Blog di Krugman

Accordi cinesi (12 novembre 2014)

 

Nov 12 4:35 pm

China Deals

I wish that I believed that logic and reason played any role in the politics of climate change. Because if I did, the news of the US-China deal on carbon emissions would be a moment for sudden new optimism.

After all, one of the main arguments the usual suspects make against action — after arguing that it’s all a gigantic hoax, any limits on emissions will destroy the economy, and liberals are ugly — is that nothing the US does can matter, because China will just keep on emitting. Some of us have long argued that this is way too pessimistic — that the advanced countries, if they are willing to limit their own emissions, can have a lot of leverage via the threat of carbon tariffs. But now China is showing itself willing to deal even without that.

So you could say that a major prop of the anti-climate-action campaign has just been knocked away. But as I said, it probably won’t matter; they’ll just come up with another excuse.

 

Accordi cinesi

Vorrei poter credere che la logica e la ragione giochino un ruolo nella politica sul cambiamento del clima. Perché se lo facessi, le notizie sull’accordo tra Stati Uniti e Cina sulle emissioni di anidride carbonica sarebbero una occasione di improvviso nuovo ottimismo.

Dopo tutto, uno dei principali argomenti che i soliti noti usano contro ogni iniziativa – dopo aver sostenuto che si tratta di una balla colossale, che ogni limite alle emissioni distruggerà l’economia, e che i liberals sono dei brutti ceffi – è che nulla di quello che fanno gli Stati Uniti ha importanza, perché la Cina continuerà semplicemente ad inquinare. Alcuni di noi hanno a lungo sostenuto che questo è davvero troppo pessimistico – che i paesi avanzati, se hanno la volontà di limitare le proprie emissioni, possono avere molto su cui far leva attraverso la minaccia di tariffe sull’anidride carbonica. Ma oggi la Cina si sta mostrando disponibile all’accordo anche senza di ciò.

Si direbbe dunque che un importante pilastro della campagna ostile alle iniziative sul clima sia proprio stato abbattuto. Ma, come ho detto, probabilmente non avrà importanza: se ne verranno soltanto fuori con un’altra scusa[1].

 

 

1] Chiaramente, il riferimento è ai conservatori americani ostili alle legislazioni sul clima.

Sulla stagnazione del reddito (12 novembre 2014)

novembre 12, 2014

 

Nov 12 4:27 pm

On Income Stagnation

Sorry about lack of posting; I’m scrambling on a couple of fronts, most crucially textbook revisions …

But I did want to share a couple of thoughts on the income stagnation issue, where a piece by David Leonhardt has been deservedly getting a lot of attention.

The first point is that although Leonhardt talks about wages, the chart he shows is median income, which is a somewhat different story. Wages for ordinary workers have in fact been stagnant since the 1970s, very much including the Reagan years, with the only major break during part of the Clinton boom. My first chart shows wages of production and nonsupervisory workers in 2014 dollars; we have never gotten back to 1973 levels.

z 255

 

 

 

 

 

 

 

 

The second point is that rising inequality is a big part of the story for stagnating household incomes. My second chart shows real GDP per household — nominal GDP, deflated by the consumer price index, divided by the total number of households; and compares it with median household income, both expressed as indexes with 1979=100. We’ve had substantial income growth since then, but very little for the median household, because so much of it has gone to the top.

z 256

 

 

 

 

 

 

 

 

So if Republicans are gaining from public frustration here, it is ironic. After all, the GOP is systematically opposed to anything that would increase workers’ bargaining power, and bitterly opposed to any suggestion that inequality is an issue — what we need, they say, is growth, which will raise all incomes (even though it hasn’t).

 

Sulla stagnazione del reddito

Spiacente per la carenza di note: mi sto strapazzando su un paio di fronti, il più importante quello della revisione del libro di testo …

Ma intendevo condividere un paio di pensieri sul tema della stagnazione dei redditi, a proposito del quale un articolo di David Leonhardt sta ottenendo meritatamente molta attenzione.

Il primo punto è che, sebbene Leonhardt parli di salari, il diagramma che mostra è il reddito mediano, che è in qualche modo una cosa diversa. Di fatto, i salari dei normali lavoratori sono stagnanti dagli anni ’70, includendo del tutto anche gli anni di Reagan, con l’unica importante interruzione durante una parte della espansione con Clinton. La mia prima tabella mostra i salari dei lavoratori alla produzione e non con funzioni di controllo e sorveglianza in dollari del 2014; non siamo mai tornati ai livelli del 1973.

z 255

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il secondo punto è che la crescente ineguaglianza è gran parte della storia dei redditi stagnanti delle famiglie. Il mio secondo diagramma mostra il PIL reale per famiglia – il PIL nominale, deflazionato sulla base dell’indice dei prezzi al consumo e diviso per il numero di famiglie; e lo confronta con il reddito medio di una famiglia, entrambi espressi come numeri indice, con il 1979 fatto uguale a 100. A partire da allora abbiamo avuto una sostanziale crescita del reddito, ma molto piccola per la famiglia media, perché gran parte della crescita è andata ai più ricchi.

z 256

 

 

 

 

 

 

 

 

Dunque, se i repubblicani stanno avvantaggiandosi per la frustrazione dell’opinione pubblica, la cosa è comica. Dopo tutto, il Partito Repubblicano si è sistematicamente opposto a tutto ciò che avrebbe potuto accrescere il potere di contrattazione dei lavoratori, e si è aspramente opposto ad ogni suggestione secondo la quale l’ineguaglianza è un problema – ciò che ci serve, dicono, è la crescita, che alzerà tutti i redditi (anche se non è così).

La misteriosa Fed (10 novembre 2014)

novembre 10, 2014

 

Nov 10 7:43 am

The Mysterious Fed

As usual, my inbox is full of speculations about when the Fed will raise interest rates. June 2015? Earlier? Has it already waited too long?

And as usual, I wonder why anyone is talking about this at all. Yes, unemployment has fallen. But there is huge ambiguity about what level of unemployment is sustainable given changing demography, the uncertain degree to which people might return to the work force given better job availability, and so on. There’s also a huge asymmetry in risks between raising rates too soon — which can leave us stuck in a low inflation or deflation trap for a very long time — and raising rates a bit too late, which at worst means temporarily overshooting an inflation target that’s arguably too low anyway.

Meanwhile, both the Fed’s preferred measure of inflation and wages are showing no hint of an overheating economy:

z 254

 

 

 

 

 

 

 

 

So what the heck is going on? Maybe it’s just pluralistic ignorance?

 

La misteriosa Fed

Come al solito, la mia corrispondenza è piena di congetture su quando la Fed alzerà i tassi di interesse. A giugno del 2015? Prima? Ha già aspettato troppo a lungo?

E come al solito, mi chiedo perché tutti stiano parlando di questa questione. E’ vero, la disoccupazione è scesa. Ma c’è grande ambiguità su quale sia il livello di disoccupazione sostenibile considerati i cambiamenti nella demografia, sull’incerta misura nella quale le persone possano tornare al lavoro sulla base della disponibilità di migliori posti di lavoro, e così via. C’è anche una grande asimmetria di rischi tra l’elevare troppo presto i tassi di interesse – che ci possono far impantanare in una trappola di bassa inflazione o di deflazione per un periodo molto lungo – oppure elevarli un po’ troppo tardi, che nel peggiore dei casi comporta un temporaneo superamento dell’obbiettivo di inflazione che, probabilmente, è in ogni caso troppo basso [1].

Nel frattempo, le misurazioni preferite della Fed in materia sia di inflazione che di salari non stanno mostrando alcun cenno di surriscaldamento dell’economia:

z 254

 

 

 

 

 

 

 

 

Che cosa diavolo sta accadendo, dunque? Forse si tratta solo di un caso di “ignoranza pluralistica” [2].

 

 

 

 

[1] La connessione è con il testo della relazione di Krugman alla Conferenza della BCE a SIntra (portogallo) del maggio 2014, qua tradotta.

[2] La connessione è su un articolo di una psicologa che spiega questo fenomeno per il quale si resta condizionati a lungo dalle supposte idee altrui che ci impediscono di convivere con le nostre. Più o meno.

L’economia come scienza, oppure no (9 movembre 2014)

novembre 9, 2014

 

Nov 9 10:36 am

Economics as a Science, Not

From Chris Sims’s Nobel lecture (pdf):

But though economics progresses unevenly, and not even monotonically, there are some examples of real scientific progress in economics. This essay describes one — the evolution since around 1950 of our understanding of how monetary policy is determined and what its effects are.

Indeed: you learn a lot from Sims-type empirical analysis, especially when it’s paired with Romer-Romer type analysis of natural experiments. We learn that monetary policy has large short-run effects on output and employment, that interest rates move in a predictable direction, that prices move very slowly.

But as soon as the political implications of all that research become inconvenient, it all goes out the window.

 

L’economia come scienza, oppure no

Dalla lezione di Chris Sims in occasione del Nobel:

“Ma sebbene l’economia progredisca in maniera discontinua, e per nulla uniforme, ci sono alcuni esempi di reale progresso scientifico nell’economia. Questo saggio ne descrive uno – l’evoluzione, a partire circa dal 1950, della nostra comprensione su come si determini la politica monetaria e su quali effetti abbia.”

In effetti: si impara molto dalle analisi empiriche di economisti come Sims, in particolare se accompagnate da quelle di economisti come i coniugi Romer sugli ‘esperimenti naturali’. Si impara che la politica monetaria ha larghi effetti di breve periodo sulla produzione e sull’occupazione, che i tassi di interesse si muovono in una direzione prevedibile, che i prezzi si evolvono con molta lentezza.

Ma appena le implicazioni politiche di tutte queste ricerche diventano sconvenienti, finisce tutto fuori dalla finestra.

La sindrome della agitazione da Keynes (dal blog di Krugman, 9 novembre 2014)

novembre 9, 2014

 

Nov 9 10:12 am

Keynes Derangement Syndrome

One of my favorite quotes in economics comes from Frank Graham, who wrote that disorder is the sole substitute in social science for the controlled experiments of the natural sciences. What he meant was that drastic events, outside the normal run of experience, offer a much better way to test competing theories than day-to-day events, which aren’t too hard to shoehorn into various dogmas.

So it was with the global economic crisis, and especially the monetary policy response. Broadly speaking there were two views about what would happen when central banks hugely expanded the monetary base. On one side, those with a more or less Keynesian viewpoint saw this action as harmless at worst, possibly somewhat helpful, because they expected most of the new bank reserves to just sit there given near-zero interest rates. After all, that is what happened during Japan’s attempt at quantitative easing after 2001:

z 253

 

 

 

 

 

 

 

 

On the other side, many people were quite sure that explosive inflation was just around the corner.

So this was as clear a test as you’re ever likely to get. But the side that got it wrong refuses to take no for an answer, because that would mean admitting that Keynes (and possibly other economists whose names begin with the same letter) was actually right about something, while they were wrong. And so we have denial on multiple levels.

The crudest level is that of the inflation truthers, who insist that the government is covering up real inflation. There’s also the “I never said that” faction, claiming that they haven’t been refuted, because they only said there was a “risk” of hyperinflation — I’m not sure which position is more contemptible.

At a higher level are those who claim that we would have had runaway inflation if only the Fed hadn’t decided to pay 0.25 percent, that’s right, 0.25 percent, interest on reserves. Aside from being highly implausible, this runs up against the example of Japan, which massively expanded the monetary base without paying interest, and got the same result.

And at the highest level we have the neo-Fisherite claim that everything we thought we knew about monetary policy is backwards, that low interest rates actually lead to lower inflation, not higher. At least this stuff is being presented in an even-tempered way.

But it’s still very strange. Nick Rowe has been working very hard to untangle the logic of these arguments, basically trying to figure out how the rabbit got stuffed into the hat; the meta-point here is that all of the papers making such claims involve some odd assumptions that are snuck by readers in a non-transparent way.

And the question is, why? What motivation would you have for inventing complicated models to reject conventional wisdom about monetary policy? The right answer would be, if there is a major empirical puzzle. But you know, there isn’t. The neo-Fisherites are flailing about, trying to find some reason why the inflation they predicted hasn’t come to pass — but the only reason they find this predictive failure so puzzling is because they refuse to accept the simple answer that the Keynesians had it right all along.

 

La sindrome della agitazione da Keynes

Una delle mie citazioni favorite in economia viene da Frank Graham, il quale scrisse che il disordine è il solo surrogato nelle scienze sociali degli esperimenti naturali nelle scienze naturali. Intendeva che gli eventi estremi, fuori dal normale andamento dell’esperienza, offrono un modo molto migliore di sperimentare le teorie in competizione che non gli eventi giorno per giorno, che non sono così difficili da adattare ai vari dogmatismi.

E’ stato così con la crisi economica globale, e specialmente per il responso della politica monetaria. Parlando in generale c’erano due punti di vista su ciò che può accadere quando le banche centrali ampliano grandemente la base monetaria. Da una parte, coloro che hanno un punto di vista più o meno keynesiano consideravano questa iniziativa nel peggiore dei casi innocua, probabilmente in qualche caso utile, perché si aspettavano che gran parte delle nuove riserve bancarie, a causa del limite inferiore dello zero nei tassi di interesse, semplicemente restassero ferme. Dopo tutto, questo è quanto accadde durante il tentativo di facilitazione quantitativa del Giappone dopo il 2001:

z 253

 

 

 

 

 

 

 

 

D’altra parte, in molti erano quasi certi che una inflazione improvvisa fosse proprio dietro l’angolo.

Dunque, questo è stato un chiaro test, come mai era accaduto di avere. Ma la parte che ha avuto torto si rifiuta di considerarla come una risposta, perché significherebbe ammettere che Keynes (e magari altri economisti il cui nome comincia con la stessa lettera) per qualche aspetto aveva effettivamente ragione, mentre loro si sbagliavano. Abbiamo così una negazione ad una molteplicità di livelli.

Il livello più grossolano è quello di coloro che credono in un complotto dell’inflazione e che insistono che il Governo stia nascondendo l’inflazione reale. Ci sono poi quelli della fazione del “io non l’ho mai detto”, che sostengono di non essere stati smentiti, perché avevano solo detto che c’era un “rischio” di iperinflazione – non sono sicuro di quale posizione sia più indegna.

Ad un livello più alto ci sono coloro che sostengono che avremmo una inflazione galoppante se solo la Fed non avesse deciso di pagare un interesse sulle riserve dello 0,25 per cento, proprio così, dello 0,25. A parte il fatto che è del tutto non plausibile, è poi smentito dall’esempio del Giappone, che ha ampliato massicciamente la base monetaria senza pagare interessi, ottenendo lo stesso risultato.

E ad un livello più elevato abbiamo la tesi neo-fisheriana [1], secondo la quale ogni cosa che pensavamo di sapere sulla politica monetaria è arretrata, che i bassi tassi di interesse conducono effettivamente ad una inflazione più bassa, non più alta. Almeno, questa roba viene presentata con un certo equilibrio.

Ma è ancora assai strano. Nick Rowe ha lavorato duramente per sbrogliare la logica di questi argomenti, fondamentalmente immaginandosi come il coniglio sia potuto entrare nel cappello; in questo caso l’aspetto generale è che tutti gli scritti che avanzano pretese simili contengono strani assunti che sono introdotti di soppiatto ai lettori in un modo non trasparente.

E la domanda è: perché? Quali motivazioni ci sarebbero per inventare complicati modelli che rigettano la sapienza tradizionale in fatto di politica monetaria? La risposta giusta sarebbe: se si è in presenza di un importante mistero che viene dai fatti. Ma si sa che non c’è. I neo-fisheriani si agitano su tale questione, cercando di trovare qualche ragione per la quale l’inflazione che avevano previsto non si è avverata – ma la sola ragione per la quale trovano questo fallimento previsionale così misterioso è il fatto che rifiutano di accettare la risposta che i keynesiani hanno correttamente adottato da molto tempo.

 

 

[1] Da Irving Fisher, importante economista americano del secolo scorso. Varie volte Krugman si è espresso per una più adeguata valutazione dell’importanza di questo economista, in modo particolare riferendosi alle sue intuizioni sui meccanismi che possono innescare una recessione/depressione originata dai debiti, o meglio da un contemporaneo brusco tentativo di riduzione dei debiti da parte dell’intero settore privato. Ma in questo caso sembrerebbe che ci siano di recente utilizzi di parti del pensiero di Fisher che vanno in una diversa direzione (e che non so a chi attribuire).

Gli usi del ridicolo (6 novembre 2014)

novembre 6, 2014

 

Nov 6 8:17 pm

The Uses of Ridicule

What I’ve been doing; en route home. Yes, I know there was a midterm election; thoughts in tomorrow’s paper.

Meanwhile, a quick hit. Matt O’Brien has a lot of fun with Paul Singer, a billionaire inflation truther who is sure that the books are cooked because of what he can see with his own eyes:

… check out London, Manhattan, Aspen and East Hampton real estate prices, as well as high-end art prices, to see what the leading edge of hyperinflation could look like

Hyperinflation in the Hamptons; hard to beat that for comedy, although Matt adds value with the Billionaires Price Index.

But Singer will get very angry if you make fun of him; in fact, he denounces reporting that points out how wrong he and others have been as the “Krugmanization” of the media, a term I’ll adopt with pride. It’s yet another illustration of one of the remarkable revelations of recent years, the incredibly sensitive feelings of the superrich, who are so hurt at any suggestion that great wealth does not also go with great wisdom and great virtue that they threaten to take the economy with them and go home.

But we must make fun of such people — and not just because, I admit, it’s one of the pleasures of life. Let me quote from a wonderful essay by Molly Ivins (read the whole thing):

Satire is a weapon, and it can be quite cruel. It has historically been the weapon of powerless people aimed at the powerful.

She went on to talk about how the likes of Rush Limbaugh misuse satire to attack the powerless, but let’s stick with the first point. Making fun of billionaires who are clueless about economics, and lack the menschood to admit their mistakes, serves a couple of functions. It reminds the audience that being rich doesn’t mean that you know what you’re talking about; it also provides other rich people some incentive to think before they speak, and maybe even do some homework before preaching to the rest of us. I’m snarky for a reason.

So I think Krugmanization is a great idea, although I would, wouldn’t I?

 

Gli usi del ridicolo

Ecco quello che sto facendo, sono di ritorno. So che ci sono state le elezioni di medio termine; le mie opinioni sono sul giornale di stamani.

Nel frattempo, un colpetto rapido. Matt O’Brien si diverte molto a spese di Paul Singer, un miliardario convinto della teoria del complotto sull’inflazione, che è sicuro che i dati siano stati truccati a causa di quello che può vedere con i suoi occhi:

“ … si dia un’occhiata ai prezzi degli immobili a Londra, a Manhattan, ad Aspen ed a East Hampton, oppure ai prezzi di oggetti artistici esclusivi, per vedere a cosa potrebbe assomigliare la punta estrema dell’iperinflazione”

Iperinflazione negli Hamptons: difficile immaginare una comica migliore, per quanto Matt ci metta del suo con l’Indice del Prezzo per Miliardari.

Ma Singer si arrabbierebbe molto se vi prendeste gioco di lui; infatti egli denuncia i resoconti che mostrano come lui e gli altri abbiano torto come una “krugmanizzazione” dei media, un termine che adotterò con orgoglio. C’è ancora un’altra manifestazione di una delle rivelazioni più importanti degli anni recenti, i sentimenti incredibilmente permalosi dei super ricchi, che sono così offesi ad ogni suggestione secondo la quale la grande ricchezza non va neanche di pari passo con la grande saggezza e la suprema virtù, da minacciare di prendersi l’economia e portarsela a casa.

Eppure dobbiamo prendere in giro persone del genere – e non solo perché, lo ammetto, questo è uno dei piaceri della vita. Fatemi usare una citazione da un meraviglioso saggio di Molly Ivins [1] (che andrebbe letto per intero):

“la satira è un’arma, e può risultare abbastanza crudele. Storicamente è stata l’arma del popolo senza potere, puntata sui potenti.”

Le capitò di parlarne a proposito di come soggetti come Rush Limbaugh usino impropriamente la satira per attaccare chi non ha potere, ma atteniamoci al punto precedente. Prendere in giro i miliardari che non hanno idea dell’economia, e mancano della dignità di ammettere i propri errori, serve ad un doppio scopo. Ricorda al pubblico che essere ricchi non significa sapere di cosa si stia parlando; offre inoltre agli altri ricchi un qualche incentivo a riflettere prima di parlare, e può darsi che alla fine essi persino facciano qualche approfondimento prima di venirci a far prediche. Se sono sarcastico c’è una ragione.

Cosicché penso che la ‘krugmanizzazione’ sia un grande idea, ammesso che ne sia capace.

 

 

[1] Mary Tyler “Molly” Ivins, è stata una giornalista, scrittrice, commentatrice politica ed umorista americana.

z 252

 

 

 

 

 

 

Il Fondo Internazionale tutto d’un pezzo (4 novembre 2014)

novembre 4, 2014

 

Nov 4 5:07 pm

International Mensch Fund

The IMF has released an audit of its own response during the aftermath of the financial crisis, which concludes that it messed up by embracing fiscal austerity in 2010. It failed to understand that you need to differentiate between economies that borrow in someone else’s currency and those that don’t; it failed to appreciate that the negative effects of fiscal contraction would be much larger in a zero-lower-bound environment than historical patterns might suggest.

Well, I could have told you all of that at the time — and in fact I did, over and over again.

But let us nonetheless celebrate the IMF’s willingness to look honestly at its own record and learn from it. Taking responsibility for your actions and statements — being a mensch, as my father would have said — is all too rare in modern economic discourse, as the comedic evasions of the open-letter crew demonstrate. The Fund, it turns out, is better than that, and deserves praise.

 

Il Fondo Internazionale tutto d’un pezzo [1]

Il FMI ha compiuto una verifica in relazione alle sue risposte nel periodo successivo alla crisi finanziaria, e la conclusione è stata che esso fece un danno abbracciando nel 2010 la tesi dell’austerità nelle finanze pubbliche. Non comprese che c’era bisogno di fare una differenza tra le economie che si indebitano con la propria valuta e quelle che non lo fanno; non considerò che gli effetti negativi della contrazione delle finanze pubbliche sarebbero stati molto più ampi nel contesto del limite inferiore a zero nei tassi di interesse, rispetto a quello che potevano suggerire gli schemi storici.

Ebbene, sono tutte cose che avrei potuto dirvi in quel momento – e di fatto lo dissi, in continuazione.

Nondimeno, mi sia consentito di apprezzare pubblicamente la volontà del FMI di guardare onestamente alle sue prestazioni e di imparare dalla esperienza. Prendersi la responsabilità per le proprie azioni e per i propri pronunciamenti – essere persone tutte d’un pezzo, come avrebbe detto mio padre – è anche troppo raro nel dibattito economico contemporaneo, come dimostra l’umoristico arrampicarsi sugli specchi degli individui della lettera aperta[2]. Il Fondo, si scopre, è una cosa più seria, e merita un elogio.

 

 

[1] Evidentemente, con il termine “mensch” (‘rispettabile, tutto d’un pezzo’), si ottiene un gioco di parole con lo stesso acronimo FMI.

[2] La famosa lettera del 2010 con la quale varie decine di politici, commentatori ed economisti protestavano contro la politica di Ben Bernanke, prevedendo una inflazione fuori controllo. In questi giorni alcuni di loro sono stati intervistati per fornire una spiegazione dei loro errori. E in effetti la lettura delle giustificazioni è abbastanza spassosa.

Il Giappone dinanzi al ciglio (4 novembre 2014)

novembre 4, 2014

 

Japan on the Brink

November 4, 2014 4:56 pm

When a nation is engaged in a real policy debate — the kind we’re not having in the United States, because America’s right wing knows what it knows, and never looks at evidence or admits mistakes — certain decisions take on significance that goes beyond their substantive importance, because they are symbols of the broader direction. So it is with Japan’s current plan to hike consumption taxes a second time. Not that this is a trivial decision on the substance; it would be a fairly big deal in any case. But right now it has become more — a sort of Rubicon for policy.

And let me admit that people I respect — like Adam Posen, and some officials at international organizations — believe that Abe should go through with the hike. But I strongly disagree.

The funny thing is that both sides of this debate believe that it’s about credibility; but they differ on what kind of credibility is crucial at this moment.

Right now, Japan is struggling to escape from a deflationary trap; it desperately needs to convince the private sector that from here on out prices will rise, so that sitting on cash is a bad idea and debt won’t be so much of a burden. At the same time, Japan has huge public debt and lousy demography, which implies large implicit liabilities too.

The pro-tax-hike side worries that if Japan doesn’t go through with the increase, it will lose fiscal credibility and that this will endanger the economy right now — basically, that the bond vigilantes will attack. Why don’t I share that view?

Partly because I don’t see how this supposed crisis of confidence is supposed to work. This was the point of my Mundell-Fleming lecture (pdf) at the IMF last year: when a country borrows in its own currency and doesn’t face inflationary pressure (quite the contrary), it’s very hard to see how a Greek-style crisis is even upossible. Short-term interest rates are controlled by the Bank of Japan; long-term rates mainly reflect expected short rates. Yes, investors could push the yen down, but that would be a good thing from Japan’s point of view. Posen says stocks could crash, but I guess I don’t see why if interest rates stay low and corporate Japan becomes more competitive thanks to a weaker yen.

Seriously: tell me how this is supposed to work. In fact, tell me how a loss in fiscal confidence — fear that Japan might eventually monetize some of its debt — isn’t actually a positive development.

Meanwhile, it seems to me that Japan should be very, very afraid of losing momentum in the fight against deflation. Suppose that a second tax hike causes another downturn in real GDP, as I predict it would, and that all the progress made against inflation so far evaporates, which is surely a real possibility. How likely is it that the Bank of Japan could come back after that, saying “Trust us — this time we really will get inflation up to 2 percent in two years, no, really” — and be believed? I’d argue that stalling the current drive would cause a fatal loss of credibility on the deflation front. And this would, by the way, do huge fiscal damage too.

Could I be wrong about all of this? Of course: life is complicated, and as I said, people I respect are on the other side (although I really don’t understand their logic here.) But it’s all about weighing the risks. Right now, the risk of losing anti-deflation credibility looks much worse than the risk of losing fiscal credibility.

Please, don’t hike those taxes!

 

Il Giappone dinanzi al ciglio

Quando una nazione è impegnata in un dibattito politico vero – di un genere che non stiamo avendo negli Stati Uniti, perché la destra americana è certa di quello che sa, e non guarda mai ai fatti né ammette mai errori – certe decisioni assumono un significato che va oltre la loro importanza reale, perché sono simboli di un indirizzo più generale. Così è nel caso dell’attuale progetto del Giappone di elevare per una seconda volta le tasse sui consumi. Non che nella realtà questa sia una decisione banale; in ogni caso si tratterebbe di una faccenda discretamente rilevante. Ma in questo momento è diventata di più – una sorta di Rubicone della politica.

E devo riconoscere che persone che rispetto – come Adam Posen ed altri dirigenti di organizzazioni internazionali – credono che Abe dovrebbe procedere con quel rialzo. Ma io sono in forte disaccordo.

La cosa buffa è che in questa discussione, entrambi gli schieramenti ritengono che essa riguardi la credibilità; ma divergono su quale genere di credibilità sia cruciale in questo momento.

In questo momento, il Giappone sta combattendo per sfuggire ad una trappola deflazionistica; ha disperatamente bisogno di convincere il settore privato che d’ora in avanti i prezzi cresceranno, cosicché restar seduti sui propri capitali è una pessima idea e il debito non sarà un peso così grande. Nello stesso tempo, il Giappone ha un grande debito pubblico ed un andamento demografico misero, il che intrinsecamente comporta anche grandi responsabilità.

Lo schieramento a favore dell’innalzamento delle tasse teme che se il Giappone non passerà da quell’aumento, perderà la sua credibilità in materia di finanza pubblica e che questo metterà da subito in pericolo l’economia – in sostanza, che ci sarà un’offensiva da parte dei ‘guardiani dei bond’. Perché non condivido questo punto di vista?

In parte perché non capisco come si ritenga che questa ipotetica crisi di fiducia si manifesti. Era questo l’oggetto della mia conferenza (disponibile in pdf [1]) alle celebrazioni per Mundell-Fleming del FMI dello scorso anno; quando un paese si indebita nella propria valuta e non si trova dinanzi ad una pressione inflazionistica (piuttosto il contrario), è molto difficile vedere come sia persino possibile una crisi del genere di quella della Grecia. I tassi di interesse a breve termine sono controllati dalla Banca del Giappone; i tassi di interesse a lungo termine riflettono principalmente le aspettative sui tassi a breve. E’ vero, gli investitori potrebbero spingere lo yen in basso, ma dal punto di vista del Giappone questa sarebbe una buona cosa. Posen dice che le azioni potrebbero crollare, ma io credo di non vederne il motivo, se i tassi di interesse restano bassi e le imprese giapponesi diventano più competitive grazie ad uno yen più debole.

Dico sul serio: spiegatemi come si pensa che questo possa accadere. In sostanza, spiegatemi come un perdita di fiducia nella finanza pubblica – la paura che alla fine il Giappone potrebbe monetizzare una parte del suo debito – non costituisca effettivamente uno sviluppo positivo.

Contemporaneamente, a me pare che il Giappone dovrebbe avere davvero tanta paura di perdere lo slancio nella lotta contro la deflazione. Supponiamo che un altro aumento delle tasse provochi una nuova diminuzione nel PIL reale, come io prevedo che accadrebbe, e che tutto il progresso sinora ottenuto contro la deflazione [2] svanisca, che è certamente nell’ordine delle cose possibili. Quanto è probabile che, dopo ciò, la Banca del Giappone torni a dire: “Credeteci, questa volta per davvero avremo un inflazione che salirà al 2 per cento nel giro di due anni, diciamo sul serio” – e sia creduta? Direi che interrompere l’indirizzo attuale provocherebbe una fatale perdita di credibilità sul fronte della deflazione. E questo, per inciso, provocherebbe anche un gran danno alle finanze pubbliche.

Potrei sbagliarmi in tutto ciò? Ovviamente: la vita è complicata e, come ho detto, ci sono persone che rispetto che sostengono il punto di vista opposto (sebbene, in questo caso, davvero non capisca la loro logica). Ma tutto dipende da come si soppesano i rischi. In questo momento, il rischio di perdere credibilità contro la deflazione appare assai peggiore del rischio di perdere credibilità nei conti pubblici.

Per favore, non rialzate quelle tasse!

 

 

[1] Il testo è qua tradotto, con il titolo “Regimi valutari, flussi di capitali e crisi, di Paul Krugman – 27 ottobre 2013”.

[2] “Inflation” mi pare un errore nel testo.

Perchè non abbiamo un’economia più ‘populista’ ? (4 novembre 2014)

novembre 4, 2014

 

Nov 4 3:06 am

Why Don’t We See More Macroeconomic Populism?

As I’ve been noting recently, there’s a lot of opposition within Japan to the Bank of Japan’s policy of printing more money; there’s also a lot of pressure on the government to raise taxes. And that’s not really very different from what has been happening in the rest of the advanced world: central banks that have pursued quantitative easing have done so despite political pressure, not because of it, and fiscal austerity has been imposed almost everywhere.

The funny thing is that when you ask for justifications for pursuing hard money and tight budgets in a depressed, low-inflation economy, the answers you get often start from the presumption that money-printing and deficit finance are immensely tempting to politicians, so that you don’t dare let them get even a slight taste of these addictive drugs. This is often said in a tone of great wisdom, and presented as the lesson history teaches us.

Now, as Simon Wren-Lewis points out — and as I’ve pointed out in the past — history actually teaches us no such thing. Fiscal stimulus in the United States, far from becoming permanent, has always faded out fast, indeed too fast; monetary retrenchment has also tended to come too quickly, at least sometimes. And even when things did run away from us in the 1970s, it was not at all the story conservatives now like to tell, in which central banks printed money to cover deficit spending; deficits weren’t actually big, and inflation took off because of oil shocks and macroeconomic misjudgments, not populist temptation.

But why don’t these things happen in advanced countries? After all, the story — populist politicians should love it when people tell them that printing money and running big deficits is OK — seems plausible. And things like this have happened in Latin America — indeed are happening again today in Venezuela and Argentina. So why don’t they ever happen in America, Europe, or Japan? Why, in a time of deflationary pressure, have calls for belt-tightening dominated the political scene?

I actually don’t know, although I continue to think about it. But it is a puzzle worth pondering.

 

Perchè non abbiamo un’economia più ‘populista’ [1]?

Come sono venuto osservando di recente, all’interno del Giappone c’è molta opposizione verso la politica della Banca del Giappone di stampare più valuta, come c’è molta spinta perché il Governo alzi le tasse. E in realtà ciò non è molto diverso da quello che sta accadendo nel resto del mondo avanzato: le banche centrali che si sono impegnate nella ‘facilitazione quantitativa’ l’hanno fatto a dispetto delle pressioni della politica, non per loro causa, e l’austerità della finanza pubblica è stata imposta quasi dappertutto.

La cosa curiosa è che quando si chiedono giustificazioni rispetto all’obbiettivo di una moneta forte e della restrizione dei bilanci di fronte ad un’economia depressa e con bassa inflazione, le risposte che si ottengono partono spesso dal presupposto che lo stampar moneta e la finanza in deficit abbiano una grandissima fortuna presso gli uomini politici, cosicché non si deve osare di consentire loro neanche leggermente di assaporare queste droghe che creano dipendenza. La qualcosa è spesso affermata con un tono di grande saggezza, e presentata come la lezione che si apprende dalla storia.

Ora, come mette in evidenza Simon Wren-Lewis – e come ho anch’io fatto nel passato – la storia in effetti non ci insegna una cosa del genere. Le misure di sostegno della finanza pubblica negli Stati Uniti, lungi dal diventare permanenti, sono sempre svanite rapidamente, in effetti troppo rapidamente; anche la restrizione monetaria di solito è intervenuta troppo rapidamente, almeno in alcuni casi. E persino quando le cose ci stavano scappando di mano negli anni ’70, non era nei termini nei quali oggi i conservatori vogliono raccontare, secondo i quali le banche centrali stamparono moneta per coprire una spesa in deficit; per la verità i deficit non erano grandi, e l’inflazione decollò a causa degli shock petroliferi e di scorrette valutazioni macroeconomiche, non di tentazioni populiste.

Ma perché queste cose non accadono nei paesi avanzati? Dopo tutto le circostanze [2] – il fatto che gli uomini politici dovrebbero gradire quando la gente dice loro che stampar moneta e gestire ampi deficit è una cosa giusta – sembrano plausibili. E cose del genere sono accadute in America Latina – in effetti stanno accadendo ancora oggi in Venezuela e in Argentina. Perché, dunque, esse non accadono mai in America, in Europa o in Giappone? Perché, in un tempo di spinte deflazionistiche, i pronunciamenti per lo stringere le cinghie hanno dominato la scena politica?

Effettivamente non lo so, sebbene continui a pensarci. Ma è un mistero sul quale vale la pena di riflettere.

 

 

[1] Come si è notato altre volte, il termine ‘populista’ non ha, nel linguaggio politico americano, necessariamente la stessa connotazione negativa che nel nostro. E’ populista una politica che non teme di esibire la sua sensibilità alle esigenze del popolo, di farsene una bandiera. Del resto, tradurre con ‘popolare’ sarebbe troppo generico.

[2] Noto che “story” – oltra a ‘racconto, storia etc’ – ha il senso di un resoconto di un evento, o anche dei fatti, dei materiali, dell’evento stesso che stanno alla base di tale resoconto. Ovvero ‘circostanze, in un senso talora piuttosto simile a ‘spiegazione’.

Note sul Giappone (dal blog di Krugman, 28 ottobre 2014)

ottobre 28, 2014

 

Oct 28 3:07 pm

Notes on Japan

I’m going to Japan soon, and have been putting some numbers and thoughts together, both about Abenomics and the longer-term lessons from the Japanese experience. Here are some notes on the way.

First, can we stop writing articles wondering whether Europe or the United States might have a Japanese-type lost decade? At this point the question should be whether there is any realistic possibility that we won’t. Both the US and Europe are approaching the 7th anniversary of the start of their respective Great Recessions; the US is far from fully recovered, and Europe not recovered at all. Japan is no longer a cautionary tale; in fact, in terms of human welfare it’s closer to a role model, having avoided much of the suffering the West has imposed on its citizens.

Part of the impression that Japan has been a bigger disaster comes, of course, from Japanese demography: if you look at total GDP, or even GDP per capita, you miss the fact that Japan’s working-age population has been declining since 1997. I’ve tried to update the numbers on real GDP per working-age adult, defined as 15-64; I start in 1993 because of annoying data problems, but it would look similar if I took it back a few more years. Here’s a comparison of the euro area, the US, and Japan:

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So even in growth terms Japan doesn’t look much worse than the US at this point, and is actually slightly ahead of the euro area. That doesn’t mean Japan did OK; it just means that we’ve done terribly.

What about Abenomics? The decision to go ahead with the consumption tax increase — which some of us pleaded with them not to do — dealt a serious blow to the plan’s momentum. There has been some recovery in growth:

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But losing momentum is a really bad thing here, since the whole point is to break deflationary expectations and get self-sustaining expectations of moderate inflation instead. For what it’s worth, the indicator of expected inflation I suggested, using US TIPS, interest differentials, and reversion to long-run purchasing power parity, is holding up:

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But I still worry that Japan may fall into the timidity trap.

The whole business with the consumption tax drives home a point a number of people have made: the conventional view that short-term stimulus must be coupled with action to produce medium-term fiscal stability sounds prudent, but has proved disastrous in practice. In the US context it means that any effort to help the economy now gets tied up in the underlying battle over the future of the welfare state, which means that nothing happens. But even where that isn’t true, talking about fiscal sustainability when deflationary pressure is the clear and present danger distracts policy from immediate needs, and can all too easily lead to counterproductive moves — as just happened in Japan. When I see, say, the IMF inserting into its latest Japan survey (pdf) a section titled “Maintaining focus on fiscal sustainability” my heart sinks (and so, maybe, does Abenomics); it’s hard to argue against sustainability, but under current conditions it means taking your eye off the ball, and Japan really, really can’t afford to do that.

More notes as my cramming for the coming quiz continues.

 

Note sul Giappone

Sto per andare in Giappone ed ho messo assieme alcuni dati e pensieri, sia sulla Abenomics che sulle lezioni a più lungo termine della esperienza giapponese. Ecco alcune note strada facendo.

In primo luogo, possiamo smetterla di scrivere articoli nei quali ci si chiede se l’Europa o gli Stati Uniti possano fare l’esperienza di un decennio perduto del tipo di quello del Giappone? A questo punto la domanda dovrebbe essere se c’è qualche seria possibilità che non accada. Sia gli Stati Uniti che l’Europa stanno raggiungendo il settimo anniversario dall’inizio della loro Grande Recessione; gli Stati Uniti sono lungi dall’essersi ripresi e l’Europa non si è ripresa affatto. Il Giappone non è più un racconto utile a mettere in guardia: di fatto, in termini di benessere umano è più vicino ad essere un modello guida, avendo evitato gran parte delle sofferenze che l’Occidente ha imposto ai suoi cittadini.

Naturalmente, in parte l’impressione che il Giappone sia stato un grande disastro viene dalla demografia di quel paese: se guardate al PIL totale, o anche al PIL procapite, non vi accorgete del fatto che la popolazione in età lavorativa del Giappone è calata a partire dal 1997. Ho cercato di aggiornare i dati sul PIL reale per le persone adulte in età di lavoro, considerate nella fascia tra i 15 ed i 54 anni; sono partito dal 1993 a causa di fastidiosi problemi statistici, ma avrei osservato lo stesso se fossi tornato indietro di alcuni anni. Ecco il confronto tra l’area euro, gli Stati Uniti ed il Giappone:

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Dunque, a questo punto, persino in termini di crescita il Giappone non sembra molto peggiore degli Stati Uniti, ed è effettivamente leggermente in avanti rispetto all’area euro. Non significa che il Giappone sia andato bene; significa soltanto che non è andato in modo terribile.

Che dire della Abenomics? La decisione di procedere con l’aumento delle tasse sui consumi – che alcuni di noi si erano raccomandati di non mettere in atto [1] – ha dato un colpo serio allo slancio del programma. C’è stata una qualche ripresa nella crescita:

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Ma in questo caso, perdere lo slancio è davvero una cosa negativa, dal momento che tutta la faccenda consiste nell’interrompere le aspettative deflazionistiche ed ottenere al loro posto aspettative di moderata inflazione che si autoalimentino. Per quello che conta, l’indicatore della inflazione attesa che ho indicato, utilizzando i Buoni del Tesoro protetti dall’inflazione degli Stati Uniti, i differenziali degli interessi, ed un ritorno alla parità del potere di acquisto nel lungo periodo, sta resistendo:

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Ma io sono ancora preoccupato che il Giappone possa cadere in quella che ho definito come ‘trappola della timidezza’ [2].

Tutta la questione della tassa sui consumi fa ben capire un aspetto che un certo numero di persone avevano avanzato: il punto di vista convenzionale secondo il quale misure di sostegno a breve termine debbano essere accompagnate da iniziative per ottenere nel medio periodo una stabilità della finanza pubblica sembra prudente, ma in pratica si è rivelato disastroso. Nel contesto degli Stati Uniti ciò significa che ogni sforzo per sostenere l’economia adesso viene collegato con la sottostante battaglia sul futuro dello stato assistenziale, il che comporta che non accade niente. Ma se anche così non fosse, parlare di sostenibilità della finanza pubblica nel mentre la pressione deflazionistica è il chiaro ed attuale pericolo, distrae la politica dalle necessità del momento, e può portare anche troppo facilmente a mosse controproducenti – come è accaduto nel Giappone. Quando io vedo, ad esempio, il FMI inserire nel suo ultimo sondaggio sul Giappone (disponibile in pdf) una sezione intitolata “Mantenere la concentrazione sulla sostenibilità della finanza pubblica”, provo un senso di scoramento (e forse lo stesso accade alla politica economica di Abe); è difficile esprimersi contro la stabilità, ma nelle attuali condizioni ciò comporta perdere la concentrazione, ed è proprio quello che il Giappone non può permettersi.

Seguiranno altre note a mano a mano che la mia sgobbata per il prossimo esame proseguirà.

 

 

[1] Il riferimento è ad un suo post del 9 settembre 2013, qua tradotto, dal titolo “Fa che il Giappone sia casto e continente, ma non ancora”.

[2] Vedi il post, qua tradotto, del 21 marzo 2014 “Analisi timida (per esperti)”.

Quando le banche non sono il problema (27 ottobre 2014)

ottobre 27, 2014

 

Oct 27 6:05 am

When Banks Aren’t The Problem

OK, an admission: Sometimes it seems to me as if economists and policymakers have spent much of the past six years slowly, stumblingly figuring out stuff they would already have known if they had read my 1998 Brookings Paper (pdf) on Japan’s liquidity trap. For example, there’s been huge confusion about whether Ricardian equivalence makes fiscal policy ineffective, vast amazement that increases in the monetary base haven’t led to big increases in the broader money supply or inflation; yet that was all clear 16 years ago, once you thought hard about the Japanese trap.

And now here we go with another: the role of troubled banks. Europe has done its stress tests, which aren’t too bad; but now we’re getting worried commentary that maybe, just maybe, a clean bill of banking health won’t stop the slide into deflation.

Folks, we’ve been there; in the 90s it was conventional wisdom that Japan’s zombie banks were the problem, and that once they were fixed all would be well. But I took a hard look at the logic and evidence for that proposition (pp. 174-177), and it just didn’t hold up.

I know, I know — blowing my own horn, and all that. But if I am not for myself, who will be for me? And in any case, it has been really frustrating to watch so many people reinvent fallacies that were thoroughly refuted long ago.

Oh, and if people had read my old stuff they might have managed to avoid embarrassing themselves so much in open letters to Bernanke and suchlike.

 

Quando le banche non sono il problema

Lo ammetto: qualche volta mi sembra che gli economisti e gli uomini politici abbiano speso gran parte di questi anni ad immaginarsi, lentamente e con non pochi inciampi, cose che avrebbero già conosciuto se avesse letto il mio saggio alla Brookings del 1998 (disponibile in pdf) sulla trappola di liquidità giapponese. Per esempio, c’è stata una grande confusione sul fatto che l’ “equivalenza ricardiana” [1] renda la politica della finanza pubblica inefficace, una vasta sorpresa che gli incrementi nella base monetaria non abbiano portato ad una grande crescita della più generale offerta di denaro o all’inflazione; tuttavia era già tutto chiaro 16 anni fa, una volta che si fosse riflettuto con impegno sulla trappola giapponese.

Ed ora ci ripetiamo con un’altra questione: il ruolo delle banche in difficoltà. L’Europa ha fatto i suoi stress test, che non sono così negativi; ma adesso abbiamo commenti preoccupati secondo i quali forse, solo forse, un certificato di buona salute sulle banche non fermerà lo scivolamento nella deflazione.

Signori, è una questione già nota; negli anni ’90 il punto di vista convenzionale diceva che le banche zombi del Giappone erano il problema, e che una volta che fossero state messe a posto sarebbe andato tutto per il meglio. Ma io esaminai con impegno tale concetto, alla luce della logica e dei fatti (pagg. 174-177 del saggio), e proprio non stava in piedi.

Non ce bisogno che me lo diciate – mi vanto sempre delle mie cose, e così via. Ma se non faccio un po’ di propaganda a me stesso, chi me la farà? E in ogni caso, è stato davvero frustrante osservare tanta gente reinventare sbagli che erano stati scrupolosamente confutati molto tempo fa.

Infine, se le persone avessero letto quel mio studio di un tempo avrebbero cercato di evitare di infilarsi in cose talmente imbarazzanti come le lettere aperte a Ben Bernanke, e cose simili.

 

 

[1] Per una spiegazione del termine, vedi “ricardian equivalence” sulle note della traduzione.

Cosa non è la stagnazione secolare (27 ottobre 2014)

ottobre 27, 2014

 

Oct 27 5:49 am

What Secular Stagnation Isn’t

Et tu, Gavyn? In the course of an interesting piece suggesting that there has been a sustained slowdown in the trend rate of growth, Gavyn Davies declares that

Some version of secular stagnation does seem to be taking hold.

He later acknowledges that there are different meanings assigned to the term; but it’s really important not to feed the confusion. To the extent that secular stagnation is an important and perhaps shocking concept, it really has to be distinguished from the proposition that potential growth is slowing down. What I wrote:

For those new to or confused by the term, secular stagnation is the claim that underlying changes in the economy, such as slowing growth in the working-age population, have made episodes like the past five years in Europe and the US, and the last 20 years in Japan, likely to happen often. That is, we will often find ourselves facing persistent shortfalls of demand, which can’t be overcome even with near-zero interest rates.

Secular stagnation is not the same thing as the argument, associated in particular with Bob Gordon (who’s also in the book), that the growth of economic potential is slowing, although slowing potential might contribute to secular stagnation by reducing investment demand. It’s a demand-side, not a supply-side concept. And it has some seriously unconventional implications for policy.

This is a really important distinction, because secular stagnation and a supply-side growth slowdown have completely different policy implications. In fact, in some ways the morals are almost opposite.

If labor force growth and productivity growth are falling, the indicated response is (a) see if there are ways to increase efficiency and (b) if there aren’t, live within your reduced means. A growth slowdown from the supply side is, roughly speaking, a reason to look favorably on structural reform and austerity.

But if we have a persistent shortfall in demand, what we need is measures to boost spending — higher inflation, maybe sustained spending on public works (and less concern about debt because interest rates will be low for a long time).

So please, let’s not confuse these issues. This isn’t some academic quibble; we’re trying to understand what ails us, and saying that high blood pressure and low blood pressure are more or less the same thing is not at all helpful.

 

Cosa non è la stagnazione secolare

“Et tu”, Gavyn? Nel corso di un interessante articolo che indica come ci sia stato un prolungato rallentamento nel tasso tendenziale di crescita, Gavyn Davies afferma che:

 

“Una qualche versione della stagnazione secolare sembra proprio stia facendo presa.”

 

Egli successivamente riconosce che al termine vengono assegnati significati diversi; ma è realmente importante non alimentare la confusione. Nella misura in cui la stagnazione secolare è un concetto importante e forse impressionante, esso deve essere effettivamente distinto dalla affermazione secondo la quale la crescita potenziale sta diminuendo. Scrissi questo a proposito:

“Per coloro che sono nuovi o incerti dinanzi al termine, la stagnazione secolare è la tesi che cambiamenti profondi nell’economia, come una rallentamento nella crescita della popolazione in età lavorativa, hanno reso probabile che episodi come quello dei cinque anni passati in Europa e negli Stati Uniti, e degli ultimi 20 anni in Giappone, accadano di frequente. Ovvero, ci ritroveremo spesso a fronteggiare persistenti cadute della domanda, che non possono essere superate neppure con tassi di interesse vicini allo zero.

La stagnazione secolare non è la stessa cosa della tesi, associata in particolare a Bob Gordon (anch’esso tra gli autori del libro [1]), che la crescita del potenziale economico stia rallentando, sebbene il rallentamento del potenziale potrebbe contribuire alla stagnazione secolare riducendo la domanda di investimenti. E’ un concetto dal lato della domanda, non dal lato dell’offerta. Ed ha alcune implicazioni seriamente non convenzionali per la politica.”

 

Si tratta di una distinzione davvero importante, perché la stagnazione secolare ed il rallentamento della crescita dal lato dell’offerta hanno implicazioni politiche completamente diverse. Di fatto, in qualche modo le loro morali sono quasi opposte.

Se stanno calando la crescita della forza lavoro e della produttività, le risposte appropriate sono: a) vedere se ci sono modi per accrescere l’efficienza, e b) se non ci sono, vivere con mezzi ridotti. Un rallentamento della crescita dal lato dell’offerta è, per dirla semplicemente, una ragione per guardare con favore a riforme strutturali ed all’austerità.

Ma se si ha una persistente caduta nella domanda, ciò di cui c’è bisogno sono misure per incoraggiare la spesa – una inflazione più elevata, magari sostenuta dalla spesa in opere pubbliche (e minori preoccupazioni sul debito, perché i tassi di interesse saranno bassi per un lungo periodo).

Dunque, per favore, non confondiamo queste tematiche. Non si tratta di un cavillo professorale; stiamo cercando di capire cosa ci fa star male, e dire che l’alta pressione o la bassa pressione arteriosa sono più o meno la stessa cosa non è proprio utile.

 

 

[1] Il libro a cui si riferisce è un lavoro collettaneo pubblicato sul blog Vox, nel quale compare anche un breve saggio di Krugman qua tradotto (Quattro osservazioni sulla stagnazione secolare, di Paul Krugman – da “Stagnazione secolare: fatti, cause e rimedi”, VoxEU. Agosto 2014)

Appunti sulla moneta facile e sull’ineguaglianza (dal blog di Krugman, 25 ottobre 2014))

ottobre 25, 2014

 

Notes on Easy Money and Inequality

October 25, 2014 8:38 am

I’ve received some angry mail over this William Cohan piece attacking Janet Yellen for supposedly feeding inequality through quantitative easing; Cohan and my correspondents take this inequality-easy money story as an established fact, and accuse anyone who supports the Fed’s policy while also decrying inequality as a hypocrite if not a lackey of Wall Street.

All this presumes, however, that Cohan knows whereof he speaks. Actually, his biggest complaint about easy money is mostly a red herring, and the overall story about QE and inequality is not at all clear.

Let’s start with the complaint that forms the heart of many attacks on QE: the harm done to people trying to live off the interest income on their savings. There’s no question that such people exist, and that in general low interest rates on deposits hurt people who don’t own other financial assets. But how big a story is it?

Let’s turn to the Survey of Consumer Finances (pdf), which has information on dividend and interest income by wealth class:

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The bottom three-quarters of the wealth distribution basically has no investment income. The people in the 75-90 range do have some. But even in 2007, when interest rates were relatively high, it was only 1.9 percent of their total income. By 2010, with rates much lower, this was down to 1.6 percent; maybe it fell a bit more after QE, although QE didn’t have much impact on deposit rates. The point, however, is that the overall impact on the income of middle-income Americans was, necessarily, small; you can’t lose a lot of interest income if there wasn’t much to begin with. If you want to point to individual cases, fine — but the claim that the hit to interest was a major factor depressing incomes at the bottom is just false.

There’s a somewhat different issue involving pensions: as the Bank of England pointed out in a study (pdf) that a lot of Fed-haters have cited but fewer, I suspect, have actually read, easy money has offsetting effects on pension funds: it raise the value of their assets, but reduces the rate of return looking forward. These effects should be roughly a wash if a pension scheme is fully funded, but do hurt if it’s currently underfunded, which many are. So the BoE concludes that easy money has somewhat hurt pensions — but also suggests that the effect is modest.

So where does the impression that QE has involved a massive redistribution to the rich come from? A lot of it, I suspect, comes from the fact that equity prices have surged since 2010 while housing has not — and since middle-class families have a lot of their wealth in houses, this seems highly unequalizing.

Here, however, I think it’s useful to go back to first principles for a second. Do we expect easy money to have differential effects on asset prices? Yes, but mainly having to do with longevity. Values of short-term assets like deposits or, for that matter, software that will soon be obsolete don’t vary much with interest rates; values of long-term assets like housing should vary a lot. Equities are claims on the assets of corporations, which include a mix of short-term stuff like software, long-term stuff like structures, and invisible assets like goodwill and market position that may span the whole range of longevity.

The point is that it’s not at all obvious why housing should be left behind in general by easy money. In fact, one of the dirty little secrets of monetary policy is that it normally works through housing, with little direct impact on business investment.

So why was this time different? Surely the answer is that housing had an immense bubble in the mid-2000s, so that it wasn’t going to come roaring back. Meanwhile, stocks took a huge beating in 2008-9, but this was financial disruption and panic, and they would probably have made a strong comeback even without QE.

If we take a longer-term perspective, you can see that the relationship between monetary policy and stocks versus housing varies a lot. The charts show real stock prices (from Robert Shiller) and real housing prices:

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The easy-money policies that followed the bursting of the 90s stock bubble produced a surge in housing prices, not so much in stocks — the opposite of recent years. The point is that a lot depends on the history, and the belief that QE systematically favors the kinds of assets the wealthy own is wrong or at least overstated.

Meanwhile, for most people neither interest rates nor asset prices are key to financial health — instead, it’s all about wages. And new research just posted on Vox, using time-series methods on micro data, finds that the empirical evidence points toward monetary policy actions affecting inequality in the direction opposite to the one suggested by Ron Paul and the Austrian economists.

Which brings me back to the reason most of us favor QE. No, Janet Yellen and I aren’t secretly on the Goldman Sachs payroll. Nor do I (or, I suspect, Yellen) believe that unconventional monetary policy can produce miracles. The main response to a depressed economy should have been fiscal; the case for a large infrastructure program remains overwhelming.

But given the political realities, that’s not going to happen. The Fed is the only game in town. And you really don’t want to trash the Fed’s efforts without seriously doing your homework.

 

Appunti sulla moneta facile e sull’ineguaglianza

Ho ricevuto qualche mail arrabbiata su quest’articolo di William Cohan che attacca Janet Yellen per alimentare l’ineguaglianza attraverso la ‘facilitazione quantitativa’; Cohan ed i miei corrispondenti considerano questa storia dell’ineguaglianza dipendente dalla moneta facile come un fatto sicuro, ed accusano tutti coloro che sostengono la politica della Fed e al tempo stesso denunciano l’ineguaglianza come ipocriti, se non come servi di Wall Street.

Tutto questo suppone, tuttavia, che Cohan sappia di quello di cui parla. In verità, la sua maggiore lamentela sul denaro facile è una falsa pista, e il complessivo racconto sulla ‘facilitazione quantitativa’ e l’ineguaglianza non è affatto chiaro.

Cominciamo con l’addebito che costituisce il cuore di molti attacchi sulla facilitazione quantitativa: il danno fatto alla gente che cerca di vivere sul reddito derivante dagli interessi sui propri risparmi. Non c’è dubbio che tali persone esistano, e che in generale i bassi tassi di interesse sui depositi danneggino chi non possiede altri asset finanziari. Ma quanto è importante questa storia?

Rivolgiamoci al Sondaggio sulle finanze dell’utente (disponibile in pdf), che fornisce una informazione sui dividendi e sui redditi da interesse per classi di ricchezza:

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I tre quarti di coloro che stanno più in basso nella distribuzione della ricchezza sostanzialmente non hanno reddito da investimenti. Le persone tra il 75°-90° posto nella graduatoria ne hanno un po’. Ma persino nel 2007, quando i tassi di interesse erano relativamente elevati, costituiva soltanto l’1,9 per cento del loro reddito totale. Nel 2010, con tassi molto più bassi, sono scesi all’1,6 per cento; può darsi che sia caduto un po’ a seguito della facilitazione quantitativa, sebbene la facilitazione quantitativa non abbia avuto un particolare impatto sui tassi dei depositi. Il punto, tuttavia, è che l’impatto complessivo sugli americani con medio reddito è stato, per forza di cose, basso; non si può perdere molto reddito da interesse se non ce n’era molto sin dagli inizi. Se si vogliono indicare casi individuali, va bene – ma la pretesa che il colpo sugli interessi sia stato un fattore importante di depressione dei redditi nelle fasce più in basso è semplicemente falsa.

C’è un tema in qualche modo diverso che riguarda le pensioni: come la Banca di Inghilterra ha messo in evidenza in uno studio (disponibile in pdf), che una quantità di individui che hanno in odio la Fed citano ma che molti di meno, ho il sospetto, hanno letto effettivamente, la moneta facile ha effetti compensativi sui fondi pensionistici: accresce il valore dei loro asset, ma guardando in avanti riduce il tasso di rendimento. Questi effetti dovrebbero essere grosso modo a risultato zero se lo schema pensionistico è pienamente finanziato, ma provocano un danno se esso è attualmente sottofinanziato, come sono in molti. Dunque, conclude la Banca di Inghilterra, il denaro facile ha in qualche modo danneggiato le pensioni – ma indica anche che l’effetto è modesto.

Da dove viene, dunque, l’impressione che la facilitazione quantitativa abbia comportato una massiccia redistribuzione a favore dei ricchi? Per una gran parte, sospetto, deriva dal fatto che i prezzi delle azioni, a partire dal 2010, si sono innalzati, diversamente da quelli delle abitazioni – e dal momento che le famiglie di classe media hanno molta della loro ricchezza in abitazioni, questo appare produrre una elevata ineguaglianza.

In questo caso, tuttavia, io penso che sia utile per un attimo tornare ai principi fondamentali. Ci aspettiamo che il denaro facile abbia effetti differenziali sui prezzi degli asset? Sì, ma questo principalmente dipende dalla loro durata nel tempo. I valori nel breve periodo di asset come i depositi (o, per la stessa ragione, come il software che diventerà rapidamente obsoleto) non variano molto per effetto dei tassi di interesse; i valori di asset di lungo periodo come le abitazioni variano molto. Le azioni sono diritti sugli asset delle società, che includono una combinazione di cose di breve durata come il software, di cose di lunga durata come le strutture, e di cose indefinibili come la reputazione e la posizione sul mercato, che possono abbracciare l’intera graduatoria della longevità.

Il punto è che non è affatto evidente il motivo per il quale le abitazioni dovrebbero in generale essere lasciate indietro dal denaro facile. Di fatto, uno dei piccoli segreti sporchi della politica monetaria è che essa normalmente funziona attraverso il settore immobiliare, con un impatti diretti modesti sugli investimenti di impresa.

Perché, dunque, questa volta è diverso? Sicuramente la risposta è che il settore immobiliare conobbe una bolla gigantesca alla metà degli anni 2000, cosicché esso non era destinato a tornare a ruggire. Nel frattempo, negli anni 2008-2009 le azioni presero una gran botta, ma questo dipese dal disastro finanziario e dal panico, e probabilmente avrebbero avuto un forte recupero anche senza la facilitazione quantitativa.

Se assumiamo una prospettiva a più lungo termine, si può notare che la relazione tra la politica monetaria e le azioni, a confronto con la abitazioni, varia molto. I diagrammi mostrano i reali prezzi delle azioni (desunti da Robert Shiller) ed i prezzi reali delle abitazioni:

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Le politiche del denaro facile che seguirono all’esplosione della bolla azionaria degli anni ’90 produssero un innalzamento nei prezzi delle abitazioni, non altrettanto per le azioni – il contrario degli anni recenti. Il punto è che molto dipende dalla storia, ed il convincimento che la facilitazione quantitativa favorisca sistematicamente i generi di asset posseduti dai ricchi è sbagliato, o almeno sovrastimato.

Nel frattempo, per gran parte delle persone né i tassi di interesse né i prezzi degli asset sono la chiave della benessere finanziario – piuttosto, esso dipende interamente dai salari. Ed una nuova ricerca appena pubblicata su Vox, utilizzando metodi di serie temporali basate su dati micro, scopre che la prova empirica indica che la politica monetaria influisce sull’ineguaglianza nella direzione opposta a quella suggerita da Ron Paul e dagli economisti austriaci.

La qualcosa mi riporta alla ragione per la quale molti di noi sono a favore della facilitazione quantitativa. No, Janet Yellen ed il sottoscritto non sono segretamente sui libri paga di Goldman Sachs. Neppure il sottoscritto (o, suppongo, la Yellen) crede che una politica monetaria non convenzionale possa fare miracoli. La risposta principale ad una economia depressa dovrebbe essere quella della spesa pubblica; l’argomento di un ampio programma di infrastrutture resta schiacciante.

Ma date le condizioni della politica, non è questo che è destinato ad accadere. La Fed è l’unica via possibile. E davvero non si dovrebbero criticare ferocemente gli sforzi della Fed senza essersi seriamente preparati sull’argomento.

 

La disconnessione profitti-investimenti (24 ottobre 2014)

ottobre 24, 2014

 

Oct 24 11:41 am

The Profits-Investment Disconnect

I caught a bit of CNBC in the locker room this morning, and they were talking about stock buybacks. Oddly — or maybe not that oddly, given my own experiences with the show — nobody brought up what I would have thought was the obvious question. Profits are very high, so why are companies concluding that they should return cash to stockholders rather than use it to expand their businesses?

After all, we normally think of high profits as a signal: a profitable business is one people should be trying to get into. But right now we see a combination of high profits and sluggish investment :

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What’s going on? One possibility, I guess, is that business are holding back because Obama is looking at them funny. But more seriously, this kind of divergence — in which high profits don’t signal high returns to investment — is what you’d expect if a lot of those profits reflect monopoly power rather than returns on capital.

More on this in a while.

 

La disconnessione profitti-investimenti

Ho catturato un brano della CNBC mentre ero nello spogliatoio questa mattina, e stavano parlando dei riscatti delle azioni. Stranamente – o forse non così stranamente, data la mia stessa esperienza con quella trasmissione – nessuno ha sollevato quella che avrei pensato fosse la domanda naturale. I profitti sono molto elevati, perché dunque le imprese stanno derivandone di dover restituire contante agli azionisti, anziché utilizzarli per espandere i loro affari?

Dopo tutto, normalmente consideriamo gli alti profitti come un segnale: in un affare profittevole, una persona dovrebbe cercare di infilarsi. Ma in questo momento osserviamo una combinazione di alti profitti e di investimenti fiacchi:

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Cosa sta succedendo? Una possibilità, suppongo, è che gli impresari si stanno ritirando perché Obama li guarda male. Se vogliamo esser seri, invece, questo genere di divergenza – secondo la quale alti profitti non segnalano un elevato ritorno agli investimenti – è quello che ci si dovrebbe aspettare se molti di quei profitti riflettono un potere di monopolio, anziché rendimenti del capitale.

Tornerò tra breve su questo tema.

Il moderato invisibile (24 ottobre 2014)

ottobre 24, 2014

 

Oct 24 11:19 am

The Invisible Moderate

I actually agree with a lot of what David Brooks says today. But — you know there has to be a “but” — so does a guy named Barack Obama. Which brings me to one of the enduringly weird aspects of our current pundit discourse: constant calls for a moderate, sensible path that supposedly lies between the extremes of the two parties, but is in fact exactly what Obama has been proposing.

So, David says that

The federal government should borrow money at current interest rates to build infrastructure, including better bus networks so workers can get to distant jobs. The fact that the federal government has not passed major infrastructure legislation is mind-boggling, considering how much support there is from both parties.

Well, the Obama administration would love to spend more on infrastructure; the problem is that a major spending bill has no chance of passing the House. And that’s not a problem of “both parties” — it’s the GOP blocking it. Exactly how many Republicans would be willing to engage in deficit spending to expand bus networks? (Remember, these are the people who consider making rental bicycles available an example of “totalitarian” rule.)

Also, there’s this:

the government should reduce its generosity to people who are not working but increase its support for people who are. That means reducing health benefits for the affluent elderly …

Hmm. The Affordable Care Act subsidizes insurance premiums for lower-income workers, and pays for those subsidies in part by eliminating overpayments for Medicare Advantage. So conservatives are celebrating both ends of that deal, right? Oh, wait, death panels.

It’s an amazing thing: Obama is essentially what we used to call a liberal Republican, who faces implacable opposition from a very hard right. But Obama’s moderation is hidden in plain sight, apparently invisible to the commentariat.

 

Il moderato invisibile

Per la verità sono molto d’accordo con quello che David Brooks dice oggi. Ma – sapete che ci sarebbe stato un “ma” – la stessa cosa dice un individuo dal nome Barack Obama. La qual cosa mi riporta ad uno degli strani costanti aspetti dei ragionamenti attuali dei nostri commentatori: gli inviti continui ad un indirizzo moderato, ragionevole che si suppone si collochi in mezzo alle posizione estreme dei due pertiti, ma che è di fatto esattamente quello che Obama viene proponendo.

Dunque, David dice che:

“Il Governo Federale dovrebbe prendere in prestito denaro agli attuali tassi di interesse per costruire infrastrutture, incluse migliori di trasporti collettivi su strada in modo che i lavoratori possano raggiungere posti di lavoro distanti. Il fatto che il Governo federale non abbia fatto approvare alcuna importante legislazione in materia di infrastrutture è una enormità, considerando quanto sostegno esiste da entrambi gli schieramenti.”

Ebbene, la Amministrazione Obama sarebbe ben felice di spendere di più in infrastrutture; il problema è che una importante proposta di legge non ha alcuna possibilità di essere approvata dalla Camera. E questo non è un problema di “entrambi gli schieramenti” – è il Partito Repubblicano che la blocca. Quanti repubblicani con esattezza sarebbero disponibili ad impegnarsi in una spesa in deficit per espandere le reti degli autobus (si ricordi, ci sono persone che considerano il mettere a disposizione biciclette in affitto come un esempio di una deliberazione “totalitaria”).

C’è inoltre questo:

“il governo dovrebbe ridurre la sua generosità verso chi non sta lavorando ed aumentare il sostegno a chi lavora. Questo significa ridurre i sussidi sanitari per gli anziani benestanti ….”

Mah. La Legge sulla Assistenza Sostenibile fornisce aiuti alle assicurazioni per i lavoratori con redditi più bassi, e finanzia tali sussidi in parte con l’eliminazione di eccessivi contributi su Medicare Advantage [1]. Cosicché i conservatori stanno salutando con soddisfazione entrambe le parti di tale misura, non è così? Eh no, andiamoci piano, ci sono le ‘giurie della morte’ [2].

E’ una cosa stupefacente: Obama è sostanzialmente quello che siamo soliti chiamare un repubblicano liberal, e fronteggia una opposizione implacabile da parte di una destra dura e pura. Ma la moderazione di Obama è nascosta a piena vista, quasi fosse invisibile ai commentatori.

 

 

[1] “Medicare Advantage” è un particolare programma nell’ambito di Medicare – e dunque rivolto agli anziani – che è in genere fruito da persone a reddito medio o medio alto.

[2] Per “death panel” vedi le note sulla traduzione. In sostanza, è stata la parola d’ordine del Tea Party contro la legge sanitaria, il pretesto secondo il quale una misura di quella legge che mira a contenere la spesa pubblica (non quella dei privati) in casi di accanimento terapeutico, sarebbe stata come dare ai burocrati federali il potere di interrompere le vita (da lì la definizione di tali commissioni sanitarie come “tribunali o giurie della morte”).

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