una storia secolare, che ha portato i paesi dell’Occidente a livelli di consumi procapite notevolmente superiori al resto del mondo. I ‘punti dolenti’ per un accordo internazionale – da quanto si capisce delle posizioni di vari paesi emergenti in materia di cooperazione contro il cambiamento del clima – dipendono dalla valutazione della storia di quell’accumulo, e dal fatto che quella storia è tuttora alla base di grandi persistenti diversità nei consumi individuali delle popolazioni.
Il recente post di Milanovic sui problemi generali di un approccio ai temi ambientali di un possibile “progressismo globale” allude evidentemente a tali nodi, quando prospetta la necessità di uno “scambio” tra riduzione dei cambiamenti climatici e diritti alla riduzione della povertà e delle diseguaglianze.
Inoltre, un testo qua tradotto che illumina la complessità della questione in termini globali è “La laboriosa aritmetica dell’iniziativa sul clima”, di Michael Spence (da Project Syndicate, 12 febbraio 2020).
luglio 10, 2021
July 9, 2021
By Paul Krugman
Happy days are here again. No, really. Gallup has been asking Americans since the beginning of 2008 whether they are “thriving.” The percentage answering yes hit a low point in the depths of the 2008 financial crisis and again during the worst of the Covid-19 pandemic. But it has soared in recent months, to 59.2 percent, its highest level ever:
Striving to thrive.Credit…Gallup
For what it’s worth, Gallup’s number deserves to be taken seriously. The question “Are you thriving?” is pretty close to the question “Overall, how satisfied are you with your life?,” which is widely used by eminent scholars like Angus Deaton and reported on a regular basis by international agencies. So the surging number of Americans who say that they’re thriving is meaningful, and it’s worth asking for an explanation.
What do we know about life satisfaction? At an individual level, it’s overwhelmingly about relationships and health (especially mental health). Income is a factor but a relatively minor one. Americans differ vastly from one another in how happy they are with their lives, but most of that variation reflects personal factors rather than money: There are miserable billionaires and cheerful families barely scraping by.
When we’re looking at either changes in national life satisfaction or differences among countries, however, the social aspects of happiness tend to average out, so income stands out more clearly. There is a strong correlation across countries between per capita income and life satisfaction, although with some interesting deviations:
Rich is better.Credit…Our World in Data
Notably, citizens of Nordic nations like Denmark seem more satisfied with their lives than you might expect given their incomes. The security of a strong social safety net may have a lot to do with this success story. They may also do better than we do at work-life balance:
All work and no play takes a toll.Credit…OECD
OK, I can’t resist mentioning a report on the evils of socialism from Donald Trump’s economic advisers, who insisted that life must be bad in the Nordics because it’s hard for workers to afford pickup trucks:
The pickup theory of value.Credit…Council of Economic Advisers
You might ask why Costa Rica appears to be so happy and Japan less happy than Mexico. The answer is that I don’t know enough to weigh in on those questions.
Anyway, the economy matters. But it’s probably not the main reason for surging life satisfaction in America right now. Why? Because we did an impressively good job — not perfect, by any means, but impressive all the same — of supporting families through the hardships of the pandemic slump. Government aid was, in fact, so generous that personal incomes on average actually rose in the pandemic:
We got by with a little help from our … government.Credit…FRED
So what does account for the happiness boom? My best guess is that over the course of the pandemic the social factors that hugely affect personal life satisfaction, but on average usually don’t change much over time, went through huge swings. For many months Americans were cooped up in their homes, unable to hang out with friends, in some cases unable to visit even close family. Then came the vaccines, and for many of us, life took a big step back toward normal.
People being what they are, the joy of normality will probably fade over time as we get reaccustomed to our old routines. And there will surely be a huge plunge in happiness if the refusal of many Americans to get vaccinated leads to a Covid resurgence.
But for now, we’re feeling pretty good.
I vaccini con lo RNA-messaggero e il significato della vita,
di Paul Krugman
Giorni felici, qua in America. Per davvero. Dagli inizi del 2008, Gallup sta chiedendo agli americani se si sentono “prosperi”. La percentuale delle risposte positive toccò il punto basso nel pieno della crisi finanziaria del 2008 e nuovamente durante il periodo peggiore della pandemia del Covid-19. Ma nei mesi recenti essa è schizzata in alto, sino al 59,2 per cento, il suo più alto livello di sempre:
Sforzarsi in tutti i modi di prosperare. Fonte: Gallup [1]
Per quello che vale, il dato di Gallup merita di essere preso sul serio. La domanda “State prosperando?” è abbastanza vicina alla domanda “Nel complesso, quanto siete soddisfatti della vostra esistenza?”, che è ampiamente utilizzata da eminenti studiosi come Angus Deaton e resocontata su basi regolari da agenzie internazionali. Dunque, il numero crescente di americani che affermano di star prosperando è significativo e vale la pena di cercare una spiegazione.
Cosa sappiamo della soddisfazione per la vita? Al livello individuale, essa riguarda in modo schiacciante le relazioni e la salute (specialmente la salute mentale). Il reddito è un fattore, ma relativamente secondario. Gli americani differiscono grandemente l’uno dall’altro su quanta soddisfazione hanno nelle loro esistenze, ma la maggior parte di quelle variazioni dipende da fattori personali più che dal denaro: ci sono miliardari infelici e famiglie spensierate che appena tirano a campare.
Quando osserviamo, tuttavia, altri mutamenti nella soddisfazione per la vita a livello nazionale o le differenze tra i paesi, gli aspetti sociali dell’ottimismo tendono ad essere in media, in modo tale che il reddito emerge più chiaramente. Nei vari paesi c’è una forte correlazione tra il reddito pro capite e la soddisfazione per l’esistenza, sebbene con qualche interessante deviazione:
Ricchi è meglio, Fonte: ‘Il nostro mondo in dati’ [2]
In modo considerevole, i cittadini delle nazioni nordiche come la Danimarca sembrano più soddisfatti delle loro vite di quanto vi aspettereste dai loro redditi. Con questa buona prestazione, la sicurezza di una forte rete di sicurezza sociale può avere molto a che fare. Può darsi che essi realizzino anche un migliore equilibrio tra lavoro e vita:
Tutto lavoro e nessuno svago ha un prezzo. Fonte: OCSE [3]
E ammetto che non so resistere ad una citazione sui pericoli del socialismo dei consiglieri economici di Donald Trump, che insistevano che la vita doveva essere negativa nei paesi nordici, giacché per i loro lavoratori era difficile permettersi i pick-up:
La teoria del valore del pickup. Fonte: Comitato dei Consiglieri Economici. [4]
Potreste chiedervi perché il Costa Rica paia essere così soddisfatto e il Giappone meno felice del Messico. La risposta è che non sono abbastanza esperto per intervenire su tali questioni.
In ogni modo, l’economia è importante. Ma essa non è probabilmente la ragione principale per far crescere la soddisfazione per la vita in America in questo momento. Perché? Perché noi abbiamo fatto un impressionante buon lavoro – non perfetto, da ogni punto di vista, ma comunque impressionante – nel sostenere le famiglie nelle difficoltà della recessione pandemica. L’aiuto del Governo, di fatto, è stato così generoso che i redditi personali sono in media effettivamente cresciuti durante la pandemia:
Ce la siamo cavata con un piccolo aiuto da parte del … nostro Governo. Fonte: FRED
Dunque, cosa conta nel boom della soddisfazione? La mia migliore impressione è che nel corso della pandemia i fattori sociali che hanno largamente influenzato la personali soddisfazione per l’esistenza, ma che in media di solito non cambiano molto nel corso del tempo, hanno avuto grandi oscillazioni. Per molti mesi gli americani sono rimasti rinchiusi nelle loro abitazioni, impossibilitati a ritrovarsi con gli amici, in alcuni casi impossibilitati persino a visitare i parenti. Poi sono arrivati i vaccini e per molti di noi la vita ha fatto un gran passo verso la normalità.
Poiché le persone sono come sono, la gioia della normalità probabilmente svanirà col tempo, quando ci saremo riabituati alla nostra vecchia trafila. E ci sarà sicuramente un ampio crollo dell’ottimismo se il rifiuto di molti americani a vaccinarsi porterà ad una ripresa del Covid.
Ma per il momento, ci sentiamo abbastanza bene.
[1] Come si vede, i due momenti di maggiore pessimismo, o di minore ottimismo, furono nel 2008-09 – bancarotta di Lehman Brothers e punto più basso del Dow Jones – e, agli inizi del 2020, il punto massimo di disoccupazione provocata dalla pandemia. Con le riaperture dell’economia e il successo della vaccinazione di massa nel corso del 2021, invece, si tocca il livello più elevato di fiducia.
[2] Sull’asse verticale i livelli – da 0 a 10 – delle dichiarata soddisfazione per l’esistenza; su quello orizzontale il PIL procapite corretto per l’inflazione e per le differenze del potere di acquisto tra i paesi. L’anno di riferimento è il 2017. Da notare, oltre alla elevata soddisfazione nei paesi del Nord Europa, anche il relativo ‘pessimismo’ del Giappone, nonostante che abbia un PIL procapite doppio della Cina e del Messico.
[3] La tabella mostra il totale (in migliaia) di ore lavorate per lavoratore nei vari paesi. Tra Danimarca e Stati Uniti, come si vede, una consistente differenza.
[4] La Tabella mostra le ore di lavoro necessarie per ogni lavoratore per permettersi di sostenere i costi dell’acquisto e del mantenimento di un pickup. Parrebbe che negli Stati Uniti il costo sia molto minore. Il famigerato rapporto dei “consiglieri economici” di Trump venne redatto nei mesi passati; l’argomento del pickup veniva presentato come risolutivo.
luglio 6, 2021
July 2, 2021
By Paul Krugman
In the spring of 2020, the U.S. economy went into what I described at the time as a “medically induced coma”: We shut down much of the economy in an attempt to limit the spread of the coronavirus. This was, in retrospect, a wise policy that should have been followed much more thoroughly. After all, by slowing the spread of the virus, we didn’t just avoid overwhelming the health care system; we also bought time for the development and dissemination of vaccines, so that tens of millions of Americans who would have been infected without the lockdowns ended up dodging the bullet.
But there was a huge initial cost in terms of reduced employment and, to a somewhat lesser extent, reduced G.D.P. Many analysts expected a sluggish recovery at best — similar to the sluggish recovery from the 2008 financial crisis. In fact, we seem to be bouncing back quickly, as some of us predicted we would. (Sorry, I just pulled a muscle patting myself on the back.)
But will the post-Covid economy look the same as the pre-Covid economy? Probably not — for reasons originally laid out by none other than Alexander Hamilton in 1791.
The founding father’s “Report on the subject of manufactures” is widely regarded as the first important statement of what came to be known as the “infant industry” doctrine. At the time, the young United States was an overwhelmingly agricultural nation, relying on imports — mainly from Britain — to satisfy its demand for manufactured goods.
However, Hamilton argued that U.S. industry would be able to compete with British industry if domestic manufacturers were given the opportunity to gain experience — that once Americans had seen that industry could be profitable, once they had had the chance to gain manufacturing experience, a U.S. industrial base would become self-sustaining.
So Hamilton called for, among other things, temporary tariffs to protect U.S. industry and give it time to become competitive. Economists then proceeded to spend the next 220 years arguing about whether and when infant industry protection is actually a good policy. But the idea that sometimes temporary protection for an industry makes it competitive in the long run clearly has a lot to it.
What does this have to do with Covid-19? The pandemic produced some extreme forms of de facto infant industry protection, forcing millions of Americans to work differently from the way they had before. And many, though not all, of these changes are likely to stick: Even with the vaccines, many individuals and businesses won’t go back to the way things were before.
The obvious case, of course, is remote work. American workers with traditional office jobs weren’t hit nearly as hard by the pandemic as, say, restaurant workers, and seem to be mostly though not all the way back to normal:
Office workers are working again.Credit…FRED
But they aren’t back in their offices. Office occupancy rates have gone up a bit, but they are still far below normal in major cities, presumably because of the prevalence of working from home:
But they’re not back in the office.Credit…Kastle Systems
Many workers will, no doubt, eventually go back to the office. But the past year and a half has shown that much of what used to take place in conference rooms can be done on screens instead, with little loss of effective interaction and big savings in commuting time and personal wear and tear. (I’ve taught a graduate seminar via Zoom; I actually thought that student participation was better than in person, although that wouldn’t have been true in a larger or less advanced class.)
And we have, of course, all gotten much better at using the tools of remote work — just like Hamilton’s industrialists, who he expected to get better at manufacturing after a few years’ experience. “You’re still muted” remains a common phrase, but in my experience, anyway, no more than “I’m sorry, could you please speak up” was in live meetings.
And remote work wasn’t the only thing many Americans learned to do during the pandemic. Many others, perhaps millions, learned to do something different — namely, not work at all.
A vast majority of workers idled by pandemic restrictions will go back to work — mainly out of sheer necessity, but also because for many, work is a source of meaning in their lives. However, forced unemployment gave a significant number of Americans a chance to discover both that they really disliked their jobs and that they can manage financially without them, even without special government aid. Such workers won’t be going back.
This is probably especially true among older workers, who have seen a much sharper drop in labor force participation than prime-age adults:
Will older workers come back?Credit…FRED
Many of these older workers were planning to retire fairly soon anyway; now they’ve learned that retirement is a better experience, and the extra money they can earn by working longer is worth less in life satisfaction than they realized. So the pandemic didn’t just provide infant-industry protection to remote work; it also provided infant-industry protection to nonwork among certain groups.
And all of this is OK! The purpose of the economy isn’t to maximize G.D.P.; it is to make our lives better. The time saved and aggravation avoided when people telework rather than fight traffic to get to and from the office isn’t counted in G.D.P., but it represents a real gain. And though the increased life satisfaction some people get by retiring early and spending more time at home actually comes at the expense of G.D.P., it makes the nation richer in what matters.
So the post-Covid-19 economy will look different from what we had before: There will probably be a glut of office space, and total employment will probably be a bit lower — Goldman Sachs estimates by around one million — than it would have been otherwise, because of early retirement. But these changes will, on the whole, be good things: The pandemic was deadly and costly, but one small compensation is that it gave us a chance to think, work and live differently.
Alexander Hamilton e l’America post-Covid,
di Paul Krugman
Nella primavera del 2020, l’economia statunitense finì in quello che io allora descrissi come un “coma farmacologico”: chiudemmo buona parte dell’economia nel tentativo di limitare la diffusione del coronavirus. Questa, retrospettivamente, fu una politica saggia, che avrebbe dovuto essere seguita molto più scrupolosamente. Dopo tutto, rallentando la diffusione del virus, non solo evitammo di travolgere il sistema sanitario; acquistammo anche tempo per lo sviluppo e la distribuzione dei vaccini, in modo tale che decine di milioni di americani che sarebbero stati infettati senza i lockdown finirono per scamparla.
Ma ci fu un costo iniziale in termini di occupazione ridotta e, in un misura un po’ minore, di riduzione del PIL. Molti analisti si aspettavano nel migliore dei casi una ripresa fiacca – simile alla ripresa fiacca dalla crisi finanziaria del 2008. Di fatto, sembra che ci stiamo riprendendo velocemente, come alcuni di noi avevano previsti (scusate, mi sono appena stirato un muscolo dandomi un colpetto sulla schiena).
Ma l’economia post-Covid sarà la stessa dell’economia pre-Covid? Probabilmente no – per ragioni originariamente esposte niente di meno che da Alexander Hamilton nel 1791 [1].
Il “Rapporto sul tema delle manifatture” è generalmente considerato come il primo importante resoconto dal quale derivò la dottrina de “l’industria nascente”. A quel tempo, i giovani Stati Uniti erano una nazione in parte preponderante agricola, che si basava sulle importazioni – principalmente dall’Inghilterra – per soddisfare la sua domanda di prodotti manifatturieri.
Tuttavia, Hamilton sostenne che l’industria statunitense sarebbe stata capace di competere con l’industria britannica se alle manifatture nazionali fosse stata concessa l’opportunità di acquisire esperienza – che una volta che gli americani avessero constatato che l’industria poteva essere conveniente, una volta che avessero avuto la possibilità di acquisire esperienza manifatturiera, la base industriale statunitense sarebbe diventata auto sufficiente.
Così Hamilton si pronunciò, tra le altre cose, per tariffe temporanee che proteggessero l’industria statunitense e le dessero il tempo di diventare competitiva. In seguito gli economisti hanno passato i successivi 220 anni a discutere sul se e sul quando la protezione di un’industria nascente sia una buona politica. Ma l’idea che talvolta la protezione temporanea ad una industria le renda competitiva nel lungo periodo, chiaramente dipende molto da quel precedente.
Cosa ha a che fare questo con il Covid-19? La pandemia di fatto ha prodotto alcune forme estreme di protezione di un’industria nascente, costringendo milioni di americani a lavorare in modo diverso da come facevano in precedenza. E molti, sebbene non tutti, di questi cambiamenti è probabile permangano: persino con i vaccini, molte persone e imprese non intendono tornare indietro a come le cose erano in precedenza.
L’esempio evidente, ovviamente, è il lavoro remoto. I lavoratori americani con tradizionali posti di lavoro d’ufficio non sono stati neanche lontanamente colpiti così duramente come, ad esempio, i lavoratori dei ristoranti, e sembrano in maggioranza, sebbene non tutti, sulla strada di tornare alla normalità:
Gli impiegati negli uffici stanno tornando al lavoro. Fonte: FRED
Ma non stanno tornando nei loro uffici. I tassi di occupazione degli uffici sono cresciuti un po’, ma sono ancora assai al di sotto del normale in città importanti, presumibilmente a causa della prevalenza del lavoro da casa:
Ma non tornano nei loro uffici. Fonte: Kastle Systems [2]
Senza dubbio, alla fine molti impiegati torneranno negli uffici. Ma l’anno e mezzo trascorso ha dimostrato che gran parte di quello che di solito avveniva nelle sale delle conferenze può invece essere fatto sugli schermi, con poca perdita di efficace interazione e grandi risparmi nei tempi del pendolarismo e nel logoramento personale (ho insegnato attraverso Zoom in un seminario universitario; ne ho effettivamente tratto la convinzione che la partecipazione degli studenti fosse migliore che non di persona, sebbene ciò potrebbe non esser vero con una classe più ampia o meno avanzata).
E, ovviamente, siamo diventati tutti più bravi nell’utilizzare gi strumenti del lavoro remoto – proprio come gl industriali di Hamilton, che lui si aspettava diventassero migliori nelle manifatture dopo pochi anni di esperienza. “Sei ancora senza audio” resta una frase comune, ma nella mia esperienza negli incontri dal vivo, non più di quanto lo fosse “scusa, potresti per favore parlare più forte”.
E il lavoro remoto non è stata l’unica cosa che molti americani hanno imparato a fare durante la pandemia. Molti altri, forse milioni, hanno imparato a fare qualcosa di diverso – precisamente, non lavorare affatto.
Una larga maggioranza di lavoratori resi inattivi dalle restrizioni pandemiche torneranno al lavoro – principalmente per semplice necessità, ma anche perché per molti il lavoro è una fonte di significato per la loro esistenza. Tuttavia, la disoccupazione obbligata ha dato ad un numero significativo di americani la possibilità di scoprire che in realtà essi non amano i loro posti di lavoro ed anche che possono gestire le loro finanze senza di essi, persino senza aiuti particolari da parte del Governo. Costoro non torneranno al lavoro.
Probabilmente questo è soprattutto vero per i lavoratori più anziani, che hanno conosciuto una caduta nella partecipazione alla forza lavoro molto più brusca degli adulti nella principale età lavorativa:
I più anziani torneranno al lavoro? Fonte: FRED [3]
Molti di questi lavoratori più anziani stanno programmando comunque di andare in pensione abbastanza presto; ora che hanno imparato che il pensionamento è una esperienza migliore, e che i soldi aggiuntivi che possono guadagnare lavorando più a lungo hanno minor valore della gratificazione vitale che hanno realizzato. Dunque la pandemia non ha solo fornito protezione al lavoro remoto dell’industria nascente; ha anche fornito protezione alla scelta di non lavorare tra certi gruppi dell’industria nascente.
E sono tutte cose che vanno benissimo! Lo scopo dell’economia non è massimizzare il PIL; è rendere migliori le nostre esistenze. Il tempo risparmiato e l’appesantimento evitato quando le persone lavorano per via telematica anziché combattere contro il traffico per andare e venire dall’ufficio non è calcolato nel PIL, ma rappresenta un vantaggio reale. E sebbene l’accresciuta soddisfazione nel vivere che alcune persone ottengono andando prima in pensione e spendendo più tempo a casa effettivamente vadano a svantaggio del PIL, ciò rende la nazione più ricca nelle cose che contano.
Dunque l’economia post Covid-19 sarà diversa da quella che avevamo in precdenza: ci sarà probabilmente un eccesso di spazi per uffici, e l’occupazione totale per effetto dei pensionamenti più precoci sarà probabilmente un po’ inferiore – Goldman Sachs stima per circa un milione di persone – di quella che ci sarebbe stata altrimenti. Ma questi cambiamenti, nel complesso, sono cose positive: la pandemia è stata letale e costosa, ma un piccolo compenso è che ci ha dato una possibilità di pensare, di lavorare e di vivere diversamente.
[1] Alexander Hamilton (Charlestown, 11 gennaio 1755 – New York, 12 luglio 1804) è stato un politico, generale ed economista statunitense. Ritenuto uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti, fu il primo Segretario al Tesoro della nuova nazione americana. Ritratto sul biglietto da dieci dollari, è uno dei due personaggi, assieme a Benjamin Franklin, ad avere il privilegio di apparire su una banconota comune, pur non essendo stato Presidente degli Stati Uniti. Wikipedia
[2] La Tabella mostra i livelli di occupazione degli uffici in varie metropoli americane. Nelle dieci città più importanti (linea rossa) la media dei tassi di occupazione è un po’ sopra il 20%; a New York ed a San Francisco è appena al 10%.
[3] La partecipazione alle forze di lavoro tra le persone tra i 24 ed i 54 anni (linea rossa) sembra, alla fine di maggio del 2021, superiore che tra le persone con 55 anni e più. Con un livello 100 per entrambi agli inizi del 2020, i primi sono a quota 98 mentre i secondi tra 95 e 96.
luglio 1, 2021
June 25, 2021
By Paul Krugman
Last week I took advantage of the fading pandemic to take a bike tour in the Finger Lakes region, making a detour on the way to visit the old industrial city of Utica, N.Y. — which is where I lived until I was 8 years old. I found the street we used to live on, although to be honest I couldn’t remember which house was ours. But perhaps that’s not all that surprising: The neighborhood has changed since 1961, having become home to many Bosnian refugees in the 1990s.
And whereas my mother used to take me out for lunch at the local White Tower, a once popular hamburger chain, this time I stopped near our old house for cevapi.
The thing is, for a city that has lost most of its original reason to exist — the glory days of the Erie Canal are ancient history, and the industries that drove the upstate economy in its heyday are pretty much gone — Utica is doing relatively OK. Those refugees and other immigrants, drawn in part by low housing costs, have helped generate new businesses — Chobani yogurt has a plant nearby — that in turn have partly offset the loss of the old industrial base.
All of which is surprisingly relevant to discussions about the economic future of New York City — which those of us who have lived in or around it tend to call simply “the city” — whose trajectory has probably been permanently altered by Covid-19 and its aftereffects. Even though the U.S. economy as a whole seems headed for rapid recovery, the post-pandemic economy will probably be different in some ways from what we had before. And New York might seem, on the surface, to be one of those places that will lose from those differences.
From an economic point of view, New York is, above all, a city of office buildings, empowered by the most effective mass transit system ever devised — the elevator. The pandemic, however, gave a huge boost to remote work, and while many workers will eventually go back to the office, many others won’t — probably leaving Lower Manhattan with a large glut of office space.
Politico recently had an interesting article asking a number of experts what, if anything, should be done to get workers back into those buildings. The most common (and persuasive) response? Nothing.
As Jason Furman, who chaired Barack Obama’s Council of Economic Advisers, put it, even if there is a persistent decline in the demand for Manhattan office space, the result won’t be empty buildings; it will be lower rents. The journalist Matthew Yglesias made the same point. Ultimately falling rents will bring workers back — maybe not the same workers, maybe not the same businesses, but someone will make use of those buildings.
When I read that discussion, I immediately thought of a relatively old paper by Edward Glaeser and Joseph Gyourko, with the admittedly not very inspiring title “Urban Decline and Durable Housing.” They pointed out that while a growing city’s supply of housing is highly elastic — if prices are high, lots of houses will be built, unless the NIMBYs get in the way — a shrinking city’s housing supply is inelastic: Houses aren’t torn down when their prices fall.
A key consequence of this asymmetry, Glaeser and Gyourko argued and documented with data, is that while cities can experience explosive growth, they rarely experience rapid decline. Why? Because housing in a city is, as the title says, durable: It doesn’t disappear when a city falls on hard times; it just becomes cheap.
And cheap housing itself helps attract workers and families — often immigrants, who seem especially willing to seek affordable housing and then figure out a way to make a living wherever they are. The availability of these workers in turn becomes a draw for new businesses, in some cases making it possible for troubled urban economies to reinvent themselves along entirely new lines.
Something similar will happen if, as seems likely though not certain, New York City experiences a long-run transformation caused by the rise of remote work. In this case, the durable assets in question will be office buildings, not houses, and the “immigrants” drawn in by lower real estate costs will be businesses rather than families. But the basic logic of urban persistence will be the same.
In fact, having real estate developers take a big hit might eventually be positive for New York as a whole. While the city is incredibly diverse culturally and ethnically — you can even find some Republicans if you look hard enough — its economy has, as Glaeser more recently put it, become a monoculture, dominated by finance.
So what? If the financial industry is willing to pay higher rents, why not accept the market’s verdict?
Well, cities are all about “externalities” — the spillovers businesses generate by being near one another. And there’s a good argument that being a one-industry town reduces positive externalities, because it limits the cross-pollination of ideas that can foster innovation.
So New York will probably be slower to recover economically than much of the rest of the nation, and once it does recover, it will probably emerge with a cheaper, more diversified economy than it was in 2019. But that may be a good thing in the long run.
Quello che New York potrebbe imparare da Utica,
di Paul Krugman
La scorsa settimana ho approfittato della pandemia in declino per farmi un giro in bicicletta nella regione dei Finger Lakes, facendo un deviazione sul percorso per visitare la vecchia città industriale di Utica, N.Y. – che è il luogo dove vissi fino a 8 anni. Ho ritrovato la strada dove vivevamo, sebbene ad essere onesto non mi è riuscito di ricordare quale fosse la nostra casa. Ma forse ciò non è tanto sorprendente: dal 1961 il quartiere è cambiato, essendo diventato, negli anni ’90, casa per molti rifugiati bosniaci.
E mentre mia madre era solita portarmi a pranzo alla locale White Tower, una volta popolare catena di hamburger, questa volta mi sono fermato nelle vicinanze della nostra vecchia casa per un cevapi [1].
Il punto è che Utica, per una città che ha perduto gran parte delle sue originali ragioni di esistere – i giorni di gloria del Canale Erie sono storia passata, e le industrie che guidavano l’economia a nord dello Stato nel suo fulgore sono in buona parte andati – se la sta passando relativamente bene. Quei rifugiati ed altri immigrati, attratti in parte dai bassi costi degli alloggi, hanno contribuito a generare nuovi affari – lo yougurt Chobani ha un impianto nelle vicinanze – che a loro volta hanno in parte bilanciato la perdita della vecchia base industriale.
Tutto questo è sorprendentemente attinente ai dibattiti sul futuro economico di New York City – che tutti quelli tra noi che ci hanno vissuto, almeno nei pressi, tendono a chiamare “la città” – la cui traiettoria è probabilmente stata permanentemente alterata dal Covid-19 e dalle sue conseguenze. Persino se l’economia statunitense nel suo complesso sembra indirizzata ad una rapida ripresa, in molti sensi l’economia post pandemica sarà probabilmente diversa da quella che avevamo in precedenza. E New York, alla superficie, potrebbe sembrare uno dei quei luoghi che ci rimetteranno dalle differenze.
Da un punto di vista economico, New York è, soprattutto, una città di palazzi per uffici, potenziata dal sistema di trasporto più efficace mai concepito – l’ascensore. La pandemia, tuttavia, ha dato un enorme incoraggiamento al lavoro remoto, e mentre molti lavoratori alla fine torneranno negli uffici, molti altri non lo faranno – probabilmente lasciando l’area di Lower Manhattan con una ampia eccedenza di spazi per uffici.
Politico aveva recentemente un interessante articolo nel quale si chiedeva a un certo numero di esperti che cosa dovesse essere fatto per riportare i lavoratori in quegli edifici, ammesso che si debba far qualcosa. La risposta più frequente (e persuasiva)? Niente.
Come si è espresso Jason Furman, che presiedette il Comitato dei Consiglieri Economici di Barack Obama, anche se ci fosse un persistente declino della domanda di uffici per Manhattan, la conseguenza non sarebbero edifici vuoti; sarebbero affitti più bassi. Il giornalista Metthew Yglesias ha avanzato lo stesso argomento. In ultima analisi gli affitti in calo riporteranno indietro i lavoratori – forse non gli stessi lavoratori, forse non le stesse attività, ma qualcuno utilizzerà quei palazzi.
Quando ho letto quel dibattito, ho immediatamente pensato ad un saggio relativamente datato di Edward Glaeser e Joseph Gyourko, che in effetti aveva un titolo non particolarmente ispirante: Declino urbano e alloggi durevoli. Essi mettevano in evidenza che mentre una offerta di alloggi di una città in crescita è altamente elastica – se i prezzi sono alti, vengono costruiti una grande quantità di alloggi, a meno che non si metta di mezzo il NIMBY [2] – una offerta di alloggi di una città che si restringe è anelastica: le abitazioni non si abbattono quando i loro prezzi cadono.
Una conseguenza fondamentale di questa asimmetria, Glaeser e Gyourko lo documentarono con dati, è che mentre le città possono conoscere crescita esplosive, raramente fanno esperienza di un declino rapido. Perché? Perché gli alloggi in una città sono, come dice il titolo [3], beni durevoli: non scompaiono quando una città cade in momenti difficili; diventano soltanto più economici.
E gli stessi alloggi economici contribuiscono ad attirare lavoratori e famiglie – spesso immigranti, che sembrano particolarmente desiderosi di cercare alloggi sostenibili e poi di cercare un modo per tirare a campare dovunque si trovino. La disponibilità di questi lavoratori diventa a sua volta una attrazione per nuove attività, in alcuni casi rendendo possibile per economie urbane in difficoltà di reinventarsi su indirizzi interamente nuovi.
Qualcosa di simile accadrà se, come sembra probabile seppure non certo, New York City farà esperienza di una trasformazione duratura provocata dalla crescita del lavoro remoto. In questo caso i beni durevoli in questione saranno i palazzi per uffici, non le abitazioni, e gli “immigranti” attratti da costi immobiliari più bassi saranno gli affari, anziché le famiglie. Ma la logica di base della persistenza urbana sarà la stessa.
Il fatto che i costruttori di immobili abbiano preso un gran colpo potrebbe alla fine diventare positivo per New York nel suo complesso. Se la città è incredibilmente differenziata culturalmente e etnicamente – potete persino scovare qualche repubblicano se guardate con attenzione – la sua economia, come ha più di recente osservato Glaeser, è diventata una monocultura, dominata dalla finanza.
E allora? Se il settore finanziario è disponibile a pagare affitti più elevati, perché non accettare il verdetto del marcato?
Ebbene, le città riguardano soprattutto le “esternalità” – le ricadute che le attività economiche generano per l’essere l’una accanto all’altra. E c’è una buona probabilità che l’essere una cittadina con una sola industria riduca le esternalità positive, giacché limita la contaminazione reciproca delle idee che può incoraggiare l’innovazione.
Dunque, probabilmente New York sarà più lenta a riprendersi economicamente che buona parte del resto della nazione, e una volta che si riprenderà, probabilmente emergerà con un economia più a buon mercato e più diversificata rispetto a quello che era nel 2019. Ma nel lungo periodo, questa potrebbe essere una cosa positiva.
[1] I ćevapčići o ćevapi sono un cibo balcanico a base di carne trita, variamente speziata, tipico della cucina dei paesi della penisola balcanica. Wikipedia
[2] Nimby è l’acronimo di “Not in my back yard” (“non nel cortile di casa mia”) e sta a indicare i movimenti di protesta di comunità e di gruppi di persone contro opere e insediamenti che potrebbero avere effetti negativi sulle loro aree di residenza (molto frequentemente, ad esempio, per impianti pubblici per los smaltimento dei rifiuti o per la depurazione delle acque).
[3] Del loro studio.
giugno 13, 2021
June 11, 2021
By Paul Krugman
If you’re under 50, you probably don’t remember when Japan was going to take over the world. But in the late 1980s and early 1990s, many people were obsessed with Japan’s economic success and feared American decline. The supposedly nonfiction sections of airport bookstores were filled with volumes featuring samurai warriors on their covers, promising to teach you the secrets of Japanese management. Michael Crichton had a best-selling novel, “Rising Sun,” about the looming threat of Japanese domination, before he moved on to dinosaurs.
The policy side of Japanophilia/Japanophobia took the form of widespread calls for a national industrial policy: Government spending and maybe protectionism to foster industries of the future, notably semiconductor production.
Then Japan largely disappeared from America’s conversation — cited, if at all, as a cautionary tale of economic stagnation and lost decades. And we entered an era of self-satisfied arrogance, buoyed by the dominance of U.S.-based technology companies.
Now the truth is that Japan’s failures have, in their own way, been overhyped as much as the country’s previous successes. The island nation remains wealthy and technologically sophisticated; its slow economic growth mainly reflects low fertility and immigration, which have led to a shrinking working-age population. Adjusting for demography, the economies of Japan and the United States have grown at about the same rate over the past 30 years:
Japan has done better than you think.Credit…FRED
In any case, however, we seem to be entering a new era of worries about the role of the United States in the world economy, this time driven by fears of China. And we’re hearing new calls for industrial policy. I have to admit that I’m not entirely persuaded by these calls. But the rationales for government action are a lot smarter this time around than they were in the 1980s — and, of course, immensely smarter than the economic nationalism of the Trump era, which they superficially resemble.
Which brings me to the 250-page report on supply chains that the Biden-Harris administration released a few days ago. This was one of those reports that may turn out to be important, even though few people will read it. Why? Because it offers a sort of intellectual template for policymaking; when legislation and rules are being drafted, that report and its analysis will be lurking in the background, helping to shape details of spending and regulations.
Now, the world economy has changed a lot since the days when American executives were trying to reinvent themselves as samurai. Countries used to make things like cars and airplanes; nowadays they make parts of things, which are combined with other parts of things that are made in other countries and eventually assembled into something consumers want. The classic — and at this point somewhat tired — example is the iPhone, assembled in China from bits and pieces from all over. Last year’s World Development Report from the World Bank, obviously written prepandemic, was devoted to global value chains and had a nice alternative example: bicycles.
Spinning globalization.Credit…World Bank
I’m a bit surprised, by the way, to learn that Japan and Singapore have so much of the market for pedals and cranks. I thought America really led the world in cranks (charlatans, too).
Anyway, the World Bank offers a measure of the global value chaininess of world trade — the share of exports that cross at least two borders on the way to their final buyers:
Global value chaininess on the rise.Credit…World Bank
This measure shows that the big growth of globe-spanning supply chains isn’t new; in fact, it took place mostly between 1988 and 2008. But the dangers associated with fragmented production have been highlighted by recent events.
The Biden-Harris report focuses on four sectors: semiconductor chips, batteries, pharmaceuticals and the rare earths that play a key role in much technology. It’s not hard to see why.
The modern economy uses chips with practically everything — and the production of chips is very globalized. So we have a situation in which U.S. auto production is being crimped, thanks to drought in Taiwan and a factory fire in Japan disrupting the supply of these tiny but essential components. Moreover, much of the world’s supply of rare earths comes from China, whose regime isn’t noted for being shy about throwing its weight around.
And vaccine nationalism — countries limiting the export of vaccines and key components for making them — has become a real problem in the age of Covid.
As you might guess, then, a lot of the Biden-Harris report focuses on national security concerns. National security has always been recognized as a legitimate reason to deviate from free trade. It’s even enshrined in international agreements. Donald Trump gave the national security argument a bad name by abusing it. (Seriously, is America threatened by Canadian aluminum?) But you don’t have to be a Trumpist to worry about our dependence on Chinese rare earths.
That said, the supply-chain report goes well beyond the national security argument, making the case that we need to retain domestic manufacturing in a wide range of sectors to maintain our technological competence. That’s not a foolish argument, but it’s very open-ended. Where does it stop?
One thing is clear: If you thought the revival of economic nationalism was purely a Trumpist aberration, you’re wrong. The Biden administration isn’t going to go in for dumb stuff like Trump’s obsession with bilateral trade imbalances, but it isn’t going back to the uncritical embrace of globalization that has characterized much U.S. policy for decades. Will this lead to a new era of trade wars? Probably not — but don’t expect a lot of big trade deals in the years ahead.
Il nazionalismo economico, modello Biden,
di Paul Krugman
Se avete meno di 50 anni, probabilmente non ricordate quando il Giappone pareva destinato a conquistare il mondo. Ma negli ultimi anni ’80 e nei primi anni ’90, molte persone erano ossessionate dal successo economico del Giappone e temevano un declino americano. Nelle edicole degli aeroporti i settori della presunta saggistica erano ripieni di volumi che raffiguravano guerrieri samurai nei loro abbigliamenti, con la promessa di spiegarvi i segreti delle imprese giapponesi. Michael Crichton, prima di passare ai dinosauri, pubblicò un romanzo di gran successo, “Sole nascente”, sulla minaccia incombente del dominio giapponese.
Il versante politico della nippofilia/nippofobia prese la forma di richieste generalizzate per una politica industriale nazionale: spesa pubblica e magari protezionismo per incoraggiare le industrie del futuro, in particolare la produzione di semiconduttori.
Poi il Giappone in buona parte scomparve dal dibattito americano – citato, nel migliore dei casi, come un esempio da non seguire di stagnazione economica e di decenni persi. Ed entrammo in un’epoca di soddisfatta arroganza, incoraggiata dal dominio delle società tecnologiche con base negli Stati Uniti.
La verità è che i fallimenti del Giappone sono stati, a loro modo, reclamizzati altrettanto dei precedenti successi del paese. L’isola nazione rimase ricca e tecnologicamente sofisticata; la sua lenta crescita economica riflette principalmente una fertilità e un’immigrazione modesta, che ha condotto ad una contrazione della popolazione in età lavorativa. Corrette sulla base della demografia, le economie del Giappone e degli Stati Uniti sono cresciute circa con lo stesso ritmo nel corso dei trent’anni passati:
Il Giappone è andato meglio di quanto si pensi. Fonte: FRED [1]
Tuttavia, sembriamo essere entrati comunque in una nuova epoca di preoccupazioni sul ruolo degli Stati Uniti nell’economia mondiale, questa volta guidato dalle paure verso la Cina. E stiamo riascoltando nuovi pronunciamenti per una politica industriale. Devo ammettere di non essere del tutto persuaso da questi pronunciamenti. Ma le logiche a favore di una iniziativa del Governo sono oggi molto più intelligenti di quello che erano negli anni ’80 – e, naturalmente, enormemente più intelligenti del nazionalismo economico dell’era di Trump, alla quale superficialmente vengono paragonate.
Il che mi porta al rapporto di 250 pagine sulle catene dell’offerta che l’Amministrazione Biden-Harris ha pubblicato pochi giorni orsono. Questo è stato uno di quei rapporti che si scoprono essere importanti, anche se lo leggeranno in pochi. Perché? Perché offre una sorta di modello per l’iniziativa politica; quando le leggi e le regole vengono abbozzate, quel rapporto e le sue analisi saranno annidati sullo sfondo, aiutando a dar forma ai dettagli delle spese e dei regolamenti.
Ora, l’economia del mondo è molto cambiata dai giorni nei quali i governi americani cercavano di reinventarsi nella forma di samurai. I paesi erano soliti fare cose come le macchine e gli aeroplani; ai giorni nostri essi fanno parti di quelle cose, che sono combinate con altre parti di cose che sono fatte in altri paesi e alla fine assemblate in quello che vogliono i consumatori. L’esempio classico – e a questo punto un po’ abusato – è l’IPhone, assemblato in Cina da pezzi e componenti che vengono da tutto il mondo. L’anno passato il Rapporto sullo Sviluppo del Mondo della Banca Mondiale, ovviamente redatto prima della pandemia, era dedicato alle catene del valore mondiali e presentava un grazioso esempio alternativo: le biciclette.
La globalizzazione della bicicletta. Fonte: Banca Mondiale [2]
Per inciso, sono un po’ sorpreso di apprendere che il Giappone e Singapore abbiano così tanto mercato di pedali e pedivelle. Pensavo che l’America guidasse il mondo nelle pedivelle (ed anche nei ciarlatani)[3].
In ogni modo, la Banca Mondiale offre una misura delle catene globali del valore del commercio del mondo – la parte delle esportazioni che transitano almeno due confini per arrivare ai loro acquirenti finali:
Crescita del concatenamento del valore globale. Fonte: Banca Mondiale
Questa misura mostra che la grande crescita delle catena dell’offerta di tutto il mondo non è nuova; di fatto, essa prese piede per la maggior parte tra il 1988 e il 2008. Ma i pericoli connessi con la produzione frammentata sono stati messi in luce da eventi recenti.
Il rapporto Biden-Harris si concentra su quattro settori: dispositivi a semiconduttore, batterie, prodotti farmaceutici e le terre rare [4] che hanno un ruolo fondamentale in buona parte della tecnologie. Né è difficile comprendere perché.
La moderna economia usa i semiconduttori praticamente per tutto – e la loro produzione è molto globalizzata. Abbiamo così una situazione nella quale la produzione statunitense di automobili viene ostacolata, grazie alla siccità a Taiwan e ad un incendio in una fabbrica in Giappone che ha interrotto l’offerta di queste minuscoli ma essenziali componenti. Inoltre, gran parte dell’offerta mondiale di terre rare proviene dalla Cina, il cui regime non si è distinto per timidezza nello spadroneggiare nella materia.
E il nazionalismo dei vaccini – i paesi che limitano l’esportazione dei vaccini e di componenti fondamentali ne produrli – in epoca di Covid è diventato un problema vero.
Come potete, dunque, immaginare una gran parte del rapporto Biden-Harris si concentra su preoccupazioni di sicurezza nazionale. La sicurezza nazionale è sempre stata riconosciuta come una ragione legittima per fare eccezioni al libero commercio. Essa è persino sancita in accordi internazionali. Donald Trump diede al’argomento della sicurezza nazionale una cattiva fame abusando di esso (l’America è seriamene minacciata dall’alluminio canadese?). Ma non c’è bisogno di essere seguaci di Trump per preoccuparsi della nostra dipendenza dalle terre rare cinesi.
Ciò detto, il rapporto sulle catena dell’offerta va ben oltre l’argomento della sicurezza nazionale, avanzando la tesi secondo la quale abbiamo bisogno di conservare la produzione nazionale in una serie di settori per mantenere la nostra capacità tecnologica. Non è un argomento sciocco, ma è molto indeterminato. Dove ha fine quell’argomento?
Una cosa è chiara: se pensaste che il revival del nazionalismo economico fosse soltanto una aberrazione trumpiana, sbagliereste. L’Amministrazione Biden non è destinata ad andar dietro a scemenze come l’ossessione di Trump per gli squilibri commerciali bilaterali, ma non tornerà ad un abbraccio acritico per la globalizzazione che caratterizzò per decenni la politica statunitense. Questo porterà ad una nuova epoca di guerre commerciali? Probabilmente no – ma non c’è da aspettarsi un mucchio di grandi accordi commerciali negli anni a venire.
[1] La tabella indica gli andamenti del PIL giapponese (in blu) e statunitense (in rosso), corretti sulla base del rapporto tra le persone nella principale età lavorativa (tra i 15 ed i 64 anni) e il totale della popolazione.
[2] La figura mostra da dove provengono le varie parti di una bicicletta, ovvero quali sono i paesi che maggiormente producono tali componenti. Tra gli altri: Cina, Giappone, Vietnam, Italia, Francia e Spagna. Sui freni è anche forte Singapore.
[3] L’ironia deriva dal fatto che “crank” in inglese può significare “manovella, pedivella”, ma anche “tizio svitato, strampalato”. L’espressione “cranks and charlatans” (“svitati e ciarlatani”) è stata spesso usata da Krugman per descrivere l’ambiente dei commentatori conservatori. Per quanto essa venne coniata dall’economista, conservatore moderato e non trumpiano, Greg Mankiw.
[4] Secondo la definizione della IUPAC, le terre rare (in inglese “rare-earth elements” o “rare-earth metals“) sono un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica, precisamente scandio, ittrio e i lantanoidi[1]. Scandio e ittrio sono considerati “terre rare” poiché generalmente si trovano negli stessi depositi minerari dei lantanoidi e possiedono proprietà chimiche simili. Wikipedia
giugno 10, 2021
June 4, 2021
By Paul Krugman
Don’t pay too much attention to today’s jobs report; it came in slightly below expectations, but given the noisiness of the data (and the extent to which the numbers are often revised), it told us very little that we didn’t already know.
The truth is that two things are clear about the U.S. economy right now. It’s growing very fast, and adding jobs at a rapid clip; but the pace of job creation is being crimped, at least a bit, because employers are having a hard time finding as many workers as they want to hire.
Sometimes complaints about a lack of willing workers just mean that companies don’t want to pay decent wages, and there’s no doubt some of that is going on. But this time that’s not the whole story. The latest Beige Book — the Fed’s informal survey of business conditions — suggests both that a number of companies really are having trouble adding workers as fast as they’d like, and that this is happening even though some are raising wages, offering signing bonuses, etc.
But what, if any, policy conclusion should we draw from this evidence? Republicans say that it means that we must cut benefits for the unemployed (and so many Republican-controlled states are now cutting aid, even though the federal government was actually bearing the cost). But they always say that, whatever is happening to the economy.
Many others point to lack of child care, with schools still closed in some states and normal day care crippled by the lingering effects of the pandemic. And fear of infection is still out there, despite a vaccination campaign that has proceeded faster than almost anyone expected.
There may be truth to all of these stories — yes, even some role for unemployment benefits, although the impact is probably modest. But are we just overthinking this? How much of the issue is simply that it takes some time to get the economy back up to speed from a standing start?
I’ve been struck by reporting from Britain, which has been even more successful than the United States in achieving widespread vaccination (thank you, National Health Service). The thing is, Britain and America took very different approaches to supporting workers through lockdown. Where we relied mainly on enhanced unemployment benefits, Britain relied mainly on a “job retention” scheme — subsidizing earnings of workers placed on temporary leave by employers in locked-down sectors.
This scheme meant that Britain experienced much less of a rise in measured unemployment than we did, even though it suffered a deep economic slump:
The British did it differently.Credit…FRED
You might think this would also make it easier for Britain to quickly restore its economy as the pandemic fades. Instead, the British press is full of reports about employers having a hard time finding workers.
So maybe the problem is simply that it’s hard to get the economy restarted in a few months.
One indicator many of us have been looking at during this weird economic period, in which facts on the ground change too quickly for standard statistics to keep up, is the number of diners reported by the reservation service OpenTable.com. OpenTable conveniently provides data on the number of seated diners during the pandemic relative to those on the corresponding date in 2019. Here’s what it looks like:
A dine-amic recovery.Credit…OpenTable
Some automakers used to promise that their cars could go from zero to 60 in 16 seconds; well, the U.S. restaurant sector is trying to go from minus 60 — 60 percent below its prepandemic level — to zero in roughly 16 weeks. Why imagine that this could happen smoothly?
It’s true that some fairly old history might have made economists complacent.
Most forecasters expect U.S. economic growth this year to be the fastest since 1984, when the economy was going through the “morning in America” boom after the double-dip recession of 1979-82. Superficially, neither that recession nor the boom that followed looked anything like recent events. At a deeper level, however, there are some similarities.
In particular, the early ’80s slump, like the 2020 slump, was brought on by a sort of exogenous shock — in the earlier case, a huge rise in interest rates as the Fed tightened money to curb inflation. The impact of this shock, like that of Covid-19, fell especially hard on one sector — housing, rather than travel and leisure — which then sprang back rapidly as the headwinds abated:
Morning in construction.Credit…FRED
But I’ve been reading through Beige Books from that era, and there isn’t much about problems hiring workers. Why was rapid economic acceleration apparently easier back then?
One answer is that as fast as it was, the 1983-84 recovery wasn’t a match for what’s happening now. Housing was never as deeply depressed as travel and leisure are today.
Also, the economy was different then, with far more workers on temporary layoffs who could easily be recalled to their jobs (although that may be true in Britain now, and there are still hiring problems.)
So if the question is whether I’m entirely sure why we’re hearing reports of trouble hiring, the answer is no. But I still suspect that it’s mainly a transitory issue of getting a stalled economy up to speed in record time. And in a few months all of these short-term problems will probably have been forgotten.
Le difficoltà ad assumere comportano una scarsità di forza lavoro?
Di Paul Krugman
Non prestate troppa attenzione al rapporto di oggi sui posti di lavoro; è leggermente al di sotto delle aspettative, ma dato il frastuono dei dati (e la misura nella quale essi vengono spesso rivisitati), esso ci ha detto molto poco che già non sapessimo.
La verità è che in questo momento due cose sono chiare sull’economia statunitense. Essa sta crescendo molto velocemente, e aumenta i posti di lavoro con una velocità rapida; ma il ritmo della creazione di posti di lavoro viene ostacolato, almeno un po’, perché i datori di lavoro hanno difficoltà a trovare i lavoratori che vorrebbero assumere.
Alcune lamentele su una scarsa disponibilità dei lavoratori significano soltanto che le imprese non vogliono pagare salari dignitosi, e non c’è dubbio che qualcosa del genere stia succedendo. Ma questa volta questa non è l’intera spiegazione. L’ultimo Libro Beige – il sondaggio informale della Fed sulle condizioni delle imprese – indica sia che un certo numero di imprese sono realmente in difficoltà nell’aumentare i lavoratori velocemente come vorrebbero, sia che ciò sta accadendo anche se alcune stanno aumentando i salari, offrendo incentivi, ed altro.
Ma quale conclusione politica dovremmo trarre da questi fatti, ammesso che ce ne sia qualcuna? I repubblicani dicono che ciò significa che dovremmo tagliare i sussidi per i disoccupati (cosicché molti Stati controllati dai repubblicani stanno adesso tagliando gli aiuti, anche se sono effettivamente a carico del Governo federale). Ma questo è quello che dicono sempre, qualsiasi cosa stia accadendo all’economia.
Molti altri indicano la mancanza di asili nido, con le scuole in alcuni Stati ancora chiuse ed i nidi bloccati dagli effetti persistenti della pandemia. E la paura dell’infezione è ancora in circolazione, nonostante una campagna di vaccinazione che ha proceduto più rapidamente di quanto si aspettavano quasi tutti.
In tutti questi racconti ci può essere della verità – ciò è vero, persino, su un qualche ruolo dei sussidi di disoccupazione, sebbene l’impatto sia probabilmente modesto. Ma non lo stiamo precisamente sopravvalutando? Quanto del problema dipende semplicemente da fatto che ci vuole un po’ di tempo perché l’economia torni a correre da una partenza da ferma?
Sono stato impressionato dai resoconti dall’Inghilterra, che ha avuto persino maggiore successo degli Stati Uniti nel realizzare una vaccinazione generalizzata (grazie al Servizio Sanitario Nazionale). Il punto è, l’Inghilterra e l’America hanno avuto approcci molto diversi nel sostegno ai lavoratori durante il lockdown. Noi ci siamo affidati principalmente su incrementati sussidi di disoccupazione, l’Inghilterra si è basata su un modello di “mantenimento del rapporto di lavoro” – dando sussidi ai compensi dei lavoratori collocati in congedo temporaneo da datori di lavoro in settori bloccati.
Questo modello ha comportato che l’Inghilterra abbia conosciuto una crescita molto minore di disoccupazione accertata di noi, anche se ha sofferto una profonda recessione economica:
Gli inglesi si sono comportati differentemente. Fonte: FRED [1]
Si potrebbe pensare che questo renda più facile per l’Inghilterra anche ripristinare rapidamente la sua economia al momento dello svanire dell’epidemia. Invece, la stampa inglese è pena di resoconti su datori di lavoro che hanno difficoltà nel trovare lavoratori.
Dunque forse il problema è semplicemente che è difficile fare in modo che l’economia riparta in pochi mesi.
Un indicatore che molti di noi hanno osservato durante questo strano periodo economico, nel quale i fatti che avvengono cambiano troppo velocemente per tenere il passo con le usuali statistiche, è il numero dei clienti dei ristoranti riportati dal servizio di prenotazioni OpenTable.com. Opportunamente, OpenTable fornisce dati sul numero dei clienti a sedere durante la pandemia in rapporto a quelli della data corrispondente nel 2019. Ecco quello che appare:
Una ripresa delle cene tra amici. OpenTable [2]
Alcuni produttori di automobili sono soliti promettere che le loro macchine possano passare da 0 a 60 chilometri orari in 16 secondi; ebbene, il settore della ristorazione statunitense sta cercando di passare da meno 60 – 60 per cento sotto il suo livello pre pandemia [3] – a zero in circa 16 settimane. Perché immaginarsi che tutto questo potesse accadere senza intoppi?
È vero che alcune storie piuttosto vecchiotte potrebbero rendere gli economisti compiacenti.
La maggioranza degli analisti si aspettano che la crescita economica statunitense di quest’anno possa essere la più veloce dal 1984, quando l’economia stava transitando il periodo dell’espansione del cosiddetto “Buongiorno in America” [4] dopo la recessione a due cifre del 1979-82. In apparenza, né quella recessione né quel boom che seguì somigliarono in niente agli eventi recenti. Ad un livello più profondo, tuttavia, ci sono alcune somiglianze.
In particolare, la recessione di primi anni ’80, come quella del 2020, venne provocata da una specie di shock esogeno – nel primo caso, una enorme crescita dei tassi di interesse allorché la Fed diede una stretta monetaria per frenare l’inflazione. L’impatto di quello shock, come quello del Covid-19, ricadde pesantemente particolarmente su un settore – quello degli alloggi, piuttosto dei viaggi e del tempo libero – che quindi si riprese rapidamente quando i venti contrari diminuirono di intensità:
Il periodo del “morning in America” nell’edilizia. Fonte: FRED
Eppure sono andato a rileggermi i Libri Beige su quel periodo, e non si trova molto di problemi nell’assumere i lavoratori. Perché allora in apparenza una rapida accelerazione fu più facile?
Una risposta è che per quanto essa fu talmente veloce, la ripresa non era eguagliabile a cosa sta accadendo adesso. Il settore delle costruzioni non fu mai così profondamente depresso come sono stati i viaggi ed il tempo libero nei nostri giorni.
Allora era anche diversa l’economia, con un numero maggiore di lavoratori temporaneamente sospesi che potevano essere facilmente richiamati ai loro posti di lavoro (sebbene ciò potrebbe essere vero nell’Inghilterra odierna, e ci sono ancora problemi di assunzione).
Dunque, se la domanda è se io sono interamente sicuro della ragione per la quale stiamo assistendo a resoconti sulla difficoltà delle assunzioni, la risposta è che non lo sono. Ma ho ancora il sospetto che sia un tema transitorio derivante dal far passare un’economia in stallo alla velocità in un tempo record. E in pchi mesi tutti questi problemi a breve termine probabilmente saranno stati dimenticati.
[1] In rosso il tasso di disoccupazione statunitense, in blu quello inglese. Entrambi espressi in percentuale sul totale della popolazione.
[2] Veramente, l’unico significato che “amic” pare abbia in inglese è quello di un composto chimico … Tiro ad indovinare: che sia una contrazione di “amicable”?
I clienti sembra siano stati registrati il 24 di ogni mese, dal febbraio del 2020 al maggio del 2021, su basi settimanali.
[3] Quello è il dato che corrisponde ancora alla fine del mese di gennaio del 2020: per l’appunto 16 settimane prima della fine del mese di maggio.
[4] Come abbiamo visto in altre occasioni, “Morning in America” fu il titolo di una trasmissione radiofonica che ebbe notevole fortuna di Ronald Reagan, che pare aver avuto un certa influenza nella sua successiva vittoria elettorale per il secondo mandato. Il senso era, più o meno, “è di nuovo una bella giornata in America!”.
maggio 31, 2021
May 28, 2021
By Paul Krugman
Cryptocurrency was supposed to replace government-issued fiat currency in our daily lives. It hasn’t. But one thing I’m still hearing from the faithful is that Bitcoin, or Ethereum, or maybe some crypto asset introduced by the Chinese, will soon replace the dollar as the global currency of choice.
That’s also very unlikely to happen, since it’s very hard for a currency to function as global money unless it functions as ordinary money first. But still, it’s definitely conceivable that one of these days something will displace the dollar from its current dominance. I used to think the euro might be a contender, although Europe’s troubles now make that seem like a distant prospect. Still, nothing monetary is forever.
But does it matter? My old teacher Charles Kindleberger used to say that anyone who spends too much time thinking about international money goes a little mad. What he meant, I think, was that something like the dollar’s dominance sounds as if it must be very important — a pillar of America’s power in the world. So it’s very hard for people — especially people who aren’t specialists in the field — to wrap their minds around the reality that it’s a fairly trivial issue.
First things first: Dollar dominance is real. These days America accounts for less than a quarter of world G.D.P. at market prices; less than that if you adjust for national differences in the cost of living. Yet U.S. dollars dominate currency trading: When a bank wants to exchange Malaysian ringgit for Peruvian sol, it normally trades ringgit for dollars, then dollars for sol. A lot of world trade is also invoiced in dollars — that is, the contract is written in dollars and the settlement is also in dollars. And dollars account for about 60 percent of official foreign exchange reserves: assets in foreign currencies that governments hold mainly so they can intervene to stabilize markets if necessary.
As I said, this sounds like a big deal. The dollar is, in a sense, the world’s money, and it’s natural to assume that this gives the United States what a French finance minister once called “exorbitant privilege” — the ability to buy stuff simply by printing dollars the world has to take. Every once in a while I see news articles asserting that the special role of the dollar gives America the unique ability to run trade deficits year after year, an option denied to other nations.
Except that this just isn’t true. Here are the current account balances — trade balances, broadly defined — of a few English-speaking countries over the years, measured as a percentage of their G.D.P.:
We’re not the deficit kings.Credit…International Monetary Fund
Yes, America has consistently run deficits. Australia has consistently run even bigger deficits; the U.K. has fluctuated around, but has also run big deficits on average. We’re not special in this regard.
Still, can’t we borrow money more cheaply because the dollar is top dog? If so, it’s a pretty subtle effect. As I write this, 10-year U.S. bonds are yielding 1.6 percent; British 10-years 0.8 percent; Japanese 10-years 0.07 percent. Lots of factors affect borrowing costs, but if the fact that neither the pound nor the yen are major global currencies is a major liability, it’s not obvious in the data.
Now, the pound used to be a major international currency. It wasn’t overtaken by the dollar as a reserve currency until 1955. It was still a major player into the late 1960s. But then its role quickly evaporated. By 1975 the pound was basically just a normal advanced-country currency, used domestically but not outside the country.
So did the value of the pound take a big hit when that happened? No. Here’s the real pound-dollar exchange rate — the number of dollars per pound, adjusted for differential inflation — since the early 1960s:
The pound is dead, long live the pound.Credit…FRED
There have been some big fluctuations over time, reflecting things like Margaret Thatcher’s tight-money policy and Ronald Reagan’s mix of tight money and deficit spending. But the pound has in general been much stronger since it stopped being a global currency than it was before. That’s not a big mystery: It probably reflects London’s continuing role as a global financial hub in an era of financial globalization. But again, it’s hard to see evidence that losing global currency status made much difference.
So is the dollar’s status completely irrelevant? No. The dollar’s popularity does give America a unique export industry — namely, dollars themselves. Or more specifically, Benjamins — $100 bills, which bear the portrait of Benjamin Franklin.
These days the ordinary business of life is largely digital; many Americans rarely use cash. Even the sidewalk fruit and vegetable kiosks in New York often take Venmo. Given that lived reality, it’s jarring to learn just how much currency is in circulation: more than $2 trillion, or more than $6000 for every U.S. resident.
What’s all that cash being used for? One important clue is the denomination of the notes out there:
It really is all about the Benjamins.Credit…Federal Reserve
Yep, it’s mainly Benjamins, which by and large can’t even be used in stores. They are used for payments people don’t want easily traced, usually because they’re doing something illicit.
And here’s where the dollar plays a special role: We have a lot more large-denomination notes in circulation, relative to the size of our economy, than other countries. In 2016, the value of large-denomination U.S. notes in circulation was more than 6 percent of G.D.P.; the corresponding figure for Canada was only a third as much. The main reason for the difference, almost surely, is that a lot of $100 bills are being held outside the U.S.
This willingness of foreigners to hold American cash means, in effect, that the world has lent the U.S. a substantial amount of money — maybe on the order of $1 trillion — at zero interest. That’s not a big deal when interest rates are as low as they are now, but in the past it has been worth more — maybe as much as one quarter percent of G.D.P.
America does, then, get some advantage from the special role of the dollar. But it’s hardly a major pillar of U.S. power. And being the world’s primary supplier of assets used in illegal activity isn’t exactly a role filled with glory.
So is it possible that the dollar will eventually lose its dominance? Yes. Will it matter? Not so you’d notice.
Il dollaro comanda. E dunque?
Di Paul Krugman
Si supponeva che le criptovalute sostituissero nella nostra vita quotidiana la valuta cartacea emessa dal Governo. Così non è stato. Ma una cosa che continuo a sentir dire dai credenti nelle criptovalute è che il Bitocoin, o l’Ethereum, o forse qualche cripto asset inventato dai cinesi, presto sostituirà il dollaro come prescelta valuta globale.
Questo è peraltro molto improbabile che accada, dato che è molto difficile che una valuta funzioni come moneta globale se essa non funziona anzitutto come una ordinaria moneta. Eppure, è assolutamente concepibile che uno di questi giorni qualcosa sostituisca il dollaro nel suo attuale dominio. Pensavo un tempo che l’euro avrebbe potuto essere un contendente, sebbene i guai dell’Europa la rendano adesso una prospettiva distante. Eppure, niente in materia monetaria è definitivo.
Ma è importante? Il mio vecchio docente Charles Kindleberger era solito dire che chiunque perda molto tempo a pensare alla valuta internazionale diventa un po’ matto. Intendeva dire, penso, che una cosa come il dominio del dollaro sembra debba essere molto importante – un pilastro del potere dell’America nel mondo. Cosicché è molto difficile per la gente – specialmente per le persone che non sono specialisti della disciplina – capacitarsi del dato di fatto per il quale esso è una questione discretamente banale.
Ma partiamo dall’inizio: il dominio del dollaro è vero. Di questi tempi l’America totalizza, a prezzi di mercato, meno di un quarto del PIL mondiale; meno ancora se si correggono le differenze nazionali nel costo della vita. Tuttavia il dollaro domina i commerci valutari: quando una banca vuole scambiare ringgit [1] malesi con sol [2] peruviani, essa normalmente scambia ringgit in dollari e poi dollari in sol. Anche una gran parte del commercio mondiale viene espressa in dollari – ovvero i contratti sono espressi in dollari ed anche le liquidazioni vengono fatte in dollari. E i dollari totalizzano circa il 60 per cento delle riserve ufficiali di valuta estera: asset in valute estere che i Governi detengono principalmente perché, se necessario, possono intervenire per stabilizzare i mercati.
Come ho detto, questa sembra essere una cosa molto importante. In un certo senso, il dollaro è la moneta del mondo, ed è naturale assumere che questo dia agli Stati Uniti quello che una volta un ministro della finanze francese chiamò il “privilegio esorbitante” – la possibilità di acquistare oggetti semplicemente stampando i dollari che il mondo deve acquisire. Di tanto in tanto leggo notiziari secondo i quali il ruolo speciale del dollaro dà all’America la capacità unica di gestire anno dopo anno deficit commerciali, una possibilità negata ad altre nazioni.
Sennonché questo non è proprio vero. Qua sono rappresentati gli equilibri di conto corrente – le bilance commerciali, secondo una definizione generale – di alcuni paesi di lingua inglese nel corso degli anni, misurati come percentuali dei loro PIL:
Non siamo i re dei deficit. Fonte: Fondo Monetario Internazionale
È vero, l’America ha avuto regolarmente deficit commerciali. L’Australia ha gestito regolarmente deficit persino maggiori; il Regno Unito ha avuto fluttuazioni, ma ha anch’esso gestito in media grandi deficit. Sotto questo aspetto, non siamo speciali.
Eppure, non è forse vero che possiamo prendere a prestito soldi più convenientemente perché il dollaro è quello che comanda? Se così fosse, sarebbe un effetto piuttosto sottile. Nel mentre scrivo, i bond decennali statunitensi stanno rendendo l’1,6 per cento; quelli inglesi lo 0,8 per cento; quelli giapponesi lo 0,07 per cento. Una grande quantità di fattori influenzano i costi di indebitamento, ma non è così evidente dai dati il fatto che né la sterlina né lo yen abbiano un onere importante per non essere principali valute globali.
Ora, la sterlina un tempo era una principale valuta internazionale. Venne sostituita dal dollaro come valuta di riserva dal 1955. Restò un protagonista importante sino alla fine degli anni ’60. Ma allora il suo ruolo rapidamente svanì. Col 1975 la sterlina era fondamentalmente una normale valuta di un paese avanzato, utilizzata internamente ma non all’esterno del paese.
Dunque il valore della sterlina subì un gran colpo quando tutto ciò accadde? No. Ecco il reale tasso di cambio sterlina-dollaro – il numero di dollari per sterlina, corretto per il differenziale di inflazione – a partire dai primi anni ’60:
La sterlina è morta, lunga vita alla sterlina. Fonte: FRED
Ci sono state alcune grandi fluttuazioni nel corso del tempo, che riflettevano episodi come la politica di restrizione monetaria d Margaret Thatcher o il misto di restrizione monetaria e di spesa in deficit di Ronald Reagan. Ma in generale la sterlina è stata molto più forte dopo che si interruppe la sua funzione come valuta globale che non prima. Né si tratta di un grande mistero: esso probabilmente riflette il perdurante ruolo di Londra come centro finanziario globale in un’epoca di globalizzazione finanziaria. Ma ancora, è difficile vedere prove che la perdita di status valutario globale abbia fatto molta differenza.
Dunque, lo status del dollaro è completamente irrilevante? No. La popolarità del dollaro dà in effetti all’America un settore di esportazione unico – vale a dire, i dollari stessi. O più precisamente, i Benjamins – i biglietti da 100 dollari, che recano il ritratto di Benjamin Franklin.
Di questi tempi, gli affari ordinari della vita sono in gran parte digitali: molti americani usano raramente il contante. Persino nei chioschi di frutta e verdura sui marciapiedi di New York spesso si accetta Venmo [3]. Data questa realtà vissuta, fa impressione apprendere quanta valuta sia esattamente in circolazione: più di 2 mila miliardi di dollari, ovvero più di 6.000 dollari per ogni residente degli Stati Uniti.
Per cosa viene utilizzato tutto questo contante? Un indizio importante è la denominazione di queste banconote in circolazione:
Sono per davvero tutti ‘Benjamins’. Fonte: Federal Reserve
È così, sono principalmente ‘benjamins’, che in linea di massima non possono neppure essere utilizzati nei negozi. Vengono usati per i pagamenti a persone che non vogliono essere facilmente tracciate, di solito perché stanno facendo qualcosa di illecito.
Ed ecco dove il dollaro gioca un ruolo speciale: in rapporto alle dimensioni della nostra economia, noi abbiamo molte più banconote di grosso taglio in circolazione rispetto agli altri paesi. Nel 2016, il valore delle banconote di grosso taglio in circolazione negli Stati Uniti era più del 6 per cento del PIL; il corrispondente dato del Canada era soltanto un terzo. La principale ragione della differenza, quasi sicuramente, è che molte delle banconote da 100 dollari vengono utilizzate fuori dagli Stati Uniti.
In effetti, la propensione degli stranieri a detenere contante americano comporta che il mondo ha prestato agli Stati Uniti una sostanziale quantità di moneta – forse nell’ordine di mille miliardi di dollari – ad interesse zero. Questo non è un grand’affare quando i tassi di interesse sono bassi come sono oggi, ma in passato ha avuto un valore maggiore – sino ad un quarto per cento del PIL.
Dunque, l’America ha in effetti qualche vantaggio dal ruolo speciale del dollaro. Ma esso difficilmente può essere considerato un pilastro della potenza statunitense. Ed essendo la principale fornitura di asset del mondo utilizzata in attività illegali, non è precisamente un ruolo ricoperto con gloria.
Dunque è possibile che il dollaro alla fine perda il suo dominio? Sì. Sarà importante? Non più di tanto.
[1] Il ringgit è la valua della Malesia. La parola ringgit significa “zigrinato” e fu inizialmente usata per indicare il bordo del dollaro spagnolo d’argento che circolava diffusamente nell’area. Anche il dollaro di Singapore ed il dollaro del Brunei sono chiamati ringgit in malese (invece le valute come il dollaro statunitense ed il dollaro australiano sono chiamati dolar) e da ciò deriva l’abbreviazione ufficiale di RM per Ringgit Malaysia. Wikipedia
[2] Il nuovo sol peruviano è la valuta del Perù e venne introdotta il 1º luglio 1991 per sostituire l’incredibilmente inflazionato Inti, con un tasso di cambio di 1.000.000 a 1.
[3] Venmo è un servizio di pagamento mobile di proprietà di PayPal. I titolari di account Venmo possono trasferire fondi ad altri tramite un’app per telefono cellulare; sia il mittente che il destinatario devono vivere negli Stati Uniti Ha gestito $ 159 miliardi di transazioni nel primo trimestre del 2018.
maggio 22, 2021
May 21, 2021
By Paul Krugman
Lately I’ve been getting a lot of mail from readers infuriated by my relative nonchalance about two issues: budget deficits and money growth. When I point out that the federal government is able to borrow at incredibly low interest rates, some retort that this is only because the Federal Reserve is buying a lot of debt. When I say that we shouldn’t be worried about runaway inflation, some point to the rapid growth in the money supply and say that we’re on the verge of becoming Venezuela.
These are actually related complaints — and both, I’d argue, reflect common misunderstandings about what’s actually going on both with the Fed’s balance sheet and with the “money supply.” (Scare quotes explained shortly.)
So, what makes an asset money? There’s no ineffable essence that makes green pieces of paper bearing portraits of dead presidents money, whereas vintage comic books aren’t. Money is defined by what it can do — above all, serve as a medium of exchange, something you accept in return for what you have, and then hand over for what you want.
To play this role an asset must also be a reasonably stable store of value — not losing or gaining 30 percent over the course of a day. And a widely used medium of exchange also becomes a unit of account: we calculate profits and debts, make financial deals, in dollars — not with promises to hand over, say, a certain number of sheep.
Since money is a role, not a thing, does it even make sense to calculate the quantity of money? Yes, under certain circumstances. Tracking the number of dead presidents in circulation sometimes helps predict inflation. Tracking broader “monetary aggregates,” which include things like bank deposits that can also be used for payment, may also be useful.
In their landmark 1963 book “A Monetary History of the United States,” Milton Friedman and Anna Schwartz convinced many economists that M2, a measure that included both checkable deposits and other bank deposits that could easily be transferred to checking accounts, was a powerful economic predictor — so much so that the Federal Reserve could basically cure the business cycle simply by keeping M2 growing slowly but steadily. In particular, they argued that the Fed could have prevented the Great Depression if it had prevented M2 from falling 30 percent from 1929 to 1933.
But here’s the thing: the Fed doesn’t directly control M2. All it controls is the “monetary base,” the sum of bank reserves and currency in circulation. (It only controls the sum, not the individual components, since people can decide to withdraw currency from banks or put it back.) What Friedman and Schwartz asserted was that the Fed can control M2 indirectly — that it can push monetary aggregates up or down if it’s willing to move the monetary base enough.
The 2008 financial crisis wasn’t kind to that view. The Fed hugely increased the monetary base, but banks basically just sat on the additional reserves, so that deposits and hence M2 didn’t rise much:
Does the Fed really control the money supply?Credit…FRED
This in turn very much calls into question the notion that the Fed could have prevented the Great Depression. But that’s another story.
More to the current point, M2 has in fact soared during the pandemic:
M2, reaching for the sky.Credit…FRED
And the Fed has indeed bought a lot of government debt. But is the Fed really financing the budget deficit?
Not really. At a fundamental level, households are financing the deficit: the funds being borrowed by the government are coming out of the huge savings undertaken by families saving much of their income in an environment where much of their usual consumption hasn’t felt safe.
However, household financing of the deficit isn’t direct. Instead, it has taken the form of a sort of financial daisy chain. Families are stashing their savings in banks. Banks, in turn, have been accumulating reserves — that is, lending to the Fed, which these days pays interest on bank reserves. And the Fed has been buying government bonds.
Here’s a rough picture:
The monetary daisy chain.Credit…FRED
More or less, households have acquired $2 trillion in deposits; banks have acquired $2 trillion in reserves; and the Fed has acquired $2.5 trillion in government securities. Wait, what’s that extra $500 billion? It appears that someone has been stashing away huge amounts of currency — probably mostly $100 bills, probably mostly outside the U.S. I guess not all Russian gangsters trust Bitcoin.
Exactly why the process has been so indirect is an interesting question. A guess is that private players are worried about liquidity, about having quick access to their funds if necessary. So both families and banks want deposits they can draw down in a pinch, not Treasury securities that might be slightly harder to liquidate.
In any case, there are two points about this process. First, it says that low interest rates aren’t the result of artificial manipulation: there really are a lot of savings with nowhere to go, which are being made available cheaply to the government. Second, because the daisy chain of lending runs through bank deposits, it shows up in the measured money supply. But it isn’t really a monetary expansion in the sense many people imagine. The Fed isn’t the Venezuelan government printing bolívars to pay its soldiers; it’s basically acting as a financial intermediary for investors who want to park their money somewhere safe.
And while there are plenty of reasons to worry about what’s going on in the U.S. economy, Fed purchases of bonds and rising M2 aren’t on the list. Chill out.
Di cosa parliamo quando parliamo di denaro,
di Paul Krugman
Recentemente ricevo molte mail da parte di lettori infuriati per la mia relativa indifferenza su due temi: i deficit di bilancio e la crescita della moneta. Quando metto in evidenza che il Governo federale è nelle condizioni di indebitarsi a tassi di interesse incredibilmente bassi, qualcuno ribatte che questo dipende dal fatto che la Federal Reserve sta comprando una gran quantità di debito [1]. Quando dico che non dovremmo preoccuparci per l’inflazione fuori controllo, alcuni indicano la rapida crescita dell’offerta di denaro e sostengono che siamo prossimi a diventare come il Venezuela.
Si tratta di rimostranze collegate – e entrambe, direi, riflettono una comune incomprensione di quello che sta effettivamente succedendo sia con gli equilibri patrimoniali della Fed che con l’ “offerta di denaro” (le virgolette le spiego tra breve).
Dunque, cosa produce una risorsa di denaro? Non c’è alcuna ineffabile essenza che fa diventare denaro i fogli verdi cartacei che ritraggono i Presidenti morti, dato che non sono fumetti d’annata. Il denaro è definito da quello che può fare – servire, soprattutto, come mezzo di cambio, qualcosa che si accetta in cambio di quello che si vuole avere, e quindi che si cede per quello che si vuole.
Per giocare questo ruolo un cespite deve anche essere una stabile riserva di valuta – non perdere o guadagnare il 30 per cento nel corso di una giornata. E un mezzo di scambio ampiamente utilizzato diventa anche una unità di conto: calcoliamo i profitti e i debiti, facciamo accordi finanziari, in dollari – non con la promessa di consegnare, ad esempio, un certo numero di pecore.
Dato che il denaro è una funzione, non una cosa, ha addirittura senso calcolare la quantità di denaro? A certe condizioni, sì, ha senso. Monitorare il numero dei ‘Presidenti morti’ in circolazione talora aiuta a prevedere l’inflazione. Anche seguire i più ampi “aggregati monetari”, che includono cose come i depositi bancari che possono anche essere usati per i pagamenti, può essere utile.
Nel loro libro pietra miliare del 1963 “Una storia monetaria degli Stati Uniti”, Milton Friedman e Anna Schwartz convinsero molti economisti che lo M2, una misura che includeva sia i depositi ‘controllabili’ [2] che altri depositi bancari che potevano essere facilmente trasferiti su conti correnti bancari, era un potente indicatore economico – al punto tale che la Federal Reserve poteva fondamentalmente sorvegliare il ciclo economico mantenendo la crescita dello M2 lenta ma regolare. In particolare, essi sostennero che la Fed avrebbe potuto impedire la Grande Depressione se avesse impedito la caduta del 30 per cento dello M2 dal 1929 al 1933.
Ma qua è il punto: la Fed non controlla direttamente lo M2. Tutto ciò che essa controlla è la “base monetaria”, la somma delle riserve bancarie e della moneta in circolazione (essa controlla solo la somma, non le singole componenti, dal momento che le persone possono decidere di ritirare valuta dalla banca o di mettercela). Quello che Friedman e Schwartz sostennero era che la Fed può controllare indirettamente lo M2 – che può spingere gli aggregati in alto o in basso se è disponibile a muovere a sufficienza la base monetaria.
La crisi finanziaria del 2008 non si adattò a quel punto di vista. La Fed accrebbe grandemente la base monetaria, ma le banche fondamentalmente si sedettero sulle risorse aggiuntive, cosicché i depositi e conseguentemente lo M2 non crebbe granché:
La Fed controlla davvero l’offerta di denaro? Fonte: FRED [3]
Questo, a sua volta, solleva molti dubbi sul concetto he la Fed avrebbe potuto impedire la Grande Depressione. Ma questa è un’altra storia.
Per venire ala situazione attuale, lo M2 in effetti è salito alle stelle durante la pandemia:
Lo M2 arriva al cielo. Fonte: FRED
E la Fed ha infatti acquistato molto debito pubblico. Ma la Fed sta davvero finanziando i deficit di bilancio?
In realtà, no. Fondamentalmente le famiglie stanno finanziando il deficit: i fondi che vengono presi in prestito dal Governo provengono dai grandi risparmi assunti dalle famiglie, le quali risparmiano buone parte del loro reddito in un contesto nel quale molti dei loro consueti consumi non sono percepiti sicuri.
Tuttavia, il finanziamento del deficit da parte delle famiglie non è diretto. Ha preso piuttosto la forma di una catena finanziaria in sequenza. Le famiglie mettono la pare i loro risparmi nelle banche. Le banche, a loro volta, stanno accumulando riserve – ovvero, prestandole alla Fed, che al giorno d’oggi paga un interesse sulle riserve delle banche. E la Fed sta acquistando obbligazioni sul debito.
Ecco il quadro approssimativo:
La catena monetaria a sequenza. Fonte: FRED
Più o meno, le famiglie hanno acquistato 2 mila miliardi di dollari di depositi; le banche hanno acquistato 2 mila miliardi di dollari di riserve e la Fed ha acquistato 2.500 miliardi di dollari di titoli pubblici. Ma un momento, cosa sono quei 500 miliardi di dollari in eccesso? Sembra che qualcuno stia mettendo da parte enormi quantità di valuta – probabilmente in gran parte in biglietti da cento dollari, probabilmente in gran parte fuori dagli Stati Uniti. Suppongo che non tutti i gangster russi abbiano fiducia nel Bitcoin. [5]
La ragione precisa per la quale il procedimento è stato così indiretto è una questione interessante. Una ipotesi è che i soggetti privati siano preoccupati della liquidità, dell’avere un rapido accesso ai loro fondi in caso di necessità. Dunque sia le famiglie che le banche desiderano che i depositi possano essere ritirati all’occorrenza, non titoli del Tesoro che potrebbe essere leggermente più difficile liquidare.
In ogni caso, ci sono due aspetti di questo procedimento. Il primo, esso dice che i bassi tassi di interesse non sono il risultato di una manipolazione artificiale: in realtà c’è una grande quantità di risparmi che non hanno dove andare, che vengono messi convenientemente a disposizione del Governo. Il secondo, dato che la catena in sequenza dei prestiti corre attraverso i depositi bancari, essa si manifesta nell’offerta misurata di denaro. Ma non si tratta di una espansione monetaria nel senso in cui in molti si immaginano. La Fed non è il Governo venezuelano che stampa bolivar per pagare i suoi soldati: sta fondamentalmente agendo come un intermediario per gli investitori che vogliono parcheggiare i loro soldi in qualche modo con sicurezza.
E mentre ci sono un buon numero di ragioni per preoccuparsi di quanto sta accadendo nel’economia statunitense; gli acquisti di obbligazioni da parte della Fed e la crescita dell M2 non fanno parte della lista. Tranquilli.
[1] “Comprare” il debito, per un banca centrale, significa comprare le obbligazioni sul debito emesse dagli Stati.
[2] “Deposito controllabile” è un termine tecnico che significa che da un conto si possono ritirare a piacimento fondi, senza alcuna notifica. Nello M2 queste attività sono ricomprese, in aggiunta, ovviamente, alla moneta circolante.
[3] FRED è l’acronimo di Federal Reserve Economic Data, ed è un servizio che è svolto dalla banca della Fed di St. Louis.
[4] La linea verde nella Tabella indica i depositi totali dei risparmiatori; quella rossa indica il totale delle riserve delle banche; quella blu l’attività sui titoli del Tesoro statunitense.
[5] I 500 miliardi di dollari in eccesso, se ben capisco, sono quelli degli acquisti di obbligazioni che eccedono la “sequenza” dei risparmi delle famiglie e delle riserve bancarie. Ma allora quei titoli non sono tutti acquistati dalla Fed? Da qua l’ipotesi che alcuni miliardari globali, come gli oligarchi russi, stiano acquistando titoli? In effetti, la Tabella non dice che la linea blu sono le obbligazioni acquistate dalla Fed, ma soltanto che sono i titoli ‘complessivamente detenuti’. Invece è chiaro il riferimento al Bitcoin: non tutti i miliardari ne hanno fiducia, anche gli ‘oligarchi’ si fidano di più dei titoli di stato americani.
maggio 16, 2021
May 13, 2021
By Paul Krugman
Some years back I tried to make a distinction between zombie ideas — ideas that should have been killed by evidence, but just keep shambling along, eating people’s brains — and cockroach ideas, false beliefs that sometimes go away for a while but always come back.
And lately I’ve been noticing an infestation of monetary cockroaches. In particular, I’m hearing a lot of buzz around how the Fed’s wanton abuse of its power to create money will soon lead to runaway inflation — or maybe that we’re already experiencing high inflation, but it’s being hidden by dishonest government statistics.
There was a lot of talk along those lines a decade ago, but it faded out as it became obvious to everyone that hyperinflation just wasn’t happening. Now it’s back, I think for a couple of reasons.
For one thing, we are seeing some actual inflation as a recovering economy runs into bottlenecks — shortages of lumber, shipping containers, used cars, etc. I believe, and the Fed believes, that these shortages are temporary, that this is only a blip and that inflation will subside; but we could be wrong, and at least there’s some substance to this concern.
But a lot of the money-printing panic is, I believe, coming from the crypto crowd. I’ve been in a number of extended (and determinedly civil) discussions with boosters of Bitcoin etc., doing my best to keep an open mind. What happens in these discussions is that skeptics like me keep pressing for an answer to the question, “What problem is cryptocurrency supposed to solve, exactly?” And at some point the answer always devolves to some version of “Fiat money is doomed because the Fed won’t stop running the printing press.”
So it seems to me that it would be useful to talk about why that’s a really bad take, and has been a bad take over and over again for the past 40 years.
To be fair, printing huge amounts of money to pay the government’s bills does in fact lead to high inflation. Take the example of Brazil in the early 1990s:
Yes, printing money can cause inflation.Credit…FRED
But nothing like that has happened in the U.S., even during periods when monetary aggregates like M2 have increased dramatically. Anyone claiming that big increases in M2 presage surging inflation was wrong again and again since the 1980s. I mean really, really wrong:
M2 hasn’t been much use for decades.Credit…FRED
Why?
There are actually two big fallacies in the “printing press goes brrr -> inflation” story.
One of them is what I think of as the doctrine of immaculate inflation: the notion that an increase in the money supply somehow translates directly into inflation without causing economic overheating along the way. Many people have fallen for that fallacy over the years. Among them was no less a figure than Milton Friedman. He looked at rapid growth in M1 during the early 1980s:
Friedman’s mistake.Credit…FRED
And from 1982 to 1985 he repeatedly predicted a resurgence of inflation: 8 percent for 1983, double-digit for 1984, 8 to 10 percent for 1985.
Obviously none of that happened. Instead, a slack economy with high unemployment led to declining inflation over the whole period:
Inflation, not immaculate.Credit…FRED
Today’s inflationistas, however, don’t know anything about that history.
The other fallacy of the modern inflationistas is that they don’t understand how the role of money changes in a world of very low interest rates, even though we’ve been living in that kind of world for a very long time.
Before 2007 it was expensive for people to hold money, because cash yielded no interest while bank deposits paid less than other assets like Treasury bills. So people held money only because of its liquidity — the fact that it could readily be spent. When the Fed increased the money supply, this left the public with more liquidity than it wanted, so that the money would be used to buy other assets, driving interest rates down and leading to higher overall spending.
But when interest rates are very low — which they have been for years, basically because there’s a glut of savings relative to perceived investment opportunities — money is, at the margin, just another asset. When the Fed increases the money supply, people don’t feel any urgent need to put that cash to more lucrative uses, they just sit on it. The money supply goes up, but G.D.P. doesn’t, so the “velocity” of money — the ratio of G.D.P. to the money supply — plunges:
Money just sits there these days.Credit…FRED
These aren’t new insights. I wrote about all of this in the context of Japan back in the 1990s, and even that was mainly a formalization of insights many economists had held for decades. And while it took a while, my sense is that by 2014 or so the great majority of economic commentators had accepted that looking at the money supply in the U.S. context offered basically no information about future inflation.
But now we have a new crop of financial types, especially, as I said, people associated with crypto, who don’t know about any of that and, as so often happens with money people, assume that they already know everything. So we’re having a fresh infestation of monetary cockroaches, and everything has to be explained again.
Il ritorno degli scarafaggi monetari,
di Paul Krugman
Alcuni anni fa cercai di fare una distinzione tra le idee zombi – idee che dovrebbero essere state liquidate dalle prove, ma che continuano a circolare mangiandosi il cervello delle gente – e le idee scarafaggio, convinzioni false che talora se ne vanno per un po’ ma tornano sempre indietro.
E di recente vengo notando una infestazione di scarafaggi monetari. In particolare, ascolto un sacco di voci su come la Fed farebbe un abuso smodato del suo potere di creare denaro che presto porterà ad un inflazione fuori controllo – o magari che stiamo già avendo una alta inflazione, ma essa viene nascosta da statistiche disoneste del Governo. Ci furono un sacco di chiacchiere di questo genere una decina d’anni orsono, ma svanirono quando divenne evidente che l’iperinflazione proprio non stava accadendo. Adesso tornano, penso per un paio di ragioni.
Da una parte, stiamo assistendo ad un po’ di effettiva inflazione allorché l’economia si imbatte in strozzature – carenza di legname, di container per le spedizioni, auto usate, etc. Io credo, e la Fed crede, che queste carenze siano temporanee, che siano solo un contrattempo e che l’inflazione recederà; ma potremmo sbagliare, e almeno in questa preoccupazione c’è un po’ di sostanza. Ma credo che molto del panico per la creazione di moneta venga dalle gente delle criptovalute. Ho partecipato ad un certo numero di lunghi (e decisamente civili) dibattiti con i sostenitori del Bitcoin, facendo del mio meglio per mantenere una posizione aperta. Quello che accade in questi dibattiti è che gli scettici come me continuano ad insistere per avere una risposta alla domanda: “Esattamente, quale problema si pensa che le criptovalute risolvano?”. E in qualche momento la risposta inevitabilmente si risolve in una versione del tipo “La moneta legale è condannata perché la Fed non smetterà di stampare moneta”.
Dunque mi sembra che sarebbe utile parlare della ragione per la quale quella è una pessima posizione, ed è stata una pessima posizione ripetutamente nel corso degli ultimi 40 anni. Ad esser giusti, stampare grandi quantità di moneta per pagare i conti del Governo porta davvero ad una elevata inflazione. Si prenda l’esempio del Brasile nei primi anni ’90:
Sì, stampare moneta può provocare inflazione. Fonte: Federal Reserve Economic Data (FRED)
Ma niente del genere è accaduto negli Stati Uniti, neppure nei periodi nei quali gli aggregati monetari come lo M2 [1] sono cresciuti in modo spettacolare. Chiunque sosteneva che i grandi incrementi di M2 facessero presagire l’inflazione ebbe continuamente torto negli anni ’80. Intendo dire, torto marcio.
Dello M2 non è stato fatto un gran uso per decenni. Fonte: FRED
Perché?
In realtà ci sono due grandi errori nel racconto secondo il quale stampare moneta porta ineluttabilmente all’inflazione.
Uno di essi è quello che definisco come la dottrina della immacolata inflazione: l’idea che ogni aumento dell’offerta di denaro in qualche modo si traduca direttamente in inflazione senza provocare nel suo percorso un surriscaldamento dell’economia. Molte persone si sono fatte ingannare, nel corso degli anni, da quell’errore. Tra di esse ci fu niente di meno che un personaggio come Milton Friedman. Nei primi anni ’80 egli osservò una rapida crescita del M1:
L’errore di Friedman. Fonte: FRED
E dal 1982 al 1985 egli previde ripetutamente un ripresa dell’inflazione: dell’8 per cento nel 1983, a due cifre nel 1984, dall’8 al 10 per cento nel 1985.
Ovviamente non accadde niente del genere. Invece, un’economia fiacca con alta disoccupazione condusse nell’intero periodo ad un calo dell’inflazione:
Una inflazione, non immacolata. Fonte: FRED
Gli inflazionisti odierni, tuttavia, non conoscono niente di quella storia.
L’altro errore degli inflazionisti odierni è che essi non capiscono come il ruolo della moneta cambi in un mondo di tassi di interesse molto bassi, anche se è in quel genere di mondo che stiamo vivendo da molti anni.
Prima del 2007 era costoso per la gente tenersi il denaro, perché il contante non fruttava alcun interesse mentre i depositi bancari pagavano meno di altri asset come i buoni del Tesoro. Dunque le persone si tenevano il denaro solo per la sua liquidità – perché poteva essere speso prontamente. Quando la Fed aumentò l’offerta di moneta, questo lasciò la gente con una liquidità maggiore di quella che essa voleva, cosicché il denaro poté essere usato per acquistare altri asset, abbassando i tassi di interesse e portando ad una spesa complessiva maggiore.
Ma quando i tassi di interesse sono divenuti molto bassi – il che è avvenuto per anni, fondamentalmente perché c’è un eccesso di risparmi in rapporto alle opportunità percepite di investimento – il denaro è, al margine, precisamente un altro asset. Quando la Fed aumenta l’offerta di denaro, la gente non sente alcun bisogno urgente di mettere quei soldi in utilizzi più lucrativi, semplicemente se li tiene. L’offerta di denaro sale, ma non sale il PIL, cosicché la “velocità” della moneta – il rapporto tra il PIL e l’offerta di denaro – crolla:
Di questi tempi i soldi stanno lì. Fonte: FRED
Queste non sono nuove intuizioni. Scrissi su tutto questo al’epoca del ‘ritorno’ [3] del Giappone negli anni ’90, e anche allora era principalmente una manifestazione di intuizioni che molti economisti avevano avuto da decenni. E se c’è voluto un po’ di tempo, la mia sensazione è che col 2014 o giù di lì la grande maggioranza degli economisti aveva accettato che osservare l’offerta di denaro nel contesto statunitense non offriva alcuna informazione sull’inflazione futura.
Ma adesso abbiamo una nuova messe di soggetti finanziari, in particolare, come ho detto, persone associate con le criptovalute, che non sanno niente di tutto ciò e, come accade di frequente con le persone provviste di denaro, suppongono di conoscere già tutto. Dunque abbiamo una nuova infestazione di scarafaggi monetari, e tutto deve essere nuovamente spiegato.
[1] M1 indica la base monetaria (riserve delle banche e moneta corrente). M2 invece indica l’aggregato monetario che include anche aree “vicine alla moneta”, come i depositi dei risparmi, i titoli dei mercati monetari, i fondi delle società di investimento)
[2] La linea blu indica l’andamento dell’aggregato monetario M2; come si vede esso ha avuto considerevoli alti e bassi. Ma la linea rossa indica l’andamento delle spese per consumi personali (esclusi alimenti ed energia), che dalla metà degli anni ’80 non hanno avuto affatto le stesse variazioni significative.
[3] Credo che il termine “ritorno” derivi da una espressione che venne allora usata dallo stesso Krugman, che si riferiva al fatto che la “trappola di liquidità” era tornata. Se non ricordo male, un suo saggio aveva un titolo ironico, del tipo “It’s baaaack!”.
maggio 3, 2021
April 30, 2021
By Paul Krugman
Friday’s column was mainly about the payoffs to expanded child care, but I also talked a bit about the consistent failure of conservative predictions that say raising taxes on high incomes will lead to economic disaster and introducing tax cuts will lead to nirvana. However, I didn’t talk about why tax rates on the rich don’t seem to have major economic consequences. So I thought I’d devote today’s newsletter to some speculations on that question.
It’s not because incentives don’t matter. Clearly, they do. France’s high taxes haven’t led to low employment of prime-age adults, but generous benefits for those who retire early have led to low employment among near-seniors:
The French are a retiring people.Credit…OECD
How, then, can we explain the lack of clear responses (other than tax avoidance) to changes in the tax rate on top incomes?
One answer, which I suspect is relevant in the uppermost strata of the income distribution, is that at that level people don’t seek more money so they can afford more things, since they’re already able to afford far more luxury than anyone can enjoy. Instead, it’s about keeping score; that is, their goal is to make as much or more than the people they compare themselves with. And raising taxes on rich people in general doesn’t eliminate the race to out-earn one’s rivals.
Even to the extent that the rich seek income for what it can buy, however, it’s not clear that cutting their taxes will lead to greater effort. Indeed, it could lead to reduced effort, because it becomes easier for them to afford what they want.
Readers who took economics probably realize that I’m talking about income effects as opposed to substitution effects, a distinction that plays a crucial role in understanding how wages affect labor supply.
As most intro econ texts including the best one explain, higher wages have two effects on workers. They have an incentive to work more, because an extra hour gets them more stuff. But they’re also more affluent, which lets them consume more — and one of the things they might choose to consume is more leisure, i.e., they might choose to work less.
Historically, in fact, higher wages have generally led to reduced working hours. Wages have increased enormously over the past century and a half, but the workweek has gotten a lot shorter:
Wages up, hours down.Credit…Our World in Data
So if tax cuts for the rich are like a wage hike, they could lead to less rather than more effort.
But wait: the top tax rate is a marginal rate, not an average rate. Individuals making, say, $600,000 a year pay 37 percent on the last dollar they earn, but most of their income is taxed at substantially lower rates — and those rates won’t be affected if President Biden succeeds in raising the top rate back to 39.6 percent. So you might think that raising or lowering the top rate is not, in fact, much like changing affluent Americans’ wages.
But here’s the thing: most of the earned income accruing to people in the top tax bracket is, in fact, taxed at the top rate. (Capital gains etc. are a different story.) Why? Because the distribution of income at the top is itself very unequal: there are huge disparities even within the economic elite. According to estimates by Thomas Piketty and Emmanuel Saez, almost half the income of the top 1 percent accrues to the top 0.1 percent, a category that begins at around three times as high a threshold.
Now, high incomes closely follow a Pareto distribution, indeed to an eerie extent. Here’s a plot of high incomes versus the percentage of taxpayers with incomes above that level, both expressed in natural logs:
A weirdly exact relationship.Credit…Piketty and Saez
In such a distribution, the top .05 percent is to the top 0.5 percent what the top 0.1 percent is to the top 1 percent, so what is true of the distribution of income within the 1 percent is also true of the distribution within the roughly 0.5 percent of Americans subject to the top tax rate. This means that, as I said, most of the income accruing to that group is taxed at the top rate. And this in turn means that cutting that top rate is more like an across-the-board wage rise for the elite than you might think — and wage rises don’t tend to increase work effort.
Or to put it a bit differently, while tax cuts for the rich may offer an incentive to work harder, they’re also a big giveaway that encourages the elite to work less.
Of course, the fact that tax cuts at the top are a big giveaway is precisely the reason that belief in the immense economic importance of low taxes is such an unkillable zombie. As Upton Sinclair famously said, it’s difficult to get a man to understand something when his salary depends on his not understanding it.
Perchè non tagliare le tasse sul lavoro dei ricchi? [1]
Di Paul Krugman
L’articolo di venerdì riguardava principalmente i vantaggi della espansione dell’assistenza ai bambini, ma parlavo anche un po’ del costante fallimento delle previsioni conservatrici secondo le quali alzare le tasse sui redditi elevati porterà al disastro economico e approvare tagli delle tasse porterà al nirvana. Tuttavia, non dicevo niente sul perché le aliquote fiscali sui ricchi non sembrano avere importanti conseguenze economiche. Dunque ho pensato di dedicare la lettera di oggi a qualche speculazione su quel tema.
Il punto non è che gli incentivi non contino. Chiaramente sono importanti. Le tasse elevate della Francia non hanno portato ad una bassa occupazione degli adulti nella principale età lavorativa, ma i sussidi generosi per coloro che vanno in pensione prematuramente hanno portato alla bassa occupazione tra i quasi anziani:
I francesi sono un popolo di pensionati. Fonte: OCSE
Come possiamo, dunque, spiegare l’assenza di chiare reazioni (a parte l’elusione fiscale) ai cambiamenti nella aliquota fiscale sui redditi più alti?
Una risposta, che sospetto sia rilevante negli strati più alti della distribuzione del reddito, è che le persone di quel livello non cercano soldi per potersi permettere più beni, dal momento che già possono permettersi più lussi di quanto nessuno possa godere. Riguarda, invece, i punteggi che ottengono; ovvero, il loro obbiettivo è di realizzare altrettanto o di più delle persone con le quali si confrontano. Ed alzare le tasse sulle persone ricche in generale non elimina la corsa a guadagnare con i propri rivali.
Persino nelle misura in cui i ricchi sono alla ricerca di reddito per quello che possono acquistare, tuttavia, non è chiaro se tagliare le loro tasse porterà ad un impegno maggiore. In effetti potrebbe portare ad un impegno minore, perché per loro diventa più facile permettersi quello che vogliono.
I lettori che hanno seguito corsi di economia probabilmente capiscono che sto parlando degli effetti del reddito in quanto opposti agli effetti di sostituzione, una distinzione che gioca un ruolo cruciale nella comprensione delle ragioni per le quali i salari influenzano l’offerta di lavoro.
Come spiegano la maggioranza dei testi introduttivi all’economia, compreso il migliore [3], i salari più alti hanno due effetti sui lavoratori. Sono un incentivo a lavorare di più, perché con un ora aggiuntiva ottengono più cose. Ma i lavoratori sono adesso anche più benestanti, il che consente loro di consumare di più – e una delle cose che possono scegliere di consumare è più tempo libero, ovvero possono scegliere di lavorare di meno.
Di fatto, storicamente, i salari più alti hanno in genere portato ad una riduzione delle ore di lavoro. I salari sono cresciuti enormemente nel corso del secolo e mazzo passato, ma la settimana lavorativa è diventata molto più corta:
I salari crescono, le ore si riducono. Fonte: Our World in data.
Dunque, se i tagli delle tasse per i ricchi sono simili agli aumenti dei salari, potrebbero portare ad un impegno minore anziché superiore.
Ma, un momento: l’aliquota fiscale più elevata è una aliquota merginale, non una aliquota media. Le persone che realizzano, diciamo, 600.000 dollari all’anno pagano il 37 per cento sull’ultimo dollaro che guadagnano, ma la maggior parte del loro reddito è tassata con aliquote sostanzialmente più basse – e quelle aliquote non sono influenzate se il Presidente Biden ha successo nel riportare l’aliquota massima al 39,6 per cento [5]. Dunque, potreste supporre che alzare o abbassare l’aliquota massima, di fatto, non è proprio come cambiare i compensi degli americani benestanti.
Ma qua è il punto: la maggior parte del reddito guadagnato che affluisce alle persone nella fascia di reddito più alta viene, di fatto, tassato all’aliquota massima (i guadagni da capitale e le cose simili sono una storia diversa). Perché? Perché la distribuzione del reddito nella fascia più alta è anch’essa molto ineguale: ci sono grandi disparità anche all’interno dell’elite economica. Secondo le stime di Thomas Piketty e di Emmanuel Saez, quasi la metà del reddito dell’1 per cento dei più ricchi matura a favore dello 0,1 per cento dei più ricchi, una categoria che parte da una soglia circa tre volte più alta.
Ora, i redditi alti seguono strettamente una distribuzione paretiana, in effetti in una misura inquietante. Ecco un grafico dei redditi alti in rapporto alla percentuale dei contribuenti con redditi superiori a quel livello, entrambi espressi in logaritmi naturali:
Una relazione stranamente esatta. Fonte: Piketty e Saez
In tale distribuzione, l’ 0,05 per cento dei più ricchi sta allo 0,5 per cento dei più ricchi come quello dello 0,1 per cento sta all’1 per cento, cosicché ciò che è vero per la distribuzione del reddito all’interno dell’1 per cento è anche vero per la distribuzione all’interno del gruppo dello 0,5 per cento degli americani che è soggetto alla aliquota massima. Questo comporta che, come ho detto, la maggior parte del reddito che affluisce a quel gruppo è tassata all’aliquota massima. E questo comporta a sua volta che tagliare l’aliquota massima è probabile sia più simile ad una universale crescita dei compensi per le elite di quello che si penserebbe – e gli aumenti dei compensi non tendono ad incrementare l’impegno a lavorare.
O per dirla un po’ diversamente, mentre i tagli delle tasse per i ricchi possono offrire un incentivo a lavorare più duramente, essi sono anche un grande regalo che incoraggia le elite a lavorare meno.
Naturalmente, il fatto che gli sgravi fiscali ai più ricchi siano un grande regalo è precisamente la ragione per la quale la convinzione sulla immensa importanza di basse tasse sia a tal punto uno zombi indistruttibile. Come notoriamente disse Upton Sinclair, è difficile far comprendere ad una persona qualcosa, quando il suo stipendio dipende dal non comprenderla.
[1] Come abbiamo appreso da Milanovic: “Una caratteristica unica e nettamente diversa del capitalismo liberal-meritocratico rispetto alla sua forma classica è la presenza di persone con un alto reddito da lavoro nel decile o nel percentile superiore [ovvero nel 10 per cento o nell’1 per cento dei più ricchi] e, cosa ancora più interessante, la quota crescente di popolazione che detiene sia un alto reddito da lavoro sia un alto reddito da capitale” (vedi la mia nota sul libro di Milanovic).
[2] La Tabella mostra la percentuale di occupati tra i 55 ed i 64 anni (la linea arancione sono gli Stati Uniti, quella blu la Francia).
[3] Riferimento scherzoso al testo di economia scritto da Krugman e da sua moglie Robin Wells.
[4] Andamento delle ore lavorative annuali dal 1870 al 2017.
[5] Suppongo che si dica “portare indietro, riportare” perché quella aliquota venne diminuita dai tagli delle tasse di Trump. La misura proposta da Biden riporgerebbe ai livelli del passato.
[6] Spiacente, ma non riesco a comprendere la tabella. Alla fine mi sono accontentato di dedurre questo: che i ricchi che hanno grandi “redditi da lavoro” sono soprattutto i ricchissimi; quindi su tali redditi – partendo da una soglia superiore – si applicano le aliquote fiscali più alte.
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