Blog di Krugman

Quanto è stato ‘super’ Mario? (per esperti) (dal blog di Krugman, 22 gennaio 2015)

 

Jan 22 9:28 pm

How Super Was Mario? (Wonkish)

Mario Draghi pulled off a political triumph on QE, coming in with a program that is bigger and more open-ended than anyone expected. The goal was to jolt expectations, to convince markets that there has been a fundamental shift toward aggressiveness. And markets certainly moved in the right direction. But how much was achieved? Inquiring minds want to know — or at least I do. So I’ve done some back-of-the-envelope calculations on the question of how much Draghi managed to move inflation expectations.

A side note: many people seem to use the 5-year-5-year forward swap rate here, but that seems very strange to me; it’s a measure of expected inflation, not from 2015 to 2020, but of 2020 to 2025. Why, exactly, should that be the measure? It’s much more natural, I’d think, to just use 5-year or 10-year break-evens, the spread between index and nominal bonds.

So look at German yields (Germany because it’s presumably the safe asset of Europe). A week ago German index bonds coming due in 5 years yielded -.31, while ordinary bonds of the same maturity offered a slightly negative yield; so the implied prediction of inflation was about 0.3 percent over the next five years. Now the index yield is -.46, while nominal yield is slightly positive, implying expected inflation of around 0.5 percent. So that’s a 0.2 percentage point rise in the expected 5-year inflation rate.

At a 10-year horizon it seems to be a bit less but in the same ballpark, maybe 0.15 percentage points.

We can also estimate the effect indirectly, via the exchange rate. Not much change in the US-Germany interest differential, but around a 2 percent fall in the euro; as I explained in the linked post, this is consistent with a roughly 0.2 percent rise in expected euro area inflation over the next decade.

So, Draghi’s big announcement seems to have raised expected European inflation by one-fifth of a percentage point. That’s actually a lot to accomplish under the circumstances, but it’s also far too little to turn Europe around on its own. Great work, Mr. Draghi, but it’s going to take a lot more than this to save the day.

 

Quanto è stato ‘super’ Mario? (per esperti)

Mario Draghi ha messo a segno un trionfo politico sulla QE, presentandosi con un programma che è privo di scadenze e più grande di quanto tutti si aspettavano. L’obbiettivo era dare una scossa alle aspettative, convincere i mercati che c’era stata una svolta fondamentale nel senso dell’aggressività. Ed i mercati si sono mossi certamente nella direzione giusta. Ma quanto è stato realizzato? E’ ciò che vorrebbe sapere chi ha una mentalità indagatrice – o almeno che vorrei sapere io. Così ho fatto due conti semplici sul tema di quanto Draghi sia riuscito a spostare le aspettative di inflazione.

Una nota a margine: molti pare usino, in questo caso, il tasso di cambio dei bond che partono nei 5 anni con quelli che vanno a scadenza in cinque anni [1], ma ciò mi sembra assai strano; questa è una misura dell’inflazione attesa non tra il 2015 ed il 2010, ma tra il 2020 ed il 2025. Perché, esattamente, dovrebbe essere quello il metro di misura? Penso che sia molto più naturale utilizzare il breakeven [2] dei bond di 5 o 10 anni, la differenza tra i bond indicizzati e quelli nominali.

Si guardi, dunque, ai rendimenti tedeschi (perché la Germania è presumibilmente l’asset sicuro in Europa). Una settimana passata i bond tedeschi che vengono in scadenza tra cinque anni rendevano meno 0,31, mentre i bond ordinari della stessa maturità offrivano un rendimento leggermente negativo; cosicché l’implicita previsione di inflazione era attorno allo 0,3 per cento nei prossimi cinque anni. Adesso il rendimento degli indicizzati è meno 0,46, mentre il rendimento nominale è leggermente positivo, comportando una aspettativa di inflazione di circa lo 0,5 per cento. Dunque, quella è una crescita di 0,2 punti percentuali nel tasso di inflazione atteso nei cinque anni

Su un orizzonte decennale parrebbe essere un po’ meno ma approssimativamente simile, forse di 0,15 punti.

Possiamo anche stimare l’effetto indirettamente, attraverso il tasso di cambio. Non molto mutamento nel differenziale dell’interesse tra Stati Uniti e Germania, ma una caduta di circa il 2 per cento dell’euro; come spiegavo nel post in connessione [3], questo è coerente con una crescita dello 0,2 per cento nella inflazione attesa nell’area euro nel prossimo decennio.

Dunque, il grande annuncio di Draghi sembra aver elevato l’inflazione attesa europea di un quinto di punto percentuale. Si tratta di un risultato rilevante in queste circostanze, ma esso è al tempo stesso, da solo, troppo modesto perché l’Europa faccia marcia indietro. Gran lavoro, signor Draghi, ma ci vorrà molto di più di questo per uscire dai guai.

 

 

[1] Trovo questa spiegazione sul blog “In Touch, Capital Markets”, ammesso che l’abbia ben compresa.

[2] Letteralmente, “punto di pareggio”.

[3] Nella connessione precedente nel testo inglese. Il post è del 27 ottobre 2013.

Eurocantonate (dal blog di Krugman, 21 gennaio 2015)

gennaio 21, 2015

 

Jan 21 8:43 pm

Euroblunders

The contrast between the mood in the US and in Europe is amazing. Obama wasn’t exactly able to claim morning in America in this week’s SOTU, but he was able to talk about success and moving forward. Meanwhile Mario Draghi is doing what he can and should, but I don’t know anyone who really believes that it will be enough.

So why the difference? Are the forces of secular stagnation stronger in Europe? Was it fiscal austerity? Was it wrong-headed monetary policy? As far as I can tell, the answer from the data is yes. That is, there are multiple possible culprits for Europe’s deflationary trap, and it’s hard to assign responsibility.

On the secular stagnation front, just note that the euro area’s working-age population peaked in 2009, and is now on a Japanese-style downward path. US working-age growth has slowed, but at least it’s still positive.

On policy, aggregate euro-area fiscal policy has been substantially tighter than in the US. Here’s the IMF’s estimate of general government (i.e., including state and local) primary cyclically adjusted budget balance as a percent of GDP — that’s a mouthful, but it means looking at non-interest spending minus taxes, corrected to take out the effects of a depressed economy:

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Meanwhile, on the monetary side Europe zagged when America zigged. At no point in the past five years has euro area core inflation (CPI excluding food, energy, alcohol, and tobacco) reached, let alone exceeded, the ECB’s legal target of 2 percent:

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Nonetheless, in the first half of 2011, when rising commodity prices boosted headline inflation — and when the Fed was proceeding with quantitative easing despite the howls of conservatives — the ECB raised rates twice.

Overall, European policy has behaved throughout as if debt and inflation were the overwhelming risks, giving no consideration until very recently to the risk of deflation and persistent weakness. And the old mindset has by no means gone away — the monetary hawks are still hawkish despite deflation, inventing new reasons why interest rates must rise.

Anyway, the point is that Europe’s woes are no mystery, although it’s hard to allocate the blame; policy did everything wrong, so it’s hard to tell which wrongness mattered most.

 

Eurocantonate

Il contrasto di umore tra gli Stati Uniti e l’Europa è incredibile. Obama, nel discorso sullo Stato dell’Unione di questa settimana, non è stato esattamente capace di rivendicare “è giorno in America” [1], ma è stato nella condizioni di parlare di un successo e di progressi ulteriori. Nel frattempo Mario Draghi fa quel che può e deve, ma non conosco nessuno che creda davvero che sarà sufficiente.

Perché, dunque, quella differenza? Le forze della stagnazione secolare sono più forti in Europa? E’ stata l’austerità della finanza pubblica? E’ stata una politica monetaria male indirizzata? Per quanto posso dire sulla base dei dati, la risposta è affermativa. Ovvero, c’è una molteplicità di possibili colpevoli per la trappola deflazionistica dell’Europa, ed è difficile stabilire la responsabilità.

Sul fronte della stagnazione secolare, noto semplicemente che l’area euro ha avuto il picco della popolazione in età lavorativa nel 2009 e adesso è su una strada discendente sul modello giapponese. La crescita della popolazione in età di lavoro negli Stati Uniti è rallentata, ma almeno è ancora positiva.

Sul piano della politica, la politica della finanza pubblica aggregata nell’area euro è stata sostanzialmente più restrittiva che negli Stati Uniti. Ecco la stima del FMI sugli equilibri primari del bilancio generale pubblico (ovvero, comprensivo degli Stati e dei governi locali) , corretti in relazione al ciclo economico – è uno scioglilingua, ma significa riferirsi alla spesa senza gli interessi al netto delle tasse, corretta per tener fuori gli effetti di un’economia depressa [2]:

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Nel frattempo, sul lato monetario, quando l’America andava da una parte, l’Europa andava dall’altra. In nessun momento dei cinque anni passati l’inflazione sostanziale nell’area euro (ovvero l’indice dei prezzi al consumo esclusi gli alimentari, l’energia, l’alcool e il tabacco [3]) ha raggiunto, per non dire ecceduto, l’obbiettivo legale della BCE del 2 per cento:

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Nondimeno, nella prima metà del 2011, quando i prezzi in crescita delle materie prime spinsero l’inflazione apparente – e quando la Fed stava procedendo con la ‘facilitazione quantitativa’ nonostante gli strepiti dei conservatori – la BCE elevò due volte i tassi di interesse.

Soprattutto, la politica europea si è comportata dappertutto come se il debito e l’inflazione fossero i rischi soverchianti, non dando alcuna considerazione, sino al periodo recente, al rischio della deflazione e di una perdurante debolezza. E tale vecchia mentalità non è per niente scomparsa – i falchi della moneta sono ancora falchi a dispetto della deflazione e si inventano nuove ragioni per le quali i tassi di interesse dovrebbero salire.

In ogni modo, il punto è che i guai dell’Europa non sono un mistero, sebbene sia difficile attribuire la colpa; la politica ha sbagliato tutto, cosicché è difficile dire quale errore abbia contato di più.

 

 

[1] Il titolo di una famosa trasmissione radiofonica di Ronald Reagan.

[2] Come si vede con il 2012 l’Europa torna ad avere un avanzo primario, mentre gli Stati Uniti il massimo della spesa pubblica si interrompe nel 2010 – per effetto di un esaurimento dello stimulus di Obama ed anche dei vari “sequestri” repubblicani nel Congresso – ma con un divario che sussiste, superiore a quello che era nel 2006, ancora nel 2015.

[3] Per una spiegazione della ragione per la quale traduco “core inflation” con inflazione sostanziale, e successivamente “headline inflation” con inflazione apparente, si vedano le note sulla traduzione a “headline and core inflation”. Una traduzione letterale (“inflazione centrale” ed “inflazione complessiva”) non chiarirebbe granché i diversi significati politici e sostanziali dei due modi di misurazione. Essi in sostanza si risolvono nel fatto che la “core” – quella sostanziale – nel medio periodo si impone come quella reale, mentre la “headline” subisce volta a volta gli effetti distorsivi dei beni di consumo più ‘fluttuanti’.

Esclusivamente cilindrici (21 gennaio 2015)

gennaio 21, 2015

 

Jan 21 2:31 am

Totally Tubular

I didn’t watch the SOTU — I probably wouldn’t have even if I had been on the right side of the Pacific. But I’m reading some of the reporting; and because evil is more interesting than good, I think the most revealing remarks actually came from Joni Ernst’s GOP reply.

Not that she offered a realistic alternative — but that’s the point. As far as anyone can tell, the dominant Republican economic idea is to license the Keystone pipeline. And that’s ridiculous.

The standard estimate — accepted by pipeline advocates — is that building the pipeline would temporarily add 42,000 jobs, the vast bulk of which would go away after two years. That’s in an economy with 140 million workers. So Keystone would temporarily increase US employment by 0.03, that’s right, 0.03 percent. Or to put it another way: given the recent pace of job creation, the number one GOP policy priority, basically the only job measure the party has to offer, would create about as many jobs as the Obama recovery is adding every five days.

So there’s a mystery here. Do Republicans not know this? (I’m not a scientist, man — or a mathematician.) Do they know it but count on the innumeracy of voters, having found that pipelines sound good to focus groups?

In other news, Ernst spoke about Obamacare as a failed policy — because a sharp drop in the number of uninsured and a marked slowdown in health costs are clear evidence of failure. Actually, in this case I suspect that Republicans truly are ignorant — Fox News only reports bad news, so if that’s what you watch you just know that things are going badly.

 

Esclusivamente cilindrici [1]

Non ho visto il Discorso sulla Stato dell’Unione – probabilmente non l’avrei visto neanche fossi stato sulla sponda giusta del Pacifico. Ma sto leggendo un po’ di resoconti; e poiché il male è più interessante del bene, penso che le osservazioni più rivelatrici vengano effettivamente dalla replica del Partito Repubblicano con Joni Ernst [2].

Non che ella abbia offerto una alternativa realistica – ma il punto è lì. Per quello che si può dire, l’idea economica dominante del Partito Repubblicano è licenziare l’oleodotto Keystone. E questo è ridicolo.

La stima più accreditata – accettata dai sostenitori dell’oleodotto – è che la costruzione dell’infrastruttura aumenterebbe i posti di lavoro temporaneamente di 42.000 unità, gran parte dei quali se ne andrebbero via dopo due anni. Questo in un’economia con 140 milioni di lavoratori. Dunque, Keystone aumenterebbe temporaneamente l’occupazione degli Stati Uniti dello 0,03 – proprio così – dello 0,03 per cento. O, per dirla diversamente: dato il recente ritmo nella creazione di posti di lavoro, la priorità numero uno del programma del Partito Repubblicano, fondamentalmente l’unica misura in materia di occupazione che il partito ha da offrire, sarebbe creare circa gli stessi posti di lavoro che la ripresa di Obama sta aggiungendo ogni cinque giorni.

Dunque, siamo dinanzi ad un mistero. I repubblicani non lo sanno? (io non sono un uomo di scienza o un matematico) Oppure lo sanno, ma fanno affidamento sulla scarsa propensione alla matematica degli elettori, avendo scoperto che l’oleodotto suona bene ai gruppi di ascolto?

Secondo altri resoconti, la Ernst ha parlato della riforma sanitaria di Obama come di una politica fallita – perché una brusca caduta nel numero dei non assicurati ed un marcato rallentamento dei costi sanitari sono una prova evidente di fallimento. In effetti, in questo caso ho il sospetto che i repubblicani siano realmente ignoranti – Fox News fornisce solo le cattive notizie, cosicché se è quello ciò che guardate, sapete soltanto che le cose stanno andando male.

 

[1] Ovvero, hanno solo l’oleodotto in testa (penso!).

[2] E’ prassi che i discorsi presidenziali sullo Stato dell’Unione abbiano una replica da parte del Partito che non esprime il Presidente. In questo caso il compito è stato affidato ad una Senatrice repubblicana dello Iowa, che di mestiere era tenente colonnello dell’Esercito, appunto Joni Ernst.

Iowa Senate

 

 

 

 

 

 

 

 

La scena europea (19 gennaio 2015)

gennaio 19, 2015

 

Jan 19 7:59 pm

The European Scene

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This is the week we’re supposed to hear the ECB’s plan for monetary expansion; the German media are already howling, with Bild warning that Draghi’s expected actions will reduce the pressure for reform in “crisis-hit countries such as Spain, Greece, Italy, or France.” Above are European long-term interest rates as of close of business yesterday.

So, first of all, look at “crisis-hit” France; investors are so worried about France that they won’t hold its bonds unless offered, um, 0.64 percent, the lowest rate in history. But never mind — everyone knows that the French must be in crisis, because they still believe in social insurance, and besides, they’re French.

Notice also that crisis-hit Spain is now paying a lower interest rate than Britain. It’s surely a higher interest rate in real terms, because Spain faces the prospect of years of deflation. But this should — but won’t — put an end to all the talk about how low British rates are the reward for austerity, and so on.

More generally, those very low rates reflect market expectations that (a) the European economy will remain very weak and (b) that the ECB will continue to fall far short of its inflation target. German 5-year bonds are yielding minus 0.05 percent; index bonds of the same maturity are yielding -0.44 percent. So the market is saying both that there are very few good investment opportunities out there — few enough that paying the German government to protect the real value of your wealth is a good move — and that inflation over the next five years will be around 0.4 percent, not the target of 2 percent.

Will the QE policy turn this around? Unless it’s shockingly larger and more aggressive than expected, it’s hard to see how. Unconventional monetary policy works, if it does, largely by changing expectations; but the markets know this is coming, and are notably unimpressed.

Oh, and the markets don’t believe that the US is immune to these ills. Market expectations of inflation, as embodied in the 5-year break-even, have fallen off a cliff — it’s a bigger decline than the one that preceded the beginning of QE2 in 2010. Fed officials seem weirdly complacent about this, and about the risk that we, too, could find ourselves in a low-inflation trap.

Worrying times.

 

La scena europea

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Questa è la settimana nella quale si suppone conosceremo il programma di espansione monetaria della BCE; i media della Germania stanno già strepitando, con il Bild che mette in guardia che le attese iniziative di Draghi ridurranno la spinta per le riforme “nei paesi colpiti dalla crisi, come Spagna, Grecia, Italia o Francia.” Sopra i tassi di interesse europei a lungo termine a fine giornata di ieri.

Guardiamo, dunque, prima di tutto alla Francia “colpita dalla crisi”; gli investitori sono così preoccupati dalla Francia che non voglio tenersi i suoi bond se non con un tasso offerto dello 0,64 per cento, guarda un po’, il più basso della storia. Ma non conta – tutti sanno che i francesi devono essere in crisi, perché credono ancora nella sicurezza sociale, ed inoltre perché sono francesi.

Si noti anche che la Spagna colpita dalla crisi sta oggi pagando un tasso di interesse più basso di quello dell’Inghilterra. In termini reali è sicuramente un tasso di interesse più elevato, perché la Spagna ha di fronte la prospettiva di anni di deflazione. Ma dovrebbe – anche se non accadrà – zittire tutti quelli che parlano di come i bassi tassi inglesi siano un premio all’austerità, e via dicendo.

Più in generale, quei tassi molto bassi riflettono le aspettative del mercato, secondo le quali: a) l’economia europea rimarrà molto debole, e b) la BCE continuerà a mancare il suo obbiettivo di inflazione. I bond tedeschi sui 5 anni stanno rendendo meno dello 0,05 per cento; i bond indicizzati alla stessa scadenza stanno rendendo il meno 0,44 per cento. Dunque il mercato sta dicendo sia che ci sono in giro opportunità molto scarse di buoni investimenti – talmente scarse che pagare il Governo tedesco per proteggere il valore reale della vostra ricchezza è una buona iniziativa – e che l’inflazione per i prossimi cinque anni sarà attorno allo 0,4 per cento, e non all’obbiettivo del 2 per cento.

La QE capovolgerà tutto questo? E’ difficile vedere come, a meno che essa non sia in modo impressionante più ampia e più aggressiva di quello che ci si aspetta. La politica monetaria non convenzionale funziona, se funziona, in gran parte per effetto di un mutamento delle aspettative; ma i mercati sanno che essa è in arrivo, e sono evidentemente non impressionati.

Per finire, i mercati non credono che gli Stati Uniti siano immuni da questi mali. Le aspettative del mercato sull’inflazione, come incorporate nel ‘punto di pareggio’ a 5 anni, sono cadute a strapiombo – si tratta di un declino più grande di quello che precedette la seconda QE nel 2010. I dirigenti della Fed sembrano stranamente compiaciuti di questo, ed anche del rischio per il quale potremmo ritrovarci in una trappola di bassa inflazione.

Tempi preoccupanti.

Illogicità sospette sugli accordi commerciali (19 gennaio 2015)

gennaio 19, 2015

Jan 19 3:55 am

Suspicious Nonsense on Trade Agreements

I am in general a free trader; there is, I’d argue, a tendency on the part of some people with whom I agree on many issues to demonize trade agreements, to make them responsible for evils that have other causes. And my take on both of the trade agreements currently under negotiation — Pacific and Atlantic — is that there’s much less there than meets the eye.

But my hackles and suspicions rise when I listen to the advocates.

Tom Donohue, head of the US Chamber of Commerce, warns against economic populism, which he says is really a push to create a “state-run economy.” Yep — so much as mention rising inequality, and you’re Joseph Stalin (unless you’re Mitt Romney.) But what really gets me is the Chamber’s supposed agenda for growth. Topping the list — the number one priority — is completing those trade agreements.

This is absurd, and disturbing.

Think about it. The immediate problem facing much of the world is inadequate demand and the threat of deflation. Would trade liberalization help on that front? No, not at all. True, to the extent that trade becomes easier, world exports would rise, which is a net plus for demand. But world imports would rise by exactly the same amount, which is a net minus. Or to put it a bit differently, trade liberalization would change the composition of world expenditure, with each country spending more on foreign goods and less on its own, but there’s no reason to think it would raise total spending; so this is not a short-term economic boost.

But maybe it’s about the supply side, about raising efficiency and productivity? Well, standard economic models do say that liberalization should have that effect in principle — but the effects are only large when you start from high levels of protectionism. Cutting average effective tariffs (including the effects of quantitative restrictions) from, say, 40 percent to 10 percent can be a fairly big deal. But cutting from effective protection of only a few percent, which is where most of the world is now, isn’t going to give you a boost that you’ll be able to tell from statistical noise.

Maybe you still think we should do this. But trade agreements as your top economic priority? Really? That’s so bizarre that it should make you wonder why, exactly, the likes of Tom Donohue want these deals. And you have to suspect that the reason is that some of his important clients think that the non-trade aspects of the deals — stuff like intellectual property protection — will yield them a lot of monopoly rents.

There are reasons to support these deals and reasons to oppose them. But my immediate take is that when the US Chamber of Commerce makes a huge priority out of complicated deals, and offers an obviously false rationale, you should strongly suspect that there’s bad stuff hidden in the fine print.

 

Illogicità sospette sugli accordi commerciali

In generale io sono per il libero commercio: direi che c’è una tendenza, da parte di alcune persone con le quali concordo su molte questioni, di demonizzare gli accordi commerciali, rendendoli responsabili di mali che hanno altre cause. E la mia opinione su entrambi gli accordi commerciali per i quali sono attualmente in corso negoziati – Pacifico e Atlantico – è che c’è molto meno di quello che sembri.

Ma mi saltano i nervi e mi crescono i sospetti quando ascolto i sostenitori.

Tom Donohue, capo della Camera di Commercio, mette in guardia contro il populismo economico, che rappresenta, egli dice, una spinta a creare una “economia a direzione statale”. Sì – se fate tanto di parlare della crescente ineguaglianza, siete come Giuseppe Stalin (a meno che non siate Mitt Romney). Ma quello che davvero mi attrae è il presunto programma della Camera per la crescita. In cima alla lista – la priorità numero uno – è il completamento di quegli accordi commerciali.

Questo è assurdo e inquietante.

Si pensi a questo. Il problema immediato dinanzi a gran parte del mondo è la domanda inadeguata e la minaccia di deflazione. Darebbe un aiuto, su quel fronte, la liberalizzazione commerciale? No, niente affatto. E’ vero, nella misura in cui il commercio diventa più facile, le esportazioni mondiali crescerebbero, il che è un vantaggio netto per la domanda. Ma le importazioni mondiali crescerebbero esattamente della stessa quantità, il che costituisce un diminuzione netta per la domanda. Oppure, per dirla un po’ diversamente, la liberalizzazione commerciale cambierebbe la composizione della spesa mondiale, con ogni paese che spenderebbe di più di beni esteri e di meno dei propri, ma non c’è ragione di pensare che aumenterebbe la spesa globale; cosicché questa nel breve termine non è una spinta all’economia.

Ma forse riguarderebbe il lato dell’offerta, la crescita dell’efficienza e della produttività? Ebbene, i modelli economici standard dicono che in via di principio la liberalizzazione dovrebbe avere quell’effetto – ma gli effetti sono ampi quando si parte da livelli elevati di protezionismo. Tagliare le tariffe medie effettive (inclusi gli effetti delle restrizioni quantitative), diciamo, dal 40 al 10 per cento, sarebbe un discreto buon affare. Ma tagliare solo pochi punti percentuali della protezione effettiva, quale è la condizione di gran parte del mondo oggi, non è destinato a farvi ricevere quell’aiuto che potreste distinguere dal frastuono delle statistiche.

Si può forse pensare che, tuttavia, questo è quanto dovremmo fare. Ma gli accordi commerciali sono in cima alle vostre priorità economiche? Davvero? E’ una cosa così bizzarra che viene da chiedersi perché, esattamente, personaggi come Tom Donohue vogliono tali accordi. E si deve sospettare che alcuni dei suoi clienti importanti pensi che gli aspetti non commerciali degli accordi – cose come la protezione della proprietà intellettuale – renderanno loro un bel po’ di rendite di monopolio.

Ci sono ragioni per sostenere questi accordi e ragioni per opporvisi. Ma la mia immediata reazione è che quando la Camera di Commercio degli Stati Uniti fa di tali complicati accordi una fondamentale priorità, ed offre una spiegazione chiaramente falsa, si dovrebbe fortemente sospettare che ci sia roba cattiva, nascosta con caratteri minuscoli.

Svizzera: anche la “Facilitazione Quantitativa” (18 gennaio 2015)

gennaio 18, 2015

 

Jan 18 7:26 pm

Switzerland: QE Too

OK, arrived in Hong Kong, and IT is working a lot better. So let me weigh in a bit more on the Swiss miss. Basically, my take is the same as Brad DeLong’s: what we have here is a central bank that let itself be bullied by the balance sheet bugaboo brigade.

The way to think about the franc peg, I’d argue, is to view currency intervention as essentially a form of quantitative easing. What we mean by QE is open-market operations in which the central bank buys stuff other than the usual purchases of short-term government debt. This could be long-term assets, it could be private-sector debt, or it could be foreign securities. Obviously the channels of influence depend to some extent on which route you choose, although remember that the Fed was accused of waging currency war when it was only purchasing domestic assets, and the main clear effect of Abenomics so far has run through the exchange rate. But the main point is to think of any kind of non-Treasury-bill open market operation as a form of QE.

This in turn helps us put the explicit exchange rate target into the right slot: it was about making QE effective through commitment, so that you got the maximum impact on expectations. Actually, the success of the currency program suggests that other central banks might want to try things like setting a ceiling on some long-term interest rate.

But back to Switzerland: they had a policy that was working, so why did they stop? And the answer, Brad and I both suspect, is that the SNB, like the Fed, faced constant pressure from finance types saying “Your balance sheet is too big! Debasement! Inflation! Unnatural monetary acts! Francisco d’Anconia!” But unlike the Fed, the SNB lacked the intellectual self-confidence (and perhaps the institutional strength, seeing as how it’s partially privately owned) to stand up to that pressure.

The irony is that having been bullied into worrying about its own profitability, which is not what central banks should do, the SNB ended up imposing huge losses on itself. But that’s neither here nor there for Swiss national interests. The main thing is that the credibility essential to getting traction at the zero lower bound has been dissipated for Switzerland, and damaged for everyone else.

 

Svizzera: anche la “Facilitazione Quantitativa”

Bene, arrivato ad Hong Kong, e “lui” [1] sta funzionando assai meglio. Dunque, vorrei intervenire un po’ di più sul disastro svizzero. Fondamentalmente, la mia opinione è la stessa di quella di Brad DeLong: quello a cui assistiamo è una banca centrale che si è lasciata impressionare dalla brigata dello spauracchio degli equilibri patrimoniali.

Il modo di riflettere sull’ancoraggio del franco, direi, è considerare l’intervento sulla valuta essenzialmente come una forma di ‘facilitazione quantitativa’. Quello che si intende per QE sono le operazioni di mercato-aperto nelle quali la banca centrale acquista cose che sono diverse dai consueti acquisti di debito a breve termine. Questi potrebbero essere asset a lungo termine, debito del settore privato, o potrebbero essere azioni estere. Ovviamente i canali dell’influenza dipendono in qualche misura dall’indirizzo che si sceglie, sebbene ricordo che la Fed fu accusata di aver dichiarato una guerra valutaria mentre stava soltanto acquistando asset nazionali, ed il principale chiaro effetto, sino a questo punto, della politica economica di Abe ha operato tramite il tasso di cambio. Ma l’aspetto più importante è pensare ad ogni genere di operazioni sul mercato aperto estranee a buoni del Tesoro come ad una “facilitazione quantitativa”.

Questo a sua volta ci aiuta a porre l’obbiettivo esplicito del tasso di cambio nella collocazione giusta: esso dipendeva dal rendere efficace la QE attraverso l’impegno, in modo tale da avere il massimo impatto sulle aspettative. Effettivamente il successo del programma valutario indica che le altre banche centrali possono voler cercare cose come lo stabilire un tetto a un qualche tasso di interesse a lungo termine.

Ma, tornando alla Svizzera: essi avevano una politica che stava funzionando, dunque perché interromperla? E la risposta, sia io che Brad sospettiamo, è che la SNB come la Fed hanno dovuto fronteggiare una costante pressione dagli individui del settore finanziario che dicevano “I vostri equilibri patrimoniali sono troppo grandi! Inflazione! Iniziative monetarie innaturali! Francisco d’Anconia! [2]” Ma, diversamente dalla Fed, la SNB ha mancato di auto stima intellettuale (e forse di forza istituzionale, considerato come essa sia in parte di proprietà privata) per resistere ad una tale pressione.

L’ironia è che essendo stata impressionata ad aver timore della sua stessa capacità di ottenere profitti, che non è quello che le banche centrali dovrebbero fare, la SNB ha finito per imporsi grandi perdite. Ma tutto ciò non ha un gran significato per gli interessi nazionali della Svizzera. La cosa principale è che la credibilità essenziale per ottenere una capacità di spinta nelle condizioni del limite inferiore dello zero, è stata dissipata nel caso della Svizzera, facendo danni a tutti gli altri.

 

 

[1] La connessione internet, come si è visto in precedenza.

[2] Un personaggio dell’ormai famoso racconto di Ayn Rand (vedi alle note sulla traduzione).

Cambio di regime in Svizzera (16 gennaio 2015)

gennaio 16, 2015

 

Jan 16 12:14 am

Regime Change in Switzerland

Blogging will be limited for the next few days, unless I can resolve the tech problems here in Delhi. But I did want to say something about the Swiss de-pegging, beyond what I put in the column.

These days it’s fairly widely accepted that it’s very hard for central banks to get traction at the zero lower bound unless they can convince investors that there has been a regime change – that is, changing expectations about future policy is more important than what you do now. That’s what I was getting at way back in 1998, when I argued that the Bank of Japan needed to “credibly promise to be irresponsible,” something it has only managed recently.

The trouble is that regime change is hard to engineer. FDR did it by taking America off the gold standard, but going off gold isn’t something you get to do very often.

On Thursday, however, the Swiss National Bank managed a credible regime change. Unfortunately, it was a regime change in the wrong direction. By throwing in the towel on the peg to the euro, the SNB immediately convinced markets that its previous apparent commitment to do whatever it takes to avoid deflation is null and void. And this expectations effect trumped the concrete, immediate policy of drastically negative interest rates on reserves.

Two things to bear in mind. First, having in effect thrown away its credibility – in today’s world, the crucial credibility central banks need involves, not willingness to take away the punch bowl, but willingness to keep pushing liquor on an abstemious crowd – it’s hard to see how the SNB can get it back. Second, there will be spillovers: the SNB’s wimp-out will make life harder for monetary policy in other countries, because it will leave markets skeptical about whether other supposed commitments to keep up unconventional policy will similarly prove time-limited.

All in all, quite a day’s work.

 

 

Cambio di regime in Svizzera

Nei prossimi giorni l’attività sul blog sarà limitata, a meno che non possa risolvere i problemi tecnici qua a Delhi. Ma volevo dire qualcosa sul disancoraggio del franco svizzero, oltre a ciò che ho scritto nell’articolo (sul New York Times).

Di questi tempi è abbastanza ampiamente accettato che sia difficile per le banche centrali, quando si è al limite inferiore dello zero (dei tassi di interesse), provocare un effetto di trazione che possa convincere gli investitori che c’è stato un cambiamento di regime – ovvero, che un cambiamento di aspettative sulla politica futura è più importante di ciò che si fa adesso. Questo è quanto intendevo affermare nel passato 1998, quando sostenni che la Banca del Giappone aveva bisogno di “promettere credibilmente di essere irresponsabile”, qualcosa che ha cercato di fare solo di recente.

Il guaio è che un cambio di regime è difficile da architettare. Franklin Delano Roosevelt lo face portando l’America fuori dal gold standard, ma uscire dall’oro non è qualcosa che si riesce a fare spesso.

Tuttavia, giovedì, la Banca Nazionale Svizzera ha gestito un cambiamento di regime credibile. Sfortunatamente, era un cambiamento di regime nella direzione sbagliata. Gettando la spugna dell’ancoraggio con l’euro, la SNB ha immediatamente convinto i mercati che il suo precedente impegno apparente a fare tutto ciò che fosse necessario per evitare la deflazione era dichiarato nullo. E questo effetto delle aspettative ha di gran lunga superato la concreta, immediata politica di tassi di interesse drasticamente negativi sulle riserve.

Ci sono due cose da tenere a mente. La prima, avendo in sostanza gettato via la propria credibilità – nel mondo odierno, la cruciale credibilità di cui le banche centrali hanno bisogno non riguarda la volontà di ‘togliere di mezzo la tazza del punch’, ma la volontà di continuare ad offrire alcolici a folle astemie – è difficile capire come la SNB possa riottenerla. La seconda, ci saranno ricadute: la pusillanimità della SNB renderà più difficili le politiche monetarie in altri paesi, giacché lascerà scettici i mercati sul fatto che altri presunti impegni a proseguire politiche non convenzionali si mostreranno egualmente limitati nel tempo.

Nel complesso, un bel po’ di lavoro in un giorno.

Convergenza di due economie globali (dal blog di Krugman, 14 gennaio 2915)

gennaio 14, 2015

 

Jan 14 9:46 am

Convergence in Two Global Economies

I’m heading off for an India/Hong Kong/China tour in a few hours, which gives me a reason to stop thinking about deflation in the West for a bit and think about long-run growth issues instead. And one point I mean to make is that the world has changed.

If you know your long-run history of world trade, you know that we’re living in the second global economy. The first, based on telegraphs, railroads, and steamships, flourished from around 1870 to World War I, then was shut down by war and protectionism. The second emerged after World War II, but gradually; remarkably, trade as a share of world income didn’t reach 1913 levels until the 1970s, and it wasn’t until after 1990 that “hyperglobalization” driven by breaking up the value chain — and also the first large-scale trade in services — took globalization to a level our great-grandfathers didn’t know.

So here’s a question: have the forces leading to convergence or divergence among nations returned the same as they were before? And the answer seems to be no.

I’m not going to do elaborate cross-country regressions, which ran into diminishing returns around the time hyperglobalization itself got going. But I do find simple scatterplots (using the Maddison database) illuminating.

First, here’s initial GDP per capita and growth thereof over the two decades before World War I, with a few countries labeled:

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I don’t know what was going on in Greece there, or whether that’s just a glitch in the data. But two things do seem to be clear. First, there was no sign of a tendency toward convergence, for poorer countries to grow faster. Second, really fast growth by the standards of the era took place in resource-rich economies.

Now do the same thing for 1990-2010:

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Several points. First, top growth rates have gotten much higher — presumably because the technological frontier is so much further out, so countries can really grow fast via catchup. Second, there’s a huge spread in growth rates among poor countries — but that largely reflects noneconomic factors, mainly war external and civil (plus negative growth in much of the former Soviet Union, again about social disruption). Some of the high growth rates reflect recovery from chaos — I believe that’s what Sudan and Burma are about — but for the most part not; instead, we’re witnessing successful catchup. And of course the really big countries in that group (Bangladesh has also done much better than people seem to know) mean that we’re looking at a very large number of people.

I do think there’s something systematic here; the Summers-Pritchett work on regression toward the mean is a useful corrective to overinterpretation and extrapolation, but is a bit too nihilist for my tastes.

But why the change in the rules? Good question. I hope to have an answer by the time I give my first talk.

 

Convergenza di due economie globali

Tra poche ore partirò per un viaggio in India/Hong Kong/Cina, il che mi offre una ragione per smettere di pensare per un po’ alla deflazione in Occidente e pensare piuttosto ai temi della crescita nel lungo periodo. E un argomento che intendo avanzare è che il mondo è cambiato.

Se conoscete la storia del commercio mondiale nel lungo periodo, sapete che stiamo vivendo nella seconda economia globale. La prima, basata sul telegrafo, le ferrovie e le navi a vapore, prosperò da circa il 1870 alla Prima Guerra Mondiale, poi fu abbattuta dalla guerra e dal protezionismo. La seconda emerse dopo la Seconda Guerra Mondiale ma gradualmente; è rilevante notare che il commercio come quota del reddito mondiale non raggiunse i livelli del 1913 sino agli anni ’70, e non avvenne sin dopo il 1990 quella “iperglobalizzazione” guidata dalla rottura della catena del valore – ed anche quel primo scambio su ampia scala dei servizi – che portò la globalizzazione ad un livello che i nostri nonni non conoscevano.

Ecco dunque una domanda: i fattori che guidano la convergenza o la divergenza tra le nazioni sono tornati ad essere quello che erano in precedenza? La risposta pare essere negativa.

Non ho intenzione di fare elaborate regressioni [1] tra vari paesi, che si incontrino con i rendimenti decrescenti attorno al periodo nel quale la stessa iperglobalizzazione è cominciata. Ma faccio semplici grafici a dispersione [2] illuminanti (utilizzando il data base della fondazione Maddison).

Anzitutto, ecco il PIL procapite iniziale e la sua crescita nel corso dei due decenni precedenti la Prima Guerra Mondiale, per un certo numero di paesi classificati:

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Non so cosa stesse accadendo in Grecia in quel caso, oppure se si è solo in presenza di un disguido nei dati. Ma due cose sembrano chiare. La prima, non c’è alcun segno di una tendenza verso la convergenza. La seconda, una crescita effettivamente veloce per gli standard dell’epoca ebbe luogo nelle economie ricche di risorse.

Facciamo adesso la stessa cosa per gli anni 1990-2010:

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Alcuni aspetti. Il primo, i tassi di crescita ai livelli più alti sono diventati molto più elevati – presumibilmente perché la frontiera tecnologica è talmente allontanata, che i paesi possono davvero crescere velocemente attraverso il mettersi al passo. La seconda, c’è un vasto differenziale di crescita tra i paesi poveri – ma riflette largamente fattori non economici, principalmente conflitti esterni e civili (in aggiunta, una crescita negativa in gran parte della precedente Unione Sovietica, anch’essa dipendente dal disordine sociale). Alcuni degli alti tassi di crescita riflettono una ripresa dal caos – credo che questo sia il caso del Sudan e della Birmania – ma per la maggior parte non è così; assistiamo, piuttosto, ad uno spettacolare raggiungimento di condizioni tecnologiche superiori. E naturalmente i paesi di quel gruppo realmente grandi (anche il Bangladesh ha avuto prestazioni molto migliori di quello che la gente sembra ritenere) significano che ci stiamo riferendo ad un numero elevatissimo di persone.

Penso che in questo caso accada qualcosa di veramente organico; il lavoro di Summers-Pritchett sulla regressione verso la media è un correttivo utile ad una sovra interpretazione ed estrapolazione, ma è un po’ troppo nichilista per i miei gusti. [3]

Ma perché quel cambiamento nelle regole? Bella domanda. Spero di fare in tempo ad avere una risposta in occasione della mia prima conferenza.

 

 

[1] In statistica la regressione lineare rappresenta un metodo di stima del valore atteso condizionato di una variabile dipendente, o endogena, dati i valori di altre variabili indipendenti, o esogene. (Wikipedia)

[2] Un possibile esempio dell’uso del grafico a dispersione è l’analisi dell’andamento delle seguenti due variabili: il debito pubblico e la percentuale di disoccupazione di un paese. Avendo due variabili, è necessario decidere quale rappresentare sull’asse delle ascisse (o x) e quale sull’asse delle ordinate (y). Non vi è una soluzione corretta o sbagliata, solitamente la variabile più importante è sull’asse delle y, quindi se fosse necessario mostrare quanto varia il debito pubblico in relazione alla disoccupazione si porrà quest’ultima sull’asse x, viceversa ponendo la disoccupazione sull’asse y verrà evidenziato come essa varia in relazione al debito pubblico. (Wikipedia)

[3] Un articolo sullo studio di Summers e Pritchett è apparso su Vox l’11 dicembre del 2014, a cura dei due autori. In sostanza, il concetto è semplicemente quello secondo il quale “in ogni processo nel quale ci sono fluttuazioni casuali, ci sarà una tendenza ad incrementi seguiti da decrementi, ed a livelli sopra la media seguiti da declini”. Come è ovvio, il giudizio riguarda in particolare il caso della Cina.

Mi pare che il riferimento di Krugman al “nichilismo” (eccessivo per i suoi gusti) di tale interpretazione, vada inteso nel senso che essa apparirebbe un po’ troppo scontata e pessimistica.

Voodoo selettivo (13 gennaio 2015)

gennaio 13, 2015

 

Jan 13 9:19 am

Selective Voodoo

House Republicans have passed a measure demanding that the Congressional Budget Office use “dynamic scoring” in its revenue projections — taking into account the supposed positive growth effects of tax cuts. It remains to be seen how much damage this rule will actually cause. The reality is that there is no evidence for the large effects that are central to right-wing ideology, so the question is whether CBO will be forced to accept supply-side fantasies.

Meanwhile, one thing is fairly certain: CBO won’t be applying dynamic scoring to the positive effects of government spending, even though there’s a lot of evidence for such effects.

A good piece in yesterday’s Upshot reports on a recent study of the effects of Medicaid for children; it shows that children who received the aid were not just healthier but more productive as adults, and as a result paid more taxes. So Medicaid for kids may largely if not completely pay for itself. It’s a good guess that the Affordable Care Act, by expanding Medicaid and in general by ensuring that more families have adequate health care, will similarly generate significant extra growth and revenue in the long run. Do you think the GOP will be interested in revising down estimates of the cost of Obamacare to reflect these effects?

And what about the damage to potential output caused by cutting spending in a depressed economy? The evidence that austerity reduces output and raises unemployment is overwhelming — and there’s now pretty good evidence that sustained high unemployment inflicts long-term damage on the economy’s potential. So will CBO now be instructed to include these effects in its estimates?

The point is that we’re not just looking at a possible mandate for using voodoo in budget estimates, we’re talking about selective voodoo, which incorporates some supposed dynamic effects while ignoring others for which there is if anything stronger evidence. Tax cuts for the rich: good! Spending that makes ordinary workers more productive? Bad!

 

Voodoo selettivo

I repubblicani della Camera hanno approvato un provvedimento che richiede che il Congressional Budget Office utilizzi un “punteggio dinamico” nelle sue stime delle entrate – mettendo nel conto i supposti effetti positivi degli sgravi fiscali. Resta da vedere quanto danno questa regola effettivamente provocherà. La realtà è che non c’è nessuna prova per gli ampi effetti che sono fondamentali nell’ideologia della destra, cosicché la domanda è se il CBO sarà costretto ad accettare le fantasie dell’economia dal lato dell’offerta.

Nel frattempo, una cosa è abbastanza sicura: il CBO non applicherà il punteggio dinamico agli effetti positivi della spesa pubblica, sebbene per tali effetti ci siano una quantità di prove.

Un buon articolo nei resoconti di Upshot [1] di ieri su uno studio recente sugli effetti di Medicaid per i bambini; esso dimostra che i bambini che hanno ricevuto aiuto non solo sono stati da adulti più in salute, ma anche più produttivi, ed hanno di conseguenza pagato tasse maggiori. Cosicché Medicaid per i ragazzi può largamente, se non interamente, ripagarsi da solo. Si può ben ipotizzare che la legge di riforma sanitaria, ampliando Medicaid e in generale assicurando che un numero maggiore di famiglie abbia una assistenza sanitaria adeguata, provocherà nello stesso modo nel lungo periodo significativi crescita e reddito aggiuntivi. Pensate che il Partito Repubblicano sarà interessato a rivedere verso il basso le stime del costo della riforma sanitaria di Obama per riflettere questi effetti?

E che dire del danno alla produzione potenziale provocato dai tagli alla spesa in una economia depressa? Le prove che l’austerità riduce la produzione ed aumenta la disoccupazione sono schiaccianti – e ci sono oggi prove abbastanza buone che una prolungata alta disoccupazione infligge un danno nel lungo periodo al potenziale di un’economia. Dunque, il CBO verrà ora istruito ad includere questi effetti nelle sue stime?

Il punto è che non siamo solo in presenza di qualcosa che si configura come un ordine ad utilizzare il voodoo nelle stime sul bilancio, stiamo parlando di un voodoo selettivo, che incorpora alcuni supposti effetti dinamici mentre ne ignora altri per i quali, semmai, ci sono prove più forti. Sgravi fiscali per i ricchi: benissimo! Spesa che rende i lavoratori comuni più produttivi? Negativa!

 

 

[1] E’ una rubrica del New York Times, che mi pare potrebbe essere tradotta con “risultati, esiti”. In pratica contiene alcuni degli articoli giudicati di maggiore interesse dei pochi giorni precedenti. Non capisco se per “risultati” si intende riferirsi agli articoli più seguiti, oppure a quelli più attinenti ai ‘fatti’.

L’articolo in questione è stato pubblicato dal giornale il 12 gennaio, a cura di Margot Sanger-Katz.

I mercati emergenti dopo lo ‘scatto inconsulto’ (12 gennaio 2015)

gennaio 12, 2015

 

Jan 12 1:19 pm

Emerging Markets After The Tantrum

And now for something completely different. I’m heading off to Asia in a few days, and trying to think about emerging-market issues. And I have something of a puzzle on my mind.

You all remember — well, if you do monetary policy you all remember — the “taper tantrum”; the sharp rise in U.S. long-term interest rates when the Fed began signaling its intention to slow and eventually stop buying long-term assets. One consequence of that tantrum was a sharp fall in emerging-market currencies, which made sense: prospective yields in the US were up, so less reason to go chasing yield in Brazil or India.

But here’s the thing: the tantrum has subsided, and US interest rates have retraced much of their rise. But EM currencies haven’t rebounded:

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Why not?

I don’t have any definite answer. One guess is that we’re seeing retroactive evidence that the EM thing was a bubble, which the tantrum burst and the subsequent fall in US rates didn’t reinflate. But anyway, something to puzzle at.

 

I mercati emergenti dopo lo ‘scatto inconsulto’

E ora su qualcosa di completamente diverso. Tra pochi giorni partirò per l’Asia, e sto cercando di pensare ai temi dei mercati emergenti. Ed ho una sorta di rompicapo nella mia testa.

Vi ricordate tutti – beh, se vi occupate di politica monetaria ve lo ricordate tutti – lo “scatto inconsulto dell’assottigliamento”; la brusca ascesa dei tassi di interesse a lungo termine negli Stati Uniti allorché la Fed cominciò a segnalare la sua intenzione di rallentare ed alla fine di cessare l’acquisto di asset a lungo termine. Una conseguenza di quello scatto fu una brusca caduta delle valute dei mercati emergenti; che aveva un senso: i rendimenti in prospettiva negli Stati Uniti salivano, così c’erano meno ragioni di andare a caccia di rendimenti in Brasile o in India.

Ma il punto è questo: quello scatto passò e i tassi di interesse negli Stati Uniti retrocessero molto da quell’incremento. Eppure le valute dei mercati emergenti non ne subirono contraccolpi:

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Perché no?

Non ho nessuna risposta definitiva. Una ipotesi è che stiamo assistendo alla prova retrospettiva che la questione dei mercati emergenti fu una bolla, che lo scoppio dello scatto emotivo e della successiva caduta nei tassi di interesse degli Stati Uniti non reinflazionò. Ma, in ogni caso, qualcosa su cui scervellarsi.

Sui campioni dell’economia (12 gennaio 2015)

gennaio 12, 2015

 

Jan 12 9:05 am

On Econoheroes

I gather that some readers didn’t get what I was driving at in declaring that Joe Stiglitz and yours truly are the left’s “econoheroes”, but the likes of Stephen Moore and Art Laffer play that role on the right.

First of all, I was not declaring myself an actual hero; I’m nothing of the kind. Did I mention that I’m kind of short? (but not on a Friedman level) Actually, hero-worship of any kind, for anyone, is a big mistake; place too much faith in any individual, and you’re very likely to be let down, hard. (There are, however, real villains.) No, what I meant — I thought this was obvious — is that Joe and I do tend to get quoted, invoked, etc. on a frequent basis in liberal media and by liberals in general, usually with (excessive) approbation.

And the thing is that while there are people playing a comparable role in right-wing discussion, they tend not to be highly cited or even competent economists.

So don’t tell me that Greg Mankiw or Robert Barro are famous economists and also conservative. Indeed they are. But are they omnipresent on the conservative scene? Take a crude metric, and look at hits on Google News. If you put in “mankiw economy” you get about 5200 hits, many of them involving debates at the recent economics meetings. If you put in “stephen moore economy” you get 65,700 hits. If you put in “stiglitz economy” you get 43,800.

I see this as a real asymmetry. You can, if you like, claim that within the economics profession conservatives are the intellectual equals or superiors of liberals (and no, economics professors aren’t overwhelmingly liberal in the way that some other social sciences are.) The point, however, is that the right does not turn to these eminent conservative economists for guidance and support; it prefers the hacks.

 

Sui campioni dell’economia

Capisco che qualche lettore non ha compreso a cosa miravo dichiarando che Joe Stiglitz e il sottoscritto siamo i “campioni dell’economia” della sinistra, mentre soggetti come Stephen Moore e Art Laffer hanno quella funzione sulla destra.

Prima di tutto, non mi stavo sul serio dipingendo come un campione; non è il mio genere. Ho mai detto che sono piuttosto basso (ma non al livello di Friedman)? In verità, qualsiasi genere di culto per gli eroi, da parte di chiunque, è un grande errore; ponete troppa fiducia in qualsiasi individuo, ed è molto probabile che sarete malamente delusi (per quanto, tuttavia, i cattivi esistano sul serio). No, quello che volevo dire – pensavo che fosse evidente –è che io e Joe tendiamo ad essere citati, evocati etc. con molta frequenza sui media progressisti e da parte dei progressisti in generale, di solito con (eccessiva) approvazione.

E il punto è che mentre ci sono persone che svolgono un ruolo paragonabile nel dibattito della destra, essi tendono a non essere molto citati e non sono neppure economisti competenti.

Dunque, non ditemi che Greg Mankiw o Robert Barro sono economisti famosi ed anche conservatori. In effetti lo sono. Ma sono onnipresenti, sulla scena conservatrice? Si prenda un metro di misura grossolano, e si guardi ai risultati su Google News. Se voi inserite “mankiw economy” ottenete 5.200 risultati, molti dei quali riguardanti dibattiti nei recenti convegni economici. Se inserite “stephen moore economy” ne ottenete 65.700. Con “stiglitz economy” ne ottenete 43.800.

In questo io vedo una reale asimmetria. Potete, se volete, sostenere che all’interno della disciplina economica i conservatori siano intellettuali pari o superiori ai progressisti (peraltro, i professori di economia non sono di orientamento progressista in modo schiacciante come in altre scienze sociali). Il punto, tuttavia, è che la destra non si rivolge a questi eminenti economisti conservatori come guide e punti di riferimento; preferisce gli scribacchini.

Storia e fallimenti della politica (12 gennaio 2015)

gennaio 12, 2015

 

Jan 12 8:30 am

History and Policy Failure

I’ve been having a hard time reading Barry Eichengreen’s Hall of Mirrors, about how the lessons of the Great Depression were ignored after 2008. It’s not that it’s a bad book; so far, it seems to be a very good book, with a lot about the 1930s that I didn’t know. But the recent history is painful, because I was watching in real time, warning desperately that what did happen, would happen.

And this raises a question: what didn’t we know, and when didn’t we know it?

You often hear assertions to the effect that in early 2009, when the Obama stimulus was being finalized, we didn’t know how deep and prolonged the slump would be; you also hear assertions that we didn’t realize just how much damage would be done by the pivot to deficit reduction. So it must be said: What do you mean “we”, white man?

Suppose we look at the Congressional Budget Office projections of the output gap — the extent to which the economy would be operating below capacity — as of January 2009, and compare them with what actually happened. It looks like the attached chart (I used the IMF estimates of the actual output gap, to save time; but I don’t think using CBO would change the story.)

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Up through 2011 the CBO projection was, if anything, more pessimistic than what actually happened, possibly because the projection didn’t include the effects of stimulus. Thereafter CBO predicted a faster recovery than actually happened, but even so CBO didn’t expect the output gap to go away until around now.

So using conventional estimates available at the beginning of the Obama years, you had ample information to argue both that the proposed stimulus was inadequate and that 2010 would be way too soon to pivot to deficits. And yes, I made that case in real time.

As for the turn to austerity, it wasn’t at all hard to see, again in real time, that it was a huge mistake backed by really bad economic analysis.

Or to put it a bit more generally: It’s true that for years elite discourse was dominated by the worry that we were doing too much, that deficits and easy money were dangerous, that we were risking debt crisis and inflation. Now, seemingly suddenly, the Very Serious People have realized that in reality we did too little, that deflation and stagnation are looming as the great dangers, and there are cries of “Who could have known?” Well, everyone could and should have known. I certainly did.

 

Storia e fallimenti della politica

Ho qualche problema nella lettura di “La sala degli specchi” di Barry Eichengreen, su come le lezioni della Grande Depressione siano state ignorate dopo il 2008. Non che sia un cattivo libro; sino a questo punto sembra un ottimo libro, con una quantità di cose sugli anni ’30 che non conoscevo. Ma è la storia recente che è dolorosa, perché l’ho vissuta mentre si svolgeva, ammonendo disperatamente che quello che era successo sarebbe riaccaduto.

E questo pone una domanda: che cosa non conoscevamo, e quando avevamo smesso di conoscerlo?

Si sentono spesso affermazioni a proposito del fatto che agli inizi del 2009, quando le misure di sostegno di Obama stavano per essere portate a compimento, non sapevamo quanto sarebbe stata profonda e prolungata la recessione; si sentono anche affermazioni secondo le quali proprio non comprendevamo quanto danno sarebbe derivato dallo spostare l’attenzione sulla riduzione del deficit. Si dovrebbe dire: cosa intendi per ““noi”, uomo bianco [1]?

Supponiamo di osservare le stime del Congressional Budget Office sul differenziale di produzione – la misura nella quale l’economia starebbe operando al di sotto delle sua potenzialità – al gennaio 2009, e confrontiamole con quello che è effettivamente successo. Si nota quella che appare nel seguente diagramma (per far prima ho utilizzato le stime del FMI; ma non penso che utilizzando quelle del CBO cambierebbe niente)

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Sino al 2011, semmai, la stima del CBO era più pessimistica di quello che effettivamente accadde, probabilmente perché le proiezioni non includevano gli effetti delle misure di sostegno. In seguito il CBO fece previsioni su una ripresa più rapida di quella che è effettivamente avvenuta, a anche allora il CBO non si aspettava che il differenziale della produzione scomparisse sino circa ad oggi.

Dunque, utilizzando le stime della produzione disponibili agli inizi del periodo di Obama, c’era un’ampia informazione per sostenere sia che le misure di sostegno fossero inadeguate, sia che il 2010 sarebbe stato troppo prematuro per spostare l’attenzione sui deficit. E in effetti, sostenni quella tesi al momento [2].

Così come, per passare all’austerità, non era affatto difficile osservare, sempre in tempo reale, che era un errore di grandi proporzioni, supportato da una analisi economica del tutto negativa.

Oppure, per dirla più in generale: è vero che per anni il discorso dell’élite è stato dominato dalla preoccupazione che stessimo facendo troppo, che i deficit e la moneta facile erano pericolosi, che stavamo rischiando una crisi da debito e l’inflazione. Ora, apparentemente all’improvviso, le Persone Molto Serie hanno compreso che facemmo troppo poco, che la stagnazione e la deflazione stavano incombendo come il grande pericolo, e ci sono i lamenti del genere “Chi poteva saperlo?” Ebbene, tutti avrebbero potuto e dovuto saperlo. Con certezza, io lo feci.

 

 

[1] Buffissima espressione già ritrovata, che non so se appartenga ai modi di dire degli afroamericani o prima ancora dei pellerossa.

[2] La connessione è con un editoriale del New York Times dell’8 gennaio 2009, dal titolo “Il differenziale di Obama”.

L’indifesa politica economica di Reagan (12 gennaio 2015)

gennaio 12, 2015

 

Jan 12 7:17 am

Reaganomics Undefended

Paul Krugman

OK, I’m accustomed to getting attacked — if what I write doesn’t induce some hysterical backlash, I’ve wasted the space. And it’s kind of flattering when people devote whole print columns to attacking yours truly; it’s kind of a compliment, a tribute to their sense of my malign influence.

But this piece by Robert Samuelson, attacking me over my debunking of the Reagan legend, is really strange — because Samuelson declares me “totally wrong,” then seems to agree with me about the economics.

My point was that the legend of Reaganomics — that supply-side tax cuts produced a disinflation that confounded Keynesians — is not at all what happened in the 1980s. What happened instead was that harshly restrictive monetary policies created a deep recession, and a period of very high unemployment broke the wage-price spiral. And events played out exactly the way Keynesian-leaning textbooks said they would.

So I thought maybe Samuelson would challenge that narrative, that he would say (as he has in the past) that stagflation was caused by the welfare state and that Reagan’s free-market policies were what did it. But no; he seems to accept that it was all about tight money, and he just wants to give Reagan credit for staying off Volcker’s back.

May I say that even if we buy this, it does nothing at all to resurrect the case for Reaganomics, for the magic of tax cuts? Maybe Reagan was a great guy, but that’s surely not what’s important for current debates.

As it happens, I don’t agree on the political story either; based in part on what I saw during my year in government (1982-3), Reagan’s inner circle didn’t even understand that monetary policy was what was going on. But that’s not the key point. The key point is that the great disinflation of the 1980s was essentially a monetary affair, and fully consistent with Keynesian economics. And as far as I can tell, Samuelson doesn’t disagree with that assessment.

 

L’indifesa politica economica di Reagan

di Paul Krugman

 

E’ vero, mi sono abituato a ricevere attacchi – se quello che scrivo non provoca qualche reazione isterica, ho sprecato il mio spazio. Le adulazioni alle quali la gente ricorre per pubblicare interi articoli di attacco al sottoscritto sono di questa natura; sono una sorta di complimento, un tributo per la loro percezione della mia maligna influenza.

Ma questo articolo di Robert Samuelson, che mi attacca a proposito della mia smitizzazione della leggenda di Reagan, è proprio strano – perché Samuelson dichiara che ho “totalmente torto”, e poi sembra essere d’accordo con me sull’aspetto economico.

La mia tesi era che la leggenda della politica economica di Reagan – secondo la quale gli sgravi economici dal lato dell’offerta avevano prodotto una disinflazione che aveva imbarazzato i keynesiani – non è quello che accadde negli anni ’80. Quello che accadde fu invece che le politiche monetarie duramente restrittive determinarono una profonda recessione, ed un periodo di disoccupazione molto elevata ruppe la spirale salari-prezzi. E gli eventi si svolsero esattamente nel modo in cui nei libri di testo di orientamento keynesiano era previsto.

Dunque, io pensavo che Samuelson volesse sfidare questo racconto, che avrebbe detto (come fece in passato) che la stagflazione fu determinata dallo stato assistenziale e che furono le politiche di libero mercato di Reagan ad ottenere quel risultato. Invece no; egli sembra accettare che esse dipesero dalla restrizione monetaria, e vuole soltanto dare credito a Reagan per essersi astenuto dal seguire Volcker.

Posso far notare che se anche si crede a questa spiegazione, non cambia niente al fine di resuscitare la tesi della Reaganomics, quanto alla magia degli sgravi fiscali? Forse Reagan fu un gran personaggio, ma non certamente tale da essere così importante per le discussioni odierne.

Si dà il caso che io non sia neanche d’accordo con la spiegazione politica; basandomi in parte su quello a cui assistetti durante gli anni della mia attività presso il Governo (1982-1983)[1], i più stretti collaboratori di Reagan non capirono neppure cosa stava provocando la politica monetaria. Ma non è questo il punto centrale. Il punto chiave è che la grande disinflazione degli anni ’80 fu essenzialmente un affare monetario, e fu pienamente coerente con la teoria economica keynesiana. E per quanto posso dire, Samuelson non è in disaccordo con questo giudizio.

 

 

[1] In effetti, una delle prime esperienze di Krugman come consulente economico fu durante il Governo Reagan.

Dove sono i Friedman dei tempi andati? (10 gennaio 2015)

gennaio 10, 2015

 

Jan 10 3:31 pm

Where Are The Friedmans Of Yesteryear?

I never got around to commenting on the infamous Economist list of influential economists; they’ve been given plenty of deserved grief, to which I needn’t add. But I think I might have something useful to say about a fact that is really unmistakable when you look at a list corrected by removing central bankers, or make a more subjective judgment: these days, the economist as public intellectual is overwhelmingly likely to be a liberal.

As Noah Smith says, it was not always thus. He argues that the field of economics has changed, with greater emphasis on market failures, and there’s arguably something to that. I’d also argue that the descent of right-leaning macroeconomics into hermetic absurdity matters quite a lot, because macro looms larger in the public sphere than it does within the academy.

But there’s another important factor. Modern conservatism doesn’t have Friedman-like figures — people who would be prominent economists thanks to their research whatever their politics, who are also public intellectuals– because it doesn’t want them. The movement prefers hacks, who needn’t be even minimally competent but can be counted on to defend the party line without any risk of taking an independent stand.

Let me offer my own two short subjective lists. I think if you were going to name the two current econoheroes of U.S. liberals they would probably be Joe Stiglitz and yours truly. (Thomas Piketty has made a huge and well-deserved splash, but so far only on one issue.) The thing that is obvious about Joe is that before becoming a public figure with a political following he established his reputation with vast amounts of widely cited academic research; you can get a sense of what he did by looking at his top entries on Google Scholar. And here are mine.

Now, who would be the conservative counterparts? Who gets cited by, say, Republican governors seeking authority for their tax cuts, or published on a regular basis on conservative opinion pages? I’d say Stephen Moore and Arthur Laffer. No point in looking them up on Google Scholar, although Laffer does show up, marginally, for a 1971 paper co-authored with Eugene Fama.

And it’s not as if Moore and Laffer are guys who may lack academic cred but have proved themselves as working analysts. On the contrary, they’re guys who can’t even cook numbers without screwing up, who have spent years telling us to get ready for soaring interest and inflation rates. But it doesn’t matter; being right is not what they’re paid for.

So in trying to understand where the Milton Friedmans of yore have gone, you want to look at the demand side. The right lacks heavyweight economists with independent reputations partly because they are hard to find, but also because it doesn’t want them. Only hacks need apply.

 

Dove sono i Friedman dei tempi andati?

Non mi sono mai messo a commentare la famigerata lista dell’Economist sugli economisti influenti; essi hanno ricevuto una abbondanza di meritate afflizioni, alle quali non sentivo il bisogno di unirmi. Ma penso di aver qualcosa di utile da dire su un fatto che è realmente inequivocabile, quando ci si trova dinanzi ad una lista corretta per l’esclusione dei banchieri centrali, o si avanzano giudizi di natura più soggettiva: di questi tempi, è assolutamente probabile che gli economisti come intellettuali pubblici siano di orientamento progressista.

Come dice Noah Smith, non è sempre stato così. Egli sostiene che la disciplina economica è cambiata, con una maggiore enfasi sui fallimenti dei mercati, e probabilmente c’è qualcosa del genere. Direi anche che la china della macroeconomia con orientamenti di destra verso una ermetica assurdità conta molto, perché la macroeconomia incombe maggiormente nella sfera pubblica che non dentro gli ambienti accademici.

Ma c’è un altro fattore importante. Il conservatorismo odierno non ha figure del genere di Friedman – persone che sarebbero economisti eminenti grazie alle loro ricerche qualsiasi siano le loro politiche, e che sono anche intellettuali pubblici – perché non le vuole. Quel movimento preferisce i pennivendoli, che non hanno bisogno di essere minimamente competenti ma sui quali si può contare per difendere la linea del Partito senza alcun rischio che assumano posizioni indipendenti.

Consentitemi di offrire due brevi liste soggettive mie proprie. Penso che se si intende fare i nomi di due attuali campioni dell’economia dei progressisti statunitensi, essi probabilmente sarebbero Joe Stiglitz ed il sottoscritto (Thomas Picketty ha ricevuto una vasta e ben meritata accoglienza, ma sinora solo su un tema). La cosa che è evidente a proposito di Joe è che prima di diventare una figura pubblica con un seguito politico, egli ha fissato la sua reputazione in una ampia quantità di ricerche accademiche generalmente riconosciute; potete avere una percezione di quello che ha fatto osservando le sue principali citazioni su Google Scholar. E in questa connessione trovate le mie.

Ora, quali sarebbero gli omologhi sul versante conservatore? Coloro che vengono citati, diciamo, dai Governatori repubblicani alla ricerca di autorità per i loro tagli fiscali, oppure pubblicati in modo regolare sulle pagine dei commenti dei giornali conservatori? Io direi Stephen Moore e Arthur Laffer. Non è il caso di andarli a cercare su Google Scholar, sebbene Laffer compaia, marginalmente, per un saggio scritto nel 1971 in collaborazione con Eugene Fama.

E non è che Moore e Laffer siano soggetti che forse difettano di credito accademico, ma si sono messi in mostra come analisti efficaci. Al contrario, sono individui che non possono neppure improvvisare i dati senza prendere cantonate, che hanno speso anni raccontandoci di star pronto a tassi di interessi e di inflazione che sarebbero schizzati alle stelle. Ma ciò non conta; non erano pagati per aver ragione.

Dunque, nel cercare dove siano andati i Milton Friedman del passato, dovete guardare all’economia dal lato della domanda. La destra difetta di economisti di peso con reputazione indipendente, in parte perché è difficile trovarli, in parte perché non li vuole. Si adoperano solo pennivendoli.

Ortodossia, eterodossia e ideologia (10 gennaio 2015)

gennaio 10, 2015

 

Orthodoxy, Heterodoxy, and Ideology

January 10, 2015 10:04 am

Many economists responded badly to the economic crisis. And there’s a lot wrong with mainstream economic analysis. But how closely are these two assertions related? Not as much as you might think. So I’m very much in accord with Simon Wren-Lewis on the remarkable unhelpfulness of recent heterodox assaults on the field. Not that there’s anything wrong with being heterodox in general; but a lot of what we’ve been seeing misidentifies the problem, and if anything gives aid and comfort to the wrong people.

The point is that standard macroeconomics does NOT justify the attacks on fiscal stimulus and the embrace of austerity. On these issues, people like Simon and myself have been following well-established models and analyses, while the austerians have been making up new stuff and/or rediscovering old fallacies to justify the policies they want. Formal modeling and quantitative analysis doesn’t justify the austerian position; on the contrary, austerians had to throw out the models and abandon statistical principles to justify their claims.

Let’s look at several examples.

I often see people who should know better claiming that the debate over whether fiscal stimulus can work involved the question of whether Ricardian equivalence — an implication of representative-agent, rational-expectations models — holds in practice. But that’s all wrong. Claims that a temporary rise in government spending crowds out an equal amount of private spending were based either on crude confusions between accounting identities and causation, or on a complete misunderstanding of what Ricardian equivalence means.

What about expansionary austerity? That’s really hard to get out of any formal model, and by and large the advocates of that position didn’t even try. They invoked the confidence fairy pretty much on faith, backed by casual econometrics that fell apart as soon as anyone looked hard at the data.

Claims that the US and the UK were at risk of an attack by bond vigilantes were similarly hard to justify in terms of models — when you work through the analysis, it’s very hard to come up with a way such an attack can either happen or do much damage to a country that borrows in its own currency. As I’ve written many times, I reproach myself for having worried about such things back in 2003, when my own models refused to tell that story. And the persistence of “we are Greece” arguments now goes along with a rejection of clear modeling, not excessive formalism.

Last but not least, all that 90 percent threshold of doom stuff was based on no model whatsoever, just an alleged statistical regularity. What mainstream economists should have said right away (as some of us did) was that any negative correlation between debt and growth, in the absence of any mechanism, probably reflected a lot of reverse causation.

So if you go around claiming that model-oriented, quantitative economics gave rise to austerity mania, you’re getting the story all wrong. Worse, you are in effect covering up for the austerians’ intellectual sins. They were not orthodox economists following their models to their logical conclusion; instead, they revealed their true colors when they proved themselves either unable to understand their own models or willing to throw their analysis away the moment it conflicted with their political preferences.

Uncritical embrace of austerity by economists has been a problem for the world. But don’t blame modeling or quantitative analysis; the fault lies not in models but in themselves.

 

Ortodossia, eterodossia e ideologia

Molti economisti hanno reagito malamente alla crisi economica. E c’è stato molto di sbagliato nella analisi economica prevalente. Ma questi due concetti quanto sono strettamente correlati? Non così tanto come si potrebbe pensare. In questo senso, io sono molto d’accordo con Simon Wren-Lewis sulla considerevole inutilità dei recenti assalti eterodossi nella disciplina. Non che ci sia niente di sbagliato in generale nell’eterodossia; ma molto di ciò a cui stiamo assistendo fraintende il problema, e semmai porta aiuto e conforto alle persone sbagliate.

Il punto è che la macroeconomia ordinaria NON giustifica gli attacchi sulle misure di sostegno della spesa pubblica e l’abbraccio della austerità. Su questi temi, persone come Simon e il sottoscritto si sono ispirate a modelli ed analisi ben definiti, mentre i filoausteri si sono inventati cose nuove e/o hanno riscoperto errori antichi per giustificare le politiche di loro gradimento. I modelli formali e l’analisi quantitativa non giustificano la posizione a favore dell’austerità; al contrario, i filoausteri si sono dovuti liberare dei modelli ed hanno dovuto abbandonare i principi statistici per giustificare le loro pretese.

Si considerino vari esempi.

Spesso osservo persone che dovrebbero saperne di più sostenere che il dibattito sul tema se le misure di sostegno della spesa pubblica possano funzionare riguarda la questione della ‘equivalenza ricardiana’ [1] (qualcosa che implica modelli di agenti rappresentativi e di aspettative razionali) e se essa nella pratica stia in piedi. Ma ciò è completamente sbagliato. Le pretese secondo le quali un aumento temporaneo della spesa pubblica ‘spiazzerebbe’ una quantità equivalente di spesa privata erano basate sia su una grossolana confusione tra identità contabili e causalità, ed erano un completo fraintendimento del significato della ‘equivalenza ricardiana’.

Che dire della austerità espansiva? E’ veramente difficile derivarla da un qualsiasi modello formale, e in generale i sostenitori di quella posizione non ci si sono neppure provati. Hanno piuttosto invocato la fata della fiducia, sostenuti da una econometria occasionale che è caduta in frantumi appena qualcuno ha osservato i dati con impegno.

Le pretese che gli Stati Uniti ed il Regno Unito fossero a rischio di un attacco da parte dei ‘guardiani dei bond’ erano in modo simile difficili da giustificare in termini di modelli – quando si opera attraverso analisi, è molto difficile procedere in un modo che confermi sia la possibilità di un attacco del genere, sia che esso possa recar danno ad un paese che si indebita con la propria valuta. Come ho scritto molte volte, mi rimprovero di essermi preoccupato di cose del genere nel passato 2003, quando i miei stessi modelli erano in contrasto con storie del genere. E l’insistenza su argomenti del tipo “Siamo come in Grecia” procede sulla base di un rifiuto di una chiara modellistica, non certo sulla base di un formalismo eccessivo.

Da ultimo ma non per ultimo, tutta la roba sulla sventura sulla soglia del 90 per cento [2] non era basata su alcun modello, solo su una pretesa regolarità statistica. Quello che gli economisti dell’orientamento prevalente avrebbero dovuto dire da subito (come alcuni di noi fecero) era che ogni negativa correlazione tra debito e crescita, nell’assenza di ogni meccanismo, probabilmente era in gran parte il riflesso di un rapporto di causa opposto.

Dunque, se si va in giro a sostenere che una economia quantitativa incline ai modelli ha dato la stura alla mania dell’austerità, si racconta una storia completamente sbagliata. Peggio ancora, si dà in effetti copertura ai peccati intellettuali dei sostenitori dell’austerità. Non erano economisti ortodossi che seguivano i loro modelli sino alle loro logiche conclusioni; piuttosto, rivelavano la loro vera natura mostrandosi o incapaci di comprendere i loro stessi modelli, o disponibili a metter da parte le loro analisi quando esse entravano in conflitto con le loro preferenze politiche.

L’adesione acritica degli economisti alla austerità è stato un problema per il mondo intero. Ma non si dia la colpa ai modelli o all’analisi quantitativa; la responsabilità non sta nei modelli, ma in quegli stessi economisti.

 

 

[1] Vedi le note sulla traduzione a “ricardian equivalence”.

[2] Ovvero, la tesi di Rogoff secondo la quale oltre un rapporto del 90 per cento tra debito e PIL si determina un danno alla crescita.

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