Mar 11 8:06 am
Watch that plunging euro! Actually, it’s good news for Europe. European growth numbers have been better lately, and the weak euro — which makes EZ manufacturing and other tradables more competitive — is surely a large part of the explanation. Not so good for Japan or the US. But how should we think about this?
It’s more or less standard international macro that with high capital mobility and floating exchange rates, demand shocks in any one country or region will be “shared” with other countries. If you have exceptionally strong demand, your currency will rise, crimping your own growth while boosting growth abroad; if you have exceptionally weak demand, you will get partial compensation via a weaker currency that helps net exports. Such effects can be offset with interest rate changes if you’re not at the zero almost lower bound, but we are.
But how much of a demand shock is shared? I argued about a month ago that it depends on the extent to which the shock is perceived as temporary versus permanent. In an idealized world permanent shocks should be fully shared — that is, permanently weak demand in Europe should hurt the United States just as much as it does Europe.
So, can we say anything about how the recent move in the euro fits into this story? One way, I’d suggest, is to ask how much of the move can be explained by changes in the real interest differential with the United States. US real 10-year rates are about the same as they were in the spring of 2014; German real rates at similar maturities (which I use as the comparable safe asset) have fallen from about 0 to minus 0.9. If people expected the euro/dollar rate to return to long-term normal a decade from now, this would imply a 9 percent decline right now.
What we actually see is almost three times that move, suggesting that the main driver here is the perception of permanent, or at any rate very long term European weakness. And that’s a situation in which Europe’s weakness will be largely shared with the rest of the world — Europe will have its fall cushioned by trade surpluses, but the rest of us will be dragged down by the counterpart deficits.
Now, this is not how most analysts approach the problem. They make a forecast for the exchange rate, then run this through some set of trade elasticities to get the effects on trade and hence on GDP. Such estimates currently indicate that the dollar will be a moderate-sized drag on US recovery, but no more. What the economic logic says, however, is that if that’s really true, the dollar will just keep heading higher until the drag gets less moderate.
La esportazione della stagnazione europea
Guardate che crollo l’euro [1]! Effettivamente, è una buona notizia per l’Europa. I dati sulla crescita europea sono stati migliori di recente, e l’euro debole – che rende il settore manifatturiero dell’eurozona ed altri prodotti commerciabili a livello internazionale più competitivi – costituisce certamente larga parte della spiegazione. Ma cosa dovremmo pensare di tutto questo?
E’ più o meno la normale macroeconomia internazionale che spiega come con un’alta mobilità dei capitali e tassi di cambio fluttuanti, gli shock della domanda in un paese o in una regione sono destinati ad essere “condivisi” con altri paesi. Se si ha una domanda eccezionalmente forte, la valuta sale, da un parte ostacolando la vostra crescita e dall’altra incoraggiando la crescita estera; se si ha una domanda eccezionalmente debole, avrete un parziale compenso attraverso una valuta più debole che aiuta le esportazioni nette. Tali effetti possono essere bilanciati con cambiamenti nei tassi di interesse se non si è ad un limite quasi più basso dello zero nei tassi di interesse, ma noi siamo a quel punto.
Ma quanta parte dello shock della domanda viene condiviso? Come ho sostenuto circa un mesa fa, ciò dipende dalla misura nella quale lo shock è percepito come provvisorio, ovvero come permanente. In un mondo teorico shock permanenti dovrebbero essere pienamente condivisi – vale a dire, una domanda permanentemente debole in Europa dovrebbe danneggiare gli Stati Uniti nello stesso modo in cui danneggia l’Europa.
Possiamo dunque dire qualcosa sul modo in cui i recenti movimenti dell’euro si adattano a questo racconto? Direi che un modo è chiedersi quanto i movimenti possono essere spiegati da mutamenti nel differenziale dei tassi di interesse con gli Stati Uniti. I tassi reali decennali degli Stati Uniti sono grosso modo gli stessi che erano nella primavera del 2014; i tassi reali della Germania con una scadenza simile (che io utilizzo come asset paragonabilmente sicuri) sono caduti dallo 0 al meno 0,9. Se le persone si aspettano che il rapporto tra euro e dollaro torni nel lungo termine normale di qua ad un decennio, questo comporterebbe un declino del 9 per cento a partire da oggi.
Quello che osserviamo è un movimento tre volte superiore, il che indica che il fattore principale, in questo caso, è la percezione di una debolezza europea permanente, o comunque a lunghissimo termine. E quella è una situazione nella quale la debolezza dell’Europa è destinata ad essere ampiamente condivisa dal resto del mondo – l’Europa vedrà la sua caduta attenuata dai surplus commerciali, ma il resto del mondo verrà trascinato dai deficit della controparte.
Ora, non è questo il modo nel quale gran parte degli analisti approcciano il problema. Essi fanno una previsione per il tasso di cambio, poi riprovano qualche serie di elasticità del commercio per ottenere gli effetti sul commercio e di conseguenza sul PIL. Tali stime indicano che il dollaro avrà un effetto di trascinamento di moderata dimensione sulla ripresa statunitense, ma non di più. Quello che la logica economica, tuttavia, ci dice, se ciò è realmente vero, è che il dollaro continuerà a salire sinché il trascinamento non diventa meno moderato.
[1] Il diagramma è relativo all’evoluzione del tasso di cambio tra dollaro ed euro.
marzo 9, 2015
With job growth finally running at the pace we’d expect to see after a deep slump, we’re not hearing as much about how Obama’s anti-capitalist policies are the reason we’re not having a V-shaped recovery, the way we did under the Blessed Reagan. But it’s true that recovery was a long time coming. Why?
Well, the answer has long been obvious: constrained monetary policy thanks to the zero sort-of lower bound, constrained fiscal policy because of the combination of debt fears and Republican obstruction. But it might be useful to have a simple graphical demonstration; in any case, I was putting together some figures for class and thought they might be of use to others. In both cases I compare developments following the business cycle peak — July 1981 for Reagan (ignoring for this purpose the 79-80 recession, even though 79-82 is widely regarded as a single episode) and Dec. 2007 for Obama.
First, monetary policy:
The 81-2 recession and the 2007-9 recession had very different causes. The first was caused by tight money, imposed by the Fed to curb high inflation. As a result, there was plenty of room to cut rates (and also pent-up housing demand). The second was caused by private-sector overreach; we came into it with inflation and interest rates already low, so that there was much less room to cut, more or less guaranteeing a slow recovery. And yes, I predicted this in advance.
Second, fiscal policy:
This, I didn’t see coming. But the effect is clear: at a time when monetary policy was limited in its effectiveness, fiscal policy was perverse. In practice, Reaganomics was far more Keynesian while Boehnernomics — which is what it ended up being, in practice — was anti-Keynesian.
That’s the story of the delayed recovery.
Politiche della domanda in due grandi recessioni
Con la crescita dei posti di lavoro finalmente ad un ritmo che ci si sarebbe aspettati di vedere dopo una profonda depressione, non si sente più parlare delle ragioni per le quali le politiche anticapitalistiche di Obama siano la ragione per la quale non abbiamo una ripresa a ‘forma di V’, nel modo in cui l’avemmo con San Reagan. Ma è vero che è occorso molto tempo perché la ripresa arrivasse. Perché?
Ebbene, la risposta è ovvia da tempo: una politica monetaria limitata grazie a quella specie di limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse), una politica della spesa pubblica limitata dalla combinazione delle paure per il debito e dell’ostruzionismo repubblicano. Ma potrebbe essere utile avere una semplice raffigurazione grafica; in ogni caso, stavo mettendo assieme alcuni numeri per la lezione universitaria ed ho pensato che potevano essere utili anche ad altri. In entrambi i casi, paragono gli sviluppi che hanno fatto seguito al picco del ciclo economico – nel luglio 1981 nel caso di Reagan (trascuro a questo proposito la recessione 1979-80, anche se il periodo 1979-1982 in generale è considerato come un episodio singolo), nel dicembre del 2007 nel caso di Obama:
Anzitutto la politica monetaria [1]:
La recessione 81-82 e quella 2007-2009 ebbero cause molto diverse. La prima fu provocata da una restrizione monetaria, imposta dalla Fed per mettere un freno all’inflazione. Di conseguenza, c’era un grande spazio per tagliare i tassi (ed anche per accumulare la domanda di alloggi [2]). La seconda fu provocata da eccessi nel settore privato; ci finimmo con una inflazione e tassi di interesse già bassi, cosicché c’era molto meno spazio per tagliare, la qualcosa comportava una ripresa lenta. E, in effetti, l’avevo previsto in anticipo.
In secondo luogo, la politica della finanza pubblica:
In questo caso, non l’avevo previsto [3]. Ma l’effetto è chiaro in un periodo nel quale la politica monetaria era limitata nella sua efficacia, la politica della finanza pubblica fu perversa. In pratica, la politica economica di Reagan fu molto più keynesiana, mentre quella di Boehner [4] – che fu quella che finì per prevalere, in pratica – fu antikeynesiana.
E’ questa la storia della ripresa ritardata.
[1] Il grafico mostra l’andamenti del tasso dei finanziamento federali, ovvero del tasso di riferimento della Fed.
[2] “Pent-up” significa “circoscrivere, confinare” e significa anche “accumulare”, ma solo nel senso di “costringere, reprimere”, come ad esempio quando si accumula/reprime la rabbia. Lo preciso perché, in riferimento alla domanda di alloggi, mi pare che il senso sia che la riduzione dei tassi in quegli anni abbia portato alla formazione di un vasto potenziale di domanda, di una domanda accumulata, che si è espressa successivamente.
[3] Diciamo che si tratta di falsa modestia, perché si era battuto per una spesa assai superiore. Non aveva previsto di non essere preso in considerazione.
[4] Boehner è stato, negli anni passati, il Presidente repubblicano della Camera, ovvero il principale esponente del Partito Repubblicano nel ramo del Parlamento che, per le sue competenze, ebbe il ruolo fondamentale nell’opporsi ostruzionisticamente alle proposte più espansive di Obama.
marzo 8, 2015
Mar 8 12:20 pm
I noted yesterday that back in 2009 there was a real division of opinion among leading Republicans: would Obama and Bernanke deliver Weimar-level inflation, or merely 70s-type stagflation?
One thing I neglected to mention, however, is that the 1970s the right predicted would come back bore little resemblance to the actual decade. Yes, the US economy was troubled in that era. But the performance wasn’t nearly as bad as later legend had it, especially when we consider the incomes of middle-class families. Furthermore, the preferred right-wing narrative about why the 70s were worse than the 60s has absolutely no empirical support.
So, about the 70s in perspective: here’s real family incomes since World War II:
Economic Policy Institute
There was, obviously, a major deterioration after 1973. First came the worst recession since the 1930s — I’m old enough to remember when people called 1974-5, not 2007-9, the Great Recession. Then a recovery that did produce gains, and did eventually raise incomes above their pre-recession level, but not by much.
What you can see, however, is that this pattern of recessions followed by disappointing recoveries has been the norm for the past 40 years; it began in the 1970s, but it didn’t end then. Here’s median income changes from business cycle peak to business cycle peak:
The 73-79 cycle was lousy by pre-73 standards, but real median income did end up notably higher despite sharply rising oil prices. Perhaps surprisingly given the legend, “morning in America” didn’t do much better, despite a sharp fall in oil prices — in fact, the annual growth rate was almost exactly the same. And the “Bush boom” was much worse, with essentially no gain in incomes even before the financial crisis struck. The only halfway convincing boom, at least as far as middle-class families are concerned, took place in the 1990s.
So whence the impression that the 70s were completely horrible, while Reaganomics was a triumph? Part of the answer is inflation, which did feel out of control even if it was largely matched by wage increases. But one suspects that the trashing of the 70s also reflects the reality that those doing the trashing don’t really care about ordinary families; what they care about is this:
Piketty and Saez
But perhaps at a deeper level, the depiction of the 70s as the epitome of a bad economy is about selling an ideology. The 70s were the final years before the great right turn in American politics, so they must become an object lesson in how liberal governance is a disaster. You constantly hear assertions that stagflation was caused by an excessively large welfare state — as opposed to oil shocks and bad judgement by the Fed. Actually, it’s even stranger, when you read Paul Ryan’s linked piece, to see his insinuation that budget deficits are what cause stagflation — in the 70s public debt was low and falling as a share of GDP. It only started rising after the Reagan tax cuts.
So we’re not going back to the 70s — and we’re definitely not going back to the 70s of right-wing fantasy, a dystopia that never really happened.
Calunnie sugli anni ‘70
Ho notato ieri che nel passato 2009 ci fu una vera divisione di opinioni nei gruppi dirigenti repubblicani: Obama e Bernanke avrebbero provocato una inflazione al livello di quella di Weimar, oppure una semplice stagflazione sul modello degli anni ’70?
Una cosa che ho trascurato di ricordare, è che gli anni ’70 pronosticati dalla destra ritornerebbero mostrando una somiglianza modesta con l’attuale decennio. E’ vero, in quel periodo l’economia americana era nei guai. Ma l’andamento non era neanche lontanamente negativo come l’ultimo periodo leggendario ha mostrato, in particolare quando si considerano i redditi delle famiglie di classe media. Inoltre, il racconto favorito della destra, sulle ragioni per le quali gli anni ’70 furono peggiori degli anni ’60, non ha assolutamente alcun fondamento empirico. Dunque, a proposito della prospettiva di una ripetizione degli anni ’70, ecco i redditi reali delle famiglie a partire dalla Seconda Guerra Mondiale:
Economic Policy Institute
Ovviamente, dopo il 1973 ci fu un importante deterioramento. Arrivò anzitutto la peggiore recessione a partire dagli anni ’30 – sono vecchio abbastanza per ricordare quando le persone chiamavano Grande Recessione il periodo 1974-1975, non il 2007-2009. Poi arrivò una ripresa che produsse risultati positivi, ed effettivamente incrementò i redditi oltre il loro livello precedente la recessione, seppure non di molto.
Quello che potete osservare, tuttavia, è che questo schema di recessioni seguite da deludenti riprese è stata la norma negli ultimi 40 anni; cominciò negli anni ’70, ma da allora è proseguito. Ecco i mutamenti nei redditi mediani [1] da un picco all’altro dei cicli economici:
Il ciclo 73–79 fu scadente rispetto alle consuetudini precedenti il 1973 [2], ma il reddito medio reale arrivò considerevolmente più in alto, nonostante la brusca crescita dei prezzi del petrolio. Considerata la mitologia, è forse sorprendente che il periodo denominato “è giorno in America” [3] non fu molto più positivo, nonostante una brusca caduta nei prezzi del petrolio – di fatto, il tasso di crescita annuale fu quasi esattamente lo stesso. E il “boom di Bush” fu molto peggiore, praticamente senza alcun incremento nei redditi anche prima che arrivasse il colpo della crisi finanziaria. L’unica espansione minimamente convincente, almeno in riferimento alla famiglie di classe media, ebbe luogo negli anni ’90.
Da dove viene dunque l’impressione che gli anni ’70 siano stati del tutto orribili, mentre la politica economica di Reagan fu un trionfo? In parte la risposta è l’inflazione, che fu percepita fuori controllo anche se fu ampiamente abbinata agli aumenti salariali. Ma c’è il sospetto che il rigetto degli anni ’70 rifletta anche il fatto che coloro che li criticano ferocemente non si preoccupano affatto delle famiglie ordinarie; quello di cui si preoccupano è questo:
Piketty e Saez
Ma forse, ad un livello ancora più profondo, la raffigurazione degli anni ’70, come compendio di una cattiva economia, riguarda il mettere in circolazione una ideologia. Gli anni ’70 furono il periodo finale, prima che la grande destra si affermasse nella politica americana, cosicché devono diventare una lezione naturale di come il governo liberal sia un disastro. Si sente costantemente dire che la stagflazione fu provocata da uno stato assistenziale eccessivamente generoso – anziché dagli shock petroliferi e da giudizi sbagliati da parte della Fed. In effetti è persino più strano, quando si legge l’articolo di Paul Ryan al quale ho rimandato, osservare la sua insinuazione secondo la quale i deficit di bilancio sono ciò che provoca la stagflazione – negli anni ’70 il debito pubblico era basso e, come quota del PIL, era in diminuzione. Esso cominciò a risalire solo dopo gli sgravi fiscali di Reagan.
Dunque, non stiamo tornando agli anni ’70, tantomeno stiamo tornando agli anni ’70 della fantasia delle destra, uno scenario apocalittico che non è mai esistito.
[1] I redditi mediani sono i redditi delle categorie che si collocano nella fascia mediana, ovvero con esclusione dei redditi più elevati e di quelli più bassi. Non sono dunque i redditi “medi”.
[2] Il diagramma mostra i mutamenti in percentuale dei redditi mediani, che, come si vede, crebbero di circa l’11 per cento negli anni ’90 e di meno del 4 per cento nel periodo dal 1973 al 1979. Rispetto a quell’ultimo periodo, quello reaganiano successivo, dal 1979 al 1989, conobbe un incremento del 6 per cento (in medie annue, dunque, del tutto simile al precedente). Gli anni 2000, invece, hanno segnato una stagnazione nei redditi mediani.
[3] Ovvero il periodo reaganiano. Quella espressione era il titolo di una sua fortunata rubrica radiofonica, che passò alla storia come il simbolo della sua vittoria elettorale.
marzo 7, 2015
Mar 7 10:06 am
More on the Cromwellian aspect of monetary policy: the Philadelphia Fed has a helpful summary of Fed estimates of the NAIRU reaching back to 1989. Here’s what their numbers looked like on the eve of the great Clinton/Greenspan boom:
Here’s what happened:
Unemployment, it turned out, dropped into the low 4s before there was any sign of rising inflation.
Actually, the current situation looks quite a lot like the mid-90s, with unemployment basically at the Fed’s estimate of “full employment” but no sign of inflation — except that back then wages were rising much more vigorously than now. Now, as then, there is a very real possibility that we have lots more room to run, if the Fed lets us.
Ricordi del NAIRU del passato
Qualcosa in più sull’aspetto ‘cromwelliano’ [1] della politica monetaria: la Fed di Filadelfia presenta un riassunto utile delle stime del NAIRU da parte della Fed, risalendo sino al 1989. Ecco a cosa assomigliano i loro dati nell’epoca della grande espansione di Clinton e di Greenspan:
Ed ecco cosa accadde:
La disoccupazione, questo accadde, scese al minimo del 4 per cento prima che si manifestasse un qualche segno di inflazione in crescita.
Effettivamente, l’attuale situazione sembra molto simile alla metà degli anni ’90. Con la disoccupazione fondamentalmente al livello della stima di “piena occupazione” della Fed ma senza alcun segno di inflazione – se non per il fatto che allora i salari stavano crescendo molto più vigorosamente di oggi. Ora come allora c’è una possibilità assai reale che si abbia lo spazio per correre molto, se la Fed ce lo consente.
[1] Riferimento alla frase di Cromwell citata nel post del 6 marzo.
marzo 7, 2015
Mar 7 6:47 am
Ben Casselman reads an op-ed in the Wall Street Journal and declares,
It is, without exaggeration, one of the dumbest things I’ve ever read. And I read Zero Hedge.
I’d say that he doesn’t get out enough — you can get much, much dumber. Still, the piece in question is a diatribe against seasonal adjustment, and is so amazingly ignorant that you might wonder how it got published in the Journal. You might wonder, that is, if you didn’t understand what’s happening: we’re witnessing the coming of the employment truthers.
When Obama and the Fed began their efforts to rescue the economy from the worst financial crisis since the 1930s, the right knew, just knew, what was going to happen. Inflation was going to soar thanks to money-printing and deficits; private employment would stagnate because of Obamacare, and also because Obama was hurting the feelings of job creators.
When inflation failed to take off, in came the inflation truthers, insisting that the official numbers were wrong and probably a deliberate fake.
Now, how’s that employment prediction doing? Witness the terrible effect of a socialist who trash-talks capitalism:
Hence the eagerness to publish any argument claiming that the numbers are somehow fake. Expect more dumbness.
Ecco in arrivo i teorici del complotto dell’occupazione
Ben Casselman legge un commento sul Wall Street Journal e afferma:
“E’, senza esagerazione, una delle cose più stupide che abbia mai letto [1]. E io leggo ‘Zero Hedge’ [2]”
Direi che non ne legge abbastanza – se ne trova di molto, molto più stupide. Eppure, l’articolo in questione è una diatriba contro le correzioni stagionali, ed è così incredibilmente ignorante che si può stupire di come abbia ottenuto di essere pubblicato sul Journal. Ovvero, ve lo potreste chiedere se non comprendeste quello che sta succedendo: stiamo assistendo all’arrivo dei sostenitori del complotto sull’occupazione.
Quando Obama e la Fed iniziarono i loro sforzi per salvare l’economia dalla peggiore crisi finanziaria a partire dagli anni ’30, la destra sapeva, senza alcuna ombra di dubbio, cosa sarebbe successo. L’inflazione stava schizzando alle stelle grazie alla creazione di nuova moneta ed ai deficit; l’occupazione privata sarebbe rimasta stagnante per effetto della legge di riforma sanitaria di Obama, ed anche perché Obama feriva i sentimenti di coloro che creavano posti di lavoro.
Quando l’inflazione non arrivò, intervennero i sostenitori del complotto sull’inflazione, che affermavano che i dati ufficiali erano sbagliati e probabilmente deliberatamente falsi.
Ora, cosa sta accadendo con le previsioni sull’occupazione? Osservate l’effetto terribile di un socialista che tratta il capitalismo con male parole:
Di conseguenza il fervore di pubblicare ogni genere di argomenti per sostenere che i numeri sono in qualche modo falsi. Aspettatevi altra stupidità.
[1] Sembra che l’articolo contro il quale Casselman si scaglia, nel voler minimizzare a tutti i costi i dati positivi sull’occupazione, trascurasse il fatto che normalmente nel periodo post natalizio c’è un forte calo dell’occupazione, per effetto della interruzione delle assunzioni straordinarie durante le festività nel commercio al dettaglio.
[2] Un blog finanziario americano che così si presenta: “Una visione del mondo profondamente cospirativa, avversa all’establishment e pessimistica”.
marzo 6, 2015
Mar 6 10:34 am
Today’s employment report continued the pattern we’ve been seeing for a while. Unemployment is falling, and is now very close to previous estimates of the NAIRU, the unemployment rate at which inflation begins accelerating. But inflation isn’t accelerating; in particular, there is still no hint of wage pressure in the data. So what should the Fed do?
My answer is, apply Cromwell’s rule:
I beseech you, in the bowels of Christ, think it possible that you may be mistaken.
OK, maybe skip the bowels part.
The NAIRU is, I’d still argue, a useful concept, mainly because it’s a caution against expecting too much from monetary policy in the long run. Much as I want full employment, there is some lower bound on the unemployment rate, a rate that you just can’t achieve on a sustained basis with demand-side policies. But it’s not very useful as a guide to short- and medium-term policy, because we do not have any good idea of where that lower bound lies.
I very much hope that Fed staff remembers the 1990s. Circa 1994 it was widely believed, based on seemingly solid research, that the NAIRU was around 6 percent; but Greenspan and company decided to wait for actual evidence of rising inflation, and the result was a long run of job growth that brought unemployment below 4 percent without any kind of inflationary explosion. Suppose they had targeted the presumed NAIRU instead; they would have sacrificed trillions in foregone output, plus all the good things that come from a tight labor market.
This time around there is even more reason not to assume that we know where the NAIRU is, because we now know that premature rate hikes can all too easily land you in a low-inflation trap that’s very hard to escape. Think Japan 2000 (an incident I think many people have forgotten), the ECB 2011, Sweden after 2010.
Maybe full employment really is 5.3 percent unemployment, and by the time that’s clear the inflation rate will have ticked up a bit above the Fed’s target. But that would not be a large cost, whereas sliding back into the liquidity trap would be very, very costly. So please, Janet, Stan, and company, think it possible that you may be mistaken.
La camicia di forza del NAIRU e la regola di Cromwell
Il rapporto odierno sull’occupazione conferma lo schema che stiamo osservando da un po’. La disoccupazione sta scendendo, ed è ora assai vicina alle precedenti stime del NAIRU, il tasso di disoccupazione al quale l’inflazione comincia ad accelerare. Ma l’inflazione non sta accelerando; in particolare non c’è alcun segno nei dati di una spinta salariale. Dunque, cosa dovrebbe fare la Fed?
La mia risposta è, applicare la regola di Cromwell:
“Vi supplico, per le viscere di Cristo, pensate alla possibilità che potreste sbagliarvi.” [1]
Va bene, potete lasciar stare la parte sulle viscere.
Io direi che il NAIRU è un concetto utile, principalmente perché è un avvertimento contro l’aspettarsi troppo dalla politica monetaria nel lungo periodo. Per quanto io voglia la piena occupazione, c’è un qualche limite inferiore al tasso di disoccupazione, un tasso che non si può proprio realizzare per tempi prolungati con politiche dal lato della domanda. Ma esso non è molto utile come guida alla politica di breve e medio termine, perché non abbiamo alcuna apprezzabile idea di dove si collochi tale limite inferiore.
Io spero tanto che il gruppo dirigente della Fed si ricordi degli anni ’90. Attorno al 1994 si riteneva diffusamente, basandosi su ricerche apparentemente solide, che il NAIRU fosse circa al 6 per cento; ma Greenspan e colleghi decisero di aspettare prove effettive di una inflazione in salita, e il risultato fu un lungo periodo di crescita dei posti di lavoro che portò la disoccupazione sotto il 4 per cento senza esplosioni inflazionistiche di alcun genere. Supponiamo che invece avessero fissato l’obbiettivo del presunto NAIRU; avrebbero sacrificato migliaia di miliardi di produzione prevedibile, in aggiunta alle cose positive che derivano da un mercato del lavoro rigido [2].
In questa occasione ci sono persino maggiori ragioni per non presupporre di conoscere dove il NAIRU si collochi, perché oggi sappiamo che prematuri rialzi dei tassi possono anche troppo facilmente scaricarci in una trappola di bassa inflazione dalla quale è molto difficile venir fuori. Si pensi al Giappone del 2000 (un incidente che penso in molti abbiano dimenticato), alla BCE nel 2011, alla Svezia dopo il 2010 [3].
Forse la piena occupazione è davvero al 5,3 per cento della disoccupazione, e a quel punto sarà chiaro che il tasso di inflazione avrà avuto una certa variazione sopra l’obbiettivo della Fed. Ma non sarebbe un prezzo elevato, mentre scivolare nella trappola di liquidità sarebbe molto, molto costoso. Dunque per piacere, Janet, Stan e compagnia [4], pensate alla possibilità che potreste sbagliarvi.
[1] Cromwell scrisse questa frase in una lettera inviata nel 1650 alla Chiesa di Scozia.
[2] In questo caso “tight” (“stretto”) significa con pochi margini, compatto, senza smagliature. E probabilmente, tra le cose positive, c’è un andamento espansivo dei salari, che naturalmente è facilitato da alti livelli di occupazione che rafforzano il potere contrattuale dei lavoratori.
[3] L’ultima connessione relativa alla Svezia rimanda ad un articolo di Lars Svensson che è qua tradotto (“Deflazione in Svezia: domande e risposte”, di Lars Svensson, 14 aprile 2014).
[4] Rispettivamente: Janet Yellow, Presidentessa della Fed, e Stan Fischer, Vicepresidente.
marzo 5, 2015
Mar 5 2:58 pm
A few days ago Bloomberg had a great story about the politicization of pizza — which is part of the broader pattern in which nutrition and obesity have become deeply partisan. Big Pizza is now an industry as dedicated to the GOP as coal or tobacco.
This got me to wondering about the general association between politics and BMI; impressionistically, heaviness and redness go together, but I wanted something more systematic. So a few notes, mainly to myself.
First, yes, there is a clear correlation between obesity and Republican lean at the state level. Here’s the scatter for the 2012 election:
There are outliers — Utah especially, but also Montana and Wyoming, of which more in a minute, but overall the relationship is really clear. At the county level, the “diabetes belt” — that’s the CDC’s term, not mine — is clearly very Republican.
An immediate question: is this all about ethnic and racial mixes? No. The CDC offers us this map of obesity rates among non-Hispanic whites:
The pattern is still there. If anything, breaking out the ethnic groups strengthens the case for an association between politics and body mass. I thought Utah was a real outlier, very conservative but thin by American standards because of Mormonism; but if you go to the CDC source, it turns out that Utah’s low obesity rate reflects its small minority population, that non-Hispanic whites there have about the same prevalence of obesity that they do in New York, and somewhat higher than Massachusetts. That’s even more true of Montana and Wyoming.
So, junk food for thought.
Politica pesante
Pochi giorni orsono Bloomberg è uscito con un bel racconto sulla politicizzazione della pizza – che è parte di un più generale disegno nel quale l’obesità ed il cibo sono diventati temi profondamente di parte. Il ‘partito della pizza’ è adesso un settore industriale altrettanto devoto al Partito Repubblicano come quello del carbone o del tabacco.
Questo mi porta ad interrogarmi sulla associazione generale tra la politica e l’Indice della Massa corporea; ad una prima impressione, l’obesità e il voto ai repubblicani [1] vanno di pari passo, ma volevo qualcosa di più preciso. Dunque poche note, principalmente a mio uso e consumo.
In primo luogo, sì, c’è una chiara correlazione tra l’obesità e l’inclinazione verso i repubblicani al livello degli Stati. Questo è il grafico a dispersione per le elezioni del 2012:
Ci sono alcune eccezioni – in particolare lo Utah, ma anche il Montana ed il Wyoming, sulle quali verrò tra un secondo, ma in generale la relazione è proprio chiara. Al livello delle contee, la “cintura del diabete” [2] – si tratta di un termine utilizzato dai Centri per il controllo delle malattie, non mio – è chiaramente molto repubblicana.
Una immediata domanda: tutto questo ha a che fare con le miscele etniche o razziali? No. I CDC ci offrono questa mappa sui tassi di obesità tra i bianchi non ispanici:
Il quadro, in quel caso, è ancora chiaro. Semmai, l’esclusione dei gruppi etnici rafforza la associazione tra politica e massa corporea. Pensavo che lo Utah fosse una vera eccezione, molto conservatori ma magri secondo gli standard americani, a causa dei Mormoni; ma se andate alla fonte dei CDC, si scopre che il basso tasso di obesità dello Utah riflette la sua piccola popolazione di minoranze, e che i bianchi non ispanici hanno in quel caso la stessa prevalenza dell’obesità che hanno a New York, e in qualche misura più elevata che nel Massachusetts. Questo è persino più vero nel caso del Montana e del Wyoming.
Dunque, il cibo spazzatura come riflessione.
[1] Suppongo che “redness” significhi questo, nel senso che il rosso è il colore dei repubblicani americani ed il blu quello dei democratici.
[2] Cioè, l’ampia area geografica che segnala indici di obesità e di esposizione al diabete superiori.
marzo 3, 2015
Mar 3 12:55 pm
We now know that interest rates can, in fact, go negative; those of us who dismissed the possibility by saying that people could simply hold currency were clearly too casual about it. But how low? Evan Soltas is getting some attention with an interesting attempt to find the true lower bound on interest rates; David Keohane cited a similar, more detailed estimate a month ago.
But it seems to me that all such estimates that I’ve seen involve a misconception. (Maybe it’s me, so I’m happy to stand corrected.)
In both the Soltas and Keohane pieces, there’s a discussion of storage costs for currency, which are not as trivial as one might have assumed. But they go on to say that the real lower bound comes from the fact that bank deposits are more useful than currency in a safe, because you can write checks and all that. Basically, in the modern world deposits are actually more liquid than cash, at least for most transactions that don’t involve controlled substances or concrete overshoes.
But you need to think about the incentives for holding a dollar in one form or the other at the margin, and I think that changes the story.
In normal times, we invoke the convenience of money — its extra liquidity — to explain why people hold money at zero or at any rate low interest rates when there are other safe assets offering higher yields. We think of money demand as determined by people increasing their holdings up to the point where the opportunity cost of holding money, the interest rate on other safe assets, equals its utility from increased liquidity.
Once interest rates on safe assets are zero or lower, however, liquidity has no opportunity cost; people will saturate themselves with it. That’s why we call it a liquidity trap! And what this means is that the marginal dollar of money holdings is being held solely as a store of value — the medium of exchange utility is irrelevant.
This in turn should mean that the usefulness of deposits is irrelevant in trying to find the true lower bound. The marginal holder is simply looking for a store of value, and the only question should therefore be storage costs.
And I am pinching myself at the realization that this seemingly whimsical and arcane discussion is turning out to have real policy significance.
Come i tassi di interesse possono diventare negativi?
Oggi sappiamo che i tassi di interesse possono, di fatto, essere negativi; chi tra noi liquidava questa possibilità dicendo che le persone possono semplicemente tenersi il denaro contante, chiaramente, era troppo superficiale al riguardo. Ma quanto bassi? Evan Soltas sta ottenendo una certa attenzione nell’interessante tentativo di individuare il vero limite inferiore nei tassi di interesse; David Keohane, un mese fa, citava una stima simile, più dettagliata.
Ma a me sembra che tutte queste stime che ho visto comportano un fraintendimento (forse l’errore è mio, se così fosse sarei contento di essere smentito).
In entrambi gli articoli di Soltas e di Keohane, c’è una discussione sui costi di immagazzinamento della valuta, che non è così banale come si potrebbe aver immaginato. Ma essi proseguono col dire che il vero limite inferiore deriva dal fatto che i depositi delle banche sono più utili che tenere il contante in sicurezza, perché si possono scrivere assegni, e così via. Fondamentalmente, nel mondo moderno i depositi sono effettivamente più liquidi del contante, almeno per la maggioranza delle transazioni che non riguardino sostanze stupefacenti sottoposte a controlli o calzature di cemento [1].
Ma si deve pensare agli incentivi per detenere, in una forma o nell’altra, un dollaro al margine, e questo, credo, cambi la storia.
In tempi normali noi chiamiamo in causa la convenienza del denaro – la sua particolare liquidità – per spiegare perché le persone conservino il denaro ad un tasso di interesse pari a zero, o comunque basso, quando ci sono asset sicuri che offrono rendimenti più elevati. Pensiamo che la domanda di denaro sia determinata da persone che accrescono le loro dotazioni sino al punto nel quale il costo di opportunità nel detenere il denaro, il tasso di interesse su un altro asset sicuro, eguagli la sua utilità derivante da una liquidità superiore.
Una volta che i tassi di interesse su asset sicuri siano zero o più bassi, tuttavia, la liquidità non ha costo di opportunità; le persone si satureranno con essa. Ecco perché la chiamiamo trappola di liquidità! E ciò che questo significa è che il dollaro marginale delle dotazioni monetarie viene mantenuto esclusivamente come deposito di valore – il mezzo dell’utilità dello scambio è irrilevante.
Questo a sua volta dovrebbe significare che l’utilità dei depositi è irrilevante nel cercare di trovare l’effettivo limite inferiore. Il detentore marginale sta semplicemente cercando un deposito di valore, e l’unica domanda dovrebbe di conseguenza riguardare i costi di deposito.
Ed io mi sto spremendo nel cercar di capire in che modo questa discussione, apparentemente stramba ed arcana, risulti avere un significato politico reale.
[1] E’ un espressione che viene fatta risalire al linguaggio mafioso, e dovrebbe indicare un modo di liquidare individui per annegamento, ancorandoli a basi cementizie in fondo al mare. In sostanza: droga e affari mafiosi sono i più liquidi di tutti.
marzo 2, 2015
Mar 2 9:31 am
Jonathan Chait does insults better than almost anyone; in his recent note on Larry Kudlow, he declares that
The interesting thing about Kudlow’s continuing influence over conservative thought is that he has elevated flamboyant wrongness to a kind of performance art.
And Chait doesn’t even mention LK’s greatest hits — his sneers at “bubbleheads” who thought something was amiss with housing prices, his warnings about runaway inflation in 2009-10, his declaration that a high stock market is a vote of confidence for the president — but only, apparently, if said president is Republican.
But what’s really interesting about Kudlow is the way his influence illustrates the failure of the Chicago School, as compared with the triumph of MIT.
But, you say, Kudlow isn’t a product of Chicago, or indeed of any economics PhD program. Indeed — and that’s the point.
There are plenty of conservative economists with great professional credentials, up to and including Nobel prizes. But the right isn’t interested in their input. They get rolled out on occasion, mainly as mascots. But the economists with a real following, the economists who have some role in determining who gets the presidential nomination, are people like Kudlow, Stephen Moore, and Art Laffer.
Meanwhile, on the liberal side of the aisle it’s all Clark medalists, laureates, and/or economists who may not (yet) have those particular gongs but have large research CVs and lots of citations in the professional literature.
And yes, what those of us in that role say in policy debates is very much informed by the professional research. In my own case, I’d guess that about 80 percent of what I’ve had to say about macroeconomics since the crisis was prefigured in my 1998 liquidity trap paper, which was classic MIT style — a stylized little model backed by and applied to real-world events, with lots of data used simply. (Seriously, skim that piece and you’ll see why I sometimes seem so frustrated: People keep rolling out arguments I showed were wrong all those years ago, or trotting out arguments I made back then as something new and somehow a challenge to conventional wisdom.)
Maybe the right prefers guys without credentials because they really know how things work, although I’d argue that this proposition can be refuted with two words: Larry Kudlow. More likely, it’s that affinity fraud thing: Professors, even if they’re conservative, just aren’t the base’s kind of people. I don’t think it’s an accident that Kudlow still dresses like Gordon Gekko after all these years.
Anyway, food for thought — if thinking is the kind of thing you like to do.
Larry Kudlow e il fallimento della scuola di Chicago
Per davvero Jonathan Chait riesce e deridere meglio di quasi tutti; nella sua nota recente su Larry Kudlow, afferma che:
“La cosa interessante della permanente influenza di Kudlow sul pensiero conservatore è che egli ha elevato la strepitosa capacità di fare sbagli ad una sorta di manifestazione artistica.”
E Chait nemmeno rammenta i colpi più appariscenti di Larry Kudlow – i suoi sogghigni agli “sciocconi” che pensavano che ci fosse qualcosa di storto nei prezzi delle abitazioni, i suoi ammonimenti sull’inflazione fuori controllo nel 2009-2010, la sua dichiarazione per la quale un mercato azionario vivace è un voto di fiducia per il Presidente – ma soltanto, a quello che sembra, se il detto Presidente è repubblicano.
Ma quello che è veramente interessante di Kudlow è il modo in cui col suo ascendente illustra il fallimento della Scuola di Chicago, a confronto con il grande successo del MIT.
Eppure, direte, Kudlow non è un prodotto di Chicago, e neppure, per la verità, di qualsiasi programma per dottorandi in economia. E’ così – e il punto è proprio lì.
Ci sono una quantità di economisti conservatori con grandi credenziali professionali, sino ad includere premi Nobel. Ma la destra non è interessata al loro contributo. Vengono messi in mostra in molte occasioni, come mascotte. Ma gli economisti con un seguito reale, quelli che hanno un qualche ruolo nel determinare chi ottiene la nomina alle presidenziali, sono persone come Kudlow, Stephen Moore e Art Laffer.
Contemporaneamente, sulla navata laterale dei progressisti ci sono tutte ‘medaglie Clark’ [1], laureati e/o economisti che possono non avere (ancora) quei particolari riconoscimenti ma hanno ampi curricula di ricerca ed una quantità di citazioni nella letteratura professionale.
Ed in effetti, quello che dicono nei dibattiti coloro che, tra di noi, hanno quel ruolo, è molto basato sulla ricerca professionale. Nel mio caso personale, direi che circa l’80 per cento di quello che avevo da dire sulla macroeconomia a partire dalla crisi era prefigurato nel mio saggio sulla trappola di liquidità del 1998, che era nel classico stile del MIT – un piccolo modello stilizzato seguito ed applicato agli eventi del mondo reale, con una quantità di dati usati in modo semplice (sul serio, scorrete quell’articolo e capirete perché qualche volta sembro così frustrato: la gente continua a svolgere argomenti che io avevo mostrato errati tutti quegli anni fa, oppure tira in ballo come qualcosa di nuovo, e in qualche modo come una sfida alle convenzioni, argomenti ai quali ero arrivato allora).
Forse la destra preferisce personaggi senza credenziali perché sa sul serio come va il mondo, sebbene direi che questa affermazione potrebbe essere confutata con due parole: Larry Kudlow. E’ più probabile che si tratti di quella faccenda del reato ‘di affinità’ [2]: i professori, anche se conservatori, non sono proprio il genere di persone di quella base. Non penso che sia un caso se Kudlow, dopo tutti questi anni, vesta ancora come Gordon Gekko.
In ogni caso, cose che alimentano il pensiero – ammesso che il pensare sia ciò che vi piace fare.
[1] La ‘medaglia’ John Bates Clark è un premio che viene dato agli economisti con meno di quarant’anni che si giudica abbiano dato i migliori contributi alla ricerca nel settore. Istituito nel 1947, il premio è stato biennale sino al 2009 e annuale a partire dal 2010.
[2] La “affinity fraud”, negli USA, è un vero e proprio reato che è normalmente oggetto di procedure giudiziarie, allorquando l’affinità (spesso religiosa, ma anche sociale, culturale etc.) provoca comportamenti ispirati al raggiro ed alla truffa. Normalmente il raggiro è ai danni dei componenti del gruppo, la cui ‘affinità’ viene utilizzata da qualcuno per trarne indebito vantaggi; potremmo anche tradurlo con “reato di appartenenza”. Ad esempio, un finanziere come il famigerato Madoff, condannato all’ergastolo, truffò vari personaggi che si erano affidati a lui per iniziative sociali e filantropiche; in quel caso l’affinità o la appartenenza si riferiva paradossalmente a quegli ‘ideali’, da Madoff usati in modo truffaldino.
marzo 2, 2015
Mar 2 8:27 am
Arguments for tight money often rest on claims that inflation, even at low rates, is a slippery slope: say that 2 percent is OK, then people will make the case for 4, then 10, and before you know it we’re Weimar. It’s not clear whether that has ever really happened: actually existing Weimar, like all hyperinflations, was a byproduct of political chaos, and the 1970s had as much to do with oil shocks as with policy misjudgments. In any case, it’s certainly nothing we’ve seen in advanced countries for a long time.
Almost five years ago, however, I started worrying about the opposite problem — the slippery slope of disinflation. We already knew from empirical evidence that prices were sticky enough to prevent full-bore deflationary spirals; but that very fact could lead to another kind of trap, in which policymakers and pundits start to treat below-target inflation as OK, and invent new rationales for raising interest rates. I wrote this:
And this raises the specter what I think of as the price stability trap: suppose that it’s early 2012, the US unemployment rate is around 10 percent, and core inflation is running at 0.3 percent. The Fed should be moving heaven and earth to do something about the economy — but what you see instead is many people at the Fed, especially at the regional banks, saying “Look, we don’t have actual deflation, or anyway not much, so we’re achieving price stability. What’s the problem?”
The numbers and dates aren’t right, of course — it was an illustration, not a prediction — but it’s pretty close to what Martin Feldstein is saying, with the addition of the financial stability scare. Now Tony Yates catches Andrew Sentance taking below-target inflation as a reason for opportunistic disinflation — we’re so low, why not go for zero?
The answer is that central banks have a 2 percent, not zero, inflation target for a reason — actually two reasons. (Amongst their reasons are surprise — surprise and fear — surprise, fear, and a fanatical devotion to …) As I tried to explain in my paper for last year’s ECB conference, positive inflation helps both with avoiding the zero lower bound (which isn’t as binding as everyone thought, but there are still limits to rate cuts) and with limiting the problems caused by downward nominal wage rigidity. And the experience of the past six years has made those concerns stronger, not weaker:
The bottom line here is that the arguments used in the 1990s to argue for a positive inflation target rather than literal price stability now tell a significantly different quantitative story from what they used to suggest. Pre-2008, those arguments suggested that 2 percent inflation was probably enough to eliminate most of the damage caused by the two zeroes; that is no longer true.
So the arguments Feldstein and Sentance make were the subject of extensive prebuttals, years ago. It’s actually kind of annoying to see them being rolled out as if nobody had thought about this before.
La scivolosa china della disinflazione
Gli argomenti per la restrizione monetaria si fondano spesso sulla pretesa che l’inflazione, persino a bassi tassi, sia una china scivolosa; diciamo che il 2 per cento va bene, allora la gente prenderà per buono il 4, poi il 10, e prima di accorgersene ecco che siamo a Weimar. Non è chiaro se questo sia mai realmente accaduto; la Weimar effettivamente esistita, come tutte le iperinflazioni, fu un sottoprodotto del caos politico, e gli anni ’70 ebbero molto a che fare sia con gli shock petroliferi che con errori di indirizzo politico. In ogni caso, si tratta certamente di qualcosa che non si è mai visto nei paesi avanzati da lungo tempo.
Quasi cinque anni orsono, tuttavia, io cominciai a preoccuparmi per il problema opposto – la china scivolosa della disinflazione [1]. Sapevamo già da prove empiriche che i prezzi erano sufficientemente vischiosi da impedire complete spirali deflazionistiche; ma proprio quella circostanza poteva portare ad una trappola di altro genere, nella quale operatori e commentatori politici cominciano a considerare che l’inflazione al di sotto dell’obbiettivo non ha inconvenienti, e si inventano nuovi argomenti per alzare i tassi di interesse. Scrivevo questo:
“E questo solleva lo spettro di quella che concepisco come la trappola della stabilità dei prezzi: supponiamo di essere agli inizi del 2012, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è attorno al 10 per cento, l’inflazione sostanziale sta procedendo allo 0,3 per cento. La Fed dovrebbe smuovere cielo e terra per fare qualcosa sull’economia – ma quello che si nota, invece, è che molte persone alla Fed, particolarmente nelle banche regionali, stanno dicendo: ‘Guardate, non abbiamo una deflazione effettiva, in ogni caso non molta, dunque stiamo realizzando una stabilità dei prezzi. Qual è il problema?’”
I numeri e i dati, ovviamente, non sono quelli giusti – si trattava di una illustrazione, non di una previsione – ma (la rappresentazione) è abbastanza vicina a quello che Martin Feldstein sta dicendo, con l’aggiunta della paura per la stabilità finanziaria. Adesso Tony Yates sorprende Andrew Sentance che sostiene l’inflazione al di sotto dell’obbiettivo come una ragione per una disinflazione opportunistica – siamo così in basso, perché non arrivare allo zero?
La risposta è che la banca centrale assume un obbiettivo di inflazione al 2 per cento, e non allo zero, per una ragione – per la verità per due ragioni (tra le loro ragioni c’è la sorpresa – la sorpresa e la paura – la sorpresa, la paura ed una fanatica dedizione a ….). Come cercai di spiegare nella mia relazione per la conferenza della BCE dell’anno passato [2], l’inflazione positiva contribuisce sia ad evitare il limite inferiore dello zero (che non è così vincolante come tutti pensavano, ma ci sono pur sempre limiti per i tagli ai tassi), sia a limitare i problemi provocati da una rigidità dei salari nominali verso il basso. E l’esperienza dei sei anni passati ha reso queste preoccupazioni più forti, non più deboli:
“L’aspetto decisivo in questo caso è che gli argomenti utilizzati negli anni ’90 per sostenere un obbiettivo di inflazione positivo anziché una stabilità letterale dei prezzi raccontano oggi una storia quantitativa significativamente diversa da quella che si pensava indicassero. Prima del 2008 quegli argomenti indicavano che una inflazione al 2 per cento era probabilmente sufficiente ad eliminare il danno provocato dai due ‘zeri’ [3]; quello non è più vero.”
Dunque gli argomenti che avanzano Feldstein e Sentance erano oggetto di ampie contestazioni, da anni. In effetti è in qualche modo irritante vederli rimettere in circolo come se nessuno ci avesse pensato prima.
[1] Il tema venne trattato da Krugman in un post dell’agosto del 2012.
[2] Vedi in questo blog: “Una riconsiderazione degli obiettivi di inflazione”, di Paul Krugman – Maggio 2014, Relazione alla conferenza di Sintra, Portogallo della BCE (sezione “Saggi ed articoli da riviste …”).
[3] I “due zeri” ai quali Krugman si riferiva in quella relazione erano lo zero dei tassi di interesse e lo zero costituito dalla normale rigidità dei salari nominali, ovvero dalla difficoltà a ridurli in termini nominali.
marzo 1, 2015
Mar 1 9:12 pm
Monetary policy attracts crazy people like moths to a flame; goldbugs, 100-percent-reserve-banking types, amateur historians who think they know exactly what happened when Diocletian ruled Rome but have no idea what happened in Japan in the last decade. One thing that has surprised and depressed me in recent years, however, has been the obsession with raising interest rates among economists who used to seem sensible.
Five or six years ago, this was all about the allegedly imminent risk of high inflation. When that inflation failed to materialize, you might have expected a pause for reflection — an attempt to figure out why they got it so wrong, and maybe even to figure out why some of us basically got it right. But no; instead we got either recapitulations of the original argument, with no acknowledgment of past failures, or new reasons to do exactly the same thing, and raise rates.
The Bank for International Settlements remains tight-money central. But Marty Feldstein is effectively shadowing the BIS position, with added conspiracy theory, and it’s kind of shocking to see.
Up to a point, Feldstein has followed the now-usual arc: first dire warnings that inflation is looming; then, after years of inflation not happening, a quiet segue (or, as young people tend to write it, Segway) to “hey, what’s so bad about below-target inflation and maybe even a bit of deflation.”
You have to wonder: don’t the people making this new-reasons-for-the-same-policy switch feel even a bit embarrassed?
You also have to wonder about cognitive dissonance: in general, we’re talking about conservatives with vast faith in the wisdom of markets, who somehow are completely sure that markets will make terrible decisions due to low interest rates, and require paternalistic monetary policy to keep them on the strait and narrow.
What really strikes me about Marty’s latest, however, is the muttering that there must be some sinister hidden agenda driving the anxiety of central banks about below-target inflation, given that classic deflationary spirals don’t seem imminent.
Um, there have been many explanations of the current worry. The IMF published a very useful piece on why “lowflation” brings many of the same risks as outright deflation. It’s widely understood that the financial crisis and aftermath make the zero lower bound — even if less binding than we used to think — a very real concern, which means that not undershooting inflation targets is important. And the Fed is very much thinking about the example of Sweden, which decided to hike rates out of vague concerns about financial stability, only to find itself staring at the very real risk of deflation.
Instead, however, Feldstein suggests — with not a shred of evidence — that central banks are operating under ulterior motives, notably a desire to help finance budget deficits.
It’s very, very strange, and distressing.
La strana urgenza di alzare i tassi
La politica monetaria attrae i folli come la fiamma con le falene; i cultori della moneta aurea, gli individui che vorrebbero le riserve bancarie al 100 per cento, gli storici dilettanti che pensano di conoscere esattamente quello che accadde quando Diocleziano governava Roma ma non hanno idea di quello che è successo in Giappone il decennio scorso. Una cosa che mi ha sorpreso e demoralizzato negli anni recenti, tuttavia, è stata l’ossessione per l’elevamento del tassi di interesse tra economisti che sembrava fossero ragionevoli.
Cinque anni fa, questa riguardava il preteso imminente rischio di un’alta inflazione. Allorché quella inflazione non si materializzò, vi sareste aspettati una pausa di riflessione – un tentativo di comprendere il motivo per il quale si era fatto un tale sbaglio, oppure anche di capire perché alcuni di noi fondamentalmente avevano avuto ragione. Invece no; abbiamo avuto piuttosto o una ricapitolazione dell’argomento originario, senza alcun riconoscimento dei fallimenti passati, oppure nuove ragioni per fare esattamente la stessa cosa, ed elevare i tassi.
La Banca dei Regolamenti Internazionali resta la centrale della restrizione monetaria. Ma Marty Feldstein in effetti mette in ombra la posizione della BRI, con l’aggiunta di una teoria della cospirazione, ed è un genere di cosa impressionante da constatare.
Sino a un certo punto, Feldstein ha seguito la traiettoria oggi consueta: anzitutto terribili ammonimenti sulla inflazione incombente; poi, dopo anni di inflazione che non avveniva, un tranquillo passaggio (che i giovani oggi tendono a scrivere in altro modo [1]) a “ebbene, che c’è di male in una inflazione al di sotto dell’obbiettivo, e forse persino in un po’ di deflazione?”
Vi dovete chiedere: le persone che attuano questo spostamento di nuove ragioni per la stessa politica, si sentono anche un po’ imbarazzate?
Vi dovete anche interrogare sulla dissonanza cognitiva: in generale stiamo parlando di conservatori con una vasta fiducia nella saggezza dei mercati, che in qualche modo sono del tutto sicuri che i mercati metteranno in atto decisioni terribili a seguito di bassi tassi di interesse, e chiedono politiche monetarie paternalistiche per mantenerli in ristrettezza ed angustia.
Quello che davvero mi colpisce dell’ultimo Feldstein, tuttavia, è il borbottio secondo il quale ci deve essere qualche sinistro programma nascosto che guida l’ansietà delle banche centrali per l’inflazione al di sotto dell’obbiettivo, dato che le classiche spirali deflazionistiche non sembrano imminenti.
Vien da pensare che ci siano molte spiegazioni della attuale preoccupazione. Il FMI ha pubblicato un pezzo molto utile sulle ragioni per le quali la bassa inflazione comporta molti degli stessi rischi di una aperta deflazione. E’ generalmente riconosciuto che la crisi finanziaria e le sue conseguenze hanno reso il limite inferiore dello zero – persino se meno condizionante di quello che eravamo soliti pensare – una preoccupazione molto reale, il che comporta che il mancare per difetto gli obbiettivi di inflazione è importante. E la Fed sta molto riflettendo sull’esempio della Svezia, che ha deciso di elevare i tassi sulla base di generiche preoccupazioni sulla stabilità finanziaria, soltanto per trovarsi a guardare negli occhi un rischio vero e proprio di deflazione.
E tuttavia Feldstein suggerisce invece – senza uno straccio di prova – che le banche centrali stiano operando per ulteriori motivi, in particolare per contribuire a finanziare i deficit di bilancio.
Molto, molto strano e angosciante.
[1] Gioco di parole non esprimibile. “Segue” è una transizione ininterrotta – soprattutto nella musica – da un pezzo all’altro. “Segway” può essere usato nel senso di qualcosa che sposta/cambia indirizzo al senso di una conversazione (e forse è una espressione giovanile perché significa anche un tipo di scooter particolarmente costoso, o un consumo copioso di marjuana).
febbraio 28, 2015
February 28, 2015 2:42 pm
Not long ago I received a copy of MIT and the Transformation of American Economics, a collection of essays on how American economics became model- and math-oriented after World War II, and of the special role played by the department Paul Samuelson built. There was a lot in there I didn’t know, despite the many years I spent at MIT first as a student, then as faculty. So I found it — as Spock would say — fascinating.
But the book only really covers Chapter I in the MIT saga; while it alludes a bit to the role MIT grads play in the world today, it mostly cuts off circa 1970. And I think it’s interesting — and maybe even important — to talk a bit about what happened in the decade or so that followed. Of course, I would think that, since that was when I went to school there, and this post is surely self-indulgent. But today’s a good day for that, I think.
The basics: while there have been many articles discussing and either celebrating or deploring the influence of the Chicago School, it’s a less often noted fact that right now a remarkable number of the professional economists who either play important roles in making policy or appear to have influence on the discussion got their Ph.Ds from MIT in the second half of the 1970s. An incomplete list, with dates of degree:
Ben Bernanke 1979
Olivier Blanchard 1977
Mario Draghi 1976
Paul Krugman 1977
Maurice Obstfeld 1979
Kenneth Rogoff 1980
Larry Summers was at Harvard during the same period, but he was an MIT undergrad and very much part of that intellectual circle. Also, just about everyone on the list studied with Stan Fischer, who remains very much in the middle of policy-making.
You might ask, how does this list compare with similar lists you might draw up for other schools, Chicago in particular? The answer, I’d submit, is that there is no comparison. It’s true that the more or less Keynesian view of macroeconomics common to everyone on this list is by no means unchallenged in the real world; but the anti-Keynesians don’t really turn to academic economists for guidance. When a politician like Scott Walker tries to appeal to the conservative macro brains trust, it’s not some version of the Chicago Boys — it’s Stephen Moore, Art Laffer, and Larry Kudlow.
So how did MIT establish this unique position in academic economics applied to policy?
Well, that’s the kind of question that should be handled by a professional historian of thought, or at least someone with the time and inclination to go through a lot of records, do interviews, and so on. On the other hand, I was there, so maybe I can in effect interview myself and shed some light.
What I remember, then, was that the spirit of MIT economics in the 1970s was very much not one of intellectual imperialism. At Chicago they believed that they had The Truth, and all other views were nonsense to be consigned to the dustbin of history. At MIT, which had played such a large role in bringing Keynes to America, there was a lot of searching and self-doubt — my classmates would sometimes say things like “The rational expectations guys were right about stagflation, so might they be right about the rest?” There was almost a hint of an inferiority complex.
But not too much of one. Everyone was doing rational expectations in some version — Olivier and I worked out the geometry of anticipated shocks (“you jump immediately onto a new path that brings you to the post-shock saddle path just when the shock hits”) on the lunchroom table. But there was a generally shared view that perfect flexibility of prices was a bridge too far. I suspect that Rudi Dornbusch’s influence was important here; as I and others have said many times, even a glance at the evidence on exchange rates and prices makes stickiness obvious, which is why international macro never went off the deep end as much as the rest of the field.
The result was that MIT macroeconomics was teched up — everyone learned how to write down and solve rational expectations models, everyone learned how to emulate Lucas disciples — but didn’t unlearn Keynesian insights. And MIT students developed a style that was either wonderfully pragmatic or disgustingly lacking in rigor, depending on your tastes: models derived from microfoundations were always the goal, but when observed experience was clearly at odds with what the models predicted, you’d just impose realistic behavior and leave its ultimate explanation as a project for the future. Rudi’s overshooting model — rational expectations in the currency market, but ad hoc price stickiness in the good market — was the classic example; my own liquidity trap analysis, using rational expectations to think about demand and money, but assuming short-run rigidity to get real effects, was very much in the same tradition.
I think it’s obvious why this approach was better suited for producing future central bank governors, chief economists, and even pundits than an approach that elevated purity over realism. But for the school of thought — a school that didn’t and doesn’t have the backing of powerful interests, that doesn’t appeal to the intuition of whoever it is that watches CNBC — to achieve the kind of influence it has, the approach had to work.
And here’s the thing: it has. Macroeconomics that remembered Keynes and Hicks, that didn’t reject it all because stuff like that shouldn’t happen with perfectly rational agents, has had a very good six years — it’s been right on inflation, on interest rates, on austerity. Analytically, empirically, the MIT style has had an astonishing triumph.
Politically, of course, not so much — but you can’t have everything. And even some influence for good is a lot better than the irrelevance that has overtaken the doctrines that once loomed so large.
L’Impero dell’Istituto
Non molto tempo fa ho ricevuto una copia de “Il MIT e la trasformazione dell’economia americana”, una collezione di saggi su come, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’economia americana sia venuta orientandosi ai modelli ed alla matematica, e del ruolo particolare esercitato dal Dipartimento costruito da Paul Samuelson. C’erano molte cose che non conoscevo, nonostante avessi speso molti anni al MIT, prima come studente, poi come membro della Facoltà. Dunque, l’ho trovato – come direbbe Spock [1]– accattivante.
Ma il libro in realtà tratta solo nel Capitolo 1 della saga del MIT; mentre allude un po’ al ruolo che i laureati del MIT giocano nel mondo odierno, in gran parte si ferma attorno al 1970. Ed io penso che sia interessante – e forse persino importante – parlare un po’ di quello che accadde grosso modo nel decennio che seguì. Mi viene spontaneo pensarci, dal momento che avveniva quando frequentavo quell’università, e questo post è certamente auto indulgente. Ma penso che oggi sia il momento adatto per farlo.
Alcune cose fondamentali: mentre abbiamo avuto molti articoli che discutono, celebrano o deplorano, l’influenza della scuola di Chicago, è stato meno spesso notato il fatto che in questo momento un considerevole numero di economisti di professione, che giocano un ruolo fondamentale nell’azione pubblica oppure sembra abbiano influenza nel dibattito relativo, abbiano ottenuto il loro dottorato al MIT nella seconda metà degli anni ’70. Una lista incompleta, con le date di laurea:
Ben Bernanke 1979
Olivier Blanchard 1977
Mario Draghi 1976
Paul Krugman 1977
Maurice Obstfeld 1979
Kenneth Rogoff 1980 [2]
Durante lo stesso periodo, Larry Summers era ad Harvard, ma era stato studente prima della laurea al MIT ed aveva fatto parte in notevole misura di quella cerchia intellettuale. Inoltre, come quasi tutti in quella lista aveva studiato con Stan Fischer, che ancora oggi opera nel bel mezzo della politica pubblica [3].
Vi potreste chiedere, quanto è paragonabile questo elenco con liste simili che potreste stendere per altre scuole, quella di Chicago in particolare? La risposta che mi sento di affermare è che non c’è nessun confronto. E’ vero che il punto di vista più o meno keynesiano della macroeconomia, comune a tutti i componenti della lista, non è stato affatto incontrastato nel mondo reale; ma nella realtà gli anti keynesiani non si rivolgono agli economisti accademici come guide. Quando un uomo politico come Scott Walker [4] cerca di riferirsi al gruppo di cervelli della macroeconomia conservatrice, non si rivolge ad una qualche versione dei “Chicago Boys” – semmai a Stephen Moore, Art Leffer e Larry Kudlow [5].
In che modo, dunque, il MIT ha conquistato questa posizione unica nella economia accademica applicata alla politica?
Ebbene, è il genere di domanda di cui si dovrebbe occupare uno storico di professione del pensiero, o almeno qualcuno che avesse il tempo e l’inclinazione per passare in mezzo ad una quantità di testimonianze, per fare interviste, e cose del genere. D’altra parte, io ero là e dunque posso intervistare me stesso e fare un po’ di luce.
Quel che ricordo, dunque, è che lo spirito della economia del MIT negli anni ’70 non era affatto quello dell’imperialismo intellettuale. A Chicago credevano di avere la Verità, e che tutti gli altri punti di vista fossero insensatezze da consegnare al dimenticatoio della storia. Al MIT, che aveva giocato un ruolo così grande nel portare Keynes in America, c’era un gran quantità di indagine e di messa in discussione di se stessi – i miei compagni di corso talvolta potevano dire cose come: “I tipi delle aspettative razionali hanno avuto ragione sulla stagflazione, perché non potrebbero averla anche sul resto?” C’era quasi l’accenno di un complesso di inferiorità.
Ma non più di quello. Ognuno eseguiva qualche versione delle aspettative razionali – Olivier e il sottoscritto ci esercitavamo sulla geometria degli shock anticipati (“si salta immediatamente su un nuovo indirizzo che ti porta all’andamento ‘a sella’ [6] successivo allo shock, proprio quando esso colpisce”) sul tavolo della mensa. Ma c’era un punto di vista generalmente condiviso, secondo il quale la completa flessibilità dei prezzi era un intervallo troppo lungo. Sospetto che in questo caso l’influenza di Rudi Dornbusch sia stata importante; come ho detto molte volte assieme ad altri, persino uno sguardo alle testimonianze dei tassi e dei prezzi rende evidente il tema della ‘vischiosità’, e quella è la ragione per la quale la macroeconomia internazionale non si è mai fatta coinvolgere troppo emotivamente come il resto della disciplina.
Il risultato fu che la macroeconomia del MIT era assai ‘tecnicizzata’ – ognuno imparava come mettere sulla carta e risolvere i modelli delle aspettative razionali, ognuno imparava come emulare gli allievi di Lucas – ma non disimparò le intuizioni keynesiane. E gli studenti del MIT svilupparono uno stile che era, a seconda dei gusti, sia meravigliosamente pragmatico che disgustosamente difettoso di rigore: gli obbiettivi erano sempre i modelli derivati da fondamenti microeconomici, ma quando le testimonianze osservate erano agli antipodi di quello che i modelli prevedevano, ci si doveva semplicemente imporre un comportamento realistico e riservarsi l’ultima spiegazione come un progetto per il futuro. Il modello di Rudi dello “overshooting” (del tasso di cambio) [7] – le aspettative razionali sui mercati valutari, ma la vischiosità specifica del prezzo sul mercato dei beni – ne fu il classico esempio; la mia stessa analisi della trappola di liquidità, utilizzando le aspettative razionali per ragionare sulla domanda e sulla moneta, ma assumendo una rigidità di breve periodo per ottenere gli effetti reali, è molto nella stessa direzione.
Penso che siano evidenti le ragioni per le quali questo approccio fosse più idoneo a produrre futuri governatori delle banche centrali, capi economisti e persino commentatori, rispetto ad un approccio che colloca la purezza sopra il realismo. Ma perché quella scuola di pensiero – che non aveva e non ha il sostegno di interessi potenti e che non ha effetti attraenti per l’intuito di chiunque guardi una trasmissione economica in televisione – ottenesse il genere di influenza che ha, quell’approccio doveva funzionare.
E il punto è qua: esso funziona. La macroeconomia che si rifaceva a Keynes ed a Hicks, che non aveva rigettato tutto ciò perché roba del genere non dovrebbero accadere con agenti perfettamente razionali – ha avuto ragione sull’inflazione, sui tassi di interesse e sull’austerità. Da un punto di vista analitico ed empirico, lo stile del MIT ha avuto un trionfo stupefacente.
Da un punto di vista politico, evidentemente, non altrettanto – ma non si può avere tutto. E perfino una qualche influenza in senso positivo è molto meglio dell’irrilevanza che ha sopraffatto le dottrine che un tempo si stagliavano con tanta ampiezza.
[1] Probabilmente, data la simpatia di Krugman per la fantascienza, si tratta del personaggio di Star Trek.
[2] Nell’ordine, a parte Krugman: Bernanke è stato sino all’anno scorso Presidente della Fed, Blanchard è direttore del FMI, Draghi è Presidente della BCE, Obstfeld ha avuto una carriera accademica ma nel 2014 è andato a dirigere il Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca, Rogoff è uno studioso di prestigio, per quanto finito nel mezzo di una polemica aspra per alcuni errori in un suo saggio che venne assai utilizzato a sostegno delle politiche di austerità.
[3] Fischer – dopo la carriera accademica – ha avuto incarichi alla Banca Mondiale ed al FMI, è stato Governatore della Banca di Israele ed è oggi Vicepresidente della Fed.
[4] Repubblicano americano, dal 2011 Governatore del Wisconsin.
[5] In posts recenti Krugman ha spesso indicato questi personaggi che sono ai primi posti del gradimento dei conservatori americani, ma sono prevalentemente opinionisti e propagandisti della destra, talora inclini a gaffe notevoli nei loro giudizi economici.
[6] Nel senso, se ben ricordo, della ‘sella’ come figura geometrica.
[7] Ovvero di un comportamento del tasso di cambio che “eccede/oltrepassa” un risultato ragionevole sulla base dei dati di fatto, appunto per effetto del diverso comportamento delle aspettative nei mercati valutari ed in quelli dei beni, caratterizzati questi ultimi dai fenomeni di rigidità dei prezzi e dei salari nel breve periodo.
febbraio 28, 2015
Feb 28 9:08 am
CNN:
Lonegan also said Friday that in conjunction with the Fed’s annual Jackson Hole symposium in Wyoming this year, a group of conservative economists are planning to hold a meeting of their own “directly across the street” featuring former Federal Reserve Chair Alan Greenspan as the keynote speaker.
I guess we wait for confirmation before adding this to the file of examples establishing Maestrodamus as the worst ex-Fed chairman in history. But consider the notion that this group regards AG as an authority figure.
Never mind the bubble denial; almost five years have passed since Greenspan declared that we were on the verge of becoming Greece, Greece I tell you, and wrote one of the most awesomely terrible passages in the history of economic policy:
Despite the surge in federal debt to the public during the past 18 months—to $8.6 trillion from $5.5 trillion—inflation and long-term interest rates, the typical symptoms of fiscal excess, have remained remarkably subdued. This is regrettable, because it is fostering a sense of complacency that can have dire consequences.
Yep: he was annoyed at the markets for failing to deliver the crisis he was expecting, and considered it “regrettable” that the crisis had not arrived. Actually, though, this isn’t too different from the sentiment expressed by Paul Ryan and John Taylor, denouncing the Fed’s actions because they were preventing a fiscal crisis.
Anyway, the saga of the inflation cult continues.
L’uomo deplorevole
Dalla CNN:
“Lonegan ha anche detto che in coincidenza con il simposio annuale della Fed, a Jackson Hole nel Wyoming, una gruppo di economisti conservatori ha in programma di tenere un incontro tra loro stessi “direttamente sull’altro lato della strada”, includendo come relatore ospite il passato Presidente della Federal Reserve Alan Greenspan” .
Penso che aspetteremo una conferma prima di aggiungere questo alla serie di esempi che mostrano ‘Maestrodamus’ come il peggiore ex-Presidente della Fed della storia. Ma si rifletta sull’idea secondo la quale questo gruppo considera Alan Greenspan come una figura autorevole.
Non conta che avesse negato la bolla; sono passati quasi cinque anni dal momento in cui Greenspan dichiarò che eravamo sull’orlo di diventare come la Grecia, nientedimeno che la Grecia, e scrisse uno dei più fantasticamente terribili passaggi nella storia della politica economica:
“Nonostante la crescita del debito federale verso il pubblico durante i 18 mesi passati – da 5.500 a 8.600 miliardi di dollari – l’inflazione e i tassi di interesse a lungo termine, i sintomi tipici di un eccesso finanziario, sono rimasti considerevolmente sottomessi. Questo è deplorevole, perché sta incoraggiando un senso di autocompiacimento che può avere conseguenze terribili.”
E’ così: egli era indispettito perché i mercati non davano esecuzione alla crisi che stava aspettando, e considerava “deplorevole” che la crisi non fosse arrivata. Anche se, in effetti, tutto questo non è molto diverso dal sentimento espresso da Paul Ryan e John Taylor, che denunciano le iniziative della Fed perché avevano lo scopo di impedire una crisi della finanza pubblica.
In ogni modo, la saga dei cultori dell’inflazione continua.
febbraio 27, 2015
February 27, 2015 10:36 am
When I was a young economist trying to build a career, I lived — or thought I lived — in a world in which ideas and those who championed them met in relatively open intellectual combat. Of course there were people who clung to their prejudices, of course style sometimes trumped substance. But I believed that by and large better ideas tended to prevail: if your model of trade flows or exchange rate fluctuations tracked the data better than someone else’s, or resolved puzzles that other models couldn’t, you could expect it to be taken up by many if not most researchers in the field.
This is still true in much of economics, I believe. But in the areas that matter most given the state of the world, it’s not true at all. People who declared back in 2009 that Keynesianism was nonsense and that monetary expansion would inevitably cause runaway inflation are still saying exactly the same thing after six years of quiescent inflation and overwhelming evidence that austerity affects economies exactly the way Keynesians said it would.
And we’re not just talking about cranks without credentials; we’re talking about founders of the Shadow Open Market Committee and Nobel laureates.
Obviously this isn’t just a story about economics; it covers everything from climate science and evolution to Bill O’Reilly’s personal history. But that in itself is telling: academic economics, which still has pretenses of being an arena of open intellectual inquiry, appears to be deeply infected with politicization.
So what should those of us who really wanted to be part of what we thought this enterprise was about do? That’s the question Brad DeLong has been asking.
I see three choices:
So is there a reason I go for door #3, other than simply telling the truth and having some fun while I’m at it? Yes — because the point is not to convince Rick Santelli or Allan Meltzer that they are wrong, which is never going to happen. It is, instead, to deter other parties from false equivalence. Inflation cultists can’t be moved; but reporters and editors who tend to put out views-differ-on-shape-of-planet stories because they think it’s safe can be, sometimes, deterred if you show that they are lending credence to charlatans. And this in turn can gradually move the terms of discussion, possibly even pushing the nonsense out of the Overton window.
And the inflation-cult story is, I think, a prime example. Yes, you still get coverage treating both sides as equivalent — but not nearly as consistently as in the past. When Paul hyperinflation-in-the-Hamptons Singer complains about the “Krugmanization” of the media, who have the impudence to point out that the inflation he and his friends kept predicting never materialized, that’s a sign that we’re getting somewhere.
It really would be nice not having to do things this way. But that’s the world we live in — and, as I said, there’s some compensation in the fact that one can have a bit of fun doing it.
Il problema delle mentalità ristrette
Quando ero un giovane economista che cercava di costruirsi una carriera, vivevo – o pensavo di vivere – in un mondo nel quale le idee e quelli che le professavano si incontravano in un combattimento relativamente aperto. Naturalmente, c’erano individui che si afferravano ai loro pregiudizi, ovviamente lo stile, talvolta, sopravanzava la sostanza. Ma io credevo che in generale le buone idee tendessero a prevalere; se il vostro modello dei flussi commerciali o delle fluttuazioni dei tassi di cambio si adattava ai dati meglio di quello di qualcun altro, oppure risolveva i misteri che i modelli dell’altro non potevano risolvere, potevate aspettarvi di essere presi in considerazione da molti ricercatori in quella disciplina, forse dalla maggioranza.
Credo che questo sia ancora vero, per gran parte della macroeconomia. Ma nelle aree che hanno la maggiore importanza, data la situazione del mondo, non è vero affatto. Le persone che nel passato 2009 affermavano che il keynesismo era un nonsenso e che l’espansione monetaria avrebbe inevitabilmente provocato una inflazione fuori controllo, stanno ancora esattamente dicendo la stessa cosa, dopo sei anni di inflazione quiescente e dopo prove schiaccianti che l’austerità influenza le economie esattamente nel modo in cui affermavano i keynesiani.
E non stiamo soltanto parlando di ciarlatani senza credenziali; stiamo parlando dei fondatori della Commissione Ombra sul Mercato Aperto [1] e di premi Nobel.
Evidentemente non si tratta di un tema che riguarda soltanto l’economia; riguarda tutto, dalla scienza del clima e dall’evoluzionismo sino alla storia personale di Bill O’Reilly [2]. Ma di per sé ci dice che l’economia accademica, che ha ancora pretese di essere una arena di indagine intellettuale senza pregiudizi, sembra essere profondamente contaminata dalla politicizzazione.
Dunque, cosa dovrebbero fare quelli tra noi che per davvero desideravano partecipare a quell’impresa, come se l’erano immaginata? E’ questa la domanda che Brad DeLong si sta ponendo.
Io vedo tre scelte:
1 Continuare a scrivere ed a parlare come se ancora avessimo un dibattito intellettuale genuino, nella speranza che le buone maniere e la tenacia facciano in modo che quella pretesa si avveri. Penso che questo sia un modo di intendere quello che oggi possiamo in qualche modo definire il famigerato articolo di Olivier Blanchard [3] del 2008 sulle condizioni della macroeconomia; egli, si potrebbe dire, cercava di appellarsi agli spiriti migliori della natura dell’economia dell’ “acqua dolce” [4]. Il guaio di quella strategia, tuttavia, è che può finire per legittimare un lavoro che non merita rispetto – e c’è anche una tendenza per la quale anche il vostro lavoro subisce una distorsione, quando cercate di trovare un terreno comune dove non esiste affatto.
2 Indicare gli errori, ma con pacatezza e rispetto. Questa avrebbe il vantaggio di essere una soluzione onesta, e utile a chiunque la legga. Ma non lo farà nessuno.
3 Mettere in evidenza gli errori con modalità rivolte ad afferrare l’attenzione dei lettori – ridicolizzando quando è il caso, con irriverenza, e con nomi e cognomi. In questo modo si verrà letti; si avranno seguaci affezionati, ed una gran quantità di nemici rancorosi. Una cosa che non si provocherà, tuttavia, è modificare in niente quelle mentalità ristrette.
C’è dunque una ragione per la quale io mi indirizzo verso la terza soluzione, oltre al fatto di dire la verità ed anche di divertirmi un po’ nel farlo? Sì – perché il punto non è quello di convincere Rick Santelli o Allan Meltzer che stanno sbagliando, cosa che non succederà mai. E’, invece, scoraggiare altre componenti dalle false equivalenze. I cultori dell’inflazione non possono essere dissuasi; ma i giornalisti e gli editori che tendono ad affidarsi ai racconti del genere dei “punti-di-vista-diversi-sulla-forma-del-pianeta” [5] perché pensano che siano sicuri, possono esserne dissuasi se mostrate loro che stanno dando credito a ciarlatani. E questo a sua volta può gradualmente spostare i termini delle discussione, forse persino spingendo le cose insensate fuori dalla ‘finestra di Overton” [6].
E la storia dei cultori dell’inflazione, penso, ne sia un esempio di prima grandezza. E’ vero, ancora c’è una tendenza a dare le notizie trattando gli opposti schieramenti come equivalenti – ma neanche lontanamente simile a quella del passato. Quando Paul Singer – quello della ‘iperinflazione ad Hamptons’ [7] – si lamenta sulla “krugmanizzazione” dei media, che hanno l’impudenza di mettere in evidenza che l’inflazione prevista da lui e dai suoi amici non si è mai materializzata, quello è un segno che stiamo ottenendo un qualche risultato.
Sarebbe davvero piacevole non doversi comportare in questo modo. Ma questo è il mondo nel quale viviamo – e, come ho detto, un qualche compenso viene dal fatto che a comportarsi in quel modo un po’ ci si diverte.
[1] Vedi la polemica nei posts dei giorni passati su Allan Meltzer.
[2] William James “Bill” O’Reilly, Jr. è un giornalista, scrittore e conduttore televisivo di orientamento conservatore, sebbene con posizioni che spesso differiscono dalla ortodossia conservatrice.
[3] Noto economista, oggi direttore del FMI. In quell’articolo sosteneva, per l’appunto, in un anno fatale, le buone condizioni della ricerca economica, e in particolare la possibile convergenza di approcci nel passato opposti. Famigerato, perché evidentemente quegli approcci sono diventati con la crisi ancor più incompatibili.
[4] Una scuola della macroeconomia americana dei decenni passati. Vedi sulle note della traduzione, alla voce “freshwater and saltwater economics”.
[5] Antica ironia krugmaniana, inaugurata all’epoca di George Bush. Il senso era il seguente: il giornalismo centrista, che tende a legittimare le bugie di Bush per mera equidistanza, sarebbe capace – ove il Presidente se ne uscisse con l’affermazione che la Terra è piatta – di utilizzare titoli di giornali secondo i quali sarebbero stati espressi punti di vista diversi sulla forma del Pianeta.
[6] La “finestra di Overton” è una teoria politica – che prende il nome da Joseph Overton (1960-2003), che la inventò – secondo la quale la gamma delle idee che l’opinione pubblica può accettare può essere rappresentata come una ‘finestra stretta’. Esisterebbe, insomma, un contesto di quello che, nelle varie fasi, l’opinione pubblica considera ‘politicamente accettabile’, una medietas, e le posizioni che si collocano alle estremità di quella ‘finestra stretta’ – perché troppo originali, o radicali – non hanno le stesse possibilità di essere accolte di quelle che sono più aderenti a quel precedente senso comune. E questo è il politologo prematuramente scomparso:
[7] Paul Singer è un miliardario che aderisce all’idea del ‘complotto di Obama’ sull’inflazione, ovvero che ritiene che l’inflazione sia elevata, ma i dati governativi truccati. Nel 2014 ha espresso tale convincimento con un argomento abbastanza ridicolo; basterebbe, disse, dare un’occhiata ai prezzi degli immobili nel quartiere di East Hampton, per rendersi conto di quanto l’inflazione sia elevata. Quella località è famosa per una concentrazione di ville di miliardari. Krugman ironizzò su quell’argomento in un post del novembre 2014 (“Gli usi del ridicolo”).
febbraio 26, 2015
Feb 26 5:49 pm
I haven’t had time for the broader discussion of cognitive closure, but one more thing about Meltzer and all that: I get especially annoyed when economists who have been wrongly predicting inflation say that it’s not their fault — who could have known that banks would just sit on all those reserves? The answer is, anyone who had paid attention should have known that would happen.
Let me quote myself, from my 1998 — yes, 1998 — paper on the liquidity trap:
The point is important and bears repeating: under liquidity trap conditions, the normal expectation is that an increase in high-powered money will have little effect on broad aggregates, and may even lead to a decline in bank deposits and a larger decline in bank credit.
I presented data from the 1930s that seemed to confirm that point; a few years later Japan gave us another experiment, when it tried quantitative easing. Here’s how it went, with the monetary base and M2 both shown with January 2001=100:
So theory and experience both predicted exactly the sterility of monetary base expansion that we saw in practice. And, you know, that’s the kind of successful prediction that is supposed to change peoples’ minds: if you’re that wrong about how an experiment turned out, and someone else made a prediction you considered foolish but turned out completely right, you’re supposed to concede that just maybe, possibly, they were on to something.
The fact that essentially nobody on that side of the debate has budged in the slightest tells us that whatever it is they’ve been doing, it’s not scientific research.
La facilitazione quantitativa e gli aggregati monetari
Non ho avuto tempo per la più ampia discussione sulla ‘chiusura cognitiva’, ma una cosa in più a proposito di Meltzer e tutto il resto: in particolare io mi irrito quando gli economisti che hanno sbagliato nel prevedere l’inflazione dicono che non è stato per loro responsabilità – chi poteva sapere che la banche si sarebbero semplicemente sedute su tutte quelle riserve? La risposta è: chiunque avesse prestato attenzione, avrebbe dovuto sapere quello che sarebbe accaduto.
Consentitemi una citazione personale, dal mio saggio del 1998 – sì, 1998 – sulla trappola di liquidità [1]:
“E’ un punto importante e vale la pena di ripeterlo: nelle condizioni di una trappola di liquidità, la normale aspettativa è che una moneta molto potenziata avrà un effetto modesto sugli aggregati generali, e può persino portare ad un declino nei depositi bancari ed a un più ampio declino nel credito bancario.”
Presentai dati del 1930 che sembravano confermare quell’argomento; pochi anni dopo il Giappone ci fornì un altro esperimento, quando provò con la ‘facilitazione quantitativa’. Ecco come andò, con la base monetaria ed anche lo M2 mostrati, a partire dal gennaio 2001 = 100 [2]:
Dunque, sia la teoria che l’esperienza avevano previsto esattamente la sterilità dell’espansione della base monetaria che vedemmo nella pratica. E quella, come intuite, è il genere di previsione di successo che si suppone cambi il modo di ragionare della gente: se sbagliate in modo tanto evidente su come un esperimento si risolve, e qualcun altro fa un esperimento che consideravate sciocco ma si rivela completamente giusto, si suppone che ammettiate che questi ultimi forse, probabilmente, avevano davvero ragione su qualcosa.
In fatto che sostanzialmente nessuno da parte di quello schieramento nel dibattito abbia minimamente cambiato opinione ci dice che, qualsiasi cosa costoro stessero facendo, non si trattava di ricerca scientifica.
[1] Lo studio a cui si riferisce è: “La trappola del Giappone”, di Paul Krugman (1998), tradotto nella sezione “Saggi, articoli su riviste etc.” di questo blog.
[2] Per i concetti di “base monetaria” (ovvero M0) e dell’aggregato monetario chiamato M2, si torni alla nota sul post del 25 febbraio dal titolo “Monetarismo in inverno”. In sostanza, laddove nel 2001 la somma di tutte le banconote, le monete metalliche e le passività della banca centrale convertibili al pari della moneta legale del Giappone corrispondeva alla somma di quel denaro, più i depositi bancari di conto corrente e quelli bancari o postali non trasferibili tramite assegno etc. (M2), dopo nove anni durante i quali la base monetaria aveva avuto un notevolissimo incremento, lo M2 si era spostato minimamente.
Si deve considerare che la “base monetaria”, o M0, include, oltre al denaro circolante, tutte le passività della banca centrale convertibili rapidamente e senza costi, e quindi è un concetto che si riferisce ad un aggregato che può essere anche notevolmente superiore al cosiddetto “circolante”. Se anche le passività delle banche centrali sono espresse in banconote e monete, il fatto che una parte di esse restino in riserva e non circolino, le esclude dal conteggio degli aggregati “successivi” (M1, M2, M3). Questo spiega la sostanza di quello che è accaduto nel Giappone ed altrove: gran parte della base monetaria utilizzata per la ‘facilitazione quantitativa’ non è stata messa in circolazione dai soggetti economici (banche, imprese, consumatori).
La qualcosa non significa che le ‘facilitazioni quantitative’ siano prive di effetti. Su quest’ultimo aspetto si trovano spiegazioni in vari post recenti di Krugman o Wren-Lewis; gli effetti ci sono, ma non sono affatto equivalenti alle potenzialità teoriche (mentre l’uso da parte degli Stati di una base monetaria aggiuntiva per investimenti o sussidi, evidentemente, ha effetti diretti).
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