Oct 21 9:13 am
Last night Atif Mian and I flew up to Boston for a conference — and as I slid into my seat, who should I see staring at me but Ron Paul. It turned out that all of the seatback screens in the plane were showing Newsmax TV — who knew there was such a thing? Is it there to serve people who find Fox News too liberal? — and as best I could tell from the visual context (the sound was blessedly off), the elder Paul was lecturing us about monetary policy.
This sort of thing is obviously an important part of the reason we’re living in an age of derp. Events and data may have made nonsense of claims that the Fed’s policies would inevitably produce runaway inflation, and made those insisting on such claims look like fools; but there’s a large audience of people who, pulled in by affinity fraud, live in a bubble where they never hear about such evidence.
Truly, we live in a world in which people feel entitled not just to their own opinions but their own facts.
Volare sui cieli dell’ottusità
La scorsa note Atif Mian e il sottoscritto erano in volo per Boston per una conferenza – e quando mi sono infilato nel mio sedile, chi mi stava fissando se non Ron Paul? Si è scoperto che tutti gli schermi di fronte ai sedili dell’aeroplano stavano mostrando Newsmax TV . Chi sapeva che esistesse una cosa del genere? Sono programmi al servizio delle persone che trovano Fox News troppo progressista? E, per dire il massimo, dal contesto visivo (il suono era misericordiosamente spento) direi che l’anziano Paul ci stava facendo una ramanzina sulla politica monetaria.
Cose del genere sono evidentemente una parte importante della ragione per la quale stiamo vivendo in un’età di ottusità. I fatti ed i dati hanno reso privi di senso gli argomenti secondo i quali le politiche della Fed avrebbero inevitabilmente prodotto una inflazione fuori controllo, ed hanno reso sciocchi coloro che insistono su tali tesi; ma c’è un largo pubblico che, costretto da una truffa originata dall’appartenenza ad una identità di gruppo [1], vive in una bolla nella quale non sente mai parlare di di tali prove.
In realtà, noi viviamo in un mondo nel quale le persone si sentono autorizzate non solo ad avere le loro proprie opinioni, ma anche i loro propri fatti.
[1] Per “affinity fraud” si intende un vero e proprio reato che è normalmente oggetto di procedure giudiziarie, allorquando l’affinità (spesso religiosa, ma anche sociale, culturale etc.) provoca comportamenti ispirati al raggiro ed alla truffa. Normalmente il raggiro è ai danni dei componenti del gruppo, la cui affinità viene utilizzata da qualcuno per trarne indebito vantaggi.
ottobre 19, 2014
Oct 19 3:29 pm
I gather that some readers were puzzled by my use of the term “derp” with regard to peddlers of inflation paranoia, even though I’ve used it quite a lot. So maybe it’s time to revisit the concept; among other things, once you understand the problem of derpitude, you understand why I write the way I do (and why the Asnesses of this world whine so much.)
Josh Barro brought derp into economic discussion, and many of us immediately realized that this was a term we’d been needing all along. As Noah Smith explained, what it means — at least in this context — is a determined belief in some economic doctrine that is completely unmovable by evidence. And there’s a lot of that going around.
The inflation controversy is a prime example. If you came into the global financial crisis believing that a large expansion of the Federal Reserve’s balance sheet must lead to terrible inflation, what you have in fact encountered is this:
I’ve indicated the date of the debasement letter for reference.
So how do you respond? We all get things wrong, and if we’re not engaged in derp, we learn from the experience. But if you’re doing derp, you insist that you were right, and continue to fulminate against money-printing exactly as you did before.
The same thing happens when we try to discuss the effects of tax cuts — belief in their magical efficacy is utterly insensitive to evidence and experience.
Now, not every wrong idea — or claim that I disagree with — is derp. I was pretty unhappy with the claim that doom looms whenever debt crosses 90 percent of GDP, and not too happy with the later claims that the relevant economists never said such a thing; that’s what everyone from Paul Ryan to Olli Rehn heard, and they were not warned off. But there has not, thankfully, been a movement insisting that growth does too fall off a cliff at 90 percent, so this is not a derp thing.
But there is, as I said, a lot of derp out there. And what that means, in turn, is that you shouldn’t pretend that we’re having a real discussion when we aren’t. In fact, it’s intellectually dishonest and a public disservice to pretend that such a discussion is taking place. We can and indeed are having a serious discussion about the effects of quantitative easing, but people like Paul Ryan and Cliff Asness are not part of that discussion, because no evidence could ever change their view. It’s not economics, it’s just derp.
Now, saying this brings howls of rage, accusations of rudeness and being nasty. But what else can one do?
Quest’epoca di “derp”
Capisco che alcuni lettori si interroghino sul mio uso della parola “derp” a riguardo dei divulgatori della paranoia dell’inflazione, anche se l’ho utilizzata molto. Tra le altre cose, una volta che si capisce il problema della “derpitudine”, si capisce perché ne scrivo in questo modo (e perché tutti gli Asness di questo mondo si lamentino tanto) [1].
Fu Josh Barro a introdurre il termine “derp” nel dibattito, e molti di noi compresero immediatamente che era un termine del quale avevamo bisogno da tempo. Come ha spiegato Noah Smith, ciò che esso significa, almeno in questo contesto, è una determinata convinzione, in qualche dottrina economica, che è completamente inamovibile sulla base dei fatti. E c’è molto di questo in circolazione.
La controversia sull’inflazione è un primo esempio. Se si era entrati nella crisi finanziaria globale credendo che una larga espansione degli equilibri patrimoniali della Federal Reserve dovevano portare ad una inflazione terribile, quello che abbiamo trovato è stato questo [2]:
Per memoria, ho indicato la data della lettera sulla svalutazione del dollaro.
Come si può rispondere, dunque? Facciamo tutti cose sbagliate e, se non siamo dediti a quella forma di ottusità, impariamo con l’esperienza. Ma se vi siamo dediti, si ribadisce di essere dalla parte della ragione e si continua a scagliarsi contro lo stampar moneta esattamente come si faceva in precedenza.
La stessa cosa succede quando si prova a discutere degli effetti sugli sgravi fiscali – la fede nella loro magica efficacia è completamente insensibile alle testimonianze e dall’esperienza.
Ora, non tutte le idee sbagliate – o gli argomenti con i quali non sono d’accordo – sono “derp”. Rimasi assai insoddisfatto dalla tesi secondo la quale ogni qualvolta il debito superava il 90 per cento del PIL si sarebbe profilata una sorte tragica, e non particolarmente soddisfatto dai successivi argomenti secondo i quali quegli economisti di rilievo non avevano mai detto cose del genere; quello fu quanto intesero tutti, da Paul Ryan a Olli Rehn, e nessuno li dissuase. Ma c’era stato, fortunatamente, un movimento che aveva insistito che la crescita non crolla a quel limite del 90 per cento, cosicché quella tesi non è definibile come “derp”.
Eppure c’è, come ho detto, una grande quantità di ottusità in giro. E ciò significa a sua volta che non si dovrebbe pretendere di avere un dibattito serio quando non l’abbiamo. Di fatto, è disonesto intellettualmente, oltre ad essere un pessimo servizio pubblico, far finta che sia in atto una discussione del genere. Possiamo avere un dibattito serio sugli effetti della ‘facilitazione quantitativa’, e in effetti lo stiamo avendo, ma individui come Paul Ryan e Cliff Asness non fanno parte di tale dibattito, perché nessuna prova cambierà mai il loro punto di vista. Questa non è economia, è ottusità.
Ora, dire questo comporta grida rabbiose, accuse di rozzezza e di cattiveria. Ma cos’altro si può fare?
[1] Nella nota del 17 ottobre avevo provato a interpretare il termine “derp”, mi pare andandoci vicino. Si conferma che la “derpitude” è una forma di ottusità inossidabile. Per aiutare a comprendere da dove il termine provenga, ecco Mr. Derp, il personaggio ispiratore della parola in South Park:
[2] Il punto indicato con la freccetta rossa corrisponde alla famosa ‘lettera aperta’ di vari personaggi – economisti, commentatori, politici conservatori – che accusarono Ben Bernanke, allora Presidente della Fed, di attivare politiche che avrebbero minato il valore del dollaro.
ottobre 18, 2014
Oct 18 9:19 am
David Wessel has a very nice explainer in the WSJ — although I wonder how the editor allowed his citation of a particular expert under point #2 to slip through. One thing he doesn’t do, however, is make it clear that zero is not a magic red line here — as even the IMF has made a point of emphasizing, too-low inflation has all the adverse effects of outright deflation, just to a lesser degree.
Most notably, the euro area currently has 0.8 percent core inflation, far below its 2 percent target, which is itself too low. This means that Europe is already in a lowflationary trap, qualitatively the same as a deflationary trap.
Perchè preoccuparsi della deflazione
David Wessel fornisce una spiegazione proprio bellina sul Wall Street Journal – sebbene mi chieda come l’editore abbia consentito che la sua citazione di un particolare esperto (al punto due del suo articolo) sia passata inosservata [1]. Una cosa che egli non fa, tuttavia, è chiarire come in questo caso lo zero non sia una magica linea rossa – come persino il FMI ha scelto di sottolineare, l’inflazione troppo bassa ha gli effetti negativi di una vera e propria deflazione, solo in minore misura.
La cosa più importante è che l’area euro ha lo 0,8 percento di inflazione sostanziale, molto al di sotto del suo obbiettivo del 2 per cento, che è di per sé troppo bassa. Questa significa che l’Europa è già in una trappola di bassa inflazione, che qualitativamente è la stessa cosa di un trappola deflazionistica.
[1] Come si può intuire, l’esperto insolitamente citato dal giornale conservatore è Krugman.
ottobre 18, 2014
Oct 18 9:08 am
At this point in the great inflation-deflation debate, a lot of what the inflationistas have to say takes the form of whining about the rudeness of their critics — of course, me in particular. I would say that this is a de facto confession that they’ve run out of substantive defenses for their position — although I guess I would say that, wouldn’t I?
But there’s something else you should know: the inflation derpers aren’t just ignorant about monetary policy, they also don’t understand the rules of argument. In particular, the constant complaint about “ad hominem” attacks shows that they don’t know what that means.
I think the Wikipedia definition is pretty good: an ad hominem is
a form of criticism directed at something about the person one is criticizing, rather than something (potentially, at least) independent of that person.
So if, for example, somebody discussing my views on monetary policy refers to me as “Enron consultant Paul Krugman”, that’s ad hominem. But if I say that inflationistas have been
bobbing and weaving, refusing to acknowledge having said what they said, being completely unwilling to admit mistakes.
that’s really not ad hominem; I’m attacking how these people argue, not their personal attributes.
What about the lexicon we’ve developed over the course of the past few years — zombies, cockroaches, confidence fairies, derp? These are all terms directed at arguments, not people; no, I didn’t call Olli Rehn a cockroach, just his historically ignorant assertion that Keynes wouldn’t have called for fiscal stimulus in the face of high debt.
The point is that at no point, as far as I know, have I relied on personal attacks as a substitute for substantive argument. I never accuse someone of practicing derp without showing that he is, indeed, practicing derp.
Still, why use such colorful language? To get peoples’ attention, of course, and to highlight the sheer scale of the folly. And it’s working, isn’t it?
Now, the people who make zombie arguments and engage in derp feel deeply insulted by all of this. But if you’re going to engage in public debate, with very real policy concerns that affect the lives of millions at stake, you are not entitled to have your arguments treated with respect unless they deserve respect.
One more thing: I also don’t think that the derp brigade understands what it means to argue from authority. When I say that you shouldn’t opine on monetary policy unless you’re willing to invest some time on understanding the monetary debate, I am saying exactly that. I’m not saying that you need a Ph.D. or a chair at a fancy university; I’m saying that you need to do your homework.
In a better world, none of this would be relevant. Policy disputes would be based on defensible, well-informed positions, on which reasonable people could disagree, and people who were proved wrong would acknowledge that fact and revise their views. Also, everyone would get a pony.
La civiltà delle lagne
A questo punto nel grande dibattito su inflazione-deflazione, molto di quello che i fissati dell’inflazione hanno preso a dire ha preso la forma di una lagna sulla asprezza dei loro critici – naturalmente, del sottoscritto in particolare. Direi che di fatto si tratta della confessione di essere rimasti senza difese sostanziali della loro posizione – anche se suppongo sarei io a dirlo, non è così?
Ma c’è qualcos’altro che si deve sapere; gli sciocchi [1] dell’inflazione non solo sono ignoranti di politica monetaria, neppure capiscono le regole della argomentazione. In particolare, la lamentela costante sugli attacchi “ad hominem” dimostra che non sanno neppure cosa significhi.
Penso che la definizione di Wikipedia sia abbastanza buona: un “ad hominem” è:
“una forma di critica indirizzata verso qualcosa che riguarda la persona che viene criticata, anziché (almeno virtualmente) verso qualcosa che è indipendente da quella persona.”
Così, se ad esempio qualcuno che discute le mie opinioni si riferisce a me come “Paul Krugman, consulente della Enron [2]”, quello è un “ad hominem”. Ma se io dico che gli inflazionisti sono stati
“a cincischiare, rifiutando di riconoscere di aver detto quello che avevano detto, essendo del tutto indisposti ad ammettere errori”
Questo, per la verità, non è “ad hominem”; io sto attaccando come questa gente argomenta, non le loro caratteristiche personali.
Che dire del lessico che abbiamo sviluppato nel corso degli ultimi anni – zombi, scarafaggi, fate della fiducia, stupidotti? Sono tutti termini che si riferiscono agli argomenti, non alle persone. Io non ho definito Olli Rehn uno scarafaggio, mi sono solo riferito al suo giudizio storicamente infondato, secondo il quale Keynes, a fronte di un debito elevato, non si sarebbe pronunciato a favore di misure di sostegno pubblico.
Il punto è che da nessuna parte, per quanto ne so, mi sono basato su attacchi personali in sostituzione di argomenti sostanziali. Non ho mai accusato nessuno di praticare la stupidità senza mostrare che, in effetti, ne stava facendo uso.
Inoltre, perché usare un tale linguaggio colorito? Per provocare l’attenzione delle persone, naturalmente, e mettere in luce la pura e semplice dimensione della follia. E funziona, non è vero?
Ora, le persone che avanzano argomenti zombi e si impegnano in stupidaggini si sentono profondamente insultate da tutto ciò. Ma se avete intenzione di impegnarvi in un dibattito pubblico, con concretissimi interessi politici che interessano le esistenze di milioni di persone che sono in ballo, non avete diritto a veder trattati con rispetto i vostri argomenti se essi non lo meritano.
Una cosa ancora: io penso che la brigata degli stupidotti non comprenda neppure cosa significhi argomentare su basi di autorevolezza. Quando dico che non si dovrebbero fare congetture sulla politica monetaria se non si è disponibili ad investire un po’ di tempo nella comprensione del dibattito monetario, non sto dicendo altro che quello. Non sto dicendo che c’è bisogno di un dottorato o di una cattedra in una università di prestigio; sto dicendo che c’è bisogno di fare i compiti a casa.
In un mondo migliore, niente di questo sarebbe rilevante. Le dispute politiche sarebbero basate su posizioni giustificabili ed aggiornate, sulle quali le persone ragionevoli potrebbero non concordare, e chi fosse trovato in errore riconoscerebbe il fatti e modificherebbe i suoi punto di vista. E ognuno avrebbe in regalo un trenino![3]
[1] “Derper” – il sostantivo di “derp” – è spiegato nella nota sul post precedente.
[2] Nel passato Krugman svolse una attività di consulenza per la società Enron, che fu oggetto di varie critiche. La multinazionale americana, infatti, fallì nel 2011 e l’improvviso crollo del valore delle sue azioni danneggiò gravemente i suoi dipendenti, che ne possedevano. Non danneggiò invece i dirigenti, che le vendettero tutte per tempo.
[3] Nel senso che un mondo del genere appare utopistico. Quanto al regalo, un pony evidentemente non è un trenino, ma i cavallini da noi non sono frequenti come regali ai bambini.
ottobre 17, 2014
Oct 17 7:30 pm
Via Business Insider, Zero Hedge directed its readers to an “excellent interview” in which Jim Rogers declared that “we are all going to pay a terrible price for all this money-printing and debt.” And I asked the obvious question: How long has Rogers been predicting a printing-press-and-deficits disaster?
The answer is, a very, very long time. Here he is in October 2008 — six full years ago — declaring that we were setting the stage for a “massive inflation holocaust.”
Now, you might have thought that after years of being completely wrong (with a diversion into inflation trutherism), one of two things would happen: 1. Rogers would question his own premises 2. People would stop taking his views on macroeconomics seriously.
But no. His views haven’t changed (and given what we’ve seen from others of similar views, he would deny that anything was amiss with his predictions); and he’s still treated by financial media as a source of deep wisdom.
The ability of inflation derp to persist, even flourish, in an age of disinflation remains remarkable.
L’idiozia dell’inflazione continua.
Tramite Business Insider, Zero Hedge indirizza I suoi lettori ad un “eccellente intervista” nella quale Jim Rogers ha dichiarato che “stiamo andando tutti a pagare un prezzo terribile per tutto questo stampare moneta e per tutto questo debito”. Ed io ho posto la nota domanda: da quanto tempo Rogers sta prevedendo il disastro dello stampare e dei deficit?
La risposta è: da un lunghissimo tempo. Eccolo in questa connessione dell’ottobre 2008 – sei anni pieni orsono – mentre dichiara che stiamo preparando la scena per “un olocausto di massiccia inflazione”.
Ora, potreste pensare che dopo anni di errori su tutta la linea (con una digressione sino alla negazione in chiave di complotto dei dati sull’inflazione), dovrebbe essere accaduta una di queste due cose: 1 – Rogers avrebbe dovuto mettere in dubbio le sue stesse premesse; 2 – la gente avrebbe dovuto smettere di prendere sul serio i suoi punti di vista sulla macroeconomia.
Invece no. I suoi punti di vista non sono cambiati ( e dato quello che abbiamo osservato da parte di altri con punti di vista simili, semmai negherebbe che ci sia mai stato niente di scorretto nelle sue previsioni); e continua ad essere considerato dai media finanziari come un fonte di profonda saggezza.
La capacità dell’idiozia [1] dell’inflazione di restare sul campo in un’epoca di disinflazione, e persino di prosperare, resta considerevole.
[1] “Derp” è una termine che si trova raramente sui dizionari, se non sono strumenti particolari come “UrbanDictionary”. Pare sia stato introdotto – o reintrodotto – da un omonimo personaggio delle serie di South Park; un individuo piuttosto stupido che entra in scena esclamando “derp!” come un suono di riconoscimento e contemporaneamente picchiandosi la testa con un martello. Ma i “derp” dell’inflazione si guardano bene dal picchiarsi in testa con un martello e dall’ammettere alcunché.
ottobre 15, 2014
Oct 15 10:15 am
From the beginning, economists who had studied the Great Depression warned that policy makers needed, above all, to be careful not to pull another 1937 — a reference to the fateful year when FDR prematurely tried to balance the budget and the Fed prematurely tried to normalize monetary policy, aborting the recovery of the previous four years and sending the economy on another big downward slope.
Unfortunately, these warnings were ignored. True, the Fed at least stood up to the inflationistas demanding tighter money now now now; but its actions were at the least hobbled by the chorus. The ECB actually did raise rates for a while, as did the Riksbank in Sweden. And fiscal austerity driven by fear of the invisible bond vigilantes (and justified by faith in the confidence fairy) was the norm everywhere, although worse in Europe.
And now things are sliding everywhere. Actually, Europe already had one 1937, with its slide into a double-dip recession; but now it’s very much looking like another. And the world economy as a whole is weakening fast.
So now we have another milestone: Earlier today the 10-year yield dropped below 2 percent. It’s up again slightly as I write this, but all the market signals are saying that once again the big risk is deflation or at least very sub-par inflation.
I hope that the Fed will stop talking about exit strategies for a while. We are by no means out of the Lesser Depression.
1937
Sin dagli inizi, gli economisti che avevano studiato la Grande Depressione avevano messo in guardia che gli operatori politici avevano soprattutto bisogno di non tirar fuori un altro 1937 – un riferimento all’anno disastroso nel quale Franklin Delano Roosevelt cercò prematuramente di mettere in equilibrio il bilancio e la Fed cercò prematuramente di normalizzare la politica monetaria, con il che abortì la ripresa dei quattro anni precedenti e si spedì l’economia su un altro grande pendio scosceso.
Sfortunatamente questi ammonimenti vennero ignorati. E’ vero, la Fed almeno resistette ai fissati dell’inflazione che chiedevano una restrizione monetaria senza perdere un istante; ma le sue azioni furono come minimo danneggiate da quel coro. Per la verità la BCE per un po’ elevò per davvero i tassi, come ha fatto la Riksbank in Svezia. E l’austerità della finanza pubblica guidata dalla paura degli invisibili guardiani dei bond (e giustificata dalla fede nella fata della fiducia) fu la norma dappertutto, sebbene in Europa in modo peggiore.
Ed ora le cose stanno scivolando dappertutto. In effetti, l’Europa ha già avuto un 1937, con il suo scivolone in una seconda tappa della recessione; ma ora sembra molto probabile ce ne sia un’altra. E l’economia mondiale nel suo complesso si sta indebolendo rapidamente.
Abbiamo dunque un’altra pietra miliare: agli inizi della giornata il rendimento dei bond decennali è sceso al di sotto del 2 per cento. Sta risalendo leggermente nel mentre scrivo, ma tutti i segnali del mercato stanno dicendo che una volta ancora il grande rischio è la deflazione o almeno una inflazione al di sotto della norma.
Io spero che la Fed smetterà per un po’ di ragionare di strategie di uscita. Non siamo in alcun modo fuori dalla Depressione Minore[1].
[1] Depressione Minore sta a significare la crisi di questi anni, che è anche definita Grande Recessione. Quella degli anni ’30 è invece chiamata Grande Depressione. Nel gergo economico, come è noto, la depressione è un fenomeno più grave della recessione. Il problema è che, soprattutto in Europa, le stime che servono a definire l’entità di una crisi, la sua natura depressiva o recessiva, sono meno scrupolose che negli USA. Può così accadere che si considerino come due o tre recessioni successive, eventi che in realtà sono evidentemente connessi in una unica trama. Se la durata e l’intensità di quelle recessioni venisse sommata, il risultato sarebbe quello di una depressione più grave che negli anni Trenta. E così, ad esempio, nel caso dell’Italia; nel cui caso definire la depressione in corso come ‘minore’ rispetto agli anni Trenta è forse impreciso. Sicuramente lo è in relazione alla durata.
ottobre 14, 2014
Oct 14 6:17 pm
Cliff Asness, one of the signers of the infamous open letter warning Ben Bernanke that his policies risked debasing the dollar, weighs in with a complaint that I am being a big meanie. As Brad DeLong immediately notes, what Asness mainly ends up doing is showing that he doesn’t at all get the whole notion of the liquidity trap, and the resulting irrelevance of monetary expansion to both prices and output.
Clearly, Asness has never read anything at all on the subject — not what I’ve written, not what Mike Woodford has written, not what Ben Bernanke has written. And he seems to view the failure of inflation to follow from quantitative easing as some sort of weird coincidence, not what anyone who applied basic macroeconomics to the situation predicted.
Now, I understand that busy people can’t keep track of everything, and even that you can sometimes be a successful money manager without reading up on monetary economics. But if you’re one of those people who don’t have time to understand the monetary debate, I have a simple piece of advice: Don’t lecture the chairman of the Fed on monetary policy.
Nessuno capisce la trappola di liquidità, versione Cliff Asness
Cliff Asness, uno dei firmatari della famigerata lettera aperta che ammoniva Ben Bernanke che le sue politiche rischiavano di svalutare il dollaro, interviene con una lamentela secondo la quale io starei diventando un individuo meschino. Come Brad DeLong immediatamente osserva, quello che Asness fondamentalmente continua a fare è mostrare che egli non ha per niente compreso l’intero concetto della trappola di liquidità, e la conseguente irrilevanza della espansione monetaria sia verso i prezzi che verso la produzione.
Chiaramente, Asness non ha mai letto niente su quel tema – non quello che ho scritto io, non quello che ha scritto Mike Woodford, non quello che ha scritto Ben Bernanke. Ed egli sembra considerare il fatto che l’inflazione non sia venuta dietro la facilitazione quantitativa come una misteriosa coincidenza, non come qualcosa che chiunque applichi alla situazione la macroeconomia di base poteva prevedere.
Ora, io capisco che le persone indaffarate non possono andar dietro a tutto, e che vi può persino capitare di essere un manager finanziario di successo, senza aver letto di economia monetaria. Ma se siete una di quelle persone che non hanno tempo per capire il dibattito monetario, vi do un semplice consiglio: non fate ramanzine al Presidente della Fed sulla politica monetaria.
ottobre 14, 2014
Oct 14 12:55 pm
Olivier Blanchard has gotten a lot of ribbing, from me among others, for his 2008 paper proclaiming that “the state of macro is good.” My critique was that Olivier was in a state of denial about the Dark Age of macroeconomics; when crisis struck and action became necessary, it became all too clear that freshwater macro had unlearned everything Keynes and Hicks had taught – and also that the desperate New Keynesian attempt to appease the rational expectations crowd had not only failed in that purpose, but arguably hobbled efforts to think clearly about anything that didn’t fit easily into a model where everything except price stickiness reflected maximization..
I would argue that Olivier’s latest version, which concedes that there are “dark corners” where the rational expectations approach doesn’t work, is still trying too hard to appease the unappeasable. But Arnold Kling offers a different critique: he thinks that Blanchard is demonstrating “modeling hubris.” And that, I’d argue, is all wrong.
First of all, whenever somebody claims to have a deeper understanding of economics (or actually anything) that transcends the insights of simple models, my reaction is that this is self-delusion. Any time you make any kind of causal statement about economics, you are at least implicitly using a model of how the economy works. And when you refuse to be explicit about that model, you almost always end up – whether you know it or not – de facto using models that are much more simplistic than the crossing curves or whatever your intellectual opponents are using.
Think, in particular, of all the Austrians declaring that the economy is too complicated for any simple model – and then confidently declaring that the Fed’s monetary expansion would cause runaway inflation. Whatever they may have imagined, they were in practice using a crude quantity-theory model of the price level.
And as I have often tried to explain, the experience of the past six years has actually been a great vindication for those who relied on a simple but explicit model, Hicksian IS-LM, which made predictions very much at odds with what a lot of people who didn’t use explicit models were sure would happen.
Suppose that you didn’t know about IS-LM and the concept of the liquidity trap. You would (and many did) look at the growth of the monetary base, and predict huge inflation:
And you could (and many did) look at government borrowing, and predict soaring interest rates:
But if you understood IS-LM, you realized that both the relationship between money and inflation and the relationship between borrowing and interest rates break down at the zero lower bound; and so they did.
If you don’t think these successful predictions are a big deal, go back and read the dismissive, vituperative comments those of us who predicted low inflation and interest rates faced back in 2009.
And a somewhat related point: when people claim to have a sophisticated understanding that transcends models, what, exactly, would they ever regard as evidence that their sophisticated understanding is, you know, wrong?
Le condizioni della macroeconomia, sei anni dopo
Olivier Blanchard si procurò non poca ironia, dal sottoscritto tra gli altri, per il suo saggio del 2008 nel quale proclamava che “lo stato della macroeconomia è buono”. La mia critica fu che Olivier era in una condizione di incredulità rispetto all’Età Buia della macroeconomia; quando la crisi esplose e divenne necessario agire, diventò anche troppo chiaro che la macroeconomia dell’ “acqua dolce” [1] aveva disimparato tutto quello che Keynes ed Hicks avevano insegnato – ed anche che il disperato tentativo dei neokeynesiani di accontentare il ‘popolo delle aspettative razionali’ [2] non solo aveva fallito i suoi scopi, ma probabilmente aveva compromesso gli sforzi per riflettere con chiarezza su ogni cosa che non si adattasse facilmente dentro un modello nel quale tutto, ad eccezione della rigidità dei prezzi, rifletteva la logica della massimizzazione [3]…
Direi che l’ultima versione di Olivier, nella quale egli ammette che ci sono ‘angoli bui’ dove l’approccio delle aspettative razionali non funziona, è ancora un tentativo troppo difficile per placare ciò che è inappagabile. Ma Arnold Kling offre una critica diversa: egli pensa che Blanchard stia dimostrando una “alterigia della modellazione”. E quello, direi, è del tutto sbagliato.
Prima di tutto, ogni qual volta qualcuno pretende di avere una comprensione più profonda dell’economia (o, per la verità, di ogni cosa) che trascenda le intuizioni dei semplici modelli, la mia reazione è che questo sia un auto illudersi. In qualsiasi momento avanzate un qualche genere di affermazione causale sull’economia, state almeno implicitamente utilizzando un modello di come l’economia funziona. E quando rifiutate di essere espliciti su quel modello, di fatto quasi sempre finite – che ve ne accorgiate o meno – con l’usare modelli che sono molto più semplicistici delle scorciatoie o di qualsiasi altra cosa gli intellettuali vostri avversari stiano utilizzando.
Si pensi, ad esempio, a tutte le dichiarazioni degli economisti ‘austriaci’ [4] secondo le quali l’economia è troppo complicata per un qualsiasi semplice modello – salvo poi affermare convintamente che l’espansione monetaria della Fed provocherà una inflazione galoppante. Qualsiasi cosa si fossero immaginati, in pratica stavano utilizzando un rudimentale modello del livello dei prezzi della teoria quantitativa.
E, come ho spesso cercato di spiegare, l’esperienza dei sei anni passati è stata un grande risarcimento per coloro che si erano affidati ad un modello semplice ma esplicito, il modello hicksiano IS-LM, che ha fornito previsioni in conflitto con quello che una quantità di persone che non utilizzavano modelli espliciti erano certe sarebbe accaduto.
Supponiamo che voi non conosciate il modello IS-LM ed il concetto di trappola di liquidità. Osservereste (molti l’hanno fatto) la crescita della base monetaria, ed avanzereste la previsione di una vasta inflazione:
Inoltre potreste osservare (e molti l’hanno fatto) l’indebitamento pubblico, e prevedere che i tassi di interesse salgano alle stelle:
Ma se avete compreso il modello IS-LM, avete realizzato che sia la relazione tra la moneta e l’inflazione che quella tra indebitamento e tassi di interesse vengono meno quando si perviene al limite inferiore dello zero dei tassi; e così è stato.
Se non pensate che queste previsioni di successo siano una cosa importante, tornate a leggere i commenti liquidatori ed offensivi che quelli tra noi che avevano previsto una bassa inflazione e bassi tassi di interesse dovettero affrontare nel passato 2009.
Inoltre, un aspetto collegato: quando le persone sostengono di avere una comprensione sofisticata che trascende i modelli, che cosa, esattamente, considererebbero come una prova che la loro sofisticata comprensione, alla luce dei fatti, si è dimostrata sbagliata?
[1] Sul significato di “freshwater” e “saltwater” nella storia del dibattito economico americano, vedi le note sulla traduzione.
[2] Ovvero, gli economisti neoclassici.
[3] Il concetto di “massimizzazione” è un altro architrave degli economisti neoclassici.
[4] Per gli economisti “austrian” vedi le note sulla traduzione.
ottobre 14, 2014
Oct 14 12:36 pm
I’m late coming in on the Tirole Nobel – busy with real life – and many people have already weighed in on his contribution. But I though I might still have something useful to say about what the New Industrial Organization, of which he was the most important figure, actually did – namely, it made it safe to be strategically silly, to the great benefit of economics.
What do I mean by that? Before the new IO, economists wrote about perfect competition and monopoly, then acknowledged (if they were honest) that most of the real economy seemed to consist of oligopoly – competition among the few – but did little there except some hand-waving. Why? Because there was no general model of oligopoly.
And there still isn’t. When you have a small number of players, each able to have a significant effect on prices, lots of things can happen. They can collude – maybe implicitly, if there is an effectively enforced antitrust law; but what are the limits of collusion, and why and when does it sometimes break down? We like to assume that firms maximize profits, but what does that even mean when there are small-group interactions that create prisoners’-dilemma-type situations?
And yet you do want to model the economy, to think about stuff – and sometimes that stuff can’t be modeled without addressing imperfect competition. That was very much the case in my home field of trade, where even trying to model the role of increasing returns meant dealing with the fact that increasing returns internal to firms must cause perfect competition to break down.
Before the new IO came along, the way economics dealt with such issues was to assume them away. Increasing returns as a cause of trade? Hey, you can’t deal with that because we don’t have a theory of imperfect competition, so we have to assume that it’s all comparative advantage. (Harry Johnson once wrote a more or less triumphant paper to that effect.) Investment in R&D, and the temporary market power that results, as a source of technological progress? No can do.
What new IO brought was not so much a solution as an attitude. No, we don’t have a general model of oligopoly – but why not tell some stories and see where they lead? We can simply assume noncooperative price (or quantity) setting; yes, real firms are probably going to find ways to collude, but we might learn interesting things by working through the case where they don’t. We can make absurd assumptions about tastes and technology that lead to a tractable version of monopolistic competition; no, real markets don’t look like that, but why not use this funny version to think about increasing returns in trade and growth?
Basically, the new IO made it OK to tell stories rather than proving theorems, and thereby made it possible to talk about and model issues that had been ruled out by the limits of perfect competition. It was, I can tell you from experience, profoundly liberating.
Of course, there came a later phase when things were too liberated – when a smart grad student could produce a model to justify anything. Time for empirical work! But by then a lot had been achieved.
Jean Tirole [1] e il trionfo della stupidità calcolata
Intervengo in ritardo sul Nobel a Tirole – impegni nella vita quotidiana – dopo che molte persone hanno già dato il loro contributo. Eppure ho pensato che avrei potuto avere qualcosa di utile da dire su ciò che la Nuova Organizzazione Industriale, della quale egli è stato l’esponente più significativo, ha effettivamente comportato – in particolare, ha reso sicuro l’essere strategicamente ‘sciocchi’, con un grande beneficio per l’economia.
Cosa intendo con questo? Prima della Nuova Organizzazione Industriale, gli economisti scrivevano sulla competizione perfetta e sul monopolio, poi ammettevano (se erano onesti) che gran parte della economia effettiva sembrava consistere nell’oligopolio – la competizione tra pochi – ma su quello c’era poco da fare, ad eccezione di un po’ di divagazioni. Perché? Perché non c’era alcun modello generale dell’oligopolio.
E non c’è ancora. Quando avete un piccolo numero di attori, ciascuno capace di avere un effetto significativo sui prezzi, possono accadere molte cose. Essi possono mettersi d’accordo – forse senza darlo a vedere, se c’è una legislazione antitrust effettivamente rispettata; ma quali sono i limiti alla loro intesa; e perché e quando ciò talvolta viene meno? Ci piace assumere che le imprese massimizzino i profitti, ma che cosa persino significa tutto ciò quando ci sono interazioni di piccoli gruppi che creano situazioni del tipo ‘il dilemma dei prigionieri’ [2]?
E tuttavia voi avete davvero bisogno di modellare l’economia, per pensare alle cose – e talvolta quelle cose non possono essere modellate senza rivolgersi alla competizione imperfetta. Quello era in particolare il caso della mia disciplina di origine del commercio, dove persino cercare di modellare il ruolo dei rendimenti crescenti significava misurarsi con il fatto che i rendimenti crescenti all’interno delle imprese possono provocare una rottura della competizione perfetta.
Prima che la Nuova Organizzazione Industriale comparisse, il modo in cui l’economia si misurava con tali temi era considerarli ininfluenti. I rendimenti crescenti come una causa di commercio? Ehi, non ci si può misurare con questo perché non abbiamo una teoria della competizione imperfetta, dunque dobbiamo assumere che si tratti in tutti i casi di vantaggio comparativo (Harry Johnson scrisse a tale scopo un saggio più o meno trionfale). Gli investimenti in ricerca e sviluppo ed il provvisorio potere sul mercato che ne consegue, come una fonte di progresso tecnologico? Chi lo sa?
Quello che la Nuova Organizzazione Industriale portò non fu tanto una soluzione quanto una attitudine. No, non abbiamo un modello generale dell’oligopolio – ma perché non raccontare alcune storie e vedere dove portano? Possiamo semplicemente assumere di stabilire un prezzo (od una quantità) con modalità non-cooperative; sì, le imprese vere e proprie probabilmente stanno orientandosi a trovare modi per intendersi tra loro, ma potremmo apprendere cose interessanti lavorando sull’ipotesi che non lo facciano. Possiamo avanzare assunti assurdi sui gusti e sulla tecnologia che portino ad una versione trattabile della competizione monopolistica; no, i mercati reali non sembrano fatti in quel modo, ma perché non utilizzare questa curiosa simulazione per pensare ai rendimenti crescenti nel commercio e nella crescita?
Fondamentalmente, la Nuova Organizzazione Industriale si è rivelata idonea a raccontare storie, piuttosto che a provare teoremi, e di conseguenza ha reso possibile parlare e modellare tematiche che erano state escluse per effetto dei limiti della competizione perfetta. Fu, posso raccontarlo a ragion veduta, profondamente liberatorio.
Naturalmente, venne una fase successiva nella quale le cose divennero troppo libere – quando un intelligente studente universitario poteva produrre un modello per giustificare tutto. L’epoca del lavoro empirico! Ma a quel punto molte cose erano state realizzate.
[1] Jean Tirole è nato in Francia nel 1953 ed è laureato in ingegneria, i suoi studi sull’analisi sul funzionamento e la regolazione dei mercati sono valsi il riconoscimento da parte dell’accademia svedese. Stoccolma, conferendo il riconoscimento, ha evidenziato che il premio 2014 va a “uno degli economisti più influenti del nostro tempo”. In particolare, Tirole ha il merito di aver “reso chiaro come comprendere e regolare i mercati in cui ci sono poche aziende potenti”. Tirole è il direttore della fondazione Jean-Jacques Laffont della Toulouse School of Economics, nonché direttore scientifico dell’Istituto di economia industriale (IDEI) di Tolosa. Oltre agli studi sull’economia industriale, Tirole si occupa di micro e macroeconomia, della teoria dei giochi, della teoria bancaria e finanziaria.
[2] Si tratta di una esemplificazione, tratta dalla ‘Teoria dei giochi’, di una situazione che può capitare a due prigionieri (ma anche a due Nazioni che hanno entrambe l’arma atomica!). Se ad entrambi viene descritta una situazione per la quale ci sono diverse vie d’uscita, a seconda che uno dei due confessi, o che nessuno confessi, o che entrambi confessino …. La decisione apparentemente più conveniente sarebbe la non confessione di entrambi, perché la pena sarebbe la minima per entrambi. Ma tale scelta suppone una forte fiducia reciproca, che può risultare improbabile (il rischio che l’altro venga meno alla fiducia è forte).
ottobre 12, 2014
Oct 12 9:26 pm
Wolfgang Münchau says the right thing: Germany doesn’t actually have a strong domestic economy. It’s more or less at full employment thanks to an immense trade surplus that has yet to diminish significantly:
Eurostat
And even so, and despite negative real interest rates, it’s not in a roaring boom. Without that huge surplus — driven, as Münchau says, by investment booms abroad — Germany would be very clearly in the grips of secular stagnation.
The idea that Germany is a useful role model depends on Ordoarithmetic — the view that what we need is for everyone to run enormous trade surpluses at the same time.
La debolezza tedesca
Wolfgang Münchau dice la cosa giusta: la Germania per la verità non ha una forte economia interna. E’ più o meno in piena occupazione grazie ad un immenso surplus commerciale, che tuttavia deve diminuire in modo significativo:
Eurostat
Ed anche così, e nonostante tassi di interesse reali negativi, non si trova in un boom fiorente. Senza quel vasto surplus – guidato, come sostiene Münchau dalla grande espansione di investimenti all’estero – la Germania sarebbe con tutta evidenza alle prese con la stagnazione secolare.
L’idea che la Germania sia un utile modello guida deriva da una aritmetica primitiva [1] – il punto di vista secondo il quale abbiamo bisogno che tutti realizzino enormi surplus commerciali contemporaneamente.
[1] “Ordoarithmetic” è anche il titolo di un recente post di Krugman, del primo ottobre. Se “ordo”, nel neologismo, è utilizzato nel senso di un antico e sacrale complesso di tradizioni intellettuali, mi pare si possa tradurre con primitivo.
ottobre 11, 2014
Oct 11 10:39 am
Anyone who works in international monetary economics is familiar with Dornbusch’s Law:
The crisis takes a much longer time coming than you think, and then it happens much faster than you would have thought.
And so it is with the latest euro crisis. Not that long ago the austerians who had dictated macro policy in the euro area were strutting around, proclaiming victory on the basis of a modest uptick in growth. Then inflation plunged and the eurozone economy began to sputter — and perhaps more important, everyone looked at the fundamentals again and realized that the situation remains extremely dire.
Now, things looked very dire in the summer of 2012, too, and Mario Draghi pulled Europe back from the brink. And maybe, just maybe, he can do it again. But the task looks much harder.
In 2012, the problem was very high borrowing costs in the periphery — which we now know were driven more by liquidity issues than solvency concerns. That is, the markets basically feared that Spain or Italy might default in the near term because they would literally run out of money — and market fears threatened to turn into a self-fulfilling prophecy. And all it took to defuse that crisis was three words: “Whatever it takes”. Once the prospect of a cash shortage was taken off the table, the panic quickly subsided, and at this point both Spain and Italy have historically low borrowing costs.
What’s happening now, however, is very different. It’s a slower-motion crisis, involving the euro area as a whole, which is sliding into a deflationary trap with the ECB already essentially at the zero lower bound. Draghi can try to get traction through quantitative easing, but it’s by no means clear that this could do the trick even under the best of circumstances — and in reality he faces severe political constraints on what he can do.
What strikes me, also, is the extent of intellectual confusion that remains. Germany still seems determined to regard the whole thing as the wages of fiscal irresponsibility, which not only rules out effective fiscal stimulus but hobbles QE, since it’s anathema for them to consider buying government debt.
And it’s remarkable, too, how the logic of the liquidity trap remains elusive even after six years — six years! — at the zero lower bound. Not the worst example, but I read Reza Moghadam today:
Wages and other labour costs are simply too high, even by the standards of rich countries, let alone emerging markets competitors.
Augh! If it’s external competitiveness you’re worried about, depreciating the euro is what you want, not wage cuts. And cutting wages in a liquidity-trap economy almost surely deepens the slump. How can this not be part of what everyone understands by now?
Europe has surprised many people, myself included, with its resilience. And I do think the Draghi-era ECB has become a major source of strength. But I (and others I talk to) are having an ever harder time seeing how this ends — or rather, how it ends non-catastrophically. You may find a story in which Marine Le Pen takes France out of both the euro and the EU implausible; but what’s your scenario?
Europanico 2
Chiunque si occupi di economia monetaria internazionale ha familiarità con la Legge di Dornbusch [1]:
“La crisi prende un tempo molto più lungo di quello che si pensi a manifestarsi, e in seguito ciò accade molto più velocemente di quello che si era pensato.”
E dunque siamo all’ultima crisi dell’euro. Non quella rispetto alla quale da molto tempo i filoausteri che avevano imposto la politica economica nell’area euro si erano pavoneggiati, proclamando vittoria sulla base di un minimo ritocco alla crescita. Poi l’inflazione è crollata e l’economia dell’eurozona ha cominciato a batter colpi – e forse più importante ancora, tutti hanno nuovamente esaminato i dati fondamentali ed hanno realizzato che la situazione resta estremamente tragica.
Ora, le cose sembravano molto gravi anche nell’estate del 2012, e Mario Draghi tirò fuori l’Europa dall’abisso. Forse, solo forse, lo può fare ancora. Ma il compito appare molto più difficile.
Nel 2012, il problema erano gli alti costi dell’indebitamento nella periferia – che ora sappiamo furono determinati più da problemi di liquidità che da preoccupazioni sulla solvibilità. Vale a dire, i mercati temevano che la Spagna e l’Italia potessero andare in default nel breve termine perché sarebbero rimaste letteralmente senza moneta – e le paure dei mercati minacciarono di trasformarsi in una profezia che si autoavvera. E tutto quello che fu necessario per disinnescare la crisi furono queste parole: “Tutto quello che ci vuole”. Una volta che la prospettiva di una scarsità di contante venne tolta dal tavolo, il panico rapidamente passò e a questo punto sia la Spagna che l’Italia hanno costi di indebitamento ai minimi storici.
Quello che sta avvenendo adesso, tuttavia, è molto diverso. C’è una crisi al rallentatore, che sta scivolando in un trappola deflazionistica con la BCE già sostanzialmente al limite inferiore dello zero con i tassi. Draghi può cercare di ottenere trazione attraverso la ‘facilitazione quantitativa’ [2], ma non è in nessun modo sicuro che questo possa servire allo scopo neppure nelle migliori circostanze – e in realtà egli deve far fronte a gravi condizionamenti politici quanto alle sue possibilità di agire.
Quello che mi stupisce, inoltre, è la misura della confusione intellettuale che resta in campo. La Germania sembra ancora determinata a considerare l’intera faccenda come il compenso per l’irresponsabilità finanziaria, la qualcosa non solo esclude efficaci misure di sostegno della spesa pubblica ma azzoppa la facilitazione quantitativa, dato che per essi considerare di comperare i debiti pubblici è un anatema.
Ed è anche considerevole come la logica della trappola di liquidità resti inafferrabile dopo sei anni – sei anni! – di limite inferiore dello zero nei tassi di interesse. Non è l’esempio peggiore, ma leggo Reza Moghadam oggi:
“I salari ed i costi del lavoro sono semplicemente troppo alti, persino per gli standard di paesi ricchi, per non dire dei competitori dei mercati emergenti.”
Per la miseria! Se è la competitività verso l’esterno che vi preoccupa, quello che vi serve è svalutare l’euro, non tagliare i salari. Tagliare i salari in una trappola di liquidità quasi certamente approfondisce la crisi. Come è possibile che, a questo punto, questo non faccia parte di quello che capiscono tutti?
L’Europa ha sorpreso molti, incluso il sottoscritto, con la sua flessibilità. Ed io penso per davvero che la BCE dell’era di Draghi sia diventata una fonte importante di forza. Ma io (ed altri con i quali parlo) siamo in una difficoltà sempre più grande nel capire come andrà a finire – o piuttosto, come possa finire in modo non catastrofico. Potete pensare che una storia per la quale Marine Le Pen porti la Francia fuori sia dall’euro che dall’Unione Europea non sia plausibile; ma quale è il vostro scenario?
[1] Rudiger “Rudi” Dornbusch (Krefeld, 8 giugno 1942 – Washington, 25 luglio 2002) è stato un economista tedesco. Ha studiato all’Università di Ginevra ed ha conseguito nel 1971 il Ph.D. presso l’Università di Chicago. Robert Mundell, premio Nobel dell’economia nel 1999, scoprì le sue grandi doti durante una visita all’Università di Ginevra e lo portò con sé all’Università di Chicago. Francesco Giavazzi, nel suo obituario apparso sul Corriere della Sera, così racconta l’episodio: “C’era stata una scintilla tra Rudi e Mundell, a Ginevra, nel 1968. Rudi era uno studente un po’ annoiato di Scienze politiche. Mundell, passando per Ginevra, si accorse di questa straordinaria intelligenza e lo portò con sé all’università di Chicago”. Ha insegnato tra le altre nelle Università di Chicago, di Rochester, di Londra (London School of Economics) prima di approdare al Massachusetts Institute of Technology di Boston. Al Mit è stato per 27 anni. La sua impronta alla moderna economia internazionale l’ha fornita oltre che con i suoi numerosi scritti sulle più importanti riviste scientifiche anche seguendo più di 125 tesi di Ph.D. I suoi contributi pubblicati su riviste ed in capitoli di libri ammontano a più di 300. Il suo testo universitario sulla macroeconomia scritto a quattro mani con Stanley Fischer è un manuale per i corsi di base di economia che negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso è stato il più diffuso a livello mondiale. (Wikipedia)
[2] Vedi a “quantitative easing” sulle note della traduzione.
ottobre 8, 2014
Oct 8 4:00 pm
The CBO tells us that the federal deficit is way down — under 3 percent of GDP. And Jared Bernstein notes that Obama seems to get no credit.
You may ask, what did you expect? But the truth is that a few years ago many pundits claimed that Obama would reap big political rewards by being the grownup, the responsible guy who Did What Had To Be Done. Worse, some reports said that the White House political staff believed this.
It was, of course, nonsense on multiple levels. While pundits may like to script out elaborate psychodramas about voter perceptions, real perceptions bear no relationship to their scripts — in fact, a majority think the deficit has gone up on Obama’s watch, while only a small minority know that it’s down.
And the deficit scolds themselves are unappeasable — nothing that doesn’t involve severely damage Social Security and/or Medicare will satisfy them. Why, it’s almost as if shredding the safety net, not reducing the deficit, was their real goal.
Deficit obsession has been immensely destructive as an economic matter. But it has also involved major political malpractice.
Il deficit è sceso e nessuno lo sa o se ne occupa
Il Congressional Budget Office ci dice che il deficit federale è sceso sotto il 3 per cento del PIL. E Jared Bernstein osserva che Obama sembra non ottenerne credito.
Potreste chiedere, cosa ti aspettavi? Ma la verità è che pochi anni fa molti commentatori sostenevano che Obama avrebbe raccolto un grande riconoscimento politico dall’essere il personaggio maturo e responsabile che “faceva quello che andava fatto”. Peggio ancora, secondo alcuni resoconti lo staff politico della Casa Bianca credeva una cosa del genere.
Era, evidentemente, una cosa insensata da molti punti di vista. Se agli addetti ai lavoro può piacere metter giù elaborati psicodrammi sulle percezioni dell’elettorato, le percezioni vere non hanno alcuna relazione con i loro copioni – di fatto, la maggioranza pensa che il deficit sia salito sotto la vigilanza di Obama, mentre solo una piccola minoranza sa che esso è sceso.
E le stesse Cassandre del deficit sono inesorabili – niente che non includa un grave danno al sistema della Sicurezza Sociale e/o a Medicare li può soddisfare. Perché è come se il loro vero obbiettivo fosse distruggere le reti della sicurezza, non ridurre il deficit.
L’ossessione del deficit è stata immensamente distruttiva da un punto di vista economico. Ma ha anche riguardato un grave malcostume politico.
ottobre 8, 2014
Oct 8 8:49 am
I’m at an IMF seminar today, discussing infrastructure investment — or actually lack thereof. And this is a good time to think about what we’ve actually done.
Consider the situation: real interest rates are extremely low, indicating that the private sector sees very little opportunity cost in using funds for public investment. There has been a lot of slack in the labor market, so that many of the workers one would employ in public investment would otherwise have been idle — so very little opportunity cost there either. This makes a very strong case for sharply increasing public investment in a depressed economy; a case that doesn’t rely on claims that there is a large multiplier, although there’s every reason to believe that this is also true.
So, what has actually happened? Public construction spending as a share of GDP, along with the 10-year real interest rate:
A brief uptick thanks to the ARRA, then a plunge. This is hugely dysfunctional policy.
La follia del disinvestimento
Oggi sono ad un seminario del FMI, che discute di investimenti in infrastrutture – per la verità della loro carenza. E questa è una buona occasione per pensare a quello che stiamo effettivamente facendo.
Si consideri la situazione: i tassi di interesse reali sono estremamente bassi, mostrando che il settore privato individua un “costo opportunità” [1] modesto nell’utilizzare finanziamenti per investimenti pubblici. C’è stata una grande dose di fiacchezza nel mercato del lavoro, cosicché si sarebbero potuti occupare negli investimenti pubblici molti lavoratori che sarebbero altrimenti rimasti senza far niente – dunque anche lì un ‘costo opportunità’ molto modesto. Questo ne fa un argomento molto forte per aumentare decisamente l’investimento pubblico in una economia depressa; un argomento che non si fonda sulla tesi di un ampio moltiplicatore [2], sebbene ci sia ogni ragione per credere che anche quello sia vero.
Dunque, cosa è effettivamente accaduto? La spesa per i lavori pubblici come percentuale del PIL , assieme al tasso di interesse reale decennale:
Una breve risalita grazie alla legge sul sostegno all’economia, poi un crollo. Una politica del tutto controproducente.
[1] Il costo opportunità in economia è il costo derivante dal mancato sfruttamento di una opportunità concessa al soggetto economico. Quantitativamente, il costo opportunità è il valore della migliore alternativa tralasciata. In altri termini, il costo opportunità è il sacrificio che un operatore economico deve compiere per effettuare una scelta economica. L’alternativa a cui si deve rinunciare quando si effettua una scelta economica è detta costo opportunità (opportunity cost).
[2] Per “multiplier” vedi le note sulla traduzione.
ottobre 7, 2014
Oct 7 3:48 pm
I rarely disagree with Jared Bernstein, and actually agree with most of his latest post. Yes, the persistent US trade deficit is a problem for achieving full employment, and we should have a weak-dollar, not strong-dollar policy.
But is the dollar’s reserve-currency status the root of the problem? I have long argued that reserve-currency status is a much overrated phenomenon — it’s not actually a significant benefit to the country that issues the currency, even aside from the employment issues. But I’m also not convinced that it’s that big a deal when we try to understand persistent trade deficits. After all, we’re not the only country that has run persistent external deficits:
We do have things that cause a global savings glut to spill into America — a big, deep financial market, with lots of players willing to create what look like safe assets, a general sense that America is the refuge of last resort, and so on. But Britain offers many of the same things, and has in fact a comparable record of persistent capital inflows and deficits; while Australia has run really big external deficits for a very long time.
As a policy issue I don’t think this matters too much — we should seek a weaker dollar. But I don’t think phrasing it in terms of the reserve currency status is helpful.
Puniti per la virtù del dollaro?
Raramente sono in disaccordo con Jared Bernstein, e per la verità sono molto d’accordo con il suo post più recente. Sì, il persistente deficit commerciale degli Stat Uniti è un ostacolo a conseguire la piena occupazione, e dovremmo avere una politica per un dollaro debole, non per un dollaro forte.
Ma è lo status di valuta di riserva del dollaro la radice del problema? Ho a lungo sostenuto che lo status di valuta di riserva è un fenomeno molto sopravvalutato – in verità non è un beneficio significativo per il paese che emette la valuta, anche a prescindere dai temi dell’occupazione. Ma non sono neanche convinto che sia un grande affare quando cerchiamo di capire i persistenti deficit commerciali. Dopotutto, non siamo l’unico paese che realizza persistenti deficit verso l’estero:
[1]
Abbiamo davvero condizioni che provocano un riversarsi dell’eccesso dei risparmi globali in America – un grande, radicato mercato finanziario, con uno stuolo di operatori disponibili a creare quelli che sembrano asset sicuri, la sensazione generale che l’America sia il rifugio dell’ultima istanza, e così via. Ma l’Inghilterra offre molte delle stesse cose, ed ha di fatto un record paragonabile di persistenti flussi di capitali e di deficit; mentre l’Australia ha gestito per davvero grandi deficit verso l’estero per lunghissimo tempo.
Come tema politico non penso che questo conti poi tanto – dovremmo perseguire un dollaro più debole. Ma non penso che esprimerlo nei termini dello status di una valuta di riserva sia utile.
[1] La tabella mostra gli equilibri del conto corrente dei tre paesi, dal 1999 al 2013.
In economia il “conto corrente” è una delle due componenti primarie della bilancia dei pagamenti, essendo l’altra il “conto capitale”. Il “conto corrente” è la somma della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni di beni e servizi), del reddito netto di fattori della produzione (come gli interessi ed i dividendi) e dei trasferimenti (come gli aiuti all’estero). Il “conto corrente” è una delle due più importanti misure delle caratteristiche del commercio estero di un paese (l’altra essendo il flusso netto di capitali investiti all’estero). Surplus nel conto corrente aumentano gli asset netti all’estero, mentre deficit di conto corrente producono l’effetto contrario. O, per meglio dire, l’esistenza di asset che attraggono capitali internazionali verso un paese, accresce i deficit di conto corrente di quel paese. Sono inclusi nel calcolo sia i pagamenti dello Stato che dei privati. E’ chiamato “conto corrente” perché in generale i beni ed i servizi sono consumati nel periodo “corrente”.
ottobre 7, 2014
October 7, 2014 3:23 pm
Environmental pessimism makes strange bedfellows. We seem to be having a moment in which three groups with very different agendas — anti-environmentalist conservatives, anti-capitalist people on the left, and hard scientists who think they are smarter than economists — have formed an unholy alliance on behalf of the proposition that reducing greenhouse gas emissions is incompatible with growing real GDP. The right likes this argument because they want to use it to block any action on climate; some on the left like it because they think it can be the basis for an attack on our profit-oriented, materialistic society; the scientists like it because it lets them engage in some intellectual imperialism, invading another field (just to be clear, economists do this all the time, often with equally bad results.)
A few days ago Mark Buchanan at Bloomberg published a piece titled “Economists are blind to the limits of growth” making the standard hard-science argument. And I do mean standard; not only does he make the usual blithe claims about what economists never think about; even his title is almost exactly the same as the classic (in the sense of classically foolish) Jay Forrester book that my old mentor, Bill Nordhaus, demolished so effectively forty years ago. Buchanan says that it’s not possible to have something bigger — which is apparently what he thinks economic growth has to mean — without using more energy, and declares that “I have yet to see an economist present a coherent argument as to how humans will somehow break free from such physical constraints.”
Of course, he’s never seen such a thing because he’s never looked. But anyway, let me offer an example that I ran across when working on other issues. It’s by no means the most important example of how to get by with less energy, and in no sense enough by itself to make that much difference. But it is, I think, a useful corrective to the rigorous-sounding but actually silly notion that you can’t produce more without using more energy.
So, let’s talk about slow steaming.
After 2008, when oil prices rose sharply, shipping companies — which send massive container ships on regular “pendulum routes”, taking stuff (say) from Rotterdam to China and back again — responded by reducing the speed of their ships. It turns out that steaming more slowly reduces fuel consumption more than proportionately to the reduction in speed:
So what happens when you switch to slow steaming? Any one ship will carry less freight over the course of a year, because it can do fewer swings of the pendulum (although the number of trips won’t fall as much as the reduction in speed, because the time spent loading and unloading doesn’t change.) But you can still carry as much freight as before, simply by using more ships — that is, by supplying more labor and capital. If you do that, output — the number of tons shipped — hasn’t changed; but fuel consumption has fallen.
And of course by using still more ships, you can combine higher output with less fuel consumption. There is, despite what some people who think they’re being sophisticated somehow believe, no reason at all that you can’t produce more while using less energy. It’s not a free lunch — it requires more of other inputs — but that’s just ordinary economics. Energy is just an input like other inputs.
Some other points here: notice that we are not talking about having to develop a new technology; slow steaming is just a choice, not a technological advance, and in fact it doesn’t even require that you change the equipment — you’re just using the same ships differently. Given time to redesign ships for fuel efficiency, and maybe to develop new technologies, it would presumably be possible to ship the same amount of cargo with even less energy consumption, but that’s not necessary to make the case that growth and less energy can go together.
So where does the notion that energy is somehow special come from? Mainly, I’d say, from not thinking about concrete examples. When you read this stuff you hear lots of metaphors about bacteria or whatever, nothing about shipping or manufacturing — because if you think about actual economic activities even briefly, it becomes obvious that there are tradeoffs that could let you produce more while using less energy.
And greenhouse gas emissions aren’t the same thing as energy consumption, either; there’s a lot of room to reduce emissions without killing economic growth. If you think you’ve found a deep argument showing that this isn’t possible, all you’ve done is get confused by your own word games.
Il viaggiare più lentamente [1] ed i supposti limiti della crescita
Il pessimismo ambientale comporta strani compagni di viaggio. Sembra che siamo in una situazione nella quale tre gruppi con programmi diversissimi – i conservatori antiambientalisti, persone di sinistra anticapitaliste e scienziati severi che pensano di essere più intelligenti degli economisti – hanno formato una (non)santa alleanza sulla base del concetto che ridurre le emissioni di gas serra sia incompatibile con la crescita del PIL reale. Alla destra questo argomento piace perché vogliono usarlo per bloccare ogni iniziativa sul clima; ad alcuni a sinistra piace perché pensano che sia il punto di attacco alla nostra società orientata al profitto e materialistica; agli scienziati piace perché consente loro di impegnarsi in una specie di imperialismo intellettuale, invadendo campi altrui (solo per esser chiari, gli economisti fanno lo stesso in continuazione, spesso con risultati egualmente negativi).
Pochi giorni fa Mark Buchanan ha pubblicato su Bloomberg un articolo dal titolo “Gli economisti sono ciechi sui limiti dello sviluppo”, avanzando l’argomento consueto della scienza categorica. E intendo per davvero ‘consueto’; non solo egli avanza le consuete spensierate rivendicazioni di temi ai quali gli economisti non penserebbero mai; persino il titolo è quasi esattamente lo stesso del classico (nel senso di classicamente stupido) libro di Jay Forrester, che il mio vecchio maestro Bill Nordhaus demolì tanto efficacemente quarant’anni orsono. Buchanan dice che non è possibile avere qualcosa di più grande – che sembra sia quello che lui pensa significhi la crescita dell’economia – senza usare maggiore energia, e dichiara che “devo ancora vedere un economista presentare una argomentazione coerente su come gli esseri umani sfuggiranno a tali condizionamenti fisici.”
Naturalmente, non ha mai visto niente del genere perché non l’ha mai voluto vedere. Ma in ogni modo, fatemi offrire un esempio che incontrai quando lavoravo su altri temi. Non è affatto il più importante esempio di come si possa tirare avanti con minore energia, e da solo non è affatto sufficiente a fare quella grande differenza. Ma penso sia un utile correttivo al concetto, che sembra rigoroso ma effettivamente è sciocco, secondo il quale non si può produrre di più senza usare maggiore energia.
Parliamo, dunque, del viaggiare più lentamente.
Dopo il 2008, quando i prezzi del petrolio aumentarono bruscamente, le compagnie di navigazione – che spediscono massicce navi container su “rotte pendolari”, trasportando (ad esempio) roba da Rotterdam alla Cina e ritorno – risposero riducendo la velocità delle loro imbarcazioni. Si scoprì che viaggiare più lentamente riduce i consumi di carburante in modo più che proporzionale rispetto alla riduzione della velocità:
Cosa accade, dunque, quando passate ad andature più lente? Ogni singola nave trasporterà carichi minori nel corso del tempo, perché potrà compiere minori oscillazioni del pendolo (sebbene il numero dei viaggi non diminuirà altrettanto della riduzione della velocità, giacché il tempo speso per caricare e scaricare non cambia). Ma si potrà sempre trasportare lo stesso carico di prima, utilizzando più navi – vale a dire, offrendo più lavoro e capitale. Se si fa in questo modo, la produzione – il numero di tonnellate trasportate con le navi – non cambierà: ma il consumo di combustibile sarà diminuito.
E naturalmente, utilizzando più navi ancora si può combinare una produzione più elevata con un consumo di carburante minore. Non c’è affatto alcuna ragione, nonostante quello che credono alcune persone che pensano di essere sottili, per la quale non si possa produrre di più utilizzando meno energia. Non è come ottenere qualcosa gratis – richiede una quantità maggiore di altri input – ma è semplicemente ordinaria economia. L’energia è solo un input tra gli altri.
In questo caso ci sono alcuni altri aspetti: si noti che non stiamo parlando della necessità di sviluppare una nuova tecnologia; viaggiare più lentamente è solo una scelta, non un progresso tecnologico, e di fatto non richiede neppure che si cambino le attrezzature – si stanno soltanto usando le stesse navi in modo diverso. Avendo il tempo di ridisegnare le navi quanto ad efficienza dei combustibili, e magari di sviluppare nuove tecnologie, si può presumere che sarebbe possibile imbarcare la stessa quantità di merce con consumi di energia ancora minori, ma questo non è necessario per sostenere la tesi che la crescita e una minore energia possano andare di pari passo.
Dunque, da dove proviene l’idea che l’energia sia qualcosa di particolare? Principalmente, direi, non da ragionamenti su esempi concreti. Quando si leggono queste cose si sentono molte metafore sui batteri o cose del genere, non sulle imbarcazioni o sulle manifatture – perché se si pensa anche brevemente alle effettive attività economiche, diventa evidente che ci sono molti bilanciamenti che possono consentire di produrre di più utilizzando minore energia.
E le emissioni dei gas serra non sono neppure la stessa cosa del consumo di energia; c’è un grande quantità di spazio per ridurre le emissioni senza strangolare la crescita economica. Se pensate di aver trovato un argomento profondo che dimostra che questo non è possibile, tutto quello che vi è successo è che siete rimasti vittime degli stessi vostri giochi di parole.
[1] “To steam” è naturalmente un verbo che si riferisce all’uso del vapore, dalla cottura delle verdure alla alimentazione delle macchine o delle navi a vapore. Ma informalmente può avere il senso più generico del “procedere con rapidità o in modo energico”. E siccome l’esempio che viene di seguito presentato non si riferisce a navi a vapore, ma a moderni transatlantici, lo traduco in quella accezione più generale.
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