Dec 27 8:54 am
Brad DeLong, who has been doing great World War II blogging, tells us that today is the 60th anniversary of FDR’s seizure of Montgomery Ward, the once-ubiquitous catalogue and retail operation whose chairman refused to comply with wartime labor agreements. It’s a fascinating story.
But why did Montgomery Ward ultimately disappear from the scene? It wasn’t the wartime obstructionism; it was bad macroeconomics. As the Times report on the final demise put it,
Retail historians date the start of [Montgomery Ward’s] decline to the postwar boom of the 1950’s, when its rival, Sears, Roebuck & Company, moved aggressively into the then nascent suburbs, while Ward, under the steely leadership of its then chief executive, Sewell Avery, hoarded cash and waited for a second Great Depression.
Or to put it a bit differently, Avery was a firm believer in secular stagnation, and a firm disbeliever in the ability of policymakers to do anything about it.
One interesting point here is that in the 1950s right-wingers like Avery didn’t necessarily believe that big government leads to hyperinflation; he seems to have believed that it would cause deflation instead.
Anyway, an interesting tale. In many ways, the history of Montgomery Ward from the late 19th to the mid-20th centuries is the story of America.
La caduta della Montgomery Ward
Brad DeLong, che sta usando in modo egregio il suo blog sui temi della Seconda Guerra Mondiale, ci ricorda che oggi è il sessantesimo anniversario del sequestro da parte di Franklin Delano Roosevelt della Montgomery Ward [1], il catalogo un tempo onnipresente e l’operazione di commercio al dettaglio che aveva per Presidente un personaggio che si rifiutò di applicare gli accordi sul lavoro del tempo di guerra. E’ una storia affascinante.
Ma perché alla fine la Montgomery Ward scomparve dalla scena? Non si trattò di ostruzionismo in tempo di guerra; si trattò di cattiva macroeconomia. Come spiega il resoconto del Times sulla caduta finale:
“Gli storici del commercio al dettaglio datano l’inizio del declino (della Montgomery Ward) al boom postbellico degli anni ’50, quando le sue rivali, Sears, Roebuck & Company, si spostarono aggressivamente nei quartieri periferici, mentre la Ward, sotto la guida dura come l’acciaio di Sewell Avery, allora suo amministratore delegato, accumulava contante nell’attesa di una seconda Grande Depressione.”
O, per dirla diversamente, Avery era un fermo credente nella stagnazione secolare, e diffidava altrettanto fermamente nella capacità degli uomini politici di fare niente al riguardo.
Un aspetto interessante è che le persone di destra come Avery, negli anni ’50, non credevano che il Governo portasse necessariamente alla iperinflazione; pare che lui credesse che piuttosto avrebbe provocato la deflazione.
In ogni caso, un racconto interessante, la storia di Montgomery Ward dalla fine del Diciannovesimo Secolo alla metà del Ventesimo è la storia dell’America.
[1] Il sequestro della compagnia Montgomery Ward – che era guidata da Sewell Avery – avvenne per il reiterato rifiuto del suo padrone di applicare i contratti di lavoro concordati tra le parti in tempo di guerra. Tali accordi avevano forza di legge, principalmente allo scopo di impedire chiusure e tensioni che avrebbero avuto conseguenze negative sui rifornimenti dell’esercito americano e degli alleati. La società forniva un po’ di tutto all’esercito, da componenti di trattori ed autoveicoli a generi di abbigliamento. Il 27 dicembre del 1944, stanco del rifiuto a rispettare le norme da parte di Avery, Roosevelt decise il sequestro di tutti gli impianti, negli Stati di New York, del Michigan, della California, dell’Illinois, del Colorado e dell’Oregon.
dicembre 26, 2014
Dec 26 3:39 pm
Mark Thoma — still the one place you should go every day if you want to keep in touch with the ongoing economics discussion — links to Martin Feldstein’s latest on macroeconomic policy, and editorializes with one word: “Wow”.
I’m wowed too.
Feldstein is a permahawk; he has been warning that the Fed’s policies are dangerously inflationary since early 2009. In his latest, however, inflation has vanished from the argument — yet he still insists that quantitative easing is bad, bad, bad. And to replace it he suggests an elaborate system of cyclically varying taxes, with tax breaks for investment when the economy is depressed that will be withdrawn when it recovers.
It’s a remarkable scheme for a conservative, of all people, to propose; it involves the government trying to muck around with private incentives on a regular basis, with lots of intrusive behavior — we’ll reward some kinds of spending, but not others — and obvious opportunities for gaming the system that would promote a lot of employment among tax lawyers. Also, one of Feldstein’s long-standing arguments about what’s wrong with quantitative easing is that we can’t trust the Fed to withdraw it when it’s no longer needed. Um, and we can count on Congress to withdraw tax breaks for corporations promptly when the macroeconomic justification has ended? The mind reels.
The really remarkable thing, however, is that the animus against QE remains even though the alleged reason for that animus has evaporated. True, Feldstein makes some vague claims about distorted incentives and reaching for yield; it always amazes me how ready conservatives are to assert that investors and markets are irrational when it serves their agenda. But basically at this point the case against QE is levitating in thin air; it was built on a foundation of inflation fears, but is still hovering there now that those fears have been sent down the memory hole.
It’s a very peculiar thing.
Levitazione quantitativa
Mark Thoma – ancora il luogo (blog) nel quale si dovrebbe andare ogni giorno se si vuole restare in collegamento con il dibattito economico in corso – offre la connessione con l’ultimo articolo di Martin Feldstein sulla politica macroeconomica, e lo pubblica con una parola: “Perdinci!”.
E anch’io dico: “perdinci!”.
Feldstein è un falco della prim’ora; ammoniva che le politiche della Fed erano pericolosamente inflazionistiche sin dagli inizi del 2009. Da ultimo, tuttavia, l’inflazione è svanita nella sua argomentazione – tuttavia, insiste ancora che la facilitazione quantitativa è negativa, negativissima. E in cambio di essa suggerisce un elaborato sistema di tasse ciclicamente variabili, con sgravi fiscali per gli investimenti quando l’economia è depressa che sarebbero ritirati al momento della ripresa.
E’ uno schema rilevante come proposta, in particolare, di un conservatore; riguarda il tentativo con il quale un Governo dovrebbe giocherellare con incentivi privati con modalità regolari, con una quantità di comportamenti intrusivi – si premierebbero alcuni generi di spesa, ma non altri – ed evidenti opportunità di scommettere su un sistema che creerebbero molta occupazione tra i legali che si occupano di fisco. Inoltre, uno degli argomenti di vecchia data su ciò che è sbagliato nella facilitazione quantitativa è che non si può aver fiducia nel ritiro di essa da parte della Fed, allorquando non sarà più necessaria. Uhm, e possiamo aver fiducia che il Congresso ritiri gli sgravi fiscali per le società con prontezza, quando la giustificazione macroeconomica sia esaurita? Vengono le vertigini.
La cosa realmente rilevante, tuttavia, è che l’animosità contro la facilitazione quantitativa resta immutata anche se la supposta ragione di quella animosità è svanita. E’ vero, Feldstein avanza qualche vago argomento sugli incentivi distorti e sul conseguimento del rendimento; mi stupisce sempre con quanta prontezza i conservatori asseriscono che gli investitori ed i mercati sono irrazionali, quando fa comodo ai loro programmi. Ma, a questo punto, fondamentalmente l’argomento contro la facilitazione quantitativa si è innalzato nell’aria pura; era costruito sul fondamento delle paure dell’inflazione, ma sta ancora volteggiando lassù, adesso che le paure sono state rinchiuse in un buco della memoria.
Una cosa davvero bizzarra.
dicembre 26, 2014
Dec 26 3:23 pm
Economists use a lot of jargon, and rightly so. When an economist refers to comparative advantage, or total factor productivity, or the neutrality of money, etc., she or he is using that phrase to refer to a concept developed over decades of discussion and debate; trying to spell that out in plain English every time you invoke the concept would be a huge waste of time, and would introduce much potential for confusion too.
Yet jargon has its own dangers, most notably the dangers that it will be used in aid of pomposity, and/or that jargon misapplied will add to confusion rather than clarity.
So I read George Magnus’s piece on China’s “structural deflation”, and while it’s innocent of pomposity, I worry that it suffers from the second sin. What, after all, does Magnus mean here by “structural”? In this context, I do not think that word means what he thinks it means.
Normally, what we mean by “structural” — usually as opposed to “cyclical” — is “something that can’t be cured with higher demand”. Structural unemployment is unemployment due to a mismatch between skills and what employers need, or bad institutions, or something, which makes an economy inflation-prone even at fairly high unemployment rates.
Now, there used to be a Latin American school of thought which saw inflation as structural, but I don’t think it ever made much sense. And I really don’t think structural deflation is at all a useful turn of phrase.
Suppose China had entered its recent slowdown with 20 percent inflation, and with everyone in China expecting inflation to remain at 20 percent. Would China have had any problem avoiding deflation? Surely not: simply by cutting nominal interest rates, the central bank would have been able to cut real rates all the way to minus 20 percent if it wanted, surely enough to overheat any economy.
So what is Magnus talking about here? I think he’s actually arguing that China requires a substantially negative real interest rate to achieve full employment. This doesn’t mandate deflation; it does, however, mean that low inflation is unsustainable, because demand will fall short, and the economy will tend toward deflation. This is pretty much what we mean by secular stagnation; calling it structural deflation just muddies the issue.
And that’s too bad, because I agree with a lot of what Magnus says. Still, somebody has to act as the jargon police, and if not me, who?
Confusione strutturale
Gli economisti usano un bel po’ di espressioni gergali, comprensibilmente. Quando un economista si riferisce al vantaggio comparativo, o alla produttività totale per fattore, o alla neutralità della moneta etc., sta usando quella frase per riferirsi ad un concetto sviluppatosi in decenni di spiegazioni e di discussioni; cerca di scandirlo in un lingua comprensibile ogni volta che riferirsi a quel concetto sarebbe una grande perdita di tempo, ed introdurrebbe anche un grande rischio di confusione.
Tuttavia il gergo ha i suoi pericoli, in specie i pericoli che potrebbero essere usati a sostegno della pomposità, oppure quello per il quale una cattiva applicazione del gergo aggiungerà confusione anziché chiarezza.
Così ho letto l’articolo di George Magnus sulla “deflazione strutturale” della Cina, e mentre esso è innocente quanto a pomposità, temo che soffra del secondo peccato. Dopo tutto, cosa Magnus intende in questo caso con “strutturale”? In questo contesto, non penso che la parola significhi quello che lui ritiene.
Normalmente, quello che intendiamo per “strutturale” – normalmente all’opposto di “ciclico” – è “qualcosa che non si può curare con una domanda più elevata”. La disoccupazione strutturale è una disoccupazione che deriva da un disaccoppiamento tra competenze date e quello di cui i datori di lavoro hanno bisogno, oppure da istituti negativi, o da qualcosa che rende una economia incline all’inflazione anche a tassi discretamente elevati di disoccupazione.
Ora, esisteva un scuola di pensiero latino-americana che considerava l’inflazione come strutturale, ma non penso che sia mai stato molto sensato. E davvero non penso che ‘deflazione strutturale’ sia una versione di tale frase affatto utile.
Supponiamo che la Cina fosse entrata nel recente rallentamento con una inflazione al 20 per cento, e che tutti in Cina si aspettino che l’inflazione resti al 20 per cento. Avrebbe avuto qualche problema la Cina ad evitare la deflazione? Certamente no: semplicemente tagliando i tassi di interesse nominali, la banca centrale, se avesse voluto, avrebbe avuto la possibilità di tagliare i tassi reali proprio sino a meno il 20 per cento, certamente abbastanza per surriscaldare ogni economia.
Dunque, di cosa sta parlando Magnus in questo caso? Penso che egli in verità stia sostenendo che la Cina ha bisogno di una tasso di interesse reale negativo per ottenere la piena occupazione. Questo non esige la deflazione; tuttavia significa che per davvero la bassa inflazione è insostenibile, perché la domanda non sarà alla altezza, e l’economia tenderà verso la deflazione. Questo è grosso modo quello che noi intendiamo con stagnazione secolare; chiamarla deflazione strutturale confonde la questione.
E questo è proprio spiacevole, perché io sono d’accordo con molte delle cose che Magnus dice. Eppure, qualcuno deve pur fare il lavoro di poliziotto del gergo, e se non io, chi?
dicembre 26, 2014
December 26, 2014 11:08 am
Robert Waldmann is shocked, shocked, to find conservative economists not doing their homework:
Even now, I am shocked that economists didn’t bother to look up the data on FRED before making nonsensical claims of fact.
I’m shocked that he’s shocked.
Waldmann’s issue is the relationship between government spending and growth in recent years, which everyone on the right knows has been negative, but is actually positive. Why, he asks, didn’t they look up the data — which takes only a few seconds on FRED — before making their claims?
But this is typical; it applies to issues across the board. The same people know that growth has been much faster since financial deregulation and the Reagan tax cuts, except that it hasn’t; they know that Reagan was the only president to oversee the creation of millions of jobs, because there never was a Clinton boom; they know that there has been unprecedented growth in government spending under Obama, when the reality is the opposite. At this point you shouldn’t be surprised.
Still, why this failure to do even the simplest homework? In general, people on the right seem to do economic history (and probably history in general) using the principle of 1066 And All That: “history is what you remember”, often what you sort of think you remember. They hear everyone around them saying stuff, repeat it, and that becomes what everyone knows; the idea of checking the facts themselves never seems to arise, indeed is almost anathema. I’ve had conversations in which people belligerently assert “I’m not impressed by your charts — you’ll never convince me that government spending has fallen under Obama.” Don’t bother me with facts!
But why this attitude? Mainly, I suppose, it’s the epistemic closure that comes from serving the interests of big money. There’s a world of think tanks that don’t want too much thinking, partisan media that don’t do fact-checking, and for that matter professional journals that erect high barriers against anything even vaguely Keynesian while uncritically publishing new classical stuff.
There’s also a more specific, wonkish issue. New classical macroeconomics decisively failed the reality test in the early 1980s, but rather than accepting this result, that camp rejected empirical testing. Instead, “empirical” work consisted of “calibrating” models to fit (some of) the data, using ever more abstruse techniques. One result, I suspect, was that conservative economists got out of the habit of looking at raw data; they could tell you about the moments of the distribution, but if you asked them what happened to unemployment and inflation between 1979 and 1989 they probably had no idea.
I will say, by the way, that writing for the Times — and especially doing so in the face of so much right-wing animosity — has been a useful discipline. In general, the Times maintains standards for fact-checking — and for explicit corrections when you get it wrong — that nobody else seems to. And I am especially careful, because so many people are gunning for me. So every assertion of fact in my columns does come with a source, usually visible in the links embedded in the online version. Oh, and for the haters: saying something that doesn’t match your opinion is not an error of fact.
But all this only proves my depravity. After all, the facts have a well-known liberal bias.
Il 1980 e tutto il resto
Robert Waldmann [1] è meravigliato, meravigliato di scoprire che gli economisti conservatori non si preparano sui loro argomenti:
“Anche a questo punto, sono colpito che economisti non si curino di osservare le statistiche sul data-base della Fed, prima di avanzare affermazioni di fatto prive di logica”.
Io sono sorpreso che lui sia sorpreso.
Il tema di Waldmann è la relazione tra spesa pubblica e crescita negli anni recenti, che tutti a destra sanno essere stata negativa, ma per la verità è stata positiva. Perché, si chiede, non danno un’occhiata ai dati – la qualcosa richiede pochi secondi sul data-base della Fed – prima di avanzare le loro tesi?
Ma questo è tipico: si applica a tematiche le più svariate. Le stesse persone sanno che la crescita è stata molto più veloce dopo la deregolamentazione finanziaria e gli sgravi fiscali di Reagan, salvo che non è così; essi sanno che Ronald Reagan fu l’unico Presidente a governare nel contesto di una creazione di milioni di posti di lavoro, perché non ci fu mai un boom nell’epoca di Clinton; sanno che c’è stata una crescita senza precedenti nella spesa pubblica con Obama, quando la realtà è quella opposta. A questo punto non si dovrebbe essere sorpresi.
Eppure, perché questa incapacità di fare persino i più semplici compiti a casa? In generale, le persone di destra sembrano fare la storia economica (e probabilmente la storia in generale) applicando il principio del “1066 e tutto il resto” [2]: “la storia è quanto si ricorda”, spesso quello che in qualche modo si pensa di ricordare. Essi sentono dire in giro da tutti certe cose, le ripetono e quello diventa ciò che tutti sanno; l’idea stessa di controllare i fatti non sembra mai comparire, in sostanza è una specie di bestemmia. Ho avuto conversazioni nelle quali individui aggressivamente asserivano: “Non mi fanno impressione i tuoi diagrammi – non mi convincerai mai che la spesa pubblica è caduta sotto Obama”. Non infastiditemi con i fatti!
Perché questa tendenza? Suppongo che principalmente si tratti della chiusura epistemica che deriva dal servire gli interessi delle grandi ricchezze. C’è un mondo di gruppi di ricerca che non vuole pensar troppo, media faziosi che non fanno alcuna verifica dei fatti, e per la stessa ragione riviste professionali che erigono alte barriere contro ogni cosa che sia anche vagamente keynesiano, nel mentre pubblicano acriticamente roba neo classica.
C’è anche un tema più specifico, per esperti. La macroeconomia neo classica decisamente non ha superato il test di realtà degli inizi degli anni ’80, ma piuttosto che prendere atto di questo risultato, quel settore ha rigettato il metodo delle prove empiriche. Invece, il lavoro ‘empirico’ è consistito nell’adattare (un po’) i dati, utilizzando tecniche sempre più astruse. Ho il sospetto che il risultato sia stato che gli economisti conservatori hanno perso l’abitudine di osservare i dati elementari; potrebbero parlarvi sui vari passaggi della distribuzione, ma se chiedeste loro cosa accadde alla disoccupazione e all’inflazione tra il 1979 ed il 1989, probabilmente non ne avrebbero idea.
Per inciso, devo dire che scrivere per il Times – e in particolare farlo a fronte di tanta animosità della destra – è stata una disciplina utile. In generale, il Times mantiene livelli standard che nessun altro sembra mantenere quanto a controllo dei fatti, e quanto ad esplicite correzioni ogni volta che si fanno sbagli. Ed io sono particolarmente scrupoloso, perché c’è tanta gente in giro pronta a impallinarmi. Cosicché ogni riferimento ad un fatto nei miei articoli compare assieme ad una fonte, normalmente visibile nelle correzioni inserite nella versione online. Inoltre, destinato in particolare agli amanti delle risse: dire qualcosa che non corrisponde alla vostra opinione non è un errore fattuale.
Ma sono cose che provano soltanto la mia depravazione. Dopo tutto, i fatti hanno una ben nota tendenza progressista.
[1] Economista statunitense che, se la ricerca è giusta, parrebbe anche esperto di tematiche sanitarie (laureato in biologia, ha pubblicato lavori sulla mortalità infantile, assieme ad analisi economiche in collaborazione con J. Bradford DeLong e Lawrence Summer), nonché parrebbe docente all’Università di Roma – Tor Vergata.
[2] Pare sia un libro satirico sulla storia degli Scozzesi.
dicembre 23, 2014
Dec 23 10:19 am
David Beckworth has a good post pointing out that the Fed has been signaling all along that the big expansion in the monetary base is a temporary measure, to be withdrawn when the economy improves. And he argues that this vitiates the effectiveness of quantitative easing, citing many others with the same view. My only small peeve is that you might not realize from his list that I made this point sixteen years ago, which I think lets me claim dibs. Yes, I’m turning into one of those crotchety old economists who says in response to anything, “It’s trivial, it’s wrong, and I said it decades ago.”
Beckworth offers as an example of how it should be FDR’s exit from the gold standard, which was expected to — and actually did — signal a permanent increase in the monetary base. Indeed, if you want to get monetary traction at the zero lower bound, that’s how to do it.
The point, however, is that this says that effective monetary policy in a liquidity trap requires both an actual and a perceived regime change, and that’s very hard to engineer. Japan may be pulling it off now, but only after 15 years of deflation — and even so the achievement is very fragile, vulnerable to fiscal tightening. Was there ever a realistic possibility of getting that in America, this time around?
I wrote about this back in 2011, explaining why I devoted my efforts in 2009 to pushing for fiscal stimulus. It seemed obvious to me that the Fed viewed the crisis as temporary, and was just not going to be willing (or even able) to commit to a permanent change in policy, especially with all the sniping it faced from the right. And that’s still true now, even after six years at the zero lower bound.
This is why I get annoyed with statements along the lines of “the Fed has pursued a tight-money policy”. We can argue about definitions, but that doesn’t get very well at the reality, which is “The Fed hasn’t been willing to commit to a permanent regime change in the face of what it considers a temporary problem.” And even if it had been willing to make that commitment, would people have believed it, enough to get the desired results?
The point is that going off the gold standard isn’t something you get to do very often. And anything non-gold — anything that isn’t the moral equivalent of that departure — is likely to be, and be seen as, ephemeral.
Niente è stabile in modo paragonabile all’abbandono dell’oro [1]
David Beckworth pubblica un buon pezzo con il quale mette in evidenza che la Fed è venuta segnalando sin dall’inizio che la grande espansione della base monetaria è una misura temporanea, da eliminare al momento in cui l’economia migliori. E sostiene che questo invalida l’efficacia della ‘facilitazione quantitativa’, citando molti altri che hanno espresso lo stesso punto di vista. Il mio solo piccolo fastidio è che dalla sua lista potreste non comprendere che io avanzai tale osservazione sedici anni orsono, la qualcosa penso mi valga un qualche diritto di prelazione. E’ così: mi sto trasformando in uno di quei vecchi economisti permalosi che, in risposta a tutto, dicono: “E’ banale, è sbagliato, e l’ho detto decenni orsono”.
Beckworth offre, come esempio di come avrebbe dovuto essere, l’uscita di Franklin Delano Roosevelt dal gold standard, che era attesa come un segnale di incremento permanente nella base monetaria, ed effettivamente fu tale. In effetti, se volete ottenere una trazione monetaria al livello inferiore dello zero (dei tassi di interesse), quello è il modo di farlo.
Il punto, tuttavia, è che questo dice che una efficace politica monetaria in una trappola di liquidità richiede un cambiamento di regime sia effettivo che percepito tale, e questo è difficile da congegnare. Forse il Giappone sta oggi riuscendoci, ma solo dopo 15 anni di deflazione – ed anche così il risultato è molto fragile, vulnerabile ad una restrizione della finanza pubblica. C’è mai stata, in questa occasione, la possibilità realistica di ottenere una cosa del genere in America?
Scrissi a questo proposito nel passato 2011, spiegando perché nel 2009 avevo indirizzato i miei sforzi a spingere per misure di sostegno della spesa pubblica. Mi sembrava evidente che la Fed considerasse la crisi come temporanea, e non si indirizzava proprio ad avere la volontà (o anche la capacità) di impegnarsi in un cambiamento permanente della politica, in particolare con tutta quell’opera di cecchinaggio proveniente dalla destra che si trovava a fronteggiare. E ciò è ancora vera oggi, persino dopo sei anni al limite inferiore dello zero.
Questa è la ragione per la quale ero infastidito dalle dichiarazioni del genere “la Fed ha perseguito una politica di restrizione monetaria”. Possiamo disputare sulle definizioni, ma quella non si attaglia affatto bene alla realtà, che è “la Fed non ha intenzione di impegnarsi in un cambiamento permanente di regime a fronte di quello che considera una problema temporaneo”. E persino se avesse avuto voglia di far proprio quell’impegno, la gente ci avrebbe creduto abbastanza da ottenere i risultati sperati?
Il punto è che uscire dal gold standard non è qualcosa che capita molto spesso. E tutto quello che è diverso dall’oro – tutto quello che non è l’equivalente morale di quell’abbandono – è probabile che sia effimero, e sia considerato tale.
[1] Ovviamente è una traduzione ‘libera’, ma il senso del post – vedi le conclusioni – mi pare quello.
dicembre 23, 2014
Dec 23 9:51 am
OK, that was a seriously impressive GDP report — 5 percent growth rate, and it’s all final demand rather than an inventory bounce. But what does it mean?
It does not necessarily mean that now is the time to tighten; that depends mainly on how far we still are from target employment and inflation, not on how fast we’re growing. Remember, the US economy grew 10 percent in 1934, which didn’t mean that the Depression was anywhere near over. With inflation still low and not accelerating, this report at most suggests that the Fed might get there a bit sooner than previously expected. It’s interesting to note that the bond market seems quite unimpressed, with only a slight uptick in long-term rates.
What the report should do, however, is further discredit the “Ma, he’s looking at me funny!” theory of the Obama economy. Remember, we were supposed to be having the worst recovery ever because Obama was a Kenyan socialist who scared businessmen. Actually, it’s a better recovery than the alleged Bush boom – and what’s really striking, as you can see from the chart, is how strong nonresidential investment — essentially, business investment — has been; all the weakness has been in housing.
Of course, you can count on hearing, any minute now, from people claiming that the numbers are cooked — we really have plunging output and double-digit inflation, plus they’re stealing our precious bodily fluids.
Cosa significa quel 5 per cento
D’accordo, è stato un rapporto sul PIL seriamente impressionante – un tasso di crescita del 5 per cento, e tutto relativo a domanda finale piuttosto che ad un rimbalzo nelle scorte. Ma cosa significa?
Non significa necessariamente che è il tempo di una restrizione; che principalmente dipende da quanto siamo ancora lontani dagli obbiettivi di occupazione e di inflazione, non da quanto stiamo crescendo rapidamente. Si ricordi, l’economia statunitense crebbe del 10 per cento nel 1934, il che non significava che la Depressione fosse in qualche modo vicina ad essere superata. Con l’inflazione ancora bassa e che non sta accelerando, questo rapporto al massimo indica che la Fed potrebbe arrivarci un po’ più rapidamente di quanto non ci si aspettava in precedenza. E’ interessante notare che il mercato dei bond sembra abbastanza non impressionato, mostrando soltanto un leggere ritocco mei tassi a lungo termine.
Quello che il rapporto dovrebbe fare, tuttavia, è portare ulteriore discredito alla teoria secondo la quale l’economia sotto Obama è sintetizzabile nella battuta: “Mamma, mi guarda male!” [1]. Si ricordi, si era ipotizzato che la ripresa peggiore tra tutte era stata provocata dal fatto che Obama era un socialista proveniente dal Kenya che metteva paura all’ambiente delle imprese. Per la verità, si tratta di una ripresa migliore del preteso boom di Bush – e quello che è realmente impressionante, come potete cedere dal diagramma, è quanto sia stato forte l’investimento non residenziale – sostanzialmente, l’investimento delle imprese; tutta la debolezza è stata nel settore immobiliare.
Naturalmente, potete far conto di sentir dire, d’ora in avanti, da parte delle persone che sostengono che i dati vengono falsificati – in realtà abbiamo la produzione che crolla e l’inflazione a due cifre, in aggiunta ci stanno derubando dei nostri preziosi fluidi vitali.
[1] Da tempo Krugman ironizza sulla pretesa degli ambienti conservatori americani, secondo la quale la lentezza della ripresa degli USA dipendeva tutta da alcune espressioni irrispettose che Obama aveva dedicato a settori della finanza. Obama si era limitato a dire che alcuni ambienti di Wall Street avevano avuto qualche responsabilità nella crisi finanziaria.
dicembre 20, 2014
December 20, 2014 1:12 pm Email
Simon Wren-Lewis, not surprisingly, gets my motivation in writing down an intertemporal-maximization model of the liquidity trap right; although originally, back in 1998, I wasn’t arguing with the market monetarists — I was arguing to some extent with old-fashioned monetarists, and to a larger extent with myself, trying to figure out how to think about this thing.
And I think there’s a larger, vaguer point about how to do economics here.
Where I came in was with the question — for Japan in the 90s, for most of the advanced world now — of whether the central bank can boost the economy simply by “printing money” when short-term interest rates are near zero. IS-LM analysis says no; but there were and still are many economists insisting that this conclusion can’t be right, that basic monetary economics says that increasing the money supply always raises prices in the long run and output in the short run if prices are sticky. And IS-LM is, after all, an ad hoc model that isn’t careful about budget constraints or expectations, so surely the notion of a liquidity trap would go away if you did it right.
I actually believed this myself. But unlike most of the people who say things like this, I actually set out to “do it right”– that is, write down an explicit model, as simple as possible, that didn’t fudge the budget constraints or the role of expectations. And what it told me was that the claim that monetary expansion always “works” is wrong.
The force of this conclusion does not depend on the little model being realistic — after all, the claim was that doing it right would show that the liquidity trap was a myth, so if even a simple, unrealistic model said otherwise, that was enough to prove the claim wrong.
Now, you might argue for the effectiveness of monetary policy at the zero lower bound by appealing to some kind of friction — imperfect capital markets, bounded rationality, something. OK, go ahead and explain to me how that works. The point, however, is that most ZLB denial does not, in fact, rest on a sophisticated argument about frictions; it relies, again, on the assertion that we “know” that money has to be effective, that this is a fundamental proposition. And this turns out to be false, just like the proposition that with rational expectations fiscal stimulus must always crowd out private spending.
Alternatively, you could argue that experience shows that monetary expansion is effective even at the zero lower bound. Again, however, ZLB denial does not rest on empirical evidence; it’s supposed to rest on fundamental economics that turns out not to be fundamental at all. And the empirical evidence actually goes the other way. Even in 1998 I could appeal to lessons from the 1930s; today we have lots more evidence, and it all looks like this:
So if you are convinced that monetary expansion must work, please tell me why. Don’t push words around; as I said, you’re probably engaged in deceptive word games, even if that’s not your intention. Give me a careful analysis of what people are doing, and how the frictions, whatever they are, cause the basic result of monetary impotence to go away.
Now, about the broader and vaguer implications: I don’t think of this story as a demonstration that a New Keynesian approach is superior to IS-LM. After all, what it ended up doing was confirming that IS-LM got it right. And look, people don’t actually engage in the kind of optimization NK models assume. Much of the time — and I know Simon and I aren’t in full agreement here — I think ad hoc, IS-LMish models are better for a first cut: they’re easier to work with, and I see no compelling evidence that fancier intertemporal approaches provide a better picture of reality.
Still, when I am making a policy argument using IS-LM, especially if it’s at odds with conventional policy wisdom, I like to cross-check it against an NK approach, to see if I can get a similar result. It’s just a way of kicking the tires, of increasing the odds that I’m really talking sense. And I also want to cross-check all the theoretical arguments, Hicksian or New Keynesian, against whatever evidence I can scare up.
All of this is a lot more work than, say, intoning solemnly about the dangers of a debased currency, or even than pointing to nominal GDP and asserting that the Fed could have achieved a different result if only it wanted to. But as Keynes said, economics is a difficult and technical subject, though no one will believe it.
Maggiori meta modelli nella macroeconomia
Simon Wren-Lewis, non ne sono sorpreso, utilizza la mia motivazione nel tirar giù un modello di massimizzazione intertemporale della trappola di liquidità; sebbene all’origine, nel passato 1998, io non stavo discutendo con i monetaristi di mercato – in una certo senso mi stavo confrontando con i monetaristi vecchia maniera, ed in larga misura con me stesso, cercando di immaginare come riflettere su questo tema.
E in questo caso, io penso che ci sia un più ampio e più indistinto aspetto su come fare macroeconomia.
Il punto in cui mi imbattei venne a seguito della domanda – per il Giappone negli anni ’90, per gran parte del mondo avanzato oggi – se la banca centrale possa incoraggiare l’economia semplicemente “stampando moneta” quando i tassi di interesse sul breve termine sono vicini allo zero. L’analisi IS-LM dice di no; ma ci sono stati ed ancora ci sono molti economisti che sostengono che questa conclusione non può essere giusta, che l’economia monetaria di base dice che accrescere l’offerta di moneta aumenta sempre o prezzi del lungo periodo e la produzione nel breve periodo, se i prezzi sono vischiosi. E lo IS-LM, dopo tutto, è un modello ad hoc che non è scrupoloso quanto ai limiti di bilancio o alle aspettative, cosicché il concetto di trappola di liquidità certamente uscirebbe di scena se si facessero le cose in modo corretto.
Per la verità io stesso la pensavo in questo modo. Ma diversamente dalla maggior parte delle persone che dicono cose come questa, mi prefissi di “farlo in modo corretto” – ovvero, di metter giù un esplicito modello, per quanto possibile semplice, che non rifugga dai condizionamenti di bilancio e dal ruolo delle aspettative. E quello che esso mi confermò fu che la tesi secondo la quale l’espansione monetaria è sempre efficace è sbagliata.
La forza di questa conclusione non dipende dal fatto che il piccolo modello sia realistico – dopo tutto, l’argomento era che facendo le cose correttamente si sarebbe dimostrato che la trappola di liquidità era un mito, dunque se persino un semplice e non realistico modello portava a conclusioni diverse, era abbastanza per dimostrare che la pretesa era sbagliata.
Ora, si potrebbe argomentare a favore dell’efficacia della politica monetaria al livelli inferiore dello zero rivolgendosi a qualche genere di frizione – mercati dei capitali imperfetti, una razionalità limitata, qualcosa del genere. D’accordo, andate avanti e spiegatemi come funziona. Il punto, tuttavia, è che la maggior parte del rifiuto del ‘limite inferiore dello zero’ non si basa, di fatto, su sofisticate argomentazioni sulle frizioni; si basa, ancora una volta, sul concetto che noi “sappiamo” che il denaro deve essere efficace, che questa è la proposizione fondamentale. E si scopre che questo è falso, proprio come il concetto secondo il quale le misure di sostegno della spesa pubblica, nel contesto di aspettative razionali, devono portare ad una ‘spiazzamento’ della spesa privata.
In alternativa, si potrebbe sostenere che l’esperienza dimostra che l’espansione monetaria è efficace anche al livello del limite inferiore dello zero. Anche qua, tuttavia, la negazione del limite inferiore di zero non si fonda su una esperienza empirica; si è supposto che si basi sulla teoria economica basilare, che si scopre non è basilare affatto. E le prove empiriche in verità vanno in tutt’altra direzione. Persino nel 1998 avrei potuto appellarmi alle lezioni degli anni Trenta; oggi abbiamo un sacco di prove maggiori, e tutte appaiono simili a questa [1]:
Dunque, se siete persuasi che l’espansione monetaria deve funzionare, per cortesia spiegatemi perché. Non fate girare le parole a vuoto; come ho detto, probabilmente siete alle prese con giochi di parole ingannevoli, anche se non è la vostra intenzione. Fornitemi una analisi scrupolosa di cosa le persone stanno facendo, e di come le frizioni, qualsiasi esse siano, provochino il risultato fondamentale di eliminare l’impotenza monetaria.
A questo punto, a proposito delle più ampie e indistinte implicazioni: io non mi riferisco a questa spiegazione come una dimostrazione che l’approccio neo keynesiano sia superiore al modello IS – LM. Dopo tutto, quello che essa finisce col fare è un conferma che il modello IS – LM aveva compreso le cose correttamente. E si badi, le persone in verità non si impegnano in quel genere di ottimizzazione che i modelli neo keynesiani considerano. Nella maggioranza dei casi – e so che Simon [2] ed io non siamo su questo in pieno accordo – io penso che i modelli ad hoc, del genere di quello IS – LM, siano migliori per una prima sfoltitura: sono più facili da usare e non vedo alcuna convincente prova che i più graziosi approcci intertemporali forniscano una quadro migliore della realtà.
Eppure, dal momento che sto avanzando un argomento politico con l’uso del modello IS – LM, in particolare se esso è agli antipodi della saggezza politica convenzionale, mi piace farne un controllo incrociato nei confronti di un approccio neo keynesiano, per vedere se posso ottenere un risultato simile. E’ semplicemente un modo per farmi una prima idea, sull’effettivo aumento delle probabilità che ho di dire cose realmente sensate. E desidero anche fare un controllo incrociato con tutti gli argomenti di natura teoretica, hicksiani o neo keynesiani, contro qualsiasi prova che mi possa scoraggiare.
Tutto questo rappresenta una quantità di lavoro maggiore, diciamo, che salmodiare solennemente sui pericoli della svalutazione della moneta, o anche indicare il PIL nominale e sostenere che la Fed avrebbe potuto ottenere un risultato diverso se solo l’avesse voluto. Ma come disse Keynes, la teoria economica è un oggetto difficile e tecnicistico, per quanto nessuno ci creda.
[1] Il diagramma, che riprende una valutazione espressa in un post precedente, mostra in blu l’andamento della base monetaria aggregata in Svizzera, in verde l’andamento sempre in Svizzera dello M1 – cioè l’aggregato monetario composto da banconote, monete e depositi di conto corrente, in rosso l’andamento, sempre in quel paese, dell’indice dei prezzi al consumo.
[2] Simon Wren-Lewis.
dicembre 20, 2014
Dec 20 10:15 am
So more than half of the health advice Dr. Oz gives is either baseless — there’s no evidence for his claims — or wrong — there is evidence, and it contradicts what he says. Julia Belluz tells us not to be surprised:
He is, after all, in the business of entertainment.
But the thing is, there are a lot of Ozzes out there, including in areas you might not consider the entertainment business.
Recently some conference planners tried to recruit me for an event in which I would be presenting the alternative view to the main experts — Arthur Laffer and Stephen Moore. This would be the Art Laffer who among other things warned about soaring inflation and interest rates thanks to the rapid growth in the monetary base (ask the Swiss), and the Stephen Moore who was caught using fake numbers to promote state-level tax cuts.
Obviously these “experts” appeal to the political prejudices of a business audience, but taking their advice would have cost you a lot of money. So why isn’t their popularity dented by the repeated pratfalls? Are they, also, in the entertainment business?
To some extent, the answer is yes. Simon Wren-Lewis had an interesting piece on why the financial sector buys into really bad macroeconomics; he suggested that financial firms aren’t really interested in anything but very short-term forecasting, and that
economists working for financial institutions spend rather more time talking to their institution’s clients than to market traders. They earn their money by telling stories that interest and impress their clients. To do that it helps if they have the same worldview as their clients.
Thinking about Dr. Oz also, I’d suggest, helps explain a related puzzle: even if you grant that the right wants alleged experts who toe the ideological line, why can’t it get guys who are at least competent? Why do they recruit and continue to employ people who can’t do basic job calculations, or read their own tables and notice that they’re making ridiculous unemployment projections, and so on?
My answer has been that anyone competent enough to avoid these mistakes would also be unreliable — he or she might at some point actually take a stand on principle, or at least balk at completely abandoning professional ethics. And I still think that’s part of the story.
But I now also suspect that the personality traits you need to be an effective entertainer on inherently not-so-much-fun subjects like health or monetary policy are inherently at odds with the traits you need to be even halfway competent. If Dr. Oz were the kind of guy who pores over medical evidence to be sure he knows what he’s talking about, he probably couldn’t project the persona that wins him such a large audience. Similarly, a hired-gun economist who actually knows how to download charts from FRED probably wouldn’t have the kind of blithe certainty in right-wing dogma his employers want.
So how do those of us who aren’t so glib respond? With ridicule, obviously. It’s not cruelty; it’s strategy.
L’effetto Oz
Dunque, più della metà dei consigli medici forniti dal Dottor Oz [1] sono o infondati – non c’è alcuna prova delle sue tesi – o sbagliati – la prova c’è, e contraddice quello che lui sostiene. Julia Belluz ci dice di non essere sorpresi:
“Egli, dopotutto, è nel mondo dello spettacolo.”
Ma il punto è che ci sono una quantità di Oz in circolazione, comprese aree nelle quali non pensereste al mondo dello spettacolo.
Di recente alcuni programmatori di conferenze hanno cercato di ingaggiarmi in un evento nel quale avrei presentato il punto di vista alternativo a quello di principali esperti come Arthur Laffer e Stephen Moore. Si sarebbe trattato dell’Art Laffer che tra le altre cose mise in guardia su un picco dell’inflazione e dei tassi di interesse grazie alla rapida crescita della base monetaria (chiedete agli Svizzeri), e lo Stephen Moore che è stato colto in fallo mentre usava numeri falsi per promuovere sgravi fiscali ai livelli degli Stati.
Ovviamente, questi “esperti” fanno appello ai pregiudizi politici di un pubblico di affaristi, ma utilizzare il loro consiglio vi sarebbe costato un quantità di denaro. Dunque, perché la loro popolarità non è scalfita dai loro ripetuti scivoloni? Sono anche loro nel mondo dello spettacolo?
In qualche misura la risposta è affermativa. Simon Wren-Lewis ha scritto un pezzo interessante sui motivi per i quali il settore finanziario abbocca a teorie economiche davvero pessime; egli ha suggerito che le imprese finanziarie non sono veramente interessate a nient’altro che le previsioni nel brevissimo periodo, e che:
“gli economisti che lavorano per le istituzioni finanziarie spendono quasi più tempo a parlare con i clienti dei loro istituti che con gli operatori di mercato. Essi guadagnano soldi raccontando storie che interessano e fanno impressione sui loro clienti. Fare ciò contribuisce a far assumere la stessa visione del mondo dei loro clienti.”
Riflettere sul Dottor Oz, direi, aiuta a chiarire un mistero connesso: anche concesso che la destra desidera supposti esperti che si mettono in linea con il proprio orientamento ideologico, perché non può dotarsi di individui che siano almeno competenti? Perchè ingaggiare e continuare ad occupare persone che non sono nelle condizioni di compiere i calcoli fondamentali sui posti di lavoro, o di leggere le loro stesse tabelle ed accorgersi che stanno facendo stime ridicole sulla disoccupazione, e così via?
La mia risposta è stata che ogni persona sufficientemente competente da evitare questi errori sarebbe anche inaffidabile – dovrebbe trattarsi di un uomo o di una donna che effettivamente restano fermi sui principi, o per lo meno si rifiutano di abbandonare completamente l’etica professionale. E penso ancora che questa sia una parte della spiegazione.
Ma adesso ho anche il sospetto che i tratti della personalità di cui c’è bisogno per essere intrattenitori efficaci su temi non così tanto intrinsecamente divertenti come la salute o la politica sanitaria sono per forza di cose opposti a quei tratti dei quali c’è bisogno per essere almeno mediamente competenti. Se il dottor Oz fosse il genere di individuo che legge attentamente le testimonianze sanitarie per essere sicuro di conoscere ciò di cui sta parlando, probabilmente non potrebbe proiettare l’immagine pubblica che gli fa ottenere un pubblico così vasto. In modo simile, un economista killer di professione che sappia effettivamente come scaricare i diagrammi dalla banca dati delle Federal Reserve, probabilmente non avrebbe quel genere di spensierata certezza nei dogmi della destra che i suoi datori di lavoro vogliono.
Dunque, in che modo rispondono coloro tra noi che no sono così superficiali? E’ evidente, ridicolizzando. Non si tratta di crudeltà; è una strategia.
[1] “The Dr. Oz Show” è un programma televisivo statunitense dedicato alla medicina, in onda dal 2009. È presentato da Mehmet Öz, chirurgo cardiotoracico e insegnante alla Columbia University di New York; almeno così sembrerebbe da Wikipedia. Ma l’articolo al quale Krugman si riferisce, apparso sul blog Vox, è relativo a calcoli fatti da esperti sanitari sul fondamento dei suoi consigli medici, che risulterebbero per metà infondati o sbagliati, appunto.
dicembre 19, 2014
December 19, 2014 5:41 pm
I’ve been having a back-and-forth over monetary policy at the zero lower bound, some of it in public and some in private correspondence, which is basically a continuation of a conversation that reaches back many years. And it occurred to me that even many of the economists I’m talking to don’t know about an analytical approach that, it seems to me, lets you cut through most of the confusion here. It’s the basis of my old 1998 model, but I don’t think people are reading that piece even when I direct them to it. So let me lay out the core insight that changed my own mind about monetary policy in a liquidity trap (and is useful for fiscal policy too.)
What I did in my old analysis was to radically simplify the dynamics by imagining an infinite-horizon model in which all the action takes place in period one. That is, there may be shocks to consumer preferences, or fiscal policy, or monetary policy, but they all take place “now”; after period 2 everything stays the same. What this in turn means is that we can take the period 2 price level and level of consumption as given. In what follows I’ll use an asterisk to refer to period 2 and subsequent values — P* is the period 2 price level, C* the period 2 consumption level — and let un-asterisked symbols refer to period 1.
I also, as a first pass, assume that there is no investment, just consumption.
Now ask the question: what determines period 1 consumption?
Well, if we have rational expectations and frictionless capital markets — which we don’t, but let’s see what would happen if we did — the answer is that the ratio of marginal utility in period 1 to marginal utility in period 2 must equal the relative price of consumption in the two periods, where the relative price is the real discount rate, the rate at which one unit of consumption now can be converted into units of consumption in the future. If r is the nominal one-period interest rate, this says that
MU/MU* = (P/P*)(1+r)
To make things even simpler, assume logarithmic utility, so that marginal utility is 1/C. Then this becomes
C*/C = (P/P*)(1+r)
or
C = C*(P*/P)/(1+r)
So we have an Euler equation that lets us read off current consumption from future consumption, current and future price levels, and the interest rate. And we can take future consumption as given.
Now suppose that we’re in a New Keynesian world in which prices are temporarily sticky; so P is given. And suppose we’re at the zero lower bound, so r=0. Then there’s only one moving part here: the expected future price level. Anything you do — monetary or fiscal — affects current consumption to the extent, and only to the extent, that it moves the expected future price level. Full stop, end of story.
An immediate implication is that the current money supply doesn’t matter. The future money supply matters, because it can affect the future price level, so a permanent increase in M can affect the economy — but that effect works entirely through expectations. What you do now matters only to the extent that people take it as an indication of what you will do in the future. Don’t talk to me about monetary neutrality, or how it stands to reason that money must matter, or helicopter money, or even money-financed deficits; we’ve taken all of that into account en passant with the Euler equation.
Now, if we let households be liquidity-constrained, giving them transfer payments can affect current spending; but that’s a fiscal point, not really about money.
Another perhaps less immediate implication is that there is no crowding out from temporary fiscal expansion. Suppose the government goes out and buys a bunch of stuff while we’re at the zero lower bound. This doesn’t affect future consumption, and therefore doesn’t affect current consumption either. Notice that this is in an approach with full Ricardian equivalence; so every economist who claimed that Ricardian equivalence makes fiscal expansion ineffective has actually shown that he doesn’t understand the concept.
Again, I’m not claiming that this Euler equation is The Truth. If you want to make arguments about policy that rely on some failure of the assumptions, especially imperfect capital markets, fine. But that’s not what I hear in most of this discussion; what I hear instead are attempts to talk things through that end up being, unintentionally, word games. Instead of telling a specific story about what people are supposed to be doing and why, economists try to reason in terms of concepts like monetary neutrality that aren’t as well-defined as they think, and end up fooling themselves into believing that they’ve demonstrated things they haven’t.
Now, one good exception is Brad DeLong’s argument that money does too work in a liquidity trap because such traps are always the result of disrupted financial markets. What I’d say is that they are *sometimes* caused by financial disruption. But is this one of those times? As the chart shows, we had a lot of disruption in 2008-9. Is that still a major factor in our economic weakness? Do we think that Japan’s problems have been rooted in the banking system all these years?
Anyway, that’s how I see it. If you disagree, please try to put your argument in terms of what the people in your model are doing — not in terms of catchphrases.
La semplice analitica dell’impotenza monetaria (per esperti)
Ho in corso un botta e risposta sulla politica monetaria in condizioni di livello inferiore dello zero (dei tassi di interesse), in parte in pubblico e in parte nella corrispondenza privata, che fondamentalmente è la prosecuzione di un dibattito che risale a molti anni indietro. E mi è venuto in mente che persino molti degli economisti con cui sto discutendo non siano al corrente di un approccio analitico che, a me sembra, consente di aprirsi un varco in gran parte della confusione che incombe su questo tema. E’ la base di un mio vecchio modello del 1998, ma non penso che le persone vadano a leggersi quel pezzo, anche quando ve le indirizzo. Consentitemi dunque di metter giù l’intuizione centrale che cambiò il mio stesso modo di pensare sulla politica monetaria in una trappola di liquidità (e che è utile anche per la politica della finanza pubblica).
Quello che io facevo nella mia vecchia analisi era semplificare radicalmente le dinamiche immaginando un modello ad orizzonte-infinito nel quale tutta l’azione ha luogo nel primo periodo. Ovvero, ci possono essere shocks nelle preferenze dei consumatori, nella politica della finanza pubblica, o nella politica monetaria, ma esse avvengono tutte ‘al momento attuale’; con il periodo 2 tutto resta nello stesso modo. Il che significa a sua volta che possiamo considerare come dati il livello dei prezzi e dei consumi del periodo 2. In ciò che segue userò un asterisco per riferirmi ai valori del periodo 2 e successivi – P* è il livello dei prezzi del periodo 2, C* è il livello dei consumi del periodo 2 – e lascio i simboli senza asterischi in riferimento al periodo 1.
Inoltre, come prima approssimazione, assumo che non ci siano investimenti, solo consumi.
Ora poniamoci la domanda: cosa determina i consumi del periodo 1?
Ebbene, se abbiamo aspettative razionali e mercati dei capitali senza frizioni – così non è, ma vediamo cosa accadrebbe se così fosse – la risposta è che il rapporto tra la utilità marginale nel periodo 1 e l’utilità marginale nel periodo 2 dovrebbe eguagliare i prezzi relativi dei consumi nei due periodi, dove il prezzo relativo è il tasso di sconto reale, ovvero il tasso al quale una unità di consumo oggi può essere convertita in unità di consumo nel futuro. Se con “r” definiamo il tasso di interesse del periodo uno, questo ci dice che:
MU/MU* = (P/P*)(1+r) [1]
Per render le cose anche più semplici, consideriamo l’utilità logaritmica, in modo tale che l’utilità marginale sia 1/C. Allora questo diventa:
C*/C = (P/P*)(1+r)
o
C = C*(P*/P)/(1+r)
Abbiamo dunque una equazione di Eulero che ci consente di leggere i consumi attuali dai consumi futuri, i livelli dei prezzi attuali e futuri, ed il tasso di interesse. E possiamo assumere i consumi futuri come dati.
Ora supponiamo di essere in un mondo neo keynesiano nel quale i prezzi siano provvisoriamente vischiosi; dunque P è dato. E supponiamo di essere al livello inferiore dello zero, dunque r=0. In questo caso c’è dunque solo una componente che si muove: il livello atteso dei prezzi futuri. Qualsiasi cosa facciate – sul piano monetario o della finanza pubblica – influenza i consumi attuali nella misura, e solo nella misura, che sposta il livello atteso dei prezzi futuri. Punto, fine della storia.
Una immediata implicazione è che l’offerta attuale di moneta non conta. Conta l’offerta di moneta futura, giacché essa può influenzare il livello futuro dei prezzi, dunque un incremento permanente di M può influenzare l’economia – ma quella influenza opera interamente attraverso le aspettative. Quello che si fa in questo momento conta soltanto nella misura in cui le persone lo considerano una indicazione di cosa farete nel futuro. Non parlatemi di neutralità monetaria, o di come regge la ragione per la quale la moneta deve contare, o di soldi gettati dall’elicottero, o persino di deficit finanziati con creazione di moneta; abbiamo implicitamente messo tutto ciò nel conto con l’equazione di Eulero.
Ora, se consentiamo ai proprietari di essere limitati nella loro liquidità, dare ad essi trasferimenti finanziari può influenzare la spesa in corso; ma questo riguarda la spesa pubblica, non la moneta.
Forse, un’altra implicazione immediata è che non c’è alcuno ‘spiazzamento’ provocato da un temporanea espansione della spesa pubblica. Supponiamo che il governo si impegni ad acquistare un mucchio di roba nel mentre siamo al limite inferiore dello zero. Questo non influenza i consumi futuri e di conseguenza non influenza neppure i consumi attuali. Si noti che questo è un approccio pienamente coerente con l’“equivalenza ricardiana”; dunque ogni economista che sostiene che l’equivalenza ricardiana rende inefficace l’espansione della spesa pubblica in realtà sta dimostrando di non aver afferrato il concetto.
Inoltre, io non sto sostenendo che questa equazione di Eulero sia La Verità. Se volete avanzare argomenti sulla politica che si basa su una serie di difetti degli assunti, in particolare su mercati dei capitali imperfetti, va bene. Ma non è quanto sento dire in gran parte del dibattito; quello che sento, invece, sono tentativi di parlare di cose attraverso quelli che finiscono, non intenzionalmente, coll’essere giochi di parole. Invece di raccontare una storia specifica su cosa si suppone che le persone facciano e perché, gli economisti cercano di ragionare con concetti quali la neutralità monetaria, che non sono così ben definiti come ritengono, e finiscono con l’ingannare sé stessi facendogli credere di aver dimostrato cose che non hanno dimostrato.
Ora, una buona eccezione è l’argomento di Brad DeLong, secondo la quale anche la moneta funziona in una trappola di liquidità, perché trappole del genere sono sempre il risultato di mercati finanziari disturbati. Quello che io direi è che essi “talvolta” sono effetti di perturbazioni finanziarie. Ma questo è uno di quei casi? Come mostra il diagramma, abbiamo avuto una gran quantità di perturbazione nel 2008 – 2009. Eppure, è stato quello un importante fattore della nostra debolezza economica? Si pensa che i problemi del Giappone in tutti questi anni abbiano avuto origine nel sistema bancario?
In ogni modo, così è come io la vedo. Se non siete d’accordo, per favore avanzate i vostri argomenti nei termini di cosa stanno facendo le persone nei vostri modelli – non in termini di frasi fatte.
[1] M, chiaramente, è la moneta, ovvero l’offerta di moneta.
dicembre 19, 2014
Dec 19 11:13 am
I tend to go on a lot about the persistence of inflation paranoia, but it is an amazing thing. A lot of people have been predicting soaring inflation since 2009 if not earlier, and have refused to change their views even though actual events have been nothing like what they predicted — and almost exactly what liquidity-trap theorists predicted, in advance.
There are, however, different levels of denial here. The inflation truthers insist that the government is hiding the real numbers; they’re basically nut cases, with nothing going for them except immense wealth and power. But even among normally sensible conservative economists there has been a remarkable determination to see the non-inflationary story as somehow the result of very special circumstances. For example, Martin Feldstein and others have claimed that it’s all about the 0.25 percent, that’s right, 0.25 percent interest rate the Fed has been paying on excess reserves. Without that, they say, quantitative easing would indeed have produced the big inflation they keep predicting.
So, can we talk about Switzerland?
Switzerland has never paid interest on reserves — and lately it has taken to doing the opposite, charging banks 0.25 percent for the privilege of parking their money at the central bank. So has the Swiss National Bank’s huge increase in the monetary base, which dwarfs what the Fed has done, produced inflation?
Well, look at the included chart. Monetary base up by a factor of eight. Money supply up by much less, because banks didn’t lend the funds out. And consumer prices flat, indeed flirting with deflation.
This is all exactly what a basic liquidity trap model — the one I laid out in 1998 — predicted. So the inflationistas are finally going to concede their mistake, right?
Hey, who said economists lack a sense of humor?
La Svizzera e I falchi dell’inflazione
Tendo a parlare un po’ troppo sulla persistenza della paranoia per l’inflazione, ma è una cosa stupefacente. Una quantità di individui predicono una crescita alle stelle dell’inflazione dal 2009 se non da prima, ed hanno rifiutato di modificare i loro punti di vista anche se gli eventi attuali non sono per nulla simili a quanto avevano previsto – e sono quasi esattamente quello che i teorici della trappola di liquidità avevano previsto in anticipo.
In questo caso ci sono, tuttavia, livelli di negazionismo diversi. I ‘complottisti’ dell’inflazione insistono sul fatto che il Governo sta nascondendo i dati reali; sono fondamentalmente degli svitati, non c’è niente che faccia effetto su di loro se non una immensa ricchezza e potere. Ma persino tra gli economisti conservatori mediamente sensati c’è stata una considerevole determinazione a considerare il racconto non inflazionistico in qualche modo come il risultato di circostanze molto particolari. Ad esempio, Martin Feldstein ed altri, hanno sostenuto che è tutto dipeso dallo 0,25 per cento, proprio così, dallo 0,25 per cento del tasso di interesse che la Fed sta pagando per le riserve in eccesso. Senza di ciò, affermano, la ‘facilitazione quantitativa’ in effetti avrebbe prodotto la grande inflazione che continuano a prevedere.
Dunque, possiamo parlare della Svizzera?
La Svizzera non ha mai pagato interesse sulle riserve – e ultimamente ha preso a fare l’opposto , caricando le banche di uno 0,25 per cento per il privilegio di parcheggiare i loro soldi presso la banca centrale. Dunque, il vasto incremento nella base monetaria della Banca Nazionale Svizzera, che sovrasta quello che ha fatto la Fed, ha prodotto inflazione?
Ebbene, si guardi al diagramma iniziale. La base monetaria cresce di un fattore di otto. L’offerta di denaro cresce molto di meno, perché le banche non danno in prestito all’esterno i fondi. Ed i prezzi al consumo sono piatti, in effetti scherzano con la deflazione.
Questo è esattamente ciò che prevedeva un modello di base della trappola di liquidità – quale quello che io esposi nel 1998. Dunque, gli inflazionisti si stanno finalmente orientando ad ammettere il loro errore, non è così?
Insomma, chi ha detto che agli economisti fa difetto il senso dello humour?
dicembre 16, 2014
December 16, 2014 2:02
Last night I had an austere repast — OK, steak and a lot of red wine — with some civilized financial-industry economists (they do exist), and heard what is apparently the joke du jour: “Money isn’t everything — good health is 2 percent.”
Well, the money supply isn’t everything, either.
Ambrose Evans-Pritchard pushes back against my in-passing criticism of a column I mainly agree with, in which I argued that it’s hard to see why anyone believes that money supply increases will do the trick after the past six years. I understand where Evans-Pritchard is coming from, because I’ve been there. Indeed, it’s where I started. But I had my road-to-Damascus moment — or more accurately road-to-Tokyo moment — back in 1998. And maybe describing my own conversion to monetary pessimism may help clarify what’s happening now.
So, back in 1998 I was looking at Japan’s troubles, and — like Evans-Pritchard and many others now — believed that the Bank of Japan could surely end deflation if it really tried. IS-LM said not, but I was sure that if you really worked it through carefully you could show that, say, doubling the monetary base will always raise prices, even if you’re at the zero lower bound. So I set out to show the point with a minimalist New Keynesian model; link to the little paper I wrote here. (By the way, I screwed up the aside on fiscal policy. In that model, the multiplier is one.)
To my own surprise, what the model actually said was that when you’re at the zero lower bound, the size of the current money supply does not matter at all. You might think that it’s a fundamental insight that doubling the money supply will eventually double the price level, but what the models actually say is that doubling the current money supply and all future money supplies will double prices. If the short-term interest rate is currently zero, changing the current money supply without changing future supplies — and hence raising expected inflation — matters not at all.
And as a result, monetary traction is far from obvious. Central banks can change the monetary base now, but can they commit not to undo the expansion in the future, when inflation rises? Not obviously — and certainly “credibly promising to be irresponsible”, to not undo expansion in the face of future inflation, is a much harder thing to achieve than simply acting when the economy is depressed.
But, asks Evans-Pritchard, what if the central bank simply gives households money? Well, that is, as he notes, really fiscal policy — it’s a massive transfer program rather than a conventional monetary operation. (And Ricardian equivalence, for what it’s worth, says that it would have no effect even if you could do it — households would know that future taxes will have to rise to pay for today’s gift, and save all of it.) You may say that you don’t care what it’s called. But the distinction isn’t just one of academic classification: Central banks aren’t in the business of just giving money away; what they do is always some kind of asset swap, in which they buy assets or make loans which then become assets. I’m pretty sure that neither the Fed nor the Bank of England has the legal right to just give money away as opposed to lending it out; if I’m wrong about this, put me down for $10 million, OK?
Still, isn’t this just theory? Well, no. Huge increases in the monetary base in previous liquidity trap episodes had no visible effect. And now we have the post-2008 experience, and it’s certainly not an example of central banks easily dealing with economic downdrafts.
Just to be clear, I have supported QE in both Britain and the US, on the grounds that (a) central bank purchases of longer-term and riskier assets may help and can’t hurt, and (b) given political paralysis in the US and the dominance of bad macroeconomic thinking in the UK, it’s all we’ve got. But the view I used to hold before 1998 — that central banks can always cause inflation if they really want to — just doesn’t hold up, theoretically or empirically.
I limiti delle politiche puramente monetarie
La scorsa notte mi sono intrattenuto per una cena austera (ammetto, bistecca e tanto vino rosso) con alcuni civilizzati economisti del settore finanziario (ne esiste ancora), ed ho ascoltato quello che sembra il gioco del momento: “Il denaro non è tutto – la buona salute è il 2 per cento”.
Ebbene, neanche l’offerta di denaro è tutto.
Ambrose Evans-Pritchard [1] reagisce a mie critiche occasionali su un articolo che sostanzialmente condivido, nel quale sostenevo che è difficile capire perché tutti credano che gli aumenti dell’offerta di denaro servano al loro scopo, dopo gli ultimi sei anni. Capisco a cosa si stia riferendo Evans-Pritchard, perché vengo da lì. In effetti, è da lì che sono partito. Ma ho avuto il mio momento sulla via di Damasco – o più precisamente il mio momento sulla via di Tokio – nel passato 1998. E forse descrivere la mia propria conversione al pessimismo monetario può contribuire a chiarire cosa sta succedendo oggi.
Dunque, nel passato 1998 stavo osservando i guai del Giappone e – come Evans-Pritchard e molti altri oggi – credevo che la Banca del Giappone avrebbe sicuramente potuto porre termine alla deflazione se realmente ci avesse provato. Il modello IS-LM lo negava, ma io ero certo che se ci si fosse davvero lavorato scrupolosamente si sarebbe potuto dimostrare che, diciamo, il raddoppio della base monetaria avrebbe in ogni caso aumentati i prezzi, anche se si è al limite inferiore dello zero (nei tassi di interesse). Così mi prefissi di dimostrarlo con un modello neo keynesiano minimalista; vi potete connettere qua al piccolo saggio che scrissi (per inciso, rovinai tutta la digressione sulla politica della finanza pubblica. In quel modello, il moltiplicatore è uno).
Con mia stessa sorpresa, quello che il modello effettivamente diceva era che quando si è al limite inferiore dello zero, la dimensione dell’offerta monetaria in corso non conta affatto. Voi potreste pensare che l’intuizione secondo la quale raddoppiare l’offerta di moneta alla fine raddoppierà il livello dei prezzi sia fondamentale, ma quello che il modello in verità dice è che raddoppiare l’offerta di moneta corrente e tutta l’offerta di moneta futura raddoppierà i prezzi. Se il tasso di interesse a breve termine è effettivamente zero, cambiare l’offerta di moneta corrente senza modificare le offerte future – e di conseguenza senza aumentare l’inflazione attesa – non ha alcun rilievo.
E come conseguenza, la trazione monetaria è lungi dall’essere evidente. Le banche centrali possono cambiare la base monetaria oggi, ma possono impegnarsi a non annullare l’espansione nel futuro, quando l’inflazione sale? Non è così semplice – e certamente “promettere credibilmente di essere irresponsabili”, di non disfare l’espansione a fronte di una inflazione futura, è una cosa molto più difficile da ottenere del semplice agire quando l’economia è depressa.
Ma, chiede Evans-Pritchard, cosa accade se la banca centrale semplicemente offre denaro ai proprietari di abitazioni? Ebbene, in realtà quella, come lui nota, è politica della spesa pubblica – è un massiccio programma di trasferimento piuttosto che una operazione monetaria convenzionale (e l’”equivalenza ricardiana”, per quello che conta, dice che non ci sarebbe alcun effetto anche se si facesse in quel modo – i proprietari di abitazioni saprebbero che le tasse future dovranno crescere per ripagare il regalo di oggi, e risparmiarlo per intero). Potete dire che non vi interessa il modo in cui lo si definisce. Ma la distinzione non è semplicemente del genere delle classificazioni accademiche: l’impresa delle banche centrali non consiste soltanto nel regalare soldi; quello che esse fanno è sempre un qualche genere di scambio di asset, nel quale esse acquistano asset o danno prestiti che poi diventano asset. Sono quasi sicuro che la Fed o la Banca di Inghilterra non hanno il diritto legale di regalare semplicemente denaro, in alternativa a darlo in prestito; se su questo mi sbaglio, segnatemi per 10 milioni di dollari, d’accordo?
Ancora: ma questa non è semplicemente teoria? Ebbene, no. Ampi incrementi nella base monetaria in precedenti trappole di liquidità non hanno avuto effetti visibili. Ed oggi abbiamo l’esperienza successiva al 2008, ed essa non è certamente un esempio di banche centrali che si misurano facilmente con congiunture economiche negative.
Solo per chiarezza, io ho sostenuto sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, la ‘facilitazione quantitativa’, in considerazione che: a) gli acquisti da parte delle banche centrali di asset a più lungo termine e più rischiosi possono dare un aiuto e non possono far danno; b) data la paralisi politica negli Stati Uniti e il predominio di un pessimo pensiero macroeconomico nel Regno Unito, era tutto quello che si poteva avere. Ma il punto di vista che solitamente avevo prima del 1998 – secondo il quale le banche centrali possono sempre provocare inflazione se lo vogliono effettivamente – semplicemente non regge, teoreticamente ed empiricamente.
[1] L’articolo è apparso sul blog inglese “The Telegraph” il 15 dicembre 2014.
dicembre 10, 2014
Jean-Claude Yellen
December 10, 2014 2:34 pm
The Fed definitely seems to be gearing up for monetary tightening, even though inflation remains below target. And I’m with Ryan Avent: this will, if it happens, be a big mistake — just as Jean-Claude Trichet’s decision to raise rates in Europe in 2011 was a big mistake, just as the Swedish Riksbank’s early rate hike was a mistake, just as Japan’s rate hike in 2000 was a mistake.
And you would think that the Fed would understand that. In fact, I suspect it does, and is somehow letting itself be bullied into doing the wrong thing anyway. More on that in a minute.
First, on the policy substance: The point is not that we know that we’re still far from full employment. I think we are, but the truth is that I don’t know, you don’t know, and Stan Fischer doesn’t know. So the question is one of weighing the risks. And the fact is that the damage the Fed would do if it hikes rates too soon vastly outweighs the damage it would do if it waits too long.
Suppose the Fed waits too long. Well, inflation ticks up — probably not much, since the short-run Phillips curve looks very flat. And the Fed has the tools to rein the economy in. It would be annoying, unpleasant, and no doubt there would be Congressional hearings berating the Fed for debasing the dollar etc.. But not a really big problem.
Suppose, on the other hand, that the Fed raises rates, and it turns out that it should have waited. This could all too easily prove disastrous. The economy could slide into a low-inflation trap in which zero interest rates aren’t low enough to achieve escape — which has happened in Japan and is pretty clearly happening in the euro area. Also, there is now very strong reason to suspect that a protracted slump will inflict large losses on the economy’s future productive capacity.
And if someone tells you that these risks aren’t that big, consider this: we used to be told that 2 percent inflation was enough to make the risks of hitting the zero lower bound minimal — less than 5 percent in any given year. In fact, however, of the roughly 20 years since inflation dropped to circa 2 percent, 6 years — 30 percent! — have been spent in a liquidity trap. This says that we should be very afraid of missing our chance to escape from the trap out of an urge to normalize monetary policy too soon.
The thing is, I know that Janet Yellen, Stan Fischer, and the Fed staff know this — they’re very familiar with recent history and all the relevant economic analysis. So why do they seem to be rhetorically preparing the ground for early rate hikes?
My guess — and it’s only that — is that they have, maybe without knowing it, been bludgeoned into submission by the constant attacks on easy money. Every day the financial press, many of the blogs, cable financial news, etc, are full of people warning that the Fed’s low-rate policy is distorting markets, building up inflationary pressure, endangering financials stability. Hard-money arguments, no matter how ludicrous, get respectful attention; condemnations of the Fed are constant. If I were a Fed official, I suspect that I would often find myself wishing that the bludgeoning would just stop, at least for a while — and perhaps begin looking for an opportunity to prove that I’m not an inflationary money-printer, that I can take away punchbowls too.
So my guess is that the Fed, given an improving US job market, is strongly tempted to buy some peace by hiking rates a little, just to quiet the critics for a few months.
But the objective case for a rate hike just isn’t there. The risks of premature tightening are huge, and should not be taken until we have a truly solid recovery that includes strong wage gains and inflation clearly on track to rise above target. We don’t have any of that, and if the Fed acts nonetheless, it has the makings of tragedy.
Jean-Claude Yellen [1]
La Fed sembra stia definitivamente ingranando la marcia di una restrizione monetaria, anche se l’inflazione resta al di sotto dell’obbiettivo. Ed io concordo con Ryan Avent: questo, se accadrà, sarà un grave errore – proprio come la decisione di Jean-Claude Trichet di elevare i tassi nell’Europa del 2011 fu un grave errore, proprio come fu un errore il prematuro rialzo del tasso della Riksbank svedese, proprio come lo fu il rialzo del tasso in Giappone nel 2000.
E si penserebbe che la Fed sia nelle condizioni di capirlo. Di fatto, io ho il sospetto che lo capisca, e in qualche modo si sia intimorita da sola a fare in ogni caso la cosa sbagliata. Su questo verrò tra un attimo.
Anzitutto, la sostanza politica: il punto non è che noi sappiamo di essere ancora lontani dalla piena occupazione. Io penso che lo siamo, ma la verità è che non lo so, che non si sa, che Stan Fisher non lo sa. Cosicché la domanda è quella relativa a come si soppesano i rischi. E il fatto è che il danno che la Fed farebbe alzando i tassi troppo presto supera ampiamente il danno che farebbe se aspetta troppo a lungo.
Supponiamo che la Fed aspetti troppo a lungo. Ebbene, l’inflazione avrebbe un ritocco – probabilmente non elevato, dato che la curva di Phillips nel breve periodo appare piatta. E la Fed ha gli strumenti per tenere l’economia sotto controllo. Sarebbe fastidioso, spiacevole, e non c’è dubbio che ci sarebbero audizioni presso il Congresso nella quali si rimprovererebbe la Fed di svalutare il dollaro etc. Ma davvero non sarebbe un gran problema.
Supponiamo, d’altra parte, che la Fed elevi i tassi, e si scopra che avrebbe dovuto attendere. Potrebbe anche troppo facilmente dimostrarsi disastroso. L’economia potrebbe scivolare in una trappola di bassa inflazione nella quale i tassi di interesse allo zero non sono abbastanza bassi da ottenere una via d’uscita – che è quello che è accaduto nel Giappone ed abbastanza chiaramente sta accadendo nell’area euro. Inoltre, c’è oggi una ragione assai forte per sospettare che una crisi perdurante infliggerà ampie perdite alla futura capacità produttiva dell’economia.
E se qualcuno vi dice che questi rischi non sono così grandi, si consideri questo: eravamo abituati a sentir dire che un 2 per cento di inflazione era sufficiente a ridurre al minimo i rischi di sbattere sul limite inferiore dello zero – meno del cinque per cento per ogni anno [2]. Di fatto, tuttavia, nei grosso modo venti anni nel quali l’inflazione è scesa a circa il 2 per cento, 6 anni – il trenta per cento! – li abbiamo spesi in una trappola di liquidità. Questo ci dice che dovremmo essere molto intimoriti di perdere la nostra possibilità di sfuggire dalla trappola e del bisogno di normalizzare la politica monetaria in modo troppo rapido.
Il punto è che io so che Janet Yellen, Stan Fisher e lo staff della Fed sono al corrente di tutto questo – essi hanno familiarità con la storia recente e con tutte le analisi economiche importanti. Dunque, perché sembrano star preparando con la retorica del caso il terreno a prematuri rialzi del tasso?
La mia impressione – si tratta solo di questo – è che essi, magari senza accorgersene, siano stati forzati a sottomettersi dai continui attacchi sulla moneta facile. Ogni giorno la stampa finanziaria, molti blog, le reti dei notiziari finanziari etc. sono pieni di individui che mettono in guardia che la politica dei bassi tassi della Fed sta distorcendo i mercati, creando una pressione inflazionistica, mettendo a rischio la stabilità finanziaria. Gli argomenti per una valuta forte, non conta quanto ridicoli, ottengono una rispettosa attenzione; le condanne alla Fed sono continue. Se io fossi un dirigente della Fed, suppongo che mi ritroverei spesso a desiderare che quel martellamento semplicemente si interrompa, almeno per un po’ – e forse comincerei a cercare una opportunità per dimostrare che non sono un inflazionista creatore di moneta, che alla bisogna posso togliere di mezzo la tazza del ponce [3].
Dunque, la mia impressione è che la Fed, dato un miglioramento del mercato del lavoro statunitense, sia fortemente tentata di acquistarsi un po’ di pace innalzando un po’ i tassi, quello che basta per calmare i critici per alcuni mesi.
Ma la situazione oggettiva per un rialzo del tasso proprio non c’è. I rischi di una restrizione prematura sono ampi, e non si dovrebbe correre quei rischi sinché non si abbia una ripresa veramente solida che includa forti aumenti salariali ed una inflazione chiaramente prossima a salire oltre l’obbiettivo. Noi non abbiamo niente del genere, e se la Fed in ogni caso agisce, ci sono tutte le premesse di una tragedia.
[1] Come è evidente, l’ironia del titolo consiste nel combinare il nome del passato Presidente della BCE Trichet – Jean-Claude – con il cognome di Janet Yellen; ovvero di ipotizzare che la presidentessa della Fed, pur venendo da tutt’altra cultura economica, stia correndo lo stesso rischio che portò in Europa nel 2011 ad un abbastanza incredibile aumento del tasso di riferimento.
[2] Cioè, meno del 5 per cento di rischio.
[3] Espressione del gergo finanziario americano, che indica come il compito consueto di una banca centrale, quando l’economia si riprende, sia quello di restringere e di frenare gli entusiasmi (ovvero, togliere di mezzo gli alcoolici quando la festa si riscalda).
dicembre 9, 2014
Dec 9 8:06 am
Tim Duy, in the course of a discussion of the outlook for Fed policy, reminds us of the spring of 2011, when headline inflation had risen a lot mainly due to oil prices. He portrays Ben Bernanke as being all alone in insisting that the inflation bump was a blip, and would soon fade away. Actually, that’s not quite right; as far as I recall, most saltwater economists agreed. I was writing about it often. And the Fed, after all, routinely focuses on core inflation rather than headline numbers. Still, Bernanke was definitely under pressure.
What Duy doesn’t say is that the inflation fight of 2011 was about more than inflation; it was another aspect of the fight over how the economy works – and another big victory for the Keynesian view. The concept of core inflation arises out of the notion that most prices are “sticky”, revised only on occasion, and that when they are revised they are set taking into account expected inflation over some length of time looking forward.
As I tried to explain early on, this means that we need to distinguish between an underlying, sluggish inflation rate that is hard either to increase or reduce, and fluctuations around that rate reflecting more volatile prices. Standard measures of core inflation are imperfect ways of getting at this distinction, but they are vastly better than the headline numbers – and have been hugely vindicated by the experience of recent years. So I’m glad to see all the people who issued dire warnings about inflation in 2011 acknowledging that they had the wrong model. Hahahahaha.
And yes, this means that you should discount the effects of falling oil prices in the same way you discount the effects of rising oil prices. I would nonetheless urge the Fed to hold off on rate hikes, but for different reasons – the asymmetry in risks between raising rates early and raising them late. And I worry that the Fed may be losing the thread here (hi Stan!). But that’s another topic.
Profili di inflazione sostanziale
Tim Duy, nel corso di un dibattito sulle prospettive per la politica della Fed, ci ricorda della primavera del 2011, quando l’inflazione ‘apparente’ [1] ebbe una notevole crescita dovuta principalmente ai prezzi del petrolio. Egli ci descrive un Ben Bernanke isolato nel ribadire che la ‘gobba’ dell’inflazione era sostanzialmente un’apparenza, e sarebbe rapidamente svanita. Per la verità, questo non è del tutto giusto: per quanto io ricordi, molti economisti dell’”acqua salata” [2] erano d’accordo. E, dopo tutto, la Fed normalmente si concentra sull’inflazione sostanziale piuttosto che sui dati complessivi. Eppure, Bernanke sicuramente finì sotto pressione.
Quello che Duy non dice è che la battaglia per l’inflazione del 2001 riguardò altro oltre all’inflazione; essa fu un altro aspetto della battaglia relativa a come l’economia funziona – ed un altro grande successo per il punto di vista keynesiano. Il concetto di inflazione sostanziale deriva dall’idea che gran parte dei prezzi sono “vischiosi”, vengono modificati solo occasionalmente, e che quando sono rivisitati sono fissati in modo da mettere nel conto l’inflazione attesa per un certo periodo di tempo in avanti.
Come cercai di spiegare dagli inizi, questo significa che abbiamo bisogno di distinguere tra un sottostante, fiacco tasso di inflazione che è difficile sia incrementare che ridurre, e fluttuazioni attorno a quel tasso che riflettono prezzi più volatili. Le misure standard dell’inflazione sostanziale sono modi imperfetti per dar conto di questa distinzione, ma sono enormemente migliori dei dati complessivi – e sono state ampiamente confermate dalla esperienza degli anni recenti. Sono dunque contento di constatare che le persone che misero in giro ammonimenti terribili sull’inflazione del 2011 riconoscono di aver avuto il modello sbagliato. (Risata fragorosa!)
E sì, questo significa che si dovrebbe non considerare gli effetti della caduta dei prezzi del petrolio, nello stesso modo in cui non si considerano gli effetti dell’aumento dei prezzi del petrolio. Vorrei nondimeno sollecitare la Fed ad astenersi da aumenti del tasso, ma per diverse ragioni – la asimmetria dei rischi tra l’aumentare i tassi prematuramente e l’aumentarli tardivamente. E sono preoccupato che in questo caso la Fed stia perdendo il filo (ehi, Stan! [3]). Ma questa è un’altra faccenda.
[1] Normalmente si traduce “headline inflation” con “inflazione complessiva” – ovvero con il calcolo sulla inflazione che include tutti i prezzi, compresi quelli maggiormente volatili delle materie prime e dei prodotti energetici. Di contro, si traduce “core inflation” con “inflazione sostanziale”, perché l’esclusione di tali beni consente di cogliere con maggiore esattezza gli andamenti reali, eliminando i fattori normalmente fluttuanti. Poiché è in questo senso che spesso Krugman ed altri usano i due termini, talora traduco “headline inflation” con inflazione ‘apparente’, che è quello che in sostanza si intende. Vedi anche alle note sulla traduzione.
[2] Per “freshwater and saltwater economist” vedi le note sulla traduzione.
[3] Dovrebbe trattarsi di Stan Fisher, un economista originario dello Zambia e di recente approdato alla Fed – nel ruolo di vice della Yellen – dopo un lungo periodo come Governatore alla Banca centrale di Israele.
dicembre 8, 2014
Dec 8 4:32 pm
I am trying to get up to speed on the impact of the oil price plunge, and one of the important stories is unfolding in Putin’s Russia. Obviously Russia’s problems stem from other things besides the oil price, namely Ukraine and the fallout thereof. Still, it’s pretty striking just how fast the financial situation seems to be unraveling. The bond vigilantes aren’t invisible in Moscow — 10-year interest rates, which were below 8 percent early this year, hit 12.67 percent today.
The question one might ask is, why is Russia so vulnerable? It has, after all, run large current surpluses over time; overall, it’s a creditor, not a debtor nation. But there are a lot of external debts all the same, reflecting private sector borrowing — and foreign currency reserves are dropping fast in part thanks to private capital flight.
What this reminds me of was one of the corners of the 1980s Latin American debt crisis, which preoccupied me during my year in Washington back in 1982-3. Venezuela then, like Russia now, was a petro-economy which had consistently run external surpluses. But it was nonetheless a vulnerable debtor, because all those external surpluses and more had in effect been recycled into overseas assets of the corrupt elite.
Of course, Venezuela didn’t have nukes.
La Russia del 2015 è il Venezuela del 1983?
Sto cercando di mettere assieme le cose per accelerare sull’impatto della caduta del prezzo del petrolio, e uno dei racconti importanti si sta svolgendo nella Russia di Putin. Ovviamente, i problemi della Russia derivano da altre cose oltre al prezzo del petrolio, in particolare dall’Ucraina e dalle conseguenze negative che ne sono derivate. Eppure, è proprio abbastanza sorprendente con quanta velocità la situazione finanziaria pare si stia sbrogliando. A Mosca i ‘guardiani del bond’ non stanno con le mani in mano – i tassi di interesse decennali, che erano sotto l’8 per cento agli inizi di quest’anno, hanno toccato oggi il 12,67 per cento.
La domanda che si potrebbe porre è: perché la Russia è così vulnerabile? Dopo tutto, essa ha da tempo una serie di ampi surplus correnti; soprattutto, è una nazione creditrice, non debitrice. Ciononostante ci sono una quantità di debiti verso l’estero, che riflettono l’indebitamento del settore privato – e le riserve in valuta estera stanno diminuendo rapidamente, in parte grazie alla fuga dei capitali privati.
Il che mi riporta alla mente quale fosse uno degli spigoli della crisi latino americana del debito degli anni ‘80, che mi preoccupava durante il mio anno a Washington. Il Venezuela allora, come la Russia oggi, era una economia del petrolio che aveva avuto una cospicua serie di surplus verso l’estero. Ciononostante era un debitore vulnerabile, perché tutti quei surplus verso l’esterno ed altro ancora erano stati in effetti riciclati in asset oltreoceano dell’élite corrotta.
Naturalmente, il Venezuela non aveva le testate nucleari.
dicembre 7, 2014
December 7, 2014 7:22 pm
Brad DeLong is puzzled by some of what Ken Rogoff has to say about Japan, specifically his warning that Japan could face an attack from invisible bond vigilantes if it doesn’t quickly tackle long-run fiscal issues. I’m puzzled too, although it’s not just Rogoff — quite a few sensible people say similar things, and the truth is that I said such things about the US back in 2003.
But I was wrong, for reasons I laid out at length in my Mundell-Fleming lecture at the IMF last year. And in an important way I was just reiterating points that should have been clear from Rogoff’s own Mundell-Fleming lecture (pdf), back in 2001. And I’m a bit surprised that Ken doesn’t see it that way.
Back in 2001 Ken surveyed the impact of Rudi Dornbusch’s “overshooting” model of exchange rates, which had an enormous impact on international macroeconomics, and arguably saved it from much of the nonsense that afflicted domestic macro. At the core of Rudi’s analysis was his resolution of what might seem like a paradox. Here’s the question: Suppose that for some reason a central bank increases the money supply, and that everyone believes that the increase is permanent. What happens to the exchange rate?
As Rudi pointed out, just about everyone agrees that in the long run the currency must depreciate, roughly in proportion to the money expansion. But in the short run, in a world of sticky prices — and anyone who looks at real exchange rates knows that we do, indeed, live in a world of sticky prices — the money expansion reduces interest rates. Now the seeming paradox: offered a lower interest rate than they can get in other countries, investors won’t want to hold a country’s bonds unless they expect its currency to rise; yet given the money increase, we should expect the currency to fall.
Rudi’s answer was that the currency must overshoot: it must drop below its long run value, so that it can be expected to rise thereafter, like this:
Which brings us to the invisible bond vigilantes. Suppose that they are really out there, and that they suddenly demand that Japanese 10-year bonds offer a rate of return 200 basis points higher than US 10-year bonds. You might be tempted to say that Japanese interest rates will spike — but the Bank of Japan controls short-term rates, and long-term rates are mainly an average of expected short-term rates, so how is this supposed to happen?
No, the resolution of the puzzle is that rates wouldn’t rise. Instead, the yen would depreciate now so that investors can expect it to appreciate later. And this yen depreciation would be expansionary, not contractionary, in its effects on the Japanese economy. Given Japan’s current situation, the invisible vigilantes would be doing Japan a favor if they suddenly materialized and attacked!
I’ve had many discussions with smart people about this, and have never gotten an explanation of why it’s wrong; we usually end up with something like a warning that Japanese deflation might suddenly turn into uncontrolled inflation, which seems unlikely and certainly isn’t the way the warnings are usually phrased — we’re supposed to worry about turning into Greece 2010, not Weimar 1923.
You might think that what we’re talking about is the lessons of history — but as far as I can tell, there are no historical examples of countries with debts in their own currency facing a Greek-style crisis. As I say in the linked paper, the closest I can find is the French franc crisis of the 1920s, and the fall of the franc was inflationary and expansionary, not contractionary.
And it seems very strange to be lecturing Japan about the dangers of a crisis you can neither explain clearly in terms of an economic model nor justify by appeal to any relevant historical precedent.
Shinzo e gli invisibili
Brad DeLong è sconcertato da quello che Ken Rogoff ha da dire sul Giappone, in particolare per il suo ammonimento che il Giappone potrebbe subire un attacco dagli invisibili ‘guardiani dei bond’ [1] se rapidamente non affronta i temi di lungo periodo della finanza pubblica. Sono sconcertato anch’io, sebbene non si tratti solo di Rogoff – un certo numero di persone ragionevoli dicono cose simili e la verità è che io dissi cose del genere sugli Stati Uniti nel passato 2003.
Ma avevo torto, per ragioni che ho esposto per esteso in occasione della mia conferenza al FMI in onore di Mundell-Fleming l’anno scorso [2]. E in un certo senso avevo ribadito concetti che dovevano essere chiari dalla conferenza dello stesso Rogoff in occasione della conferenza Mundell-Fleming del passato 2001 (disponibile in pdf). E sono un po’ sorpreso che Ken non veda in che senso.
Nel passato 2001 Ken esaminò l’impatto del modello relativo ai tassi di cambio che “oltrepassano il bersaglio”, che ebbe un effetto enorme nella macroeconomia internazionale, e probabilmente la salvò da molte delle insensatezze che affliggono la teoria economica relativa ad una nazione singola. Al centro della analisi di Rudi ci fu la sua soluzione a quello che poteva sembrare un paradosso. Ecco la domanda: supponiamo che per qualche ragione una banca centrale aumenti l’offerta di denaro, e che tutti credano che l’incremento sia permanente. Cosa accade al tasso di cambio?
Come Rudi mise in evidenza, praticamente tutti concordano che nel lungo periodo la valuta deve deprezzarsi, grosso modo in proporzione alla espansione monetaria. Ma nel breve periodo, in un mondo di prezzi vischiosi – e tutti quelli che osservano i tassi di cambio reali sanno che in effetti viviamo per davvero in un mondo di prezzi vischiosi – l’espansione della base monetaria riduce i tassi di interesse. Da qui l’apparente paradosso: gli investitori, dinanzi all’offerta di un tasso di interesse più basso di quello che possono ottenere in altri paesi, non vorranno detenere i bond di un paese se non si aspettano che la sua valuta cresca di valore; tuttavia, dato l’aumento della base monetaria, ci dovremmo aspettare cha la valuta riduca il suo valore.
La risposta di Rudi fu che la valuta deve “oltrepassare il bersaglio”: essa deve scendere al di sotto del suo valore di lungo periodo, cosicché ci si possa aspettare che salga successivamente, in questo modo:
La qualcosa ci riporta agli invisibili ‘guardiani dei bond. Supponiamo che essi esistano realmente da qualche parte, e che essi all’improvviso chiedano che i bond decennali giapponesi offrano un tasso di rendimento superiore di 200 punti base ai bond decennali statunitensi. Sareste tentati di dire che i tassi di interesse debbano avere un’impennata – ma i tassi di interesse a breve termine sono controllati dalla Banca del Giappone, ed i tassi di interesse a lungo termine sono principalmente in media con le aspettative sui tassi a breve, cosicché come si pensa che accada?
No, la soluzione del mistero è che i tassi non crescerebbero. Piuttosto, lo yen a quel punto si svaluterebbe, cosicché gli investitori possano aspettarsi che si rivaluti in seguito. E questa svalutazione dello yen avrebbe effetti espansivi, non di contrazione, sull’economia giapponese. Data la attuale situazione del Giappone, i guardiani invisibili farebbero un favore al Giappone se di punto in bianco si materializzassero ed andassero all’attacco!
Ho avuto molte discussioni con persone acute su questo aspetto, e non ho mai ricevuto una spiegazione del perché sarebbe sbagliato; di solito finiamo con qualcosa di simile ad una messa in guardia che la deflazione giapponese potrebbe all’improvviso trasformarsi in una inflazione incontrollata, la qualcosa sembra improbabile e certamente non è il modo in cui gli ammonimenti vengono normalmente espressi – si suppone che ci si preoccupi di finire come la Grecia del 2010, non come la Germania del 1923.
Potreste pensare che stiamo ragionando delle lezioni della storia – ma, per quanto possa dire, non ci sono esempi storici di paesi con debiti nella loro valuta che si trovano dinanzi ad una crisi sul modello greco. Come ho detto nel saggio cui mi sono riferito, il caso più vicino che posso trovare è la crisi del franco degli anni ’20, e la caduta del franco fu inflazionistica ed espansiva, non ebbe effetti restrittivi.
E sembra molto strano che si facciano prediche sui pericoli di una crisi che non si può né spiegare chiaramente in termini di modello economico né giustificare facendo appello a qualsiasi rilevante precedente storico.
[1] Vedi le note sulla traduzione a “bonds vigilantes”.
[2] Tradotta in questo blog, alla sezione “Saggi, articolo su riviste di Krugman ed altri” (“Regimi valutari, flussi di capitali e crisi”, 27 ottobre 2013).
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