Oct 5 9:37 am
There are growing hints that if Republicans take the Senate, they will voodooize the CBO, making “dynamic scoring” — that is, the assumption that tax cuts sharply boost economic growth — a key feature of budget estimates. There is, of course, zero evidence for this proposition and lots of evidence against. For later reference, I thought I’d post a couple of charts, one that won’t surprise you and one that might.
The first chart, from CBPP, compares the years following the Clinton tax hike with the years following the Bush tax cuts:
But, but, Obummer! Well, here’s private job creation under Bush and Obama:
Both administrations began with a period of falling employment thanks to a burst bubble — but can you see how much more vigorous private job creation was after the Bush trough than after the Obama trough? Neither can I. If job growth has seemed slow under Obama, it’s entirely because of public sector austerity.
I Presidenti ed i posti di lavoro
Ci sono segnali sempre più chiari che se i repubblicani conquisteranno il Senato, costringeranno il Congressional Budget Office alle dottrine voodoo, realizzando il “punteggio dinamico” – vale a dire, l’assunto che gli sgravi fiscali incoraggeranno nettamente la crescita economica – una caratteristica fondamentale delle stime di bilancio. Ci sono, naturalmente, testimonianze pari a zero per questo concetto, ed una quantità di testimonianze contrarie. Per un riferimento successivo, ho pensato che potevo pubblicare un paio di diagrammi, uno dei quali non vi sorprenderà, mentre l’altro potrebbe sorprendervi.
Il primo diagramma, dalla fonte del Center on Budget and Policy Priorities, confronta gli anni successivi agli aumenti fiscali di Clinton con gli anni successivi agli sgravi di Bush:
Ma poi c’è tutta la roba negativa del periodo di Obama [1]! Ebbene, questo e il dato sulla creazione di posti di lavoro nel settore privato sotto Bush ed Obama:
Entrambe le Amministrazioni cominciarono con una periodo di caduta dell’occupazione a seguito della esplosione di bolle – ma vi rendete conto di quanto sia stata più vigorosa la creazione di posti di lavoro nel settore privato sotto Bush, rispetto ad Obama? Ebbene, non me ne rendo conto neanch’io. Se la crescita di posti di lavoro sotto Obama è apparsa lenta, ciò è dipeso solo dal settore pubblico.
[1] “Obummer” è un termine slang che indica il complesso dei fatti negativi della Amministrazione Obama. Un po’ come se noi dicessimo “una renzata”.
ottobre 4, 2014
Oct 4 11:04 am
A correspondent points me to Bill Gross in 2010, declaring that we are in a liquidity trap — and that therefore the Fed’s expansionary policies won’t create jobs, but will simply cause inflation. There’s only one thing to say:
But a lot of people seem to have fallen into that curious fallacy, as I pointed out in the same year.
Look, the liquidity trap — which is basically the same as saying that even a zero short-term interest rate isn’t low enough to produce full employment — is a situation in which increasing the monetary base has no effect on aggregate demand, because you’re substituting one zero (or very low) interest asset — monetary base — for another zero or low interest rate asset, short-term government debt. Conventional monetary policy is completely sterile on all fronts.
I don’t know why this very simple point is so hard to grasp, but people keep making a hash of it. I have no idea why Cullen Roche thinks that the TED spread has anything at all to do with the question of whether we’re in a liquidity trap; nor do I know what I can do, after all the times I’ve written about it, to make the point more clearly.
Nessuno capisce ancora la trappola di liquidità
Un corrispondene mi indirizza ad una dichiarazione di Bill Gross del 2010, relativa al fatto che eravamo in una trappola di liquidità – e che di conseguenza le politiche espansive della Fed non avrebbero creato posti di lavoro, ma avrebbero semplicemente provocato inflazione. C’è una sola cosa di dire:
Ma una quantità di persone sembrano essere cadute nello stesso curioso errore, come misi in evidenza in quello stesso anno.
Si noti, la trappola di liquidità – che fondamentalmente è la stessa cosa che dire che persino a tassi di interesse a breve termine zero, non si è abbastanza in basso da produrre piena occupazione – è una situazione nella quale l’incremento della base monetaria non ha effetto sulla domanda aggregata, perché si sta sostituendo un asset dall’interesse zero (o molto basso) – la base monetaria – con un altro asset a tasso di interesse zero o basso, il debito pubblico a breve termine. La politica monetaria è completamente sterile su tutti i fronti.
Non so perché questo semplice concetto sia così difficile da afferrare, ma su di esso la gente continua a far pasticci. Non ho idea del motivo per il quale Cullen Roche pensi che lo spread TED[1] abbia qualcosa a che fare con l’interrogativo se siamo in una trappola di liquidità; neanche so cosa posso fare, dopo aver scritto tante volte su quel tema, per renderlo più chiaro.
[1] Lo spread TED è la differenza tra i tassi di interesse dei prestiti interbancari e quelli sul debito governativo degli Stati Uniti a breve termine (chiamati “T-bills”).
ottobre 4, 2014
Oct 4 10:25 am
At the end of 2013 I wrote a post titled “Bitcoin is evil,” riffing off Charlie Stross’s “Why I want Bitcoin to die in a fire.” Charlie and I both keyed in on the obvious ideological agenda: Bitcoin fever was and is intimately tied up with libertarian anti-government fantasies.
So how’s it going? Bitcoin prices are down by two-thirds from their peak, and Izabella Kaminska, who has stayed with the subject, finds the sad story of a gullible rube who appears to have impoverished himself by believing in the hype. She comments:
Some extremely wealthy libertarians have a lot to answer for if these sorts of ppl lose all due to believing in them
But this is nothing new. Back in 2012 Rick Perlstein published an eye-opening piece titled The Long Con, in which he documented the close association that has always existed between right-wing organizing and direct-mail commercial scams — in fact, it’s pretty much impossible to tell where one ends and the other begins. Send us money to keep Obama from imposing Sharia law; invest in this sure-fire scheme to profit from the coming hyperinflation. Was Glenn Beck selling paranoid politics or Goldline? Yes.
Bitcoin may be sold as a technical marvel, and it does indeed solve an interesting information problem — although it’s not at all clear whether solving that problem has any economic value. But the psychology and sociology of the phenomenon are the same old same old.
Il lungo imbroglio nascosto
Alla fine del 2013 scrissi una nota dal titolo “Il Bitcoin è il male”, rimuginando sulle parole di Charlie Stross: “Perché voglio che il Bitcoin finisca in un falò”. Sia Charlie che io ci riferivamo ad una evidente matrice ideologica: la febbre del Bitcoin era ed è intimamente collegata con le fantasie libertariane [1] ed anti-governamentali.
Cosa sta succedendo, dunque? I prezzi del Bitcoin sono scesi di due terzi dal loro punto più alto, e Izabella Kaminska, che è rimasta sul tema, scopre la triste storia di un ingenuo sempliciotto che sembra essersi impoverito con il credere in quella pubblicità. Lei commenta:
“Alcuni libertariani estremamente ricchi avrebbero molto da dire, perché le sorti di questa povera gente che perde tutto deriva dall’aver creduto in loro.”
Ma in questo non c’è niente di nuovo. Nel passato 2012 Rick Perlstein aveva pubblicato un pezzo illuminante dal titolo ‘Il lungo imbroglio’, nel quale documentava la stretta connessione che c’è sempre stata tra organizzazioni della destra e truffe commerciali tramite avvisi pubblicitari per posta – di fatto, è quasi impossibile dire dove finiscano le une e comincino le altre. Dateci soldi per impedire che Obama imponga la legge della sharia; investite in questo progetto sicuro per avvantaggiarvi dalla iperinflazione in arrivo. Glenn Beck [2] vendeva una politica paranoide oppure faceva pubblicità alla Goldline [3]? Entrambi.
Il Bitcoin può essere rivenduto come una meraviglia della tecnologia, e in effetti esso risolve un interessante problema di informazione – sebbene non sia affatto chiaro se risolvere quel problema abbia un qualche valore economico. Ma la psicologia e la sociologia del fenomeno sono quelle che sono sempre state.
[1] Per il concetto di “libertariano” vedi le note sulla traduzione alla voce Ayn Rand.
[2] Un conduttore radio televisivo della destra americana, pare particolarmente spericolato.
[3] Una associazione internazionale che parrebbe specializzata in questi raggiri “caritatevoli”.
ottobre 3, 2014
Oct 3 10:59 am
Brad DeLong tries at some length to rationalize Bill Gross’s insistence in 2011 that interest rates were about to spike. But while it’s nice to be charitable, to attempt to put the best face on someone else’s arguments, it’s also important to look at the argument someone was actually making. And the reasoning of Gross and others was much cruder and a lot more foolish than Brad acknowledges. I know because I was involved in the debate in real time.
For Gross wasn’t arguing that rates would rise sharply once people understood that the economy would normalize in the near future. He was arguing that rates were being suppressed right now by the Fed’s purchases of Treasuries, and would spike as soon as those purchases ended (which they did, for a while, in June 2011.) Here, for example, is one report: Gross warns QE2’s end could sink markets.
This was wrong on multiple levels. Not only did it ignore the fundamental reasons rates tended to stay low in a deleveraging world, not only did it overestimate the impact of QE, but it also assumed that the rate of Fed purchases — the flow of QE — was what mattered, when sensible people argued that the stock of assets the Fed held mattered. I wrote all about this at the time.
If you find it hard to believe that such a smart guy could make such a poor argument, well, that’s the world we’re living in.
Il Bill Gross idealizzato e quello effettivamente esistente
Brad DeLong cerca in qualche misura di razionalizzare l’insistenza di Bill Gross nel 2011, secondo la quale i tassi di interesse erano prossimi ad un rialzo. Ma se essere indulgenti, tentare di considerare le cose migliori negli argomenti di qualcun altro, è segno di gentilezza, è anche importante osservare gli argomenti che egli stava effettivamente avanzando. Ed il ragionamento di Gross e degli altri era molto più rozzo e molto più infondato di quello che Brad riconosce. Lo so, perché in quel momento ero coinvolto in quella discussione.
Giacché Gross non stava sostenendo che i tassi sarebbero cresciuti bruscamente nel futuro prossimo, una volta che l’economia si sarebbe normalizzata. Egli sosteneva che in quel momento i tassi venivano soffocati dagli acquisto dei Buoni del Tesoro da parte della Fed, e sarebbero risaliti appena quegli acquisti fossero terminati (la qualcosa, per un periodo, accadde, nel giugno del 2011). Ecco, ad esempio, una relazione: Gross mette in guardia che la fine della seconda ‘facilitazione quantitativa’ potrebbe affondare i mercati [1].
Questo era sbagliato in molti sensi. Non solo ignorava le ragioni fondamentali per le quali i tassi tendevano a restare bassi in un mondo che riduceva il rapporto di indebitamento, non solo sovrastimava l’impatto delle facilitazioni quantitative, ma assumeva anche che il ritmo degli acquisti della BCE – il flusso di tali facilitazioni – era ciò che contava, quando le persone sensate sostenevano che era la riserva degli asset detenuti dalla Fed che contava. Scrissi a quel tempo su tale argomento.
Se trovate difficile credere che una persona talmente intelligente possa avanzare un argomento così modesto, ebbene, è questo il mondo in cui viviamo.
[1] In connessione, quelle parole sono il titolo di un articolo sulla rivista Fortune.
ottobre 3, 2014
Oct 3 10:45 am
My inbox is already starting to fill up with predictions and demands that the Fed accelerate the pace of “normalization” because today’s jobs report was better than expected. But the case for wait-and-see actually remains as strong as ever, and maybe a bit stronger.
There are, as I’ve tried to explain, two key points for Fed policy. The first is that we don’t know how much slack there is in the labor market. The second is that the consequences of overestimating slack and waiting too long to raise rates would be relatively minor, while the costs of underestimating slack and hiking rates too soon could be immense.
On the first point: we really, really don’t know how much slack there is. Don’t show me your new estimation method and claim that it proves that there is x percent of slack — there are lots of clever people doing clever estimates, they don’t agree, and nobody really believes in econometrics anyway unless it tells them what they want to hear. (Sorry, but that’s reality.) We really won’t know until after the fact, if and when we finally see a notable pickup in inflation, and in particular in wages.
On the second point: if the Fed waits too long, inflation might pick up for a while, and getting it back down to target would hurt (although the target really should be higher.) But that’s minor compared with the alternative, of raising rates too soon and then finding that we’ve entered a deflationary trap that’s really, really hard to exit. If you’re at the Fed, would you rather wake up and discover that core inflation has risen to 3 percent or that you’ve become Mario Draghi?
So, what did we learn about inflation from the latest employment report? Here’s wage growth:
Feel that wage-price spiral!
If you’re puzzled that a falling unemployment rate hasn’t translated into faster wage growth, well, that just reinforces the point that we truly don’t know how much slack there is. And does anyone think that wage growth was wildly excessive before the financial crisis? If you don’t, then you should believe that we need an extended period of tight labor markets just to get back to where we were.
There is nothing in this report to suggest that it makes sense to hike rates any time soon. In fact, I find it very hard to understand why anyone thinks rates should rise even in 2015.
I salari e la Fed
Lo spazio delle mie mail comincia già a riempirsi di previsioni e di richieste che la Fed acceleri il ritmo della “normalizzazione”, visto che il rapporto odierno sui posti di lavoro è stato migliore di quello che ci si aspettava. Ma la tesi dell’attendere e dello stare a guardare per la verità resta altrettanto forte, e forse un po’ più forte di prima.
Ci sono, come ho cercato di spiegare, due punti chiave per la politica della Fed. Il primo è che non sappiamo quanto sia fiacco il mercato del lavoro. Il secondo è che le conseguenze di una stima eccessiva della fiacchezza e di un aspettare troppo a lungo per alzare i tassi sarebbero relativamente secondarie, mentre i costi di una sottostima della fiacchezza e di un rialzo troppo repentino dei tassi sarebbero immensi.
Sul primo punto: noi per davvero non sappiamo quanto il mercato sia fiacco. Non mostratemi il vostro nuovo metodo di stima che dimostra che c’è un x per cento di fiacchezza – c’è un mucchio di persone intelligenti che fanno stime intelligenti, esse non concordano, e nessuno in realtà crede nell’econometria in ogni caso, a meno che essa non dica quello che vogliono sentirsi dire (mi dispiace, ma la realtà è questa). Davvero noi non lo sapremo se non a cose fatte, se e quando finalmente osserveremo una considerevole risalita dell’inflazione, in particolare nei salari.
Sul secondo punto: se la Fed attende troppo a lungo, l’inflazione può risalire per un po’, e riportarla indietro all’obbiettivo programmato sarebbe un po’ penoso (sebbene l’obbiettivo dovrebbe davvero essere più alto). Ma questo è secondario a confronto con l’alternativa di tassi che crescono troppo presto per poi scoprire che siamo entrati in una trappola deflazionistica, dalla quale sarebbe per davvero difficile venir fuori. Se voi foste alla Fed, vorreste risvegliarvi e scoprire che l’inflazione sostanziale [1] è cresciuta al 3 per cento, oppure vorreste ritrovarvi come Mario Draghi?
Dunque, cosa abbiamo appreso sull’inflazione dall’ultimo rapporto sull’occupazione? Ecco qua la crescita dei salari:
Guardate che spirale salari-prezzi!
Se siete perplessi per il fatto che un tasso di disoccupazione in diminuzione non si è tradotto in una crescita più veloce dei salari, ebbene, questo semplicemente conferma che davvero non sappiamo quanta fiacchezza ci sia. E c’è qualcuno che pensa che la crescita dei salari fosse particolarmente eccessiva prima della crisi finanziaria? Se non lo pensate, allora dovreste credere che abbiamo bisogno di un prolungato periodo di duri mercati del lavoro, solo per tornare dove eravamo.
Non c’è niente in questo rapporto che indichi che ci sia un qualche senso nell’elevare a breve termine i tassi. Di fatto, io trovo che sia difficile comprendere persino perché qualcuno pensi che i tassi dovrebbero salire nel 2015.
[1] Per la differenza tra “headline” e “core inflation”, vedi le note sulla traduzione.
ottobre 2, 2014
Oct 2 4:51 pm
When the going gets tough, the people losing the argument start whining about civility. I often find myself attacked as someone who believes that anyone with a different opinion is a fool or a knave; as I’ve tried to explain, however, that’s mainly selection bias. I don’t spend much time on areas where reasonable people can disagree, because there are so many important issues where one side really is completely unreasonable.
Relatedly, obviously someone can disagree with my side and still be a good person. On the other hand, there are a lot of bad people engaged in economic debate — and I don’t mean that they’re wrong, I mean that they argue in bad faith.
Which brings us to today’s installment of oh-yes-they’re-that-bad, courtesy of Bloomberg. You may remember the infamous open letter to Ben Bernanke warning that his efforts to boost the economy “risk currency debasement and inflation”; just in case you wondered about the political nature of the letter, among the signatories was that noted monetary expert William Kristol.
So Bloomberg had the bright idea, now that almost four years of low inflation have passed, of asking the signatories whether they would concede that they were wrong. Not a chance. Hey, they only said there was a “risk” of inflation, and the economy hasn’t done well, so it’s all good!
Just to say the obvious: if inflation had in fact risen, they would have claimed vindication. So it’s heads they win, tails they don’t lose.
And this is far from the only example of inflationistas and bond worriers bobbing and weaving, refusing to acknowledge having said what they said, being completely unwilling to admit mistakes.
I try hard not to behave that way. If I make a mistake — like my extreme pessimism about the short-term survival of the euro, or my warnings back in 2003 about a US debt crisis — I do try to admit it, and figure out where I was wrong (I underestimated both Europe’s political cohesion and the extent to which ECB intervention could short-circuit the financial panic; back when, I made a false analogy with countries that borrow in someone else’s currency.) No doubt there have been times when I rewrote history to make myself look better, but I try to avoid that — it’s a major intellectual and moral sin.
And boy are there a lot of sinners out there.
I mascalzoni, gli sciocchi e la facilitazione quantitativa
Quando il percorso si fa accidentato, le persone che perdono il confronto cominciano a lamentarsi della civiltà. Io mi ritrovo spesso attaccato come uno che crede che chiunque abbia una opinione diversa sia uno sciocco o un mascalzone; come ho cercato di spiegare, tuttavia, la mia è principalmente una faziosità selettiva. Io non spendo molto tempo in aree sulle quali le persone ragionevoli possono non trovarsi d’accordo, dato che ci sono molti temi importanti nei quali uno schieramento è completamento irragionevole.
Di converso, ovviamente qualcuno può non essere d’accordo con la mia parte e restare una brava persona. D’altra parte, c’è una quantità di pessimi individui impegnati nel dibattito economico – ed io non intendo dire nel senso che hanno torto, ma nel senso che discutono in mala fede.
La qualcosa ci riporta, per gentile concessione di Bloomberg, alla puntata odierna del “oh sì, sono così cattivi!”. Forse ricorderete la famigerata lettera aperta a Ben Bernanke che ammoniva che i suoi sforzi per incoraggiare l’economia “mettevano a rischio di una svalutazione della valuta e dell’inflazione”; solo nel caso vi foste interrogati sulla natura politica della lettera, tra i firmatari c’era quel noto esperto monetario che risponde al nome di William Kristol [1].
Dunque, Bloomberg ha avuto la brillante idea, ora che sono trascorsi quasi quattro anni di bassa inflazione, di chiedere ai firmatari se avrebbero ammesso di aver sbagliato. Nessuna possibilità. Ehi, avevano solo detto che c’era un “rischio” di inflazione, e l’economia non è andata bene, dunque è tutto a posto!
Una cosa ovvia, tanto per dire: se l’inflazione fosse davvero cresciuta, avrebbero sostenuto di aver ottenuto una rivalsa. Dunque, se viene testa vincono loro, se viene croce non perdono.
E questo non è affatto l’unico esempio di come gli ‘inflazionisti’ e gli ‘ansiosi dei bond’ le tentino tutte, pur di rifiutare di ammettere di aver detto quello che hanno detto, essendo completamente indisponibili ad ammettere errori.
Io mi sforzo di non comportarmi in quel modo. Se faccio un errore – come il mio pessimismo sulla sopravvivenze nel breve periodo dell’euro, o i miei passati ammonimenti nel 2003 su una crisi del debito statunitense – cerco davvero di ammetterlo, e di immaginarmi dove abbia sbagliato (io sottostimai sia la coesione politica europea che la misura nella quale l’intervento della BCE avrebbe provocato un corto circuito nel panico finanziario; nei tempi in cui stabilivo una analogia sbagliata con i paesi che si indebitano nella valuta altrui). Senza alcun dubbio ci sono stati momenti nei quali ho riscritto la storia per farmi apparire in luce migliore, ma cerco di evitarlo – è un peccato intellettuale e morale importante.
E, ragazzi, ce n’è di peccatori in circolazione!
[1] Neoconservatore americano, dirige il “Progetto per un nuovo secolo americano“. È fondatore ed editore del settimanale di approfondimento politico The Weekly Standard e commentatore fisso al Fox News Channel ed editorialista del New York Times. Ha insegnato filosofia politica presso l’Università della Pennsylvania e la John F. Kennedy School of Government dell’Università Harvard. È visiting professor all’Università Harvard dove tiene un corso su Senofonte, Socrate e l’antica Grecia.
ottobre 1, 2014
Oct 1 5:29 pm
Further thoughts on the fall of Bill Gross: While his personal behavior and management style may have been difficult, that’s hardly unusual among people in his position. All would have been forgiven, indeed never mentioned, but for his utter misjudgment of the bond market in 2011 – a misjudgment based on his failure, or more accurately refusal, to acknowledge the realities of a liquidity trap world.
But Gross was by no means alone in getting these things wrong. Indeed, 2011 was a sort of banner year for bad macroeconomic analysis by people who had no excuse for their wrong-headedness. And here’s the thing: aside from Gross, hardly any of the prominent wrong-headers have paid any price for their errors.
Think about it: 2011 was the year when Bowles and Simpson predicted a fiscal crisis within two years. There was never a hint of crisis, but BS are still given reverent treatment by the Beltway media.
2011 was also the year when Paul Ryan warned Ben Bernanke that he was “debasing” the dollar, arguing that rising commodity prices were the harbinger of runaway inflation; the Bank for International Settlements made a similar argument, albeit with less Ayn Rand. They were completely wrong, but Ryan is still the intellectual leader of the GOP and the BIS is still treated as a fount of wisdom.
The difference is, of course, that Gross had actual investors’ money on the line. But you should not take that to imply that the profit motive leads to intellectual clarity; Gross has been forced out at Pimco, but I’ve seen hardly any press coverage tying that to his having the wrong macro model.
Il 2011 e tutto il resto
Qualche altro pensiero sulla caduta di Bill Gross: se il suo comportamento ed il suo stile di direzione possono essere stati difficili, questo è normale per le persone nella sua posizione. Si sarebbe potuto perdonare tutto, magari neanche parlandone, se non fosse stato per il suo giudizio completamente sbagliato sul mercato dei bond nel 2011 – un errore di valutazione basato sulla sua indisponibilità, o più precisamente sul suo rifiuto, a riconoscere le realtà del mondo della trappola di liquidità.
Ma Gross non fu in nessun modo solo nel fare quegli sbagli. In effetti, il 2011 fu una specie di annata d’oro per la cattiva analisi macroeconomica da parte di persone che non avevano scusanti per la loro ostinazione nell’errore. E qua è il punto: a parte Gross, a fatica si trova qualche eminente ostinato che abbia pagato un qualche prezzo per i propri errori.
Si pensi a questo: il 2011 fu quando Bowles e Simpson pronosticarono una crisi della finanza pubblica da lì a due anni. Non c’è mai stato un cenno di crisi, ma i due stanno ancora ricevendo un trattamento riverente da parte dei media della Capitale.
Il 2011 fu anche l’anno nel quale Paul Ryan mise in guardia Ben Bernanke perché stava “svalutando” il dollaro, sostenendo che la crescita dei prezzi delle materie prime era il preannuncio di una inflazione fuori controllo; la Banca Internazionale dei Regolamenti avanzò un argomento simile, per quanto con un po’ di meno di Ayn Rand. Sbagliarono completamente, ma Ryan è ancora il leader intellettuale del Partito Repubblicano e la BIR è ancora trattata come una fonte di saggezza.
La differenza, naturalmente, è che Gross mise in gioco soldi effettivi degli investitori. Ma non dovreste considerare che questo implichi che il motivo del profitto porta alla chiarezza intellettuale; Gross è stato costretto ad andarsene dalla Pimco, ma non ho visto alcun articolo di giornale collegare ciò al suo utilizzo di modelli macroeconomici sbagliati.
settembre 30, 2014
September 30, 2014 1:10 pm Email
It’s fairly clear that the events of 2011 are a large part of the story of Bill Gross’s abrupt departure from Pimco; as Neil Irwin says,
A disastrous bet he made against United States Treasury bonds in 2011 led to three years of underperformance and billions in withdrawals.
And Joshua Brown has some choice quotes:
Gross compounded the move by being extremely vocal about his rationale – he went so far as to call Treasury bonds a “robbery” of investors given their ultra-low interest rates and the potential for inflation. He talked about the need for investors to “exorcise” US bonds from their portfolios, as though the asset class itself was demonic. He called investors in Treasury bonds “frogs being cooked alive in a pot.”
But why was Gross betting so heavily against Treasuries? Brad DeLong tries to rationalize Gross’s behavior in terms of a coherent story about an impending U.S. recovery, which would lift us out of the liquidity trap. But Gross wasn’t saying anything like that. Instead, he was claiming that the Fed’s asset purchases — QE2 — were holding rates down, and warned that the impending spike in rates when QE2 ended would derail recovery.
So why did he believe all that? It all comes down, I’d argue, to liquidity trap denial.
Since 2008 the basic logic of the economic situation has been that the private sector is trying to run a huge surplus, and the public sector isn’t willing to run a corresponding deficit. The result is an economy awash in desired savings with nowhere to go. This in turn means that budget deficits aren’t competing with private borrowing, and therefore need not drive up interest rates. This isn’t hindsight; it’s what I and others have been saying since the very beginning.
But a lot of people — politicians, of course, but also a lot of people in finance — have just refused to accept this account. They have clung to the view that budget deficits must lead to higher interest rates. You might think the failure of higher rates to materialize, year after year, would cause them to reassess — indeed, would have caused them to reassess years ago. Instead, however, many of them made excuses. Above all, the big excuse was that rates would have gone higher if only the Fed weren’t buying up the stuff. So QE2 acquired a much bigger role in their thinking than it deserved, leading to confident predictions of soaring rates as soon as it ended. And Gross put his money — and more importantly, his investors’ money — where his mouth was.
And he was wrong. QE2 ended, and nothing happened to rates.
You can see why I foundGillian Tett’s apologia for Gross — that he was blindsided by central bank intervention — frustrating. For one thing, that’s accepting a model that has failed with flying colors; but beyond that, Gross’s really bad call was almost exactly the opposite, his claim that rates would soar when the Fed’s intervention ended.
As I’ve said, Gross of all people shouldn’t have fallen into this trap, since his own chief economist understood liquidity trap logic better than almost anyone. But finance people seem weirdly determined to believe in a macro canon whose hold on their perceptions appears to be completely unbreakable, no matter how much money it causes them to lose.
Lo sconcerto della Pimco
E’ abbastanza chiaro che gli eventi del 2011 sono una larga parte del racconto della partenza improvvisa di Bill Gross dalla Pimco; come dice Neil Irwin:
“Una disastrosa scommessa che lui fece contro i bond del Tesoro degli Stati Uniti ha portato a tre anni di prestazioni negative e a miliardi di prelievi.”
E Joshua Brown ha alcune citazioni scelte:
“Gross aggravò la mossa con un atteggiamento estremamente deciso sulla sua logica – arrivò al punto di chiamare i bond del Tesoro una “ruberia” agli investitori, dati i loro tassi di interesse molto bassi ed il potenziale di inflazione. Parlò della necessità per gli investitori di “esorcizzare” i bond degli Stati Uniti nel loro portafoglio, come se la categoria stessa degli asset fosse demoniaca. Chiamò gli investitori in bond del Tesoro ‘rane che vengono bollite vive in pentola”.
Ma perché Gross scommetteva così pesantemente contro i buoni del Tesoro? Brad DeLong cerca di trovare una logica nel comportamento di Gross nei termini di una coerente narrazione su una incombente ripresa statunitense, che ci avrebbe trasportati fuori dalla trappola di liquidità. Ma Gross non diceva niente del genere. Piuttosto, egli sosteneva che gli acquisti degli asset da parte della Fed – la seconda facilitazione quantitativa – stesse tenendo bassi i tassi, e metteva in guardia che un incombente rialzo nei tassi, allorché quella seconda facilitazione quantitativa fosse terminata, avrebbe portato la ripresa fuori dai binari.
Dunque, perché credeva in tutto ciò? Io direi che il tutto si risolve in una negazione della trappola di liquidità.
A partire dal 2008 la logica di base della situazione economica è stata che il settore privato ha cercato di gestire un ampio surplus, e che il settore pubblico non è stato disponibile a gestire un deficit corrispondente. Il risultato è stato un’economia inondata di risparmi attesi che non erano collocabili da nessuna parte. Questo a sua volta significava che i deficit di bilancio non erano in competizione con il settore privato, e di conseguenza non c’era bisogno che spingessero i tassi di interesse verso l’alto. Non si tratta del senno di poi; è quello che io ed altri siamo venuti dicendo proprio dall’inizio.
Ma una quantità di individui – uomini politici, naturalmente, ma anche molta gente della finanza – hanno semplicemente rifiutato di accettare questa spiegazione. Essi si sono aggrappati al punto di vista secondo il quale i deficit di bilancio debbono portare a tassi di interesse più alti. Vi potevate immaginare che il fatto che tassi più alti non si siano visti, anno dopo anno, li avrebbe portati ad una riconsiderazione – in effetti, sono anni che avrebbe dovuto portali ad una riconsiderazione. Invece, nonostante ciò, molti di loro hanno accampato scuse. Soprattutto, la grande scusante è stata che i tassi sarebbero saliti più in alto se la Fed non stesse facendo incetta di tutta quella roba. Cosicché, la seconda ‘facilitazione quantitativa’ acquistò nei loro pensieri un ruolo molto più grande di quello che avrebbe dovuto, portando alle fiduciose previsioni di una brusca risalita nei tassi appena essa fosse terminata. E Gross non si limitò a dirlo, ci mise i suoi soldi – e più importante ancora, i soldi degli investitori.
Ed ebbe torto. La seconda facilitazione quantitativa terminò e ai tassi non accadde niente.
Vi rendete conto del perché ho trovato la apologia di Gross da parte di Gillian Tett – secondo la quale egli venne tradito dall’intervento della banca centrale – frustrante. Da una parte, questo è come salutare un modello che non ha funzionato come un gran successo; ma oltre a ciò, la presa di posizione sbagliata di Gross fu quasi esattamente l’opposto, il suo argomento fu che i tassi sarebbero saliti alle stelle al momento in cui l’intervento della Fed fosse terminato.
Come ho detto, tra tutte le persone Gross non avrebbe dovuto cascare in questa trappola, dal momento che il suo principale economista aveva compreso la logica della trappola di liquidità meglio di quasi tutti gli altri. Ma gli individui del settore finanziario sembrano stranamente determinati a credere in una regola macroeconomica secondo la quale chi si attiene ai propri presentimenti sembra essere del tutto indistruttibile, a prescindere da quanti soldi faccia loro perdere.
settembre 30, 2014
Sep 30 9:52 am
Bloomberg has an interesting map showing state job gains and losses since the pre-recession peak:
Bloomberg News
You can clearly see how states with job-destroying liberal Democratic governors have fared much worse than those with job-creating conservative Republican governors. Oh, wait:
Party affiliation of governors – Wikipedia
Actually, there’s not much correlation either way — both the best and the worst performers are red states. This is the same thing you learn when you look at the biggest states:
But the right is, of course, claiming that you have to follow their policies to succeed — that you mustn’t tax the rich or help the poor because that would destroy job growth. Unfortunately for them, the only way to get that result is to invent your own facts.
Che succede in Alabama?
Bloomberg ha una interessante cartina che mostra i guadagni e le perdite di posti di lavoro’ negli Stati a partire dal livello più alto prima della recessione:
Bloomberg News
Potete chiaramente vedere come gli Stati con Governatori democratici, progressisti che distruggono i posti di lavoro, siano andati molto peggio di quelli dei Governatori repubblicani, conservatori e creatori di occupazione. Un momento:
Appartenenza di Partito dei Governatori – Wikipedia
In effetti, in entrambi i casi non c’è molta correlazione – sia gli andamenti migliori che quelli peggiori sono negli Stati repubblicani. Questa è la stessa cosa che si apprende se si osservano gli Stati più grandi:
Ma la destra, naturalmente, sta sostenendo che per aver successo si devono seguire le sue proposte politiche – che non si devono tassare i ricchi o aiutare i poveri perché questo distruggerebbe i posti di lavoro. Sfortunatamente per loro, l’unico modo per arrivare a tale conclusione è inventarsi i fatti per conto proprio.
settembre 29, 2014
September 29, 2014 11:57 am
Gillian Tett feels sorry for BIll Gross, who was caught unaware by the sudden shift in bond market behavior. Who could have predicted that interest rates would stay low despite large budget deficits?
Um, how about Pimco’s own chief economist, Paul McCulley?
The truth is that the quiescence of interest and inflation rates was predicted by everyone who understood the obvious — that we had entered a liquidity trap — and thought through the implications. I explained it more than five years ago. When central banks have pushed policy rates as low as they can, and the economy is still depressed, what that tells you is that the economy is awash in excess desired savings that have nowhere to go. And as I wrote:
So what does government borrowing do? It gives some of those excess savings a place to go — and in the process expands overall demand, and hence GDP. It does NOT crowd out private spending, at least not until the excess supply of savings has been sopped up, which is the same thing as saying not until the economy has escaped from the liquidity trap.
So no crowding out, no reason interest rates should rise.
And Paul McCulley understood all this really well (pdf):
[I]n the topsy-turvy world of liquidity traps, these textbook orthodoxies do not apply, and acting irresponsibly relative to orthodoxy by increasing borrowing will do more good than harm.
…
Crowding out, overheating and rising interest rates are also not likely to be a problem as there is no competition for funds from the private sector. For evidence, look no further than the impact of government borrowing on long-term interest rates in the U.S. during the Great Depression, or more recently, Japan.
Really, this wasn’t and isn’t hard.
Or maybe it is. Strikingly, Tett’s version of what went wrong with Gross’s predictions makes no mention of deleveraging and the zero lower bound; it’s all a power play by central banks, which have been “intimidating” bond investors with unconventional monetary policy. This is utterly wrong, and in fact Gross’s own mistakes show that it’s wrong: one of his big failures was betting that rates would spike when the Fed ended QE2, which they predictably didn’t.
As an aside, whenever I hear people explaining away the failure of interest rates to spike as the result of those evil central bankers artificially keeping them down, I want to ask how they think that’s possible. Surely the same people, if you had asked them a few years ago about what would happen if the Fed tried to suppress interest rates by massively expanding its balance sheet, would have predicted runaway inflation. That didn’t happen, which should make you wonder what exactly they mean by saying that rates are artificially low.
Oh, and Tett ends the piece by citing the Bank for International Settlements as a voice of wisdom. That’s pretty amazing, too; the sadomonetarists of Basel have a remarkable track record of being wrong about everything since 2008, but always finding some reason to call for higher rates.
The thing is, Tett is a smart observer who talks to a lot of people in finance; seeing her present a discredited theory as obviously true, without so much as mentioning the kind of analysis that has been worked all along, says bad things about the extent to which anyone who matters has learned anything.
Nessuno l’avrebbe potuto prevedere, versione Bill Gross
Gillian Tett è dispiaciuta per Bill Gross, che è stato sorpreso dall’improvvisa modifica di comportamento nel mercato dei bond. Chi avrebbe potuto prevedere che i tassi di interesse sarebbero rimasti bassi nonostante ampi deficit di bilancio?
Beh, perché non il principale economista della Pimco, Paul McCulley?
La verità è che lo stato di quiete dei tassi di interesse e della inflazione era stata prevista da chiunque comprendeva ciò che era evidente – che eravamo entrati in una trappola di liquidità – e rifletteva sulle implicazioni. Lo spiegai più di cinque anni orsono. Quando le banche centrali hanno spinto i tassi di riferimento più in basso che possono, e l’economia è ancora depressa, quello vi dice che l’economia è inondata di un eccesso di risparmi attesi che non hanno dove dirigersi. E come scrissi:
“Dunque, cosa fa il Governo indebitandosi? Offre ad una parte di questi eccessi un posto dove andare – e nel processo espande la domanda generale, e di conseguenza il PIL. Esso non spiazza la spesa privata, almeno sinché l’offerta in eccesso di risparmi non è stata assorbita, il che è lo stesso che dire finché l’economia non è venuta fuori dalla trappola di liquidità.”
Dunque, nessun spiazzamento, nessuna ragione per la quale i tassi di interesse dovrebbero crescere.
E Paul McCulley comprese tutto questo molto bene (disponibile in pdf):
“Nel mondo sottosopra delle trappole di liquidità, queste ortodossie dei libri di testo non si applicano, ed agire irresponsabilmente secondo l’ortodossia aumentando il ricorso ai prestiti farà più bene che male.
…
Inoltre, lo spiazzamento, il surriscaldamento ed i tassi di interesse in crescita è improbabile che siano un problema nello stesso modo in cui non c’è competizione per i finanziamenti da parte del settore privato. Come riprova, basta guardare all’impatto dell’indebitamento pubblico sui tassi di interesse a lungo termine durante la Grande Depressione, oppure, più recentemente, al Giappone.”
In realtà, non era e non è difficile.
O forse è difficile. In modo sorprendente, la versione di Tett su cosa è andato storto con le previsioni di Gross non fa menzione della riduzione del rapporto di indebitamento e del limite inferiore dello zero; essa riguarda tutta un gioco di potere da parte della banca centrale, che ha “intimidito” gli investitori dei bond con una politica monetaria non convenzionale. Questo è completamente sbagliato, e di fatto gli stessi errori di Gross mostrano che è sbagliato: uno dei suoi grandi insuccessi fu scommettere che i tassi sarebbero risaliti quando la Fed concluse la seconda ‘facilitazione quantitativa’, cosa che come era prevedibile non accadde.
Peraltro, ogni qual volta sento persone che spiegano il fatto che i tassi di interesse non risalgono come la conseguenza di quei maligni banchieri centrali che li tengono bassi, mi viene da chiedere come pensino che sia possibile. Sicuramente, le stesse persone, se pochi anni fa aveste chiesto loro cosa sarebbe accaduto se la Fed avesse cercato di trattenere i tassi di interesse attraverso una massiccia espansione dei suoi equilibri patrimoniali, avrebbero previsto un’inflazione fuori controllo. Non è accaduto, la qualcosa dovrebbe farvi chiedere che cosa esattamente essi intendano dicendo che i tassi sono artificialmente bassi.
Infine, Tett termina il suo articolo citando la Banca Internazionale dei Regolamenti come una voce di saggezza. Anche questo è abbastanza stupefacente; i sadomonetaristi di Basilea hanno messo assieme un considerevole curriculum di sbagli a partire dal 2008, ma sempre trovando un motivo per chiedere tassi di interesse più alti.
Il punto è che Tett è un’osservatrice intelligente, che parla con molta gente della finanza; osservarla presentare una teoria screditata come indiscutibilmente vera, senza fare un minimo riferimento al genere di analisi che ha funzionato per tutto questo tempo, ci dà un’idea sconfortante della misura in cui chiunque conti abbia imparato qualcosa.
settembre 27, 2014
Sep 27 7:45 am
I don’t know anything about what’s been going on internally at Pimco; I just read the same stories as everyone else. I have, however, written a lot about Pimco’s macroeconomic analysis (which drove its bond-investment decisions).
The interesting thing is the Pimco was initially a bond bull, based on the correct understanding that deficits don’t crowd out lending when the economy is in a liquidity trap; but it then went off the rails, with Bill Gross insisting that rates would spike when the Fed ended QE2. I tried to explain why this was wrong, and got a lot of flak from people insisting that the great Gross knew more than any ivory-tower academic. But I knew what I was talking about!
Gross se ne è andato
Non so niente di quello che stava succedendo all’interno della Pimco [1]; ho solo letto le stesse cose di tutti gli altri. Tuttavia, ho scritto non poco a proposito della analisi macroeconomica della Pimco (che ha guidato le sue decisioni di investimento dei bond).
La cosa interessante è che agli inizi la Pimco era una ‘toro’[2] del mercato dei bond, basandosi sulla corretta comprensione che i deficit non ‘spiazzano’ i prestiti quando l’economia è in una trappola di liquidità; ma successivamente è andata fuori dai binari, con Bill Gross che insisteva che i tassi sarebbero risaliti al momento in cui la Fed terminò la seconda ‘facilitazione quantitativa’. Cercai di spiegare che si trattava di un errore, e ottenni molte critiche dalle persone che ripetevano che il grande Gross ne sapeva di più di un qualsiasi accademico in una torre d’avorio. Sennonché, io sapevo di cosa si stava parlando!
[1] Pacific Investment Management Company.
[2] Bull e bear, il toro e l’orso, sono da sempre i simboli del buon andamento (il toro=bull) o del cattivo andamento (the bear=l’orso) dei titoli azionari. L’origine del termine inglese “Bull” per indicare una fase rialzista andrebbe cercata nella prima Borsa organizzata, in Olanda, in relazione ai monosillabi con cui si accordavano i compratori, simili ai muggiti di una stalla. L’origine del termine “Orso” deriva invece più semplicemente dal classico detto “Non vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso“: infatti nelle vendite allo scoperto si vende il titolo, metaforicamente la pelle dell’orso, prima di averlo acquistato. (Wikipedia)
settembre 26, 2014
September 26, 2014 4:12 pm
Simon Wren-Lewis thinks some more about macroeconomics gone astray; Robert J. Waldmann weighs in. For those new to this conversation, the question is why starting in the 1970s much of academic macroeconomics was taken over by a school of thought that began by denying any useful role for policies to raise demand in a slump, and eventually coalesced around denial that the demand side of the economy has any role in causing slumps.
I was a grad student and then an assistant professor as this was happening, albeit doing international economics – and international macro went in a different direction, for reasons I’ll get to in a bit. So I have some sense of what was really going on. And while both Wren-Lewis and Waldmann hit on most of the main points, neither I think gets at the important role of personal self-interest. New classical macro was and still is many things – an ideological bludgeon against liberals, a showcase for fancy math, a haven for people who want some kind of intellectual purity in a messy world. But it’s also a self-promoting clique.
I don’t think this clique could have formed and grown powerful in the first place without the intellectual and ideological foundations. Economics as a discipline being what it is, attacks on Keynesian economics as being inconsistent with rational behavior were bound to get some traction, and the stagflation of the 1970s certainly helped that attack, even if it was less relevant than claimed. Animus against government activism also played a key role, both in motivating the new classical economists themselves and in guaranteeing them external support.
Once the thing had gotten going, however, I think you understand its dynamics much better if you stop assuming that the motives of the movement’s leaders were pure.
Consider the extremism of Lucas and Sargent (pdf) in the early days, declaring Keynesian economics a complete failure – or Lucas talking about how Keynesian papers were greeted with “giggles and whispers”. As Wren-Lewis notes, the actual empirical failures of Keynesian economics weren’t nearly bad enough to justify that kind of total rejection – and as Waldmann says, the new classicals themselves turned their backs on empirical evidence when it began rejecting their own models. So why the utter rejection of anything Keynesian?
Well, while the explicit message of such manifestos is intellectual – this is the only valid way to do macroeconomics – there’s also an implicit message: from now on, only my students and disciples will get jobs at good schools and publish in major journals. And that, to an important extent, is exactly what happened; Ken Rogoff wrote about the “scars of not being able to publish sticky-price papers during the years of new neoclassical repression.” As time went on and members of the clique made up an ever-growing share of senior faculty and journal editors, the clique’s dominance became self-perpetuating – and impervious to intellectual failure.
OK, I know the members of the clique will be outraged – distorting incentives only apply to other people, only bureaucrats hijack institutions to serve their personal aggrandizement, etc.. As they say in Minnesota, ya sure, you betcha.
But what about me and my friends? Why, we’re pure and selfless seekers of truth. How dare anyone suggest otherwise?
OK, I think there is a sense in which I’m part of a counterclique. In fact, if you look at just about every economist in my cohort playing an influential role in formulating or discussing macroeconomic policy — Rogoff, Bernanke, Draghi, Blanchard, Summers — you’ll find that they studied macroeconomics at MIT or Harvard, and were formally or informally advised by Rudi Dornbusch and his good friend Stan Fischer.
As I said, international macro went in a different direction. I’ve written in the past that this had a lot to do with the overwhelming international evidence against a new classical view, although that view persisted on the domestic side despite compelling evidence after 1980. It also had to do with events. For domestic macro types, the big event of the 70s was stagflation; in international macro it was the collapse of Bretton Woods, and the shocking volatility in both nominal and real exchange rates that followed.
In that context, the very tight correlation between nominal and real rates meant that international macroeconomists kept sticky prices in their models. The famous Dornbusch “overshooting” analysis paired sticky goods prices with volatile, forward-looking asset prices, and seemed to have very interesting things to say – so international macro had a program other than the demolition of all things Keynes.
Also, my sense – it would be interesting to have some evidence – is that international macro has all along had stronger ties to real-world policymakers, especially at central banks, maybe because there are a lot of currencies and US-based economists therefore have a lot more opportunities to weigh in on actual policy decisions. Certainly Rudi pioneered a new role that combined highly regarded research with lots of country consulting. Since central banks never went all in for new classical – they tend to have this “but it doesn’t work in the real world” hangup – this too pulled international along a different path.
And yes, DornbuschFischerites tend to value research and people consonant with their worldview. I like to think that it’s nothing like the scourge-and-purge style of the new classical types, in part because my side of this thing likes to think of itself as open-minded, sometimes giving the impression of desperately seeking common ground (hi Olivier). But the friends-and-disciples effect certainly has some relevance, and there are a lot of DornbuschFischerites in influential places. Have I congratulated my old student Catherine Mann on her appointment as chief economist of the OECD?
These stories are not, of course, unique to economics; episodes like this have played out in many academic disciplines. Unfortunately, the rise of the new classical clique had consequences far beyond the academy, because it ended up playing an important role in the failure of policy to effectively confront the Lesser Depression.
La cerchia neo classica
Simon Wren-Lewis ha qualche pensiero ulteriore sulla macroeconomia andata alla deriva; sul tema interviene Robert J. Waldmann. Per coloro che sono nuovi a questo dibattito, il tema è perché a partire dagli anni ’70 molta della macroeconomia accademica fu sostituita da una scuola di pensiero che cominciò col negare ogni ruolo utile per politiche che incrementassero la domanda in una crisi, e alla fine si saldarono nel negare che, nell’economia, il lato della domanda avesse un qualche ruolo nel provocare le recessioni.
Mentre ciò stava avvenendo, io ero uno studente universitario e poi un professore assistente, sebbene mi occupassi di economia internazionale – e la macroeconomia internazionale andava in una diversa direzione, per ragioni alle quali arriverò in un attimo. Dunque ho una qualche percezione di quello che effettivamente stava accadendo. E mentre Wren-Lewis e Waldmann insistono sugli aspetti fondamentali, nessuno dei due, penso, si renda ben conto del ruolo fondamentale degli interessi personali. La nuova macroeconomia classica fu ed ancora è molte cose – un randello ideologico contro i progressisti, una vetrina di matematica attraente, un riparo per persone che volevano una qualche specie di purezza intellettuale in un mondo in subbuglio. Ma anche una cerchia di auto promozione.
Anzitutto, io non penso che questa cerchia avrebbe potuto formarsi e diventare potente senza le fondazioni intellettuali ed ideologiche. Essendo l’economia la disciplina che è, gli attacchi all’economia keynesiana, essendo incoerenti con un comportamento razionale, furono in quel modo certi di ottenere in qualche seguito, e la stagflazione degli anni ’70 certamente contribuì a tale attacco, anche se fu meno rilevante di quanto viene sostenuto. L’ostilità contro l’attivismo del governo giocò anch’essa un ruolo fondamentale, sia nel motivare gli stessi economisti neo classici che nel garantire loro il sostegno esterno.
Una volta che la cosa si mise in movimento, tuttavia, io penso che si comprendano molto meglio le sue dinamiche se si smette di dare per scontato che le motivazioni dei dirigenti di quel movimento fossero cristalline.
Si consideri l’estremismo iniziale di Lucas e Sargent (connessione disponibile in pdf), che dichiaravano l’economia keynesiana un completo fallimento – oppure i riferimenti di Lucas al fatto che gli studi keynesiani venissero accolti con “risatine e sussurri”. Come nota Wren-Lewis, gli effettivi insuccessi empirici dell’economia keynesiana non erano nemmeno lontanamente così negativi da giustificare quel tipo di rigetto viscerale – e come Waldmann afferma, furono gli stessi neoclassici a voltare le spalle alle prove empiriche quando esse presero a confutare i loro modelli. Perché, dunque, il rigetto completo di tutto quello che era keynesiano?
Ebbene, se il messaggio esplicito di tali manifesti è intellettuale – “questo è l’unico modo valido di fare economia” – c’è anche un messaggio implicito: d’ora in avanti, soltanto i miei studenti ed allievi avranno posti di lavoro e buone scuole e pubblicheranno nelle riviste più importanti. E ciò, in notevole misura, è esattamente quanto accadde; Ken Rogoff scrisse a proposito delle “cicatrici derivanti dal non poter pubblicare saggi sulla rigidità dei prezzi negli anni della repressione neoclassica”. Con il passar del tempo e con i componenti della cerchia che mettevano assieme una quota sempre più grande di posti nelle facoltà principali e di editori di riviste, il dominio della cerchia cominciò ad auto perpetuarsi e divenne insensibile agli insuccessi intellettuali.
E’ vero, so che i componenti della cerchia si sentiranno oltraggiati – l’utilizzo indebito degli incentivi si applica soltanto agli altri, soltanto alle istituzioni deviate che i burocrati asserviscono alle loro personali carriere etc. Come dicono nel Minnesota: “come no?, ci puoi scommettere” [1].
Ma che dire di me e dei miei amici? Perché, noi siamo ricercatori della verità, puri e disinteressati. Chi potrebbe avere l’ardimento di dire una cosa diversa?
E’ vero, penso che ci sia una spiegazione nel fatto che io faccio parte di una ‘contro-cerchia’. Di fatto, se guardate a come quasi ogni economista del mio gruppo ha un ruolo influente nel formulare o dibattere la politica macroeconomica – Rogoff, Bernanke, Draghi, Blanchard, Summers – scoprirete che hanno studiato macroeconomia al MIT o ad Harvard, e che erano formalmente o informalmente consigliati da Rudy Dornbusch e dal suo buon amico Stan Fischer.
Come ho detto, la macroeconomia internazionale andava in un’altra direzione. Ho scritto in passato che questo molto dipese dalle prove schiaccianti che venivano da quel settore contro il punto di vista neoclassico, sebbene quel punto di vista persisteva per l’aspetto nazionale, nonostante le prove persuasive dopo il 1980. Dipese anche dagli eventi. Per coloro che si occupavano di macroeconomia interna, il grande evento degli anni ‘70 fu la stagflazione; nella macro internazionale fu il collasso di Bretton Woods, e la impressionante volatilità dei tassi di cambio sia nominali che reali che seguì.
In quel contesto, la correlazione molto stretta tra tassi nominali e reali comportò che i macroeconomisti internazionali assunsero nei loro modelli la rigidità dei prezzi. La famosa analisi di Dornbusch sul fenomeno del “mancare il bersaglio” [2], accoppiava i prezzi rigidi dei beni con i prezzi volatili degli asset che guardavano al futuro, e sembrò avere cose molto interessanti da dire – cosicché la macroeconomia internazionale ebbe un programma diverso dalla demolizione di tutte le idee di Keynes.
Inoltre, la mia sensazione – sarebbe interessante averne qualche prova – è che la macroeconomia internazionale da sempre ha avuto legami più forti con gli operatori politici del mondo reale, in specie con le banche centrali, forse perché c’erano una quantità di valute e di conseguenza gli economisti con sede negli Stati Uniti avevano maggiori opportunità di intervento sulle effettive decisioni politiche. Certamente Rudi esplorò per primo un nuovo ruolo, che combinava ricerca di alto livello con una quantità di consulenze nei singoli paesi. Inoltre, dal momento che le banche centrali non hanno mai apprezzato le teorie neoclassiche – essi tendono ad avere l’impedimento secondo il quale quelle teorie “non funzionano nel mondo reale” – questo spinse la macro internazionale su un diverso indirizzo.
E, in effetti, gli allievi di Dornbusch e Fischer tendono a apprezzare le ricerche e le persone in sintonia con la loro visione del mondo. Preferisco pensare che non ci sia in ciò niente di simile allo stile del “purgare e castigare” proprio degli individui dell’orientamento neoclassico, in parte perché il mio schieramento ama dipingersi come intellettualmente aperto, talvolta dando l’impressione di cercare disperatamente di cercare un terreno comune (un saluto, Olivier! [3]). Ma l’effetto degli “amici ed allievi” certamente ha un qualche rilievo, e ci sono molti seguaci di Dornbusch e Fischer nei posti influenti. E’ il caso che mi congratuli con la mia passata studentessa Catherine Mann per la sua nomina come capo-economista all’OCSE?
Queste storie, naturalmente, non riguardano unicamente l’economia; episodi simili hanno avuto un ruolo in molte discipline accademiche. Sfortunatamente, l’ascesa della cerchia neoclassica ha avuto conseguenze che sono andate molto oltre l’accademia, giacché ha finito col giocare un ruolo importante nell’insuccesso della politica nell’affrontare con efficacia la Depressione Minore.
[1] Evidentemente, non lo dicono solo nel Minnesota; forse in quell’area usano il “betcha” per “bet you”.
[2] Il modello del “bersaglio oltrepassato”, oppure della “ipotesi del tasso di cambio che manca il suo obbiettivo”, dapprima sviluppato dall’economista Rudy Dornbusch, è una spiegazione teorica degli alti livelli di volatilità nei tassi di cambio. Le caratteristiche principali del modello riguardano gli assunti che i prezzi dei beni sono rigidi (o vischiosi), oppure lenti a modificarsi, nel breve periodo, mentre i prezzi delle valute sono flessibili; che nel mercato degli asset si mantiene un “arbitraggio” …. e che le aspettative di mutamenti nei tassi di cambio sono “coerenti” – vale a dire, razionali. La intuizione più importante del modello è che i ritardi di adattamento, in alcune parti dell’economia, possono indurre come compenso una volatilità in altri; in particolare quando una variabile esogena si modifichi, l’effetto nel breve periodo sul tasso di cambio può essere più grande dell’effetto sul lungo periodo, cosicché nel breve periodo il tasso di cambio manca il bersaglio del suo nuovo valore di equilibrio nel lungo periodo. (Wikipedia in lingua inglese).
[3] Il riferimento scherzoso, come si comprende, è ad Olivier Blanchard, un componente del gruppo descritto che oggi svolge le funzioni di direzione del Fondo Monetario Internazionale .
settembre 25, 2014
Sep 25 4:26 pm
Jared Bernstein asks why the Fed (and just about all of its counterparts abroad) targets 2 percent inflation. I did some digging on this very issue in my paper for last spring’s ECB conference, and found that 2 was a convenient round number that seemed to provide a reasonable resolution to the conflict between the price stability crowd and economists worried about the two zeroes.
The price stability thing is obvious: there have always been a number of economists who view the purchasing power of money as a sort of sacred trust, the preservation of the unit of account as critical, etc.. They wanted an inflation target of zero, so that a dollar would be a dollar forever.
On the other side, realists pointed out that there were two troubling forms of downward stickiness: interest rates can’t go negative, and neither workers nor employers are happy with nominal wage cuts. These considerations argued for a positive inflation target, to provide room to cut real rates below zero in a downturn and to adjust relative wages without any actual cuts.
So why a 2 percent target? It was low enough that the price stability types could be persuaded, or were willing to concede as a possibility, that true inflation — taking account of quality changes — was really zero. Meanwhile, as of the mid 1990s modeling efforts suggested that 2 percent was enough to make sustained periods at the zero lower bound unlikely and to lubricate the labor market sufficiently that downward wage stickiness would have minor effects. So 2 percent it was, and this rough guess acquired force as a focal point, a respectable place that wouldn’t get you in trouble.
The problem is that we now know that both the zero lower bound and wage stickiness are much bigger issues than anyone realized in the 1990s — financial/balance sheet crises can produce situations in which the ZLB is binding for years on end, and in Europe, at least, we find ourselves needing large changes in relative wages.
Unfortunately, it’s now very hard to change the target; anything above 2 isn’t considered respectable.
Il terribile 2 per cento
Jared Bernstein si chiede perché la Fed (e quasi tutti i suoi omologhi all’estero) collochi l’obbiettivo di inflazione al 2 per cento. Feci qualche approfondimento proprio su questo tema nel mio saggio alla conferenza della BCE della scorsa primavera [1], e scoprii che il 2 era un numero tondo conveniente, che sembrava fornire una soluzione ragionevole al conflitto tra il partito della stabilità dei prezzi e gli economisti preoccupati dei “due zeri”.
L’aspetto della stabilità dei prezzi è evidente: c’è sempre stato un certo numero di economisti che considera il potere di acquisto del denaro come una sorta di fiducia sacra, la difesa dell’unità di conto come essenziale, etc. Essi volevano un obbiettivo di inflazione dello zero, in modo tale che il dollaro sarebbe stato un dollaro eterno.
Dall’altra parte, i realisti mettevano in evidenza che c’erano due preoccupanti forme di rigidità verso il basso: i tassi di interesse non possono diventare negativi, e né i lavoratori né i datori di lavoro sono contenti dei tagli ai salari nominali. Queste considerazioni deponevano per un obbiettivo di inflazione positivo, per lasciare lo spazio per tagliare i tassi reali al di sotto dello zero in una crisi e per correggere i salari relativi senza alcun taglio effettivo.
Perché, dunque, un obbiettivo del 2 per cento? Esso era abbastanza basso perché gli individui del fronte della stabilità dei prezzi potessero essere persuasi, o fossero disponibili ad ammettere come una possibilità che l’inflazione effettiva – mettendo nel conto la qualità dei cambi – fosse realmente zero. Contemporaneamente, come gli sforzi di modellazione della metà degli anni ’90 suggerivano, quel 2 per cento era sufficiente per rendere improbabili prolungati periodi al limite inferiore dello zero e per lubrificare a sufficienza il mercato del lavoro, in modo che la rigidità verso il basso dei salari avesse minori effetti. Dunque il 2 per cento era una posizione rispettabile per la quale non si sarebbe finiti nei guai, e questa sommaria stima si impose come un punto focale.
Il problema è che ora sappiamo che sia il limite inferiore dello zero che la rigidità dei salari sono questioni molto più grandi di quanto nessuno aveva compreso negli anni ’90 – le crisi degli equilibri patrimoniali possono produrre situazioni nelle quali il limite inferiore dello zero è vincolato per anni interminabili, e, almeno in Europa, ci ritroviamo ad aver bisogno di cospicui mutamenti nei salari relativi.
Sfortunatamente, ora è davvero difficile modificare il target: niente sopra il 2 è considerato rispettabile.
[1] Vedi in questo blog: “Una riconsiderazione degli obbiettivi di inflazione -maggio-2014 – Relazione di Paul Krugman alla Conferenza di-Sintra, Portogallo, della BCE.
settembre 25, 2014
Sep 25 10:36 am
How much slack is there in the U.S. labor market? Good question. The measured unemployment rate is fairly low, but labor force participation also seems low, and I have doubts about studies purporting to say that it’s overwhelmingly long-term demographics. Wage gains are still slow. My guess is that there’s considerably more slack than the unemployment number might lead you to suspect, but the truth is that I don’t know.
But here’s the thing: you don’t know either. Neither does Janet Yellen, or Charles Plosser, or anyone else; anyone who thinks he or she knows for sure is suffering from the Dunning-Kruger effect.
So let’s hear it for Charles Evans, who gets it exactly right: we need to focus on the asymmetry of risks.
If it turns out that there’s less slack than our best guess, inflation may overshoot before the Fed can react. That would be unpleasant. But it’s manageable: if there’s one thing the Fed knows, it’s how to tighten.
But if it turns out that there’s more slack than we guess, and the Fed tightens too soon, the result can be tragedy: we can end up back in the liquidity trap, facing years of below-target inflation (maybe even deflation) and economic stagnation. As Evans says, we’ve seen this movie — in fact, several remakes: Japan in the early 2000s, the ECB in 2010, the Riksbank in Sweden.
The prudent course is to wait for clear evidence of overheating. Damn the inflationistas and financial-stability-istas who want to torpedo recovery; full speed ahead.
Rischi monetari asimmetrici
Quanto è fiacco il mercato del lavoro negli Stati Uniti? Bella domanda. Il tasso di disoccupazione accertato è abbastanza basso, ma anche la partecipazione della forza lavoro sembra bassa [1], ed io dubito degli studi che pretendono di affermare che si tratti in modo di gran lunga prevalente di demografia a lungo termine. La mia impressione è che ci sia una notevole maggiore fiacchezza di quanto i dati sulla disoccupazione porterebbero ad immaginare, ma la verità è che non lo so.
Ma qua è il punto: non si sa né l’una cosa né l’altra. Non lo sanno Janet Yellen, o Charles Plosser o chiunque altro; chiunque pensi di saperlo con certezza sta soffrendo dell’effetto Dunning-Krueger [2].
Dunque, complimenti a Charles Evans, che intende la cosa nel modo più giusto: abbiamo bisogno di concentrarci sulla asimmetria del rischio.
Se si scopre che c’è minore fiacchezza della nostra migliore congettura, l’inflazione può passare i limiti prima che la Fed possa reagire. Ciò sarebbe spiacevole. Ma gestibile: se c’è una cosa che la Fed conosce è come operare una stretta.
Ma se viene fuori che c’è più fiacchezza di quella che immaginiamo, e la Fed restringe troppo rapidamente, il risultato può essere una tragedia: possiamo finir col tornare nella trappola di liquidità, fronteggiando anni di inflazione al di sotto dell’obbiettivo (forse persino di deflazione) e di stagnazione economica. Come dice Evans, questo film l’abbiamo già visto, di fatto in varie versioni: il Giappone nei primi anni 2000, la BCE nel 2010, la Banca Centrale in Svezia.
L’andamento prudente è attendere chiare prove di surriscaldamento. Al diavolo gli inflazionisti ed i patiti della stabilità finanziaria che vogliono silurare la ripresa; avanti a tutta velocità.
[1] Nel nostro linguaggio statistico corrisponde a “tasso di attività”, benché il senso sia più generico (“partecipazione alle forze di lavoro”) perché l’effettivo tasso di attività si esprime con “labor force participation rate”. In ogni caso si tratta del rapporto tra occupati e popolazione delle classi di età corrispondenti. Per occupati, nel linguaggio statistico americano, si intendono coloro che sono in attività, ma anche coloro che sono in attiva ricerca di una attività. Si deve considerare che nei decenni, con l’eccezione di gravi recessioni, rispetto a noi la mobilità inter lavorativa è stata più diffusa ed i tempi di reinserimento più brevi.
La stima sul tasso di attività spesso si ottiene considerando il rapporto con la popolazione delle generazioni dai 25 ai 54 anni. E’ un calcolo che viene considerato più oggettivo, perché l’inserimento delle fasce di popolazione più giovani o più anziane introduce elementi meno costanti nelle serie storiche, quali la scolarità ed i trattamenti assicurativi di anzianità.
[2] L’effetto Dunning–Kruger è una distorsione cognitiva a causa della quale individui inesperti tendono a sopravvalutarsi, giudicando, a torto, le proprie abilità come superiori alla media. Questa distorsione viene attribuita all’incapacità metacognitiva, da parte di chi non è esperto in una materia, di riconoscere i propri limiti ed errori. (Wikipedia)
settembre 25, 2014
Sep 25 10:24 am
Something I didn’t know: David Brooks’s column that, among other things, lamented the failure of the wealthy to follow a “code of seemliness” was actually part of a broader complaint to that effect among conservative intellectuals. For example, Charles Murray’s “Coming Apart” is mainly about what has gone wrong with working-class values, but he devotes a fair bit of space to the “unseemly” ostentation of the elite; strange to say, he focuses on Hollywood producers rather than private equity managers, but still.
Was it ever different? Actually, yes. I’ve written before about the remarkable Fortune portrait of top executives in 1955, who really did live much more modest and sober lives than their modern counterparts (even if there was probably more sex and alcohol consumption than Fortune let on).
What’s interesting, however, is that Fortune claimed that this modesty was something new, a break with the previous generation — and it attributed the change not to a shift in values but to a change in circumstances: “The large yacht [has] foundered in the seas of progressive taxation.”
But that was then. The surge in executive compensation after the 1970s is well known; I’m not sure how many people know just how dramatic the cut in top taxes has been. The IRS has been collecting data on the incomes and taxes of the 400 top taxpayers (pdf) since 1992; as of the late naughties they were paying average income tax rates of less than 20 percent (and surely very little in other taxes). We can produce roughly comparable data (pdf) for the 1950s; in 1955 there were 427 filers with incomes over $750,000, and they paid 51.2 percent of their income in taxes. So taxes dropped from more than half to less than a fifth. That’s a lot.
And the implication, of course, is that it’s kind of silly to lament the loss of elite sobriety and seemliness without noticing that the big difference these days is that the rich have so much money.
While we’re on this topic, I’d like to thank Bruce Bartlett for directing me to a really interesting recent Fed paper on spending patterns (pdf), which shows that other things equal people are more likely to buy fancy cars if they live in highly unequal Census tracts. That is, inequality seems to drive conspicuous consumption, just as Veblen told us.
But back to the main point: anyone nostalgic for the manners and apparent morals of the good old WASP elite should be aware that a lot of that elite’s restraint came from the fact that it wasn’t at all rich by today’s standards.
Note sconvenienti
Qualcosa che non conoscevo: l’articolo di David Brook che, tra le altre cose, lamentava l’incapacità dei ricchi di seguire un “codice di decenza” era, per la verità, parte di una lamentela più generale su tale tema tra gli intellettuali conservatori. Per esempio, il libro “La disgregazione” di Charles Murray riguarda principalmente ciò che è andato in malora nei valori della classe lavoratrice, ma dedica una discreta quantità di spazio alla “sconveniente” ostentazione da parte delle élite; strano a dirsi, esso si concentra sui produttori di Hollywood piuttosto che sui dirigenti delle private equity, eppure …
E’ mai andata in modo diverso? Per la verità, sì. Ho scritto in passato sul rilevante ritratto dei massimi dirigenti di azienda da parte di Fortune nel 1955, che realmente conducevano esistenze molto più modeste e sobrie dei loro omologhi contemporanei (anche se c’era probabilmente più sesso e consumo di alcol di quello che Fortune dia a vedere).
Quello che è interessante, tuttavia, è che Fortune sosteneva che questa modestia era qualcosa di nuovo, una rottura con la generazione precedente – ed attribuiva il cambiamento non ad uno spostamento di valori ma ad una modifica delle circostanze: “I grandi yacht sono affondati nei mari della tassazione progressiva”.
Ma questo era allora. La crescita nei compensi degli amministratori dopo il 1970 è ben nota; non sono sicuro quante persone sappiano quanto è stato precisamente spettacolare il taglio delle tasse sui redditi più alti. L’Internal Revenue Service ha raccolto i dati sui redditi e sulle tasse dei 400 contribuenti più ricchi (disponibile in pdf) a partire dal 1992; a partire dagli ultimi anni 2000 essi pagavano aliquote medie sulla tassa sul reddito inferiori al 20% (e certamente molto piccole su altre tassazioni). Possiamo grosso modo produrre dati confrontabili con gli anni ’50; nel 1955 c’erano 427 fascicoli [1] con redditi sopra i 750.000 dollari, e pagavano il 51,2 per cento del reddito in tasse. Dunque le tasse sono scese da più della metà a un quinto. Che è molto.
E la conseguenza, ovviamente, è che è una specie di scemenza lamentare la perdita di sobrietà e di decoro della élite senza notare che la grande differenza di questi tempi è che i ricchi hanno tanto denaro.
Già che siamo su questo tema, mi piace ringraziare Bruce Bartlett per avermi indirizzato ad uno studio recente della Fed sui modelli di consumo davvero interessante (disponibile in pdf), che mostra che a parità di condizioni è più probabile che le persone acquistino macchine di lusso se vivono in aree censuarie con elevate diseguaglianze [2]. Vale a dire, l’ineguaglianza sembra provocare un consumismo vistoso, come Veblen ci ha raccontato.
Ma, tornando al punto principale: tutti coloro che sono nostalgici per i comportamenti e gli apparenti principi morali della buona vecchia élite WASP[3] dovrebbero essere consapevoli che molto del senso della misura di quella élite derivava dal fatto che non erano poi così ricchi, secondo gli standard odierni.
[1] Suppongo ci sia un errore e che il termine sia “files”.
[2] Ovvero, in quartieri abitati da persone con redditi diversi.
[3] Acronimo di “bianchi anglo-sassoni protestanti”, vale a dire storicamente i candidati a far parte della classe dirigente statunitense, almeno sino al secolo scorso.
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