Blog di Krugman

La mia spregevolezza monetaria (26 febbraio 2015)

 

Feb 26 10:43 am

Despicable Monetary Me

I want to weigh in on the issue of “cognitive capture” and the appropriate tactics for the reality-oriented community; more later or tomorrow. But I did want to remind readers of the column that had Allan Meltzer complaining that I say vicious things that the Times shouldn’t print. Here’s the column.

It’s pretty stiff, and no doubt had Meltzer very upset. After all, he has spent his life positioning himself as a wise, stern critic of the Fed, in effect its monetary conscience. The financial crisis should have been his big, culminating moment; instead it has turned into a vast embarrassment, in which he has been wrong again and again.

But should I have tried to spare his feelings? I don’t think so. I think I owe it to readers to give a clear picture of what is going on — and yes, to make it entertaining, because an unread column does nobody any good. I’m snarky for a reason.

 

La mia spregevolezza monetaria

Voglio intervenire, più tardi o domani, sul tema della “cattura cognitiva” [1] e sulle tattiche appropriate per una comunità orientata alla realtà. Ma intendevo rammentare ai lettori l’articolo che provocò la lamentela di Allan Meltzer, secondo il quale mi esprimevo in modo aggressivo, in termini che il Times non dovrebbe pubblicare. L’articolo è questo [2].

E’ abbastanza duro, e non c’è dubbio che fece infuriare Meltzer. Dopo tutto, egli ha speso la sua vita a presentarsi come un critico saggio ed austero della Fed, in sostanza come la sua coscienza monetaria. La crisi finanziaria avrebbe dovuto essere la sua grande, culminante occasione; invece si è trasformata in un immenso imbarazzo, nel quale ha compiuto sbagli in continuazione.

Ma avrei dovuto cercare di essere gentile verso la sua sensibilità? Io non lo credo. Penso di dover fornire ai lettori un quadro chiaro di ciò che sta accadendo – e sì, anche di intrattenerli, giacché un articolo non letto non fa bene a nessuno. Sono irriverente per una ragione.

 

[1] Ovvero, di quella situazione nella quale la concentrazione su altro – pensieri o interessi propri, il temporaneo utilizzo di una strumento che vi assorbe etc. – provoca una sorta di cecità nei confronti dell’ambiente esterno. E’ il tema stimolato da Brad DeLong e trattato nel post “Monetarismo in inverno”, sul quale tornerà in un post successivo.

[2] Vedi “Il culto dell’inflazione” dell’11 settembre 2014, qua tradotto.

Chris Christie, il pavone (26 febbraio 2015)

febbraio 26, 2015

 

Feb 26 10:34 am

Chris Christie, Peacock

Gail Collins has a characteristically hilarious piece about Chris Christie, who went around bellowing about his fiscal responsibleness, then, as soon as the question arose about how to pay for something he agreed to, welshed on the deal.

Gail thinks this is the end of Christie’s presidential ambitions; I think this gives his party too much credit for caring about reality. Christie probably is toast, but not because he has shown himself fiscally irresponsible and untrustworthy. Instead, he apparently doesn’t know when to stop bellowing — you do need to make nice to the big money, and he hasn’t.

But in any case, there’s a larger point: the Christie affair is yet another demonstration that there are no true fiscal hawks on the right, only deficit peacocks who strut around and preen themselves on their supposed fiscal virtue, but never show themselves willing to make any sacrifices for the cause.

In fact, all the supposed alarm about deficits ends up being a club such people use to slash benefits for workers and the poor; as soon as it becomes a question of taxes on the rich, they suddenly lose interest.

The fading of Chris Christie will lower the decibel level, but nothing else will change.

 

Chris Christie, il pavone

Gail Collins scrive un articolo come al solito divertentissimo su Chris Christie [1], che è andato in giro a strepitare sulla sua responsabilità nei conti pubblici, e poi, appena è emersa la questione di come pagare per qualcosa su cui aveva concordato, si è rimangiato l’impegno.

Gail pensa che questa sia la fine delle ambizioni presidenziali di Christie; io penso che in questo modo si dia troppo credito al suo partito di preoccuparsi della realtà. Probabilmente Christie è finito, ma non perché si sia mostrato irresponsabile e inaffidabile. Piuttosto, pare che non sappia quando è il momento di smetterla di vociare – con i ricchi c’è bisogno di essere aggraziati, e lui non lo è.

Ma in ogni caso, c’è un aspetto più generale: la faccenda di Christie è una ennesima dimostrazione che non ci sono veri falchi dei conti pubblici a destra, soltanto pavoni del deficit che vanno in giro impettiti e si danno arie sulle loro supposte virtù nella finanza pubblica, ma non si sono mai mostrati disponibili a fare nessun sacrificio per la causa.

In sostanza, tutto il presunto allarmismo sui deficit finisce con l’essere una clava che tali individui utilizzano per abbattere i sussidi ai lavoratori ed ai poveri; appena diventa una questione di tasse per i ricchi, perdono improvvisamente interesse.

Il declino di Chris Christie abbasserà il livello dei decibel, ma non cambierà nient’altro.

 

[1] Repubblicano, attuale Governatore del New Jersey, abbastanza noto per sommarietà e goffaggine.

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Monetarismo in inverno (25 febbraio 2015)

febbraio 25, 2015

 

Feb 25 4:50 pm

Monetarism in Winter

Brad DeLong is writing about “cognitive closure” on the right, and focuses on the case of Allan Meltzer, the long-time monetarist standard-bearer and co-founder of the Shadow Open Market Committee. Meltzer has been predicting inflation, just around the corner, for six years; the experience apparently has had no impact on his conviction that he understands the economy better than the Fed. And he considers it rude and unprofessional when some of us point out how wrong he has been for how long.

But there’s one thing that struck me in particular about the last entry in Brad’s bill of particulars, where Meltzer says this:

The Fed’s third major error is its baffling inattention to the growth of monetary and credit aggregates. Central banks supply the raw material on which financial markets build the credit and money magnitudes. The reason given for neglecting these aggregates is usually a claim they are unstable. That is true only, if at all, of quarterly values. It is not true of medium- and longer-term values, as many researchers have shown.

I’m not sure what Meltzer is saying here, exactly. Surely the claim is not so much that the aggregates are unstable as that the relationship between those aggregates and variables of interest — like inflation — is unstable. Now, where might the Fed have gotten that idea? Maybe from this:

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The velocity of M2 — the ratio of nominal GDP to a broadly defined version of the money supply — has turned out to be hugely variable. Once upon a time Milton Friedman called for slow, steady growth in M2 as the key to a stable economy; surely you can’t think that makes sense given developments since the mid-1980s.

But here we have Meltzer insisting that the Fed is making a terrible mistake by not worrying about monetary aggregates, and complaining bitterly about those who question whether, given his track record, he has any authority to lecture the Fed. It’s really very sad.

 

Monetarismo in inverno

Brad DeLong scrive sulla “chiusura cognitiva” della destra, e si concentra sul caso di Allan Meltzer, il porta vessillo da lunga data del monetarismo e cofondatore della Commissione ombra sul Mercato Aperto [1]. Per sei anni Meltzer ha previsto una inflazione sempre incombente; a quanto pare l’esperienza non ha avuto effetto sul suo convincimento di capire l’economia meglio della Fed. Inoltre ritiene che quando qualcuno di noi mette in evidenza quanto e per quanto tempo egli abbia avuto torto, si comporti in modo grossolano e non professionale.

Ma c’è una cosa che soprattutto mi ha colpito relativamente alla lista dei particolari dell’ultima presa di posizione di Brad, laddove Meltzer afferma quanto segue:

“Il terzo importante errore della Fed è la sua sconcertante disattenzione alla crescita degli aggregati monetari e creditizi. Le banche centrali offrono il materiale grezzo sul quale i mercati finanziari realizzano il credito e gli ordini di grandezza della moneta. Normalmente, la ragione addotta per trascurare questi aggregati è la pretesa che sarebbero instabili. Questo è vero, ammesso che lo sia, soltanto in relazione ai valori trimestrali. Non è vero nei valori di medio e lungo termine, come hanno mostrato molti ricercatori.”

Non sono certo in questo caso cosa Meltzer esattamente intenda. Certamente l’argomento non è tanto che gli aggregati sono instabili, quanto che la relazione tra quegli aggregati e le variabili dell’interesse – come l’inflazione – è instabile. Ora, da dove la Fed potrebbe aver dedotto quell’idea? Forse da questo:

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Si è scoperto che la velocità dello M2 [2] – la percentuale di PIL nominale rispetto ad una versione definita in termini generali dell’offerta monetaria – è largamente variabile. Una volta Milton Friedman si pronunciò per una crescita lenta e regolare dello M2 come la chiave di una economia stabile; dati gli sviluppi a partire dalla metà degli anni ’80, non si può certamente pensare sia stato quello il caso.

Eppure abbiamo qua Meltzer che insiste che la Fed sta facendo un errore terribile a non preoccuparsi degli aggregati monetari, e si lamenta amaramente per coloro che mettono in dubbio che, dati i suoi precedenti, egli abbia una qualche autorità a fare lezioni alla Fed. E’ davvero molto triste.

 

 

[1] Il Federal Open Market Committee (italiano Comitato federale del mercato aperto, FOMC) è un organismo della Federal Reserve incaricato di sorvegliare le operazioni di mercato aperto negli Stati Uniti e ne è il principale strumento di politica monetaria. Il FOMC regola la politica monetaria specificando l’obiettivo a breve termine ovvero decidendo il federal funds rate, ovvero livello dei tassi d’interesse negli USA.

L’organismo diretto dal professor Meltzer (SOMC) è appunto una Commissione “ombra”, che ha come scopo il valutare le scelte politiche e le iniziative dell’altra commissione ufficiale. E’ stata fondata nel 1973, oltre che da Meltzer (Carnegie-Mellon University), da Karl Brunner (Rochester University).

[2] Le definizioni degli aggregati monetari sono utilmente elencate in questa voce di Wikipedia:

 

Poiché la moneta svolge nei sistemi economici varie funzioni, possono essere definiti diversi aggregati monetari in relazione alle funzioni che vengono prese in considerazione per stabilire se un’attività finanziaria può essere considerata quasi-moneta. In particolare, si definiscono solitamente i seguenti aggregati monetari, classificati secondo un grado decrescente di liquidità:

  • M0 (o base monetaria), che comprende la moneta legale, ossia le banconote e le monete metalliche che per legge devono essere accettate in pagamento, e le attività finanziarie convertibili in moneta legale rapidamente e senza costi, costituite da passività della banca centrale verso le banche (e, in certi paesi, anche verso altri soggetti);
  • M1 (o liquidità primaria), che comprende le banconote e monete in circolazione (il circolante), nonché le altre attività finanziarie che possono fungere da mezzo di pagamento, quali i depositi in conto corrente, se trasferibili a vista mediante assegno, e i traveler’s cheque; non vengono fatte rientrare in questo aggregato le banconote e monete depositate, quindi non in circolazione, per evitare il doppio conteggio, una volta come banconote e monete, l’altra come depositi in conto corrente;
  • M2 (o liquidità secondaria), che comprende M1 più tutte le altre attività finanziarie che, come la moneta, hanno elevata liquidità e valore certo in qualsiasi momento futuro (essenzialmente i depositi bancari e d’altro tipo, ad esempio quelli postali, non trasferibili a vista mediante assegno);
  • M3, che comprende M2 più tutte le altre attività finanziarie che come la moneta possono fungere da riserva di valore; si tratta essenzialmente delle obbligazioni e dei titoli di stato con scadenza a breve termine (come i BOT italiani).

Una spiegazione dell’andamento della ripresa in Europa (25 febbraio 2015)

febbraio 25, 2015

 

Feb 25 4:17 pm

Explaining Recovery Performance in Europe

I was very interested by the new paper by Claeys and Walsh on “plucking” as an explanation of differential performance in Europe; basically, they’re saying that fast growth has come in countries that previously had deep slumps. But how does that result interact with the result many of us have found, which is that differences in austerity seem to explain a lot? Here’s an example of what I find:

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I tried to see where their result fits in; but I used a slightly different sample. I included Greece; I’m not sure why they excluded it (they say that they’re dropping countries that didn’t have any recovery, but why?) I also used the same dates for everyone, 2007-9 for the slump and 2009-14 for the recovery. And since I wanted to use structural deficits to measure austerity, I could only include Latvia among the Baltics.

What I got was this:

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Latvia stands out, but in this sample it’s alone; the estimated coefficient on the size of the slump is large but hugely uncertain.

What happens if you throw both variables in? With standard errors in parentheses, I get Growth in GDP 2009-14 = 7.91 – .26(.28)*Change in GDP 2007-9 – 1.41(.27)*Change in structural balance as % of potential GDP. Plucking might be important, but it’s hard to tell given the lack of data. Austerity, on the other hand, comes in very clear.

Maybe the point is that there aren’t any deep mysteries that need explaining. You can point to individual countries and say that they did better than you might have expected, but any kind of non-cherry-picked analysis of the data really, really wants to tell you not just that austerity hurts growth but that it’s the major factor causing some European countries to do worse than others.

 

Una spiegazione dell’andamento della ripresa in Europa

Sono molto interessato al nuovo studio di Claeys e Walsh sullo “stacco” come spiegazione dell’andamento differenziato in Europa; fondamentalmente, essi stanno dicendo che la rapida crescita è intervenuta in paesi che in precedenza erano in profonda recessione. Ma come interagisce quel risultato con l’altro che molti di noi hanno trovato, secondo il quale sembra che le differenze nella austerità spieghino molto? Ecco un esempio di quello che io trovo [1]:

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Ho cercato di osservare come i loro risultati si accordino; ma ho usato un campione leggermente diverso. Ho incluso la Grecia; non sono sicuro del perché essi la abbiano esclusa (dicono che lasciano andare i paesi che non hanno avuto alcuna ripresa, ma perché?) Ho anche utilizzato gli stessi dati per ciascuno, il 2007-2009 per la recessione ed il 2009-2014 per la ripresa. E, dal momento che volevo usare i deficit strutturali per misurare l’austerità, tra i paesi Baltici ho potuto soltanto includere la Lettonia.

Ecco cosa ho trovato:

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La Lettonia sta per conto suo, ma in questo campione è sola; il coefficiente stimato sulla dimensione della recessione è largo, ma altamente incerto.

Cosa accade se mettete dentro entrambe le variabili? Mettendo tra parentesi gli errori standard [2], ottengo che la crescita del PIL tra il 2009 ed il 2014 è pari a: 7,91 – 0,26 (0,28), moltiplicato per il mutamento nel PIL 2007-2009 – 1,41 (0,27), moltiplicato per il mutamento dell’equilibrio strutturale come percentuale del PIL potenziale. Lo “stacco” può essere rilevante, ma è difficile a dirsi, considerata la deficienza dei dati. D’altra parte, l’austerità entra in gioco molto chiaramente.

Forse il punto è che non ci sono misteri profondi che hanno bisogno di una spiegazione. Ci si può riferire a paesi singoli e sostenere che essi hanno fatto meglio di quello che ci si sarebbe aspettati, ma ogni genere di analisi dei dati non basata su una scelta arbitraria, in realtà quello che ci dice è che non solo l’austerità danneggia la crescita, ma che rappresenta il fattore importante che spinge alcuni paesi europei ad avere prestazioni peggiori degli altri.

 

[1] La tabella successiva mostra l’andamento del rapporto tra austerità e crescita (ovvero quella che risulta dalla linea di ricerca di Krugman ed altri).

Sulla linea delle ascisse appare il “mutamento nell’equilibrio strutturale”. Nel linguaggio della Commissione Europea “l’equilibrio di bilancio effettivo (viene considerato) al netto delle componenti cicliche, degli eventi straordinari e delle altre misure straordinarie”. Per “equilibrio strutturale” si intende “una misura della tendenza sottostante (implicita) dell’equilibrio di bilancio”. Suppongo che i mutamenti negli equilibri strutturali sulla linea delle ascisse siano, andando verso destra, l’indice di un maggiore equilibrio, e dunque di una crescente austerità, su una scala da 0 a 20. In questo caso si noterebbe che le prestazioni caratterizzate da maggiore austerità riguarderebbero Portogallo, Spagna, Irlanda e, in misura inferiore, Olanda, Italia e Francia.

Sulla linea delle ordinate compaiono invece i mutamenti nel PIL che, come si vede, sono negativi per Slovenia, Italia, Olanda, Spagna e Portogallo, e diversamente positivi per gli altri paesi esaminati (Germania, Repubblica Slovacca e Lettonia presentano gli andamenti più positivi).

In linea di massima, dunque, sembrerebbe che i paesi caratterizzati da maggiore equilibrio strutturale/austerità sono anche stati quelli caratterizzati da minore crescita/regresso nel PIL.

Ma, è il caso di aggiungere, mi pare che si mostrino anche eccezioni rilevanti, come quella della Francia, che con un mutamento nell’equilibrio strutturale simile all’Italia, mostra una crescita del PIL positiva (più simile, cioè, all’andamento tedesco che a quello italiano).

[2] In statistica l’errore standard di una misura è definito come la stima della deviazione standard dello stimatore. È dunque una stima della variabilità dello stimatore, cioè una misura della sua imprecisione. (Wikipedia)

Crisi fantasma dei conti pubblici (24 febbraio 2015)

febbraio 24, 2015

 

Feb 24 8:08 am

Phantom Phiscal Crises

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Matthew Klein takes on a subject dear to my heart — the mysterious, persistent fear that Japan and other countries that borrow in their own currencies could suddenly face a Greek-style fiscal crisis if bond investors lose confidence, and that this is a reason to raise taxes or cut benefits even in a depressed economy. I devoted my Mundell-Fleming lecture at the IMF to this topic, where I had this to say:

Remarkably, nobody seems to have laid out exactly how a Greek-style crisis is supposed to happen in a country like Britain, the United States, or Japan – and I don’t believe that there is any plausible mechanism for such a crisis.

That’s still true — but fear of such a crisis persists. That’s true even though — as you can see from the figure — the apparent relationship between debt levels and borrowing costs has vanished now that the ECB is doing its job as lender of last resort.

So what is the basis of this fear? It’s not just BowlesSimpsonGreenspan who believe in the threat; Taka Ito, whom Klein quotes, is a good and sensible economist; so is Olivier Blanchard, with whom I discussed the issue when we were in Hong Kong.

The answer I seem to get is fear of a dramatic flip in circumstances — that Japan, say, could engage in a sort of macroeconomic quantum tunneling, suddenly transitioning from deflation to crashing currency and runaway inflation. That’s not impossible. But it does seem an odd thing to be worrying about right now. Also, does raising the consumption tax in a slump, or obsessing about the state of Social Security in 2030, really make that much difference to the prospect of such an abrupt transition?

I don’t see the plausibility — and it seems really strange for that concern to loom so large in the face of everything else going wrong.

 

Crisi fantasma dei conti pubblici

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Matthew Klein interviene su un tema che mi è molto caro – il misterioso, persistente timore che il Giappone ed altri paesi che si indebitano nelle loro valute possano all’improvviso ritrovarsi dinanzi ad una crisi dei conti pubblici del tipo di quella greca se gli investitori dei bond perdono fiducia, e che questa sia una ragione per aumentare le tasse o tagliare i sussidi persino in una economia depressa. Su questo tema resto fedele alla mia conferenza al Mundell-Fleming [1], dove ebbi occasione di dire:

 

“E’ rilevante il fatto che nessuno sembra avere esattamente esposto come si suppone che una crisi del genere di quella greca possa aver luogo in un paese come l’Inghilterra, gli Stati Uniti o il Giappone – ed io non credo che esista alcun plausibile meccanismo per una crisi del genere.”

 

Questo è ancora vero – ma la paura di una crisi simile persiste. Questo è vero anche se – come si può vedere dal diagramma – la apparente relazione tra i livelli del debito ed i costi dell’indebitamento sono svaniti, ora che la BCE sta facendo il suo mestiere come prestatore di ultima istanza.

Quale è, dunque, il fondamento di tale paura? Non sono soltanto i Bowles, i Simpson ed i Greenspan che credono nella minaccia; Taka Ito, che Klein cita, è un economista bravo e ragionevole; altrettanto si dica per Olivier Blanchard, con il quale discussi di questo tema quando ci incontrammo ad Hong Kong.

La risposta che mi pare di ottenere è la paura di uno spettacolare capovolgimento in particolari circostanze – che il Giappone, ad esempio, possa essere alle prese con una sorta di ‘perforazione quantistica macroeconomica[2], per il quale all’improvviso transita dalla deflazione al crollo della valuta e ad una inflazione galoppante.

Questo non è impossibile. Ma in questo momento, sembra una cosa curiosa di cui preoccuparsi. Inoltre, elevare in una recessione la tassa sui consumi, o avere l’ossessione delle condizioni della Previdenza Sociale nel 2030, farebbe una qualche differenza, nella prospettiva di un passaggio così inaspettato?

Non vedo in che cosa questo sia plausibile – e sembra davvero strano che quella preoccupazione incomba con tale ampiezza, a fronte di tutto il resto che sta andando male.

 

[1] Vedi nell’archivio, settore saggi, la traduzione del testo della Conferenza, dal titolo “Regimi valutari, flussi di capitali e crisi”, di Paul Krugman – 27 ottobre 2013.

[2] Dovrebbe trattarsi di un fenomeno della meccanica dei quanti per il quale una particella passa attraverso una barriera che convenzionalmente non avrebbe potuto attraversare.

L’austerità ed i costi della svalutazione interna (dal blog di Krugman, 22 febbraio 2015)

febbraio 22, 2015

 

Feb 22 3:17 pm

Austerity and the Costs of Internal Devaluation

Were the costs of Greek adjustment unavoidable, regardless of the currency? Could they have been much less, even given the euro? This paper says no; Simon Wren-Lewis is aghast, and rightly so. How can alleged experts have learned so little from so much terrible experience?

I’d like to focus in on one point in particular, which I’m not sure is completely clear in Simon’s argument. We’re all agreed that Greece needed to reduce its wages and other costs relative to those of the euro area core. This could have happened quickly, with no need for high unemployment, if Greece had had an independent currency to devalue — as happened in Iceland. Given membership in the euro area, however, Greece had to go through a period of relatively high unemployment depressing wage growth.

There was, however, a question of how fast this had to happen. Think of this schematic picture:

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We can think of Greece needing to move wages toward a sustainable path that is itself rising over time thanks to inflation in the rest of the euro area (and of course it’s crucial that this inflation be fast enough). Even given this need, however, there’s the question of how fast; here Plan A is a cold turkey, very high unemployment and deflation route, while Plan B is one in which unemployment need only be high enough to keep wages from rising.

Clearly Plan A involves front-loading the pain. But is the total pain — as measured, say, in point-years of excess unemployment — the same in the two cases?

If the Phillips curve were linear, so that an additional point of unemployment always reduces wage inflation by the same amount, the answer would be yes. But we have overwhelming evidence at this point that the Phillips curve is NOT linear, that it gets very flat at low inflation because of downward nominal wage rigidity.

What this means is that Plan A doesn’t just front-load the pain; it produces a lot more total pain, even though it takes place over a shorter period, because you’re trying to break through strong inhibitions against actual wage cuts as opposed to mere wage restraint.

So Greece could have avoided the bulk of its nightmare if it had had its own currency; but it could have had a much less terrible nightmare even given the euro if austerity had been less extreme and adjustment slower.

 

 

L’austerità ed i costi della svalutazione interna

I costi della correzione in Grecia erano inevitabili, a prescindere dalla valuta? Avrebbero potuto essere inferiori, anche considerato l’euro? Questo articolo dice di no [1]; Simon Wren-Lewis è sbigottito, comprensibilmente. Come possono dei supposti esperti aver imparato così poco da una esperienza talmente terribile?

Vorrei concentrarmi su un aspetto in particolare, che non sono certo sia completamente chiaro nella argomentazione di Simon. Abbiamo tutti condiviso il fatto che la Grecia avesse bisogno di ridurre i salari ed altri costi relativi a quelli al centro dell’area euro. Questo avrebbe potuto avvenire rapidamente, senza alcun bisogno di una elevata disoccupazione, se la Grecia avesse avuto una valuta indipendente da svalutare – come è successo in Islanda. In quanto componente dell’area euro, tuttavia, la Grecia è dovuta passare attraverso un periodo di disoccupazione relativamente alta deprimendo la crescita salariale.

C’era, tuttavia, una domanda sulla velocità con la quale questo avrebbe dovuto accadere. Si pensi a questa figura schematica [2]:

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Possiamo ritenere che la Grecia avesse bisogno di muovere i salari verso un andamento sostenibile che fosse esso stesso crescente nel tempo, grazie all’inflazione nel resto dell’area euro (e naturalmente sarebbe stato cruciale che questa inflazione fosse sufficientemente rapida). Anche considerato questo bisogno, tuttavia, c’è la questione della misura della velocità: in questo caso il Piano A è la cosiddetta “crisi di astinenza” [3], disoccupazione molto elevata e percorsi di deflazione, mentre il Piano B è quello nel quale c’è solo il bisogno che la disoccupazione sia sufficiente ad impedire la crescita dei salari.

Chiaramente il Piano A ha a che fare con una sofferenza concentrata nel tempo. Ma la sofferenza totale – misurabile, ad esempio, con un punteggio di anni di eccesso di disoccupazione – è la stessa nelle due ipotesi?

Se la curva di Phillips [4] fosse lineare, in modo tale che un punto aggiuntivo di disoccupazione riducesse l’inflazione dei salari della stessa misura, la risposta sarebbe positiva. Ma a questo punto abbiamo prove schiaccianti che la curva di Phillips NON è lineare, che in condizioni di bassa inflazione essa diventa molto piatta a causa della rigidità dei salari nominali verso il basso.

Quello che questo significa è che il Piano A non comporta soltanto la concentrazione nel tempo della sofferenza; esso produce una sofferenza totale molto maggiore, persino se ha luogo in un periodo più breve, perché ci si impegna in una rottura attraverso forti costrizioni rispetto a tagli salariali, rispetto ad un mero contenimento dei salari.

Dunque la Grecia avrebbe potuto evitare gran parte del suo incubo se avesse avuto la propria valuta; ma anche considerato l’euro, avrebbe potuto avere un incubo molto meno terribile se l’austerità fosse stata meno estrema e la correzione più lenta.

 

 

[1] L’articolo è apparso sul blog Vox il 20 febbraio 2015. Gli autori sono: Lars P. Feld (Università di Friburgo), Christhoph M. Schmidt (Presidente del Centro di Ricerca di Politica economica), Isabel Schnabel (Università di Gutenberg), Benjamin Weigert (Segretario Generale del comitato di consulenti economici del Governo della Germania), Volker Wieland (Università Goethe di Francoforte).

[2] Sulla linea verticale i salari, su quella orizzontale il tempo. La linea a trattini indica un andamento sostenibile. Nella soluzione A essi vengono bloccati in modo brusco nella fase iniziale del processo, in quella B il loro incremento è posto sotto controllo.

[3] Con l’espressione “cold turkey” (“tacchino freddo”) si intende il comportamento di una persona che interrompe bruscamente la assunzione di una sostanza dalla quale è dipendente, anziché farlo con gradualità e con il sostegno di farmaci, andando inevitabilmente a misurarsi con i problemi di una crisi di astinenza.

[4] L’economista neozelandese Alban William Phillips (19141975), nel suo contributo del 1958  ‘The relationship between unemployment and the rate of change of money wages in the UK 1861-1957′  (La relazione tra disoccupazione e il tasso di variazione dei salari monetari nel Regno Unito 1861-1957), pubblicato su Economica, rivista edita dalla London School of Economics, osservò una relazione inversa tra le variazioni dei salari monetari e il livello di disoccupazione nell’economia britannica nel periodo preso in esame. Analoghe relazioni vennero presto osservate in altri paesi e, nel 1960, Paul Samuelson e Robert Solow, a partire dal lavoro di Phillips, proposero un’esplicita relazione tra inflazione e disoccupazione: allorché l’inflazione era elevata, la disoccupazione era modesta, e viceversa. ” La società può permettersi un saggio di inflazione meno elevato o addirittura nullo, purché sia disposta a pagarne il prezzo in termini di disoccupazione .“ (Robert Solow)

Vedi più ampiamente sulle note della traduzione.

Rip Van Skillsgap (22 febbraio 2015)

febbraio 22, 2015

 

Feb 22 9:42 am

Rip Van Skillsgap

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There’s been quite a lot of commentary about the Hamilton Project conference on robots and all that. Let me just add my two cents about the “framing paper“.

What strikes me about this paper — and in general what one still hears from many people inside the Beltway — is the continuing urge to make this mainly a story about the skills gap, of not enough workers having higher education or maybe the right kind of education. The paper acknowledges, sort of, that the trends people thought they saw in the 1990s aren’t visible in later data, but then jumps right back into discussing education as the solution as if nothing had happened.

But if my math is right, the 90s ended 15 years ago — and since then wages of the highly educated have stagnated. Why on earth are we still hearing the same rhetoric about education as the solution to inequality and unemployment?

The answer, I’m sorry to say, is surely that it sounds serious. But, you know, it isn’t.

 

 

Rip Van Skillsgap [1]

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C’è stata una quantità di commenti sulla conferenzadell’Hamilton Project sui robot e tutto il resto. Consentitemi solo di aggiungere un piccolo contributo sull’ “articolo di inquadramento”.

Quello che mi stupisce di questo studio – e in generale di quello che si sente dire da parte di molte persone nella Capitale – è il bisogno continuo di farlo diventare principalmente un racconto sul difetto delle competenze, sul numero insufficiente di lavoratori con una istruzione superiore o forse con il tipo giusto di istruzione. Lo studio in qualche modo riconosce che le tendenze che la gente pensava di aver visto negli anni ’90 non è visibile negli ultimi dati, ma poi fa un salto indietro a discutere di istruzione come la soluzione, come se non fosse accaduto niente.

Ma se i miei conti sono giusti, gli anni ’90 sono finiti un quindicennio orsono – e da allora i compensi dei lavoratori con elevata istruzione sono rimasti stagnanti. Perché mai dobbiamo sorbirci la stessa retorica sull’istruzione come soluzione ai problemi dell’ineguaglianza e della disoccupazione?

Mi dispiace dirlo, ma certamente la risposta è che sembra una cosa seria. Eppure, sapete che non lo è.

 

 

 

[1] “Skillsgap” significa un “difetto/scarto di competenze professionali”. Ma potrebbe essere un nomignolo affibbiato a un personaggio, o ad un gruppo di personaggi, per affinità con un protagonista di un racconto dello scrittore Washington Irving del 1919. Il titolo del racconto era “Rip Van Winkle” e narrava di un personaggio che era uscito di scena in un lungo fantastico sonno, per sfuggire ad una moglie bisbetica, ed al ritorno nel villaggio natio aveva trovato tutto cambiato. Il senso potrebbe essere che anche i sociologi dell’Hamilton Project si devono essere addormentati, trascurando quello che sta davvero accadendo in tema di diseguaglianze negli ultimi venti anni. In effetti, anche Rip Van Winkle si era addormentato per venti anni.

Questo un dipinto relativo alla storia, dove appare lo spaesato vecchietto:

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La Grecia ha fatto bene (22 febbraio 2015)

febbraio 22, 2015

 

Feb 22 9:30 am

Greece Did OK

Now that the dust has settled a bit, we can look calmly at the deal — if it really is a deal that survives through tomorrow, which some people doubt. And it’s increasingly clear that Greece came out in significantly better shape, at least for now.

The main action, always, involves the Greek primary surplus — how much more will they need to raise in revenue than they can spend on things other than interest? The question these past few days would be whether the Greeks would be forced into agreeing to aim for very high primary surpluses under the threat of being pushed into immediate crisis. And they weren’t.

One way to see this is through careful parsing of the language, as done here. That’s quite useful. But I’d argue that in an important sense we’re past that kind of word-chopping. Instead, we need to think about what happens substantively from here out.

Right now, Greece has avoided a credit cutoff, and worse yet an ECB move to pull the plug on its banks, and it has done so while getting the 2015 primary surplus target effectively waived.

The next step will come four months from now, when Greece makes its serious pitch for lower surpluses in future years. We don’t know how that will go. But nothing that just happened weakens the Greek position in that future round. Suppose that the Germans claim that some ambiguously worded clause should be interpreted to mean that Greece must achieve a 4.5 percent of GDP surplus, after all. Greece will say no, it doesn’t — and then what? A couple of years ago, when all the VSPs of Europe believed utterly in austerity, Greece might have faced retaliation thanks to wording issues; not now.

So Greece has won relaxed conditions for this year, and breathing room in the run-up to the bigger fight ahead. Could be worse.

 

La Grecia ha fatto bene

Ora che la polvere si è un po’ depositata, possiamo guardare con calma all’accordo – ammesso che sia realmente un accordo destinato a resistere oltre una giornata, cosa della quale alcuni dubitano. E, almeno per adesso, è sempre più chiaro che la Grecia ne è uscita in una condizione significativamente migliore.

L’intervento principale riguarda, sempre, l’avanzo primario greco – di quante maggiori entrate i greci hanno bisogno, rispetto a quello che possono spendere al netto degli interessi? La domanda di questi giorni era se la Grecia sarebbe stata costretta a concordare con l’obbiettivo di avanzi primari elevatissimi, con la minaccia di essere spinta ad una crisi immediata. E non è quello che è avvenuto.

Un modo di osservarlo è attraverso una scrupolosa analisi linguistica, come viene fatto in questa connessione [1]. Ciò è abbastanza utile. Ma direi che in un senso importante abbiamo superato quella sorta di ‘spezzatino’ linguistico. Abbiamo bisogno piuttosto di riflettere su quello che sostanzialmente accadrà da ora in poi.

Sul momento, la Grecia ha evitato un taglio del credito, e peggio ancora ha evitato una iniziativa della BCE per staccare la spina alle sue banche, e lo ha fatto ottenendo una rinuncia sostanziale all’obbiettivo di avanzo primario per il 2015.

Il prossimo passo verrà tra quattro mesi, quando la Grecia pubblicizzerà seriamente le sue posizioni per avanzi primari più bassi nei prossimi anni. Non sappiamo come andrà a finire. Ma niente di quello che è appena accaduto indebolisce la posizione greca nel prossimo round. Supponiamo che i tedeschi sostengano che qualche clausola ambiguamente espressa debba, alla fine, essere interpretata nel senso che la Grecia deve ottenere un avanzo primario pari al 4,5 per cento del PIL. La Grecia dirà di no, che non intende farlo – ed allora? Un paio di anni fa, quanto tutte le Persone Molto Serie d’Europa credevano completamente nell’austerità, la Grecia avrebbe potuto subire rappresaglie per una questione di parole; oggi no.

Dunque la Grecia ha conquistato condizioni più tranquille per quest’anno, ed una pausa di respiro nel periodo che precede la prossima più grande battaglia. Poteva andar peggio.

 

 

[1] Il riferimento è ad un articolo di meticolosa disanima dell’accordo a cura di Norman Häring, un esperto tedesco. Come è noto il 16 febbraio l’eurogruppo aveva intimato alla Grecia di formulare per scritto un propria diversa proposta di accordo provvisorio – rispetto ad un testo presentato l’11 febbraio da Varoufakis – ed il 20 febbraio l’eurogruppo ha concordato su una “dichiarazione” sul caso greco. La analisi è istruttiva, delle sottigliezze spesso bizantine che sono intervenute nel passaggio dei quattro giorni; e l’esperto tedesco solleva il dubbio che Schäuble abbia guadagnato qualcosa di sostanziale nel bloccare la proposta iniziale di Varoufakis.

Le persone non sono androidi (21 febbraio 2015)

febbraio 21, 2015

 

Feb 21 2:27 pm

People Aren’t Androids

My soon-to-be-colleague Branko Milanovic writes forcefully against the term “human capital”; Elizabeth Bruenig notes an especially unpleasant use of the term by reformicons trying to sell child tax credits to their conservative allies.

I’m in agreement with both. It’s actually shocking how readily we have fallen into rhetoric that treats human beings as assets; it’s closely related to the remarkable, equally shocking way that we now talk about medical patients as health care “consumers”.

But I think there’s a bit more to add.

Branko says that the essential difference between skills and physical capital is that the former aren’t worth anything unless you work, and that is certainly an essential difference. I would, however, also emphasize the flip side: if you think of capital as something that rentiers can own, which is surely one of the important things we connote when we use the c-word, then labor force skills are not capital in that sense. Children of the wealthy can inherit or buy factories and buildings; absent indentured servitude or the coming of androids, they can’t buy worker skills.

Meanwhile, Bruenig is unhappy with James Pethokoukis for trying to sell humanitarian policies, more or less, as a cynical pro-capitalist ploy (which is, to give credit where it’s due, the opposite of the usual thing on the right). What I immediately noted was that Pethokoukis is wrong about what actually works in the direction he wants. He argues that big welfare states discourage having children, and dismisses pro-natalist policies as ineffectual. Here are fertility rates in advanced countries:

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The two most extensive, generous welfare states in the world — France and Sweden — also have higher fertility than we do, significantly so in the case of France. And there’s a reason: strong pro-natalist policies, which greatly reduce the burden, financial and otherwise, of raising children. As I’ve written in the past, if you want to see policy informed by genuine family values — as opposed to “pro-family” values that are actually about patriarchy — France is a much better example than America.

 

Le persone non sono androidi

Colui che sarà tra breve mio collega, Branko Milanovic, interviene energicamente contro il termine “capitale umano”; Elizabeth Bruenig osserva un uso particolarmente sgradevole del termine da parte dei conservatori riformisti [1], che cercano di far accettare i crediti di imposta sui figli ai loro alleati conservatori.

Sono d’accordo con entrambi. Effettivamente è stupefacente con quanta prontezza ci siamo adeguati ad un linguaggio che tratta gli essere umani come asset; ciò è connesso strettamente all’altrettanto stupefacente e degno di nota vezzo di parlare dei pazienti della sanità come “consumatori” di assistenza sanitaria.

Ma penso ci sia qualcosa d’altro da aggiungere.

Branko dice che la differenza essenziale tra competenze professionali e capitale fisico è che le prime non valgono niente se non si lavora, e quella è certamente una differenza essenziale. Vorrei anche, tuttavia, mettere l’accento sull’altro lato della medaglia: se si pensa al capitale come qualcosa che i redditieri possono possedere, che è certamente una delle cose importanti alle quali alludiamo quando usiamo quella parola [2] , allora le competenze della forza lavoro non sono capitale in quel senso. I figli dei ricchi possono ereditare o comperare stabilimenti e palazzi; la lontana servitù a contratto o gli imminenti androidi non possono comprare le competenze di un lavoratore.

Nello stesso tempo, Bruenig è scontenta di James Pethokoukis per il suo tentativo, più o meno, di far accettare politiche umanitarie come uno stratagemma a favore dei capitalisti (che è l’opposto, per dire le cose come stanno, di ciò che solitamente fa la destra). Quello che notai immediatamente era che Pethokoukis si sbaglia a proposito di ciò che effettivamente funziona, nella direzione a cui è interessato. Egli sostiene che i grandi Stati assistenziali scoraggiano dall’avere figli, e liquidano le politiche a favore della natalità come inefficaci. Ecco i tassi di fertilità nel paesi avanzati:

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I due stati assistenziali più esaurienti e generosi al mondo – la Francia e la Svezia – hanno tassi di natalità più elevati dei nostri, in modo particolarmente significativo nel casi della Francia. E c’è una ragione: le forti politiche a favore della natalità, che riducono grandemente il peso, finanziario e di altra natura, dell’allevare i figli. Come ho scritto nel passato, se si vogliono vedere politiche genuinamente ispirate ai valori della famiglia – all’opposto dei valori ‘familistici’ che in verità sono a favore del patriarcato – la Francia è un esempio molto migliore dell’America.

 

 

 

[1] In connessione un articolo di un esponente dei “conservatori riformisti”, James Pethokoukis, economista e blogger che opera presso l’American Enterprise Institute. L’articolo risale al giugno del 2014.

[2] “C-word” di solito è un modo per esprimersi con il massimo della volgarità nei confronti di una persona, soprattutto di un donna. In quel caso “c” sta per “cunt”. Ma non capirei il nesso e tantomeno l’ironia in questo contesto, per cui lo interpreto solo come un riferimento alla lettera iniziale.

Un eccezionalismo più umile (20 febbraio 2015)

febbraio 20, 2015

 

Feb 20 10:33 am

Chastened Exceptionalism

Jamelle Bouie has a very good article responding to Rudy Giulani’s attack on Obama’s patriotism, making the point that Obama, while clearly deeply patriotic, does talk about America a bit differently from his predecessors.

Oh, and read this about Giuliani.

But I’m not sure that Bouie has the whole story. He attributed Obama’s relatively chastened version of American exceptionalism to his personal identity — that as a black American he is more in touch with the areas of ambivalence in our history. That may well be true. But there are many Americans who love their country in pretty much the way the president does — seeing it as special, often an enormous force for good in the world, but also fallible and with some stains on its record. I’m one of them. So you don’t have to be black to see things that way.

What’s more, there have always been American patriots who could acknowledge flaws in the country they loved. For example, there’s the guy who described one of our foreign wars as “the most unjust ever waged by a stronger against a weaker nation.” That was Ulysses S. Grant — who long-time readers know is one of my heroes — writing about the Mexican-American War.

But now we (finally) have a president who is willing to say such things while in the White House. Why?

Maybe it’s history: the Greatest Generation is fading away, and the most recent war in our memories is Iraq — a war waged on false pretenses, whose enduring images are not of brave men storming Omaha Beach but of prisoners being tortured in Abu Ghraib. My sense is that Iraq has left a lasting shadow on our self-image; many people now realize that we, too, can do evil.

Maybe it’s just that we are becoming, despite everything, a more sophisticated country, a place where many people do understand that you can be a patriot without always shouting “USA! USA!” — maybe even a country where people are starting to realize that the shouters are often less patriotic than the people they’re trying to shout down.

All of this doesn’t change the fact that we really are an exceptional country — a country that has played a special role in the world, that despite its flaws has always stood for some of humanity’s highest ideals. We are not, in other words, just about tribalism — which is what makes all the shouting about American exceptionalism so ironic, because it is, in fact, an attempt to tribalize our self-image.

 

Un eccezionalismo più umile [1]

Jamelle Bouie scrive un ottimo articolo in risposta all’attacco di Rudy Giuliani sul patriottismo di Obama, avanzando la tesi secondo la quale Obama, pur essendo chiaramente patriottico nel profondo, parla dell’America in modo abbastanza diverso dai suoi predecessori.

E poi, a proposito di Giuliani, leggetevi questo [2].

Ma non sono sicuro che Bouie ci dica tutto. Egli ha attribuito la versione relativamente attenuata dell’eccezionalismo di Obama alla sua identità personale – ovvero al fatto che in quanto nero americano egli è più in sintonia con le aree di ambivalenza della nostra storia. Questo certamente può essere vero. Ma ci sono molti americani che amano il loro paese in modo abbastanza simile a quello del Presidente – lo considerano come un particolare, spesso come un enorme fattore positivo nel mondo, ma anche fallibile e non esente da macchie nella sua storia. Io sono uno di loro. Dunque, non c’è bisogno di essere neri per vedere le cose in quel modo.

Ciò che è più importante, è che ci sono sempre stati americani che potevano riconoscere difetti nel paese che amavano. Ad esempio, c’era un individuo che descrisse una delle nostre guerre all’estero come “la più ingiusta che sia mai stata dichiarata da una nazione più forte contro una nazione più debole”. Era Ulysses S. Grant – come sanno i miei lettori da lungo tempo, è uno dei miei eroi preferiti – che scriveva sulla Guerra Messicano-Americana.

Ma ora abbiamo (finalmente) un Presidente che ha voglia di dire cose del genere mentre è alla Casa Bianca. Perché?

Forse dipende dalla storia: la Generazione dei Più Grandi [3] se ne sta andando, e la guerra più recente nella nostra memoria è l’Iraq – una guerra dichiarata sulla base di falsi pretesti, le cui immagini durevoli non riguardano uomini coraggiosi che prendono d’assalto Omaha Beach [4], ma prigionieri che vengono torturati ad Abu Ghraib. La mia sensazione è che l’Iraq abbia lasciato un’ombra durevole sull’immagine che abbiamo di noi stessi; in molti ora si rendono conto che anche noi possiamo fare del male.

Forse si tratta soltanto del fatto che stiamo diventando, nonostante tutto, un paese più evoluto, un posto nel quale in molti si rendono conto che si può essere patrioti senza gridare in continuazione “USA! USA!” – forse persino un paese nel quale molte persone cominciano a capire che quelli che urlano sono spesso meno patriottici di coloro che cercano di sopraffare con le urla.

Tutto questo niente toglie al fatto che siamo per davvero un paese eccezionale – un paese che ha giocato un ruolo particolare nel mondo, che nonostante i suoi difetti si è sempre espresso per gli ideali più elevati dell’umanità. In altre parole, nel nostro caso non si tratta di un banale spirito di appartenenza ad una tribù – e quella è la cosa che rende tutti coloro che strillano sull’eccezionalismo americano così beffardi, dato che, di fatto, costituisce un tentativo di ridurre ad una tribù l’immagine che abbiamo di noi stessi.

 

 

[1] Il termine “eccezionalismo” nel linguaggio storico politico americano si riferisce alla “eccezionalità” della storia degli Stati Uniti, talora intesa letteralmente nel senso della sua straordinaria forza innovativa, più raramente, a sinistra, nel senso dell’esagerato orgoglio nazionalistico su cui si basa. “Chastened” potrebbe essere semplicemente tradotto nel senso di “attenuato”, ma anche nel senso di “maggiormente umile”, che nel caso di Obama è forse più appropriato.

[2] La connessione è con un articoletto sul blog “Daily News” nel quale si ricordano – a proposito della critica di Giuliani, secondo la quale Obama non “amerebbe” l’America – alcune sue storie di “amore coniugale”. Sembra che abbia ottenuto la separazione dalla prima moglie con un compiacente annullamento da parte di un sacerdote che stranamente si era accorto tardi che essa era sua seconda cugina, che si sia separato dalla seconda annunciandolo senza preavviso in una conferenza stampa di prima mattina, e che avesse avviato la sua relazione con la terza (prima del secondo divorzio) andandola a trovare nella sua residenza nei lussuosi sobborghi di Hamptons per 11 volte scortato da sette agenti con due SUV, per un costo a carico dei contribuenti pari a 3.000 dollari.

Mi scuso per il gossip che è un po’ istruttivo, se si pensa sia al moralismo della destra americana, sia alle italiche modeste vicende della ‘panda rossa’ in parcheggio vietato del povero sindaco della nostra capitale.

[3] The Greatest Generation è un termine coniato dal giornalista Tom Brokaw per riferirsi a quella generazione che crebbe negli Stati Uniti durante il disastro della Grande Depressione e che andò a combattere nella Seconda Guerra Mondiale e a quelli che, con la loro produttività all’interno della guerra nell’home front, hanno dato un contributo decisivo alla produzione di armi. (Wikipedia)

[4] Omaha Beach è il nome in codice dato dagli alleati ad una delle cinque spiagge su cui avvennero gli sbarchi il 6 giugno 1944. La spiaggia, dell’ampiezza di 8 chilometri, si snoda da Sainte-Honorine-des-Pertes a Vierville-sur-Mer nel dipartimento del Calvados, nella Bassa Normandia. (Wikipedia)

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L’Europa ha bisogno di fermare l’orologio (20 febbraio 2015)

febbraio 20, 2015

 

Feb 20 10:05 am

Europe Needs To Stop The Clock

I’ve been in correspondence with various people trying to track the current Greece/euro crisis, and everyone seems to have reached the same conclusion I’ve reached — namely, that what’s needed above all right now is some way to stop the clock, call a time-out, whatever. We’re talking about weeks, maybe a month or two — but that pause is desperately needed, because otherwise it will be all too easy to stumble into a preventable disaster.

Why do we need a time-out? Mainly because the new Greek government simply hasn’t had time to do its homework. This is not a criticism: it’s a new government, it’s outside the existing political establishment (because voters feel, with justification, that the establishment has failed), and Syriza doesn’t have a deep technocratic bench. Even with the best will in the world — and from what I hear, we are talking about well-intentioned people here — the Greeks can’t present a detailed proposal, decide exactly what they must do and can’t do, just yet.

In a different phase of history, they might have been able to turn to outside institutions with a lot of technical expertise — but now? The Commission is, in their eyes and pretty much in reality, a bad actor which has had terrible judgment. The IMF are pretty good guys these days, but are part of the troika and certainly can’t be directly involved in drafting the agenda of this government. Ditto the ECB.

Now, maybe after 60 or 90 days it would become clear that there is no possible deal, and Grexit it is. But we don’t know that.

What we do know is that what appears to be the demand of hardliners — that the new Greek government agree in the next few days to abandon everything it campaigned on, that it lock in draconian fiscal targets, privatization, and other things it hasn’t had time to assess — is impossible. I don’t know whether the hard-liners believe that this bum’s rush will work, or are just pushing Greece out the door. But this is not how it should go. Everyone needs some time to think.

 

L’Europa ha bisogno di fermare l’orologio

Sono stato in corrispondenza con varie persone cercando di seguire l’attuale crisi euro-greca, e sembrano essere tutti arrivati alle mie conclusioni – ovvero, che quello che è soprattutto necessario in questo momento, in qualche modo, è di fermare l’orologio, di chiedere una forma qualsiasi di sospensione. Stiamo parlando di settimane, forse di un mese o due – ma quella pausa è disperatamente necessaria, perché altrimenti sarà anche troppo facile fare un passo falso in un prevedibile disastro.

Perché abbiamo bisogno di una sospensione? Principalmente perché il nuovo Governo greco non ha semplicemente avuto il tempo di prepararsi. Questa non è una critica: si tratta di un nuovo Governo, estraneo alla esistente classe dirigente (perché gli elettori hanno sentito che, comprensibilmente, quella classe dirigente aveva fallito), e Syriza non ha una vasta panchina di tecnocrati. Persino con la migliore volontà del mondo – e da quello che sento dire, in questo caso stiamo parlando di persone ben intenzionate – i Greci non possono presentare una proposta dettagliata, decidere esattamente quello che devono fare e quello che non possono fare, su due piedi.

In un momento diverso della storia, potevano essere nelle condizioni di rivolgersi ad istituzioni esterne dotate di molta competenza tecnica – ma adesso? La Commissione, ai loro occhi e in gran parte nella realtà, è un pessimo soggetto che ha ricevuto un giudizio terribile. Il FMI è di questi tempi un soggetto abbastanza affidabile, ma fa parte della troika e certamente non può essere direttamente incluso nella stesura dei programmi di questo Governo. Lo stesso dicasi per la BCE.

Ora, può darsi che dopo 60 o 90 giorni diventerà chiaro che non c’è alcun accordo possibile, e a quel punto la Grecia uscirà. Ma non lo sappiamo.

Quello che oggi sappiamo è che quella che sembra essere la richiesta degli intransigenti – che il nuovo Governo greco concordi in pochi mesi di abbandonare tutto quello per cui si è mobilitato nelle elezioni, che si rinchiuda entro obbiettivi di finanza pubblica draconiani, in privatizzazioni e in altre cose che non ha il tempo di valutare – è impossibile. Non so se gli intransigenti credano che questa forzatura funzionerà, o se stanno semplicemente spingendo la Grecia fuori dalla porta. Ma non è in questo modo che si dovrebbe procedere. Hanno tutti bisogno di un po’ di tempo per riflettere.

Metteteci una parolaccia tedesca (19 febbraio 2015)

febbraio 19, 2015

 

Feb 19 11:58 am

Insert German Curse Word Here

Germany says no to Greek request.To be fair, I think news reports describing the Greek letter as a complete u-turn and capitulation are wrong. I see this:

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and it looks to me as if Greece is quite carefully not committing to the original fiscal targets; it will attain “appropriate primary fiscal surpluses”, which almost surely means less than 4.5 percent of GDP. So if the German complaint is that Greece is not agreeing to lock in total surrender to the preexisting austerity plan, this appears to be right. Instead, Greece appears to be seeking to buy some time to put together an economic strategy (remember, this is a new government without a deep bench of technocrats), and to negotiate terms later. Germany, on the other hand, is trying to force Syriza into complete abandonment of its election promises right now, today.

Do the Germans really think that’s a likely outcome? I suspect not. This looks to me like an attempt to force Greece out of the euro, right now. German policy is objectively pro-Grexit.

It’s also, given the likely fallout, objectively pro-Golden Dawn.

The role of the ECB is critical here, and Peter Doyle says what I’ve been meaning to say, but better:

[I]n the event that Euro-Greek negotiations fail, the ECB should unequivocally continue to provide full ELA to Greece. Furthermore, it should make that position clear now, while negotiations on the program continue. This would determine that Euro policymakers must not only resolve Greece without the ECB stick corralling them but must also find themselves another Euro enforcement mechanism.

Crunch time.

 

Metteteci una parolaccia tedesca

La Germania dice no alle richieste greche. A dir la verità, penso che i resoconti giornalistici che descrivono la lettera greca come un completo rovesciamento ed una capitolazione siano sbagliati. Io leggo questo:

 

“Lo scopo della proproga di sei mesi della durata dell’Accordo é:

a)        Concordare i termini finanziari ed amministrativi reciprocamente accettabili l’attuazione dei quali, in collaborazione con le istituzioni [1], stabilizzerà la posizione della finanza pubblica della Grecia, conseguirà avanzi di amministrazione primari della finanza pubblica idonei, garantirà la sostenibilità del debito e contribuirà all’ottenimento degli obbiettivi finanziari per il 2015 che tengano conto della attuale situazione economica.”

 

e mi sembra che la Grecia sia abbastanza scrupolosa nel non impegnarsi sugli originari obbiettivi di finanza pubblica; essa conseguirà “avanzi primari della finanza pubblica appropriati”, il che quasi certamente significa inferiori al 4,5 per cento del PIL. Cosicché se la lamentela tedesca è che la Grecia non sta concordando di rinchiudersi in una totale resa al programma di austerità preesistente, questo sembra giusto. Piuttosto, sembra che la Grecia stia cercando di guadagnare un po’ di tempo per mettere assieme una strategia economica (si ricordi, questo è un nuovo governo senza molti tecnocrati in panchina) e negoziarne i termini successivamente. La Germania, d’altra parte, sta cercando di costringere Syriza ad un abbandono completo delle sue promesse elettorali sin da subito, oggi stesso.

Pensano davvero i tedeschi che questo sia un risultato probabile? Sospetto di no. Mi sembra piuttosto un tentativo di costringere la Grecia fuori dall’euro, sin da subito. La politica è obiettivamente a favore dell’uscita della Grecia.

Essa è, date le probabile conseguenze negative, obbiettivamente a favore di Alba Dorata.

In questo caso il ruolo della BCE è critico, e Peter Doyle [2] afferma, meglio di me, quello che io avevo intenzione di dire:

“(Nel)l’ipotesi che i negoziati euro-greci falliscano, la BCE dovrebbe inequivocabilmente fornire una piena ELA (Emergency Liquidity Assistance) alla Grecia. Inoltre, dovrebbe rendere chiara quella posizione sin da subito, mentre i negoziati sul programma sono in corso. In questo modo si stabilirebbe che gli uomini politici europei non solo devono giungere ad una decisione sulla Grecia senza che il bastone della BCE li tenga riuniti, ma anche trovare da soli un altro meccanismo di applicazione dell’euro.”

Tempi critici.

 

 

[1] Pare che il termine “istituzioni” sia la soluzione che è stata trovata per superare la parola “troika”.

[2] L’articolo nella connessione è apparso su FTAlphaville, blog del Financial Times, e Peter Doyle è un economista che in passato ha fatto parte dello staff del FMI.

Austerità comparata (dal blog di Krugman, 17 febbraio 2015)

febbraio 17, 2015

 

Feb 17 7:21 am

Comparative Austerity

Kevin O’Rourke is angry at the Irish government for self-righteously lecturing Greece on the need to suck it up and be austere like the Irish. Indeed. Here’s a different comparison:

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European Commission

Greece has done a lot more austerity than those countries cited as supposed success stories (which is another issue — success being defined as “not total collapse, and slight recovery after years of horror” — but that’s a different story). And as Kevin says, the Irish government is acting against its own citizens by beating up on Greece.

 

 

Austerità comparata

Kevin O’Rourke si arrabbia con la moralistica ramanzina alla Grecia da parte del Governo irlandese, sulla necessità che i greci si rassegnino e siano austeri come gli irlandesi. Non ha torto. Ecco quanta differenza c’è nel confronto [1]:

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Commissione europea

 

La Grecia ha subito molta maggiore austerità di quei paesi che vengono citati come presunte storie di successo (che è un altro tema – il successo essendo definito come “un collasso non totale ed una leggera ripresa dopo anni di orrore” – ma appunto è una differente storia). E come dice Kevin, il Governo irlandese, picchiando sulla Grecia, opera contro i suoi stessi cittadini.

 

 

 

[1] La tabella mostra i mutamenti nella spesa al netto degli interessi, in termini percentuali. La spesa greca – negli anni dal 2007 al 2014 – è diminuita di circa il 22 per cento, mentre quella dell’Irlanda ci circa il 2 per cento.

Atene delenda est (dal blog di Krugman, 16 febbraio 2015)

febbraio 16, 2015

 

Feb 16 2:02 pm

Athenae Delenda Est

OK, this is amazing, and not in a good way. Greek talks with finance ministers have broken up over this draft statement, which the Greeks have described as “absurd.” It’s certainly remarkable. On my reading, here’s the key sentence:

The Greek authorities committed to ensure appropriate primary fiscal surpluses and financing in order to guarantee debt sustainability in line with the targets agreed in the November 2012 Eurogroup statement. Moreover, any new measures should be funded, and not endanger financial stability.

Translation (if you look back at that Eurogroup statement): no give whatsoever on the primary surplus of 4.5 percent of GDP.

There was absolutely no way Tsipras and company could sign on to such a statement, which makes you wonder what the Eurogroup ministers think they’re doing.

I guess it’s possible that they’re just fools — that they don’t understand that Greece 2015 is not Ireland 2010, and that this kind of bullying won’t work.

Alternatively, and I guess more likely, they’ve decided to push Greece over the edge. Rather than give any ground, they prefer to see Greece forced into default and probably out of the euro, with the presumed economic wreckage as an object lesson to anyone else thinking of asking for relief. That is, they’re setting out to impose the economic equivalent of the “Carthaginian peace” France sought to impose on Germany after World War I.

Either way, the lack of wisdom is astonishing and appalling.

 

Atene delenda est

Questa è davvero incredibile, e non in senso positivo. I colloqui dei greci con i Ministri delle Finanze si sono rotti su questa bozza di dichiarazione, che i greci hanno definito “assurda”. Di sicuro essa è rilevante. Secondo la mia lettura, questa è la frase cruciale:

“Le autorità greche hanno preso l’impegno ad assicurare appropriati avanzi primari nella finanza pubblica e finanziamenti che servano a garantire la sostenibilità del debito, in linea con gli obbiettivi concordati con la dichiarazione dell’eurogruppo del novembre del 2012. Inoltre, ogni nuova misura dovrebbe avere copertura finanziaria, e non mettere a rischio la stabilità finanziaria.”

Traduzione (se tornate a leggere quella dichiarazione dell’eurogruppo): non si cede per niente su un avanzo primario pari al 4,5 per cento del PIL.

Non c’era assolutamente nessuna possibilità che Tsipras e compagni potessero sottoscrivere una dichiarazione del genere, la qualcosa porta a chiedersi se i Ministri dell’eurogruppo riflettono su quello che stanno facendo.

Credo che sia possibile che siano semplicemente dei pazzi – che non capiscano che la Grecia del 2015 non è l’Irlanda del 2010, e che questo genere di intimidazioni non funzioneranno.

In alternativa, e penso più probabilmente, hanno deciso di spingere la Grecia al limite di rottura. Piuttosto che offrire un qualche terreno, preferiscono vedere la Grecia costretta al default e probabilmente fuori dall’euro, in modo che il prevedibile naufragio economico sia una lezione pratica verso chiunque altro pensasse di chiedere una attenuazione. Vale a dire, si prefiggono di imporre l’equivalente economico della “pace cartaginese” [1] che la Francia cercò di imporre alla Germania dopo la Prima Guerra mondiale.

In ogni modo, la mancanza di saggezza è stupefacente e spaventosa.

 

 

 

[1] In realtà la frase sulla distruzione era riferita a Cartagine, e dunque quel genere di soluzione propriamente non era una “pace cartaginese”, ma una “pace romana”. Probabilmente Krugman, che è appassionato di storia romana, intende dire che era il genere di ‘pace’ che avrebbero dovuto subire i cartaginesi. Fu Marco Porcio Catone, “Catone il censore”, che dopo il suo ritorno a Roma nel 157 a.C., a seguito dei negoziati falliti con Massinissa, Re di Cartagine, nei vari anni successivi era solito chiudere ogni suo discorso nel Senato romano con la frase “Carthago delenda est”.

Weimar e la Grecia (continuazione) (dal blog di Krugman, 15 febbraio 2015)

febbraio 15, 2015

 

Feb 15 9:56 am

Weimar and Greece, Continued

Try to talk about macroeconomics, and you’re sure to encounter accusations that your policies would turn us into Weimar Germany; those wheelbarrows full of cash remain the ultimate bogeymen for many, despite years of being wrong about everything. As some of us have noted, however, there’s a peculiar selectivity in the use of Weimar as cautionary tale: it’s always about the hyperinflation of 1923, never about the deflationary effects of the gold standard and austerity in 1930-32, which is, you know, what brought you-know-who to power.

But that’s not the only piece of Weimar history that has gone missing; there was also the reparations issue, which as I noted yesterday has considerable bearing on the issue of how large a primary surplus Greece must run.

Thinking about this led me to an interesting question. We know that part of the reason large postwar reparations were such an unreasonable and irresponsible demand was the dire, shrunken state of the German economy after World War I. So how does Greece compare? The answer startled me:

z 505

 

 

 

 

 

 

 

 

Maddison Project, Eurostat

Austerity, it turns out, has devastated Greece just about as much as defeat in total war devastated imperial Germany. The idea of demanding that this economy triple the size of its primary surplus is … disturbing.

 

Weimar e la Grecia (continuazione)

Cercate di parlare di macroeconomia, e siate certi che incontrerete l’accusa che le vostre politiche ci porterebbero alla Germania di Weimar; quei carretti pieni di denaro contante restano per molti l’ultimo spauracchio, nonostante anni di sbagli generalizzati. Come alcuni di noi hanno notato, tuttavia, c’è una particolare selettività nell’uso di Weimar come racconto ammonitorio: esso riguarda sempre l’iperinflazione del 1923, mai gli effetti deflazionistici del gold standard e l’austerità negli anni 1930-1932, che furono, non dimenticatelo mai, quelli che portarono al potere quel soggetto che ben sapete.

Ma non è solo questo il pezzo della storia di Weimar che è andato perduto; c’è anche il tema delle riparazioni, che come ho notato ieri [1] ha una considerevole attinenza con la questione di quanto debba essere ampio l’avanzo di amministrazione gestito dalla Grecia.

Il ragionare su tale tema mi ha portato ad una interessante domanda. Noi sappiamo che una parte dei motivi per i quali le grandi riparazioni post belliche furono una pretesa talmente irragionevole ed irresponsabile furono le condizioni terribili, il letterale raggrinzimento dell’economia tedesca dopo la Prima Guerra Mondiale. Dunque, come confrontarlo con la Grecia? La risposta mi ha spaventato [2]:

z 505

 

 

 

 

 

 

 

 

Maddison Project, Eurostat

 

Si scopre che l’austerità ha devastato la Grecia esattamente come la sconfitta nella guerra generale devastò la Germania imperiale. L’idea di richiedere che questa economica triplichi il suo avanzo primario è, come dire, inquietante.

 

 

 

[1] Vedi l’articolo sul New York Times dal titolo “Weimar sull’Egeo”.

[2] Come si vede, il grafico rappresenta gli andamenti del PIL reale nei sette anni di crisi tedesca – dall’inizio della Prima Guerra Mondiale al 1920 – e nei sette anni della crisi greca – dal 2007 al 2014.

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