Blog di Krugman

Il “Beveridge” che rincuora (5 settembre 2014)

 

Sep 5 3:03 pm

The Beveridge That Refreshes

Claims that there is a huge “skills gap”, that much of our unemployment is structural, reflecting an inadequately prepared work force or something like that, generally rest on claims that we have an unusual situation in which many jobs are vacant even as many workers remain unemployed. For example, at the beginning of this year Jaime Dimon co-authored a piece on the alleged skills gap that began,

Today, nearly 11 million Americans are unemployed. Yet, at the same time, 4 million jobs sit unfilled. This is the “skills gap”—the gulf between the skills job seekers currently have and the skills employers need to fill their open positions.

Of course, there are always both unfilled job openings and unemployed workers; claims of an exceptional skills gap would only have some justification if the tradeoff between unemployment and vacancies — the so-called Beveridge curve — had worsened substantially. And for a while there were many claims that this had in fact happened.

But some analysts argued that this was a misreading of the data — the Beveridge curve always looks worse during a recession and the early stages of recovery, then returns to normal as recovery proceeds. And sure enough, researchers at the Cleveland Fed find that the supposed shift in the Beveridge curve has vanished:

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And, refreshingly, they even indulge in a bit of discreet and forgivable snark:

Observers have followed the Beveridge curve during the recession and the recovery to glean some insight into potential structural changes in the labor market. Whether or not a shift implies an actual structural change—specifically, a decline in the matching efficiency of the labor market—is still debatable. However, one thing is clear: there is no shift to begin with.

 

Il “Beveridge” che rincuora

Le pretese secondo le quali ci sarebbe un ampio “gap di professionalità”, che gran parte della nostra disoccupazione sia strutturale, riflettendo una forza lavoro inadeguatamente addestrata o qualcosa del genere, generalmente si fondano sugli argomenti secondo i quali avremmo una situazione inusuale nella quale molti posti di lavoro sono vacanti mentre molti lavoratori restano disoccupati. Ad esempio, agli inizi dell’anno Jaime Dimon è stato coautore di un articolo sul preteso gap di professionalità che cominciava in questo modo:

“Oggi, quasi 11 milioni di americani sono disoccupati. Tuttavia, contemporaneamente, 4 milioni di posti di lavoro sono vacanti. Questo è il “gap di professionalità” – l’abisso tra la professionalità che hanno coloro che cercano lavoro e quella di cui hanno bisogno i datori di lavoro per coprire i posti vacanti.”

Naturalmente, ci sono sempre sia disponibilità di posti di lavoro non utilizzate che lavoratori disoccupati; le pretese su un gap eccezionale di professionalità avrebbe qualche giustificazione solo se lo scambio tra disoccupazione e disponibilità – la cosiddetta curva di Beveridge [1] – fosse sostanzialmente peggiorato. E per un po’ ci sono stati molti argomenti secondo i quali questo era davvero accaduto.

Ma alcuni analisti sostennero che questa era una lettura fuorviante dei dati – la curva di Beveridge sembra sempre peggiore durante una recessione e nei primi stadi di una ripresa, poi torna alla normalità quando la ripresa procede. E, come era prevedibile, ricercatori alla Fed di Cleveland ora scoprono che il supposto spostamento nella curva di Beveridge è svanito:

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Ed essi, in modo rincuorante, indulgono persino in un discreto e comprensibile sarcasmo:

“Gli osservatori hanno seguito la curva di Beveridge durante la recessione e la ripresa per dedurne qualche intuizione sui potenziali mutamenti strutturali del mercato del lavoro. Che uno spostamento implichi oppure no un effettivo cambiamento strutturale – in particolare, un declino di efficienza del mercato del lavoro nel promuovere l’incontro – è ancora discutibile. Tuttavia, una cosa è chiara: non c’è alcuno spostamento dal quale trarre spunto.”[2]

 

 

[1] William Beveridge fu economista e sociologo, nonché autore di una famosissimo rapporto  che nel dopoguerra costituì la base per la costruzione della Stato Sociale britannico, da parte dei governi laburisti. La “curva di Beveridge” indica la relazione negativa tra il tasso di disoccupazione e il numero di posti vacanti disponibili in rapporto alla forza lavoro. La relazione, dal nome dello studioso  W. Beveridge (che ha ricoperto, tra gli altri incarichi, quello di direttore della London School of Economics), mostra che all’aumentare del numero di posti vacanti, e quindi al diminuire della congestione nel mercato del lavoro, il tasso di disoccupazione diminuisce. Gli spostamenti, a destra o a sinistra, di questa relazione nel tempo sono da ricondursi a due ordini di ragioni: cambiamenti nel grado di efficienza nel mercato del lavoro e posizione del ciclo economico. Spostamenti della curva verso destra indicano, per es., che, per data offerta di posti vacanti, la disoccupazione è più alta in quanto il mercato del lavoro è meno efficiente. Ciò può essere dovuto alla presenza di maggiori frizioni, quali più elevati costi di assunzione e licenziamento, più alta tassazione sul lavoro, o schemi più onerosi di benefici alla disoccupazione, che non favoriscono l’incontro tra imprese e lavoratori. Anche le diverse fasi del ciclo possono influenzare la posizione della curva: durante le recessioni le condizioni del mercato del lavoro peggiorano, un maggior numero di lavoratori entra nella condizione di disoccupato, rendendo il mercato più congestionato e spostando la curva di B. verso l’esterno. Spostamenti nella posizione della curva sono da attribuirsi anche a cambiamenti delle caratteristiche istituzionali nel mercato del lavoro. Per es., istituzioni che facilitano l’incontro tra imprese e lavoratori (riduzioni dei costi di ricerca del lavoro, agenzie di collocamento ecc.) migliorano l’efficienza nel mercato del lavoro e spostano la curva verso sinistra, in una posizione, quindi, in cui un dato numero di posti vacanti è associato a una minore disoccupazione. D’altro canto, la maggiore partecipazione alla forza lavoro può, almeno nel breve periodo, aumentare il tasso di disoccupazione per un dato livello di posti vacanti: un numero superiore di persone alla ricerca di lavoro rende il mercato più congestionato e riduce quindi la probabilità che i posti disponibili siano coperti celermente. Infine, la presenza di disoccupazione strutturale, inducendo deterioramenti del capitale umano, provoca uno spostamento della curva verso destra. (di Ester Faia, da Treccani)

 

[2] In effetti (e la cosa andrebbe riflettuta anche in relazione agli argomenti usati da Mario Draghi nel suo discorso recente, che sembrano invece avvalorare, per l’Europa, la tesi di un andamento irregolare) il diagramma è abbastanza impressionante per la chiarezza: non c’è stata alcuna recessione, tra quelle esaminate, che si sia discostata dall’andamento prevedibile, sulla base della curva di Beveridge. Ovvero, nella quale non si sia tornati, alla fine dello shock recessivo, al rapporto precedente tra livelli di disoccupazione e disponibilità di posti di lavoro. Questo, per l’ultima recessione, è visibile nella linea marrone, che al secondo trimestre del 2014 torna più o meno ai livelli precedenti l’inizio della crisi.

La spirale fatale della riforma sanitaria di Obama (5 settembre 2014)

settembre 5, 2014

 

Sep 5 9:38 am

Obamacare Life Spiral

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Ezra Klein directs us to the latest from the Kaiser Family Foundation, which asks what the average Obamacare 2015 premium increase will be for those places for which we have full information — and finds that premiums will actually decline slightly. Ezra tries to get us to appreciate just how good the Obamacare news has been with a thought experiment:

Imagine taking a time machine back to 2010 and telling Republicans in Congress, who were arguing that the CBO was wildly underestimating Obamacare’s cost, that the law would be cheaper than predicted and, at least in the states that accepted its Medicaid dollars, cover more people than the Congressional Budget Office thought. After the laughing and mocking and the calling of security, let’s say you offered this prediction in the form a of a bet. What odds do you think Obamacare’s critics would have offered? 2:1? 5:1? 10:1?

But you don’t have to go back to 2010. Look at John Cochrane in late 2013, taking it for granted that Obamacare would implode in a death spiral within a few months. Look at The Hill just four months ago, telling us that double-digit premium hikes were coming.

One question we might ask here is, why is the news so good? The answer, I’d suggest — although I hope the real experts will weigh in — is that we’re actually seeing the opposite of a death spiral; call it a life spiral. For one thing, the huge surge in enrollments late in the day meant that the risk pool this year is better than insurers expected, and they now expect 2015 to be better still. Also, importantly, big enrollments mean that more insurers are entering the market, increasing competition. And, of course, the better the deal the more people will sign up: success feeds success.

Another question we might ask: Is our conservatives learning? Are those who bought into the death spiral stories, who seized on every hint of bad news, asking themselves how they got it so wrong? Are they, maybe, considering the possibility that they’re listening to the wrong people, that maybe Jon Gruber knows what he’s talking about and John Goodman is a hack?

Hahahaha.

 

La spirale fatale della riforma sanitaria di Obama

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Ezra Klein ci indirizza a questa ultima notizia dalla Fondazione Kaiser Family, che si domanda quale sarà l’incremento medio della polizza assicurativa della riforma sanitaria di Obama nel 2015 per quelle posizioni sulle quale abbiamo piena informazione – e scopre che quella polizza effettivamente si ridurrà leggermente. Ezra cerca di farci apprezzare quanto siano state proprio buone le notizie della riforma, con un esperimento di pensiero:

“Si pensi di prendere una macchina del tempo che ci riporti al 2010 e di raccontare ai repubblicani del Congresso, che stavano sostenendo che il Congressional Budget Office sottostimava enormemente il costo della riforma sanitaria di Obama, che la legge sarebbe stata più economica del previsto e che, almeno negli Stati che hanno accettato i soldi che la legge offriva su Medicaid, avrebbe dato assistenza ad un numero maggiore di persone di quanto il CBO pensasse. Dopo il gran ridere ed il prendere in giro e le chiamate alle forze della sicurezza, si pensi che ci venga consentito di invitarvi, nella forma di una scommessa, ad avanzare una previsione. Quali probabilità secondo voi, i critici della riforma sanitaria di Obama avrebbero offerto: 2:1? 5:1? 10:1?”

Ma non dovete tornare indietro al 2010. Si guardi John Cochrane nel 2013, che considerava sicuro che la riforma di Obama sarebbe implosa in una spirale fatale [1] in pochi mesi. Si guardi, solo quattro mesi fa, The Hill che ci raccontava che erano in arrivo aumenti a doppia cifra delle polizze assicurative.

Una domanda che dovreste porre a questo punto è: perché le notizie sono così buone? La risposta che suggerirei – sebbene spero che esperti veri e propri vorranno intervenire – è che noi stiamo effettivamente assistendo all’opposto di una spirale fatale; chiamiamola una spirale vitale. Da una parte, l’ampia crescita delle iscrizioni all’ultimo momento hanno comportato che il rischio assicurativo complessivo quest’anno sia migliore di quello che gli assicuratori si aspettavano, ed ora si aspettano che il 2015 sia anche migliore. Inoltre, ed è importante, ampie iscrizioni significano che un numero maggiore di assicuratori stanno entrando nel mercato, aumentando la competizione. E, naturalmente, più è conveniente, più le persone si iscriveranno: il successo alimenta il successo.

Un’altra domanda che dovreste avanzare è se i conservatori stanno imparando qualcosa. Si stanno chiedendo perché hanno avuto torto coloro che credevano ai racconti sulla spirale fatale, che strumentalizzavano ogni accenno di notizia negativa? Stanno forse considerando la possibilità che stessero dando ascolto alla gente sbagliata, che forse Jon Gruber sa di cosa parla, mentre John Goodman è un pennivendolo [2]?

Risata fragorosa.

 

 

[1] Il termine “spirale fatale” – in questa discussione – sta a significare l’idea che molte persone giovani ed in salute non si sarebbero iscritte alla nuova sanità riformata. In quel modo sarebbe rimasta una percentuale eccessiva di anziani non in salute perfetta, e i premi assicurativi sarebbero sempre di più diventati insostenibili: una spirale fatale, appunto.

[2] Il primo è un economista che insegna al MIT sin dal 1992, esperto in particolare di finanza pubblica e di economia sanitaria. Il secondo (da non confondersi con il famoso attore, ovviamente)  è un giornalista che si occupa di temi sanitari su giornali conservatori e in particolare sul Wall Street Journal.

Modellare il Senato (4 settembre 2014)

settembre 4, 2014

 

Sep 4 4:01 pm

Senate Modeling

The stakes in this year’s midterms aren’t as high as in some elections; Republicans are sure to retain control of at least one house, Obama will still be president, so gridlock continues. Still, some things will be at stake — for example, whether the Congressional Budget Office turns into an adjunct of the Heritage Foundation. And whatever happens, it will be held up as giving somebody or other a mandate for something or other. So it’s definitely interesting to watch.

What also makes it interesting for social science wonks is that there is now a clear divide on methodology. Basically, how much weight should you put on polls, versus fundamentals like the known party lean of states. This matters a lot because the map gives Republicans a big advantage (in part because Democrats won in some normally very red states in 2008), but polls have tended to look somewhat better for Democrats than the fundamentals would lead you to expect.

So we have a range of models. The Times model is the most Republican-leaning — it gives 60 percent odds of Republican control, down thanks to the interesting developments in Kansas. Sam Wang at Princeton is at the other end, although I’m finding his latest update a bit confusing — I think he’s saying 90 percent odds of Democratic control if the election were held today, but only 65 percent for election day, since stuff happens.The Monkey Cage says 53 percent Republican chance, Dailykos says Dems 56 percent, Huffington Post was saying Dems 52 percent before the Kansas upheaval.

I don’t have a dog in this fight — not my field, and I haven’t done the homework to make my own judgment about different approaches. It is interesting that nobody seems to be predicting a GOP blowout, despite the map and Obama’s low ratings — which is consistent with the view that presidential approval ratings don’t mean what they used to thanks to extreme partisanship.

Anyway, fun stuff, except that this is my country and the fate of the world hinges on having the right people in office. Enjoy.

 

Modellare il Senato

Le poste in gioco in queste elezioni di medio termine non sono alte come in qualche altra elezione; i repubblicani sono sicuri di mantenere il controllo di almeno una Camera, Obama sarà ancora Presidente, dunque restiamo in un punto di stallo. Eppure, alcune cose saranno in gioco – per esempio, se il Congressional Budget Office si trasformerà in una appendice della Fondazione Heritage. E, qualsiasi cosa accada, esse saranno presentate come un modo per dare a qualcuno o a qualcun altro una delega per qualcosa o per qualcosa d’altro. Dunque, saranno sicuramente interessanti da osservare.

Ciò che le rende inoltre interessanti per gli esperti di scienze sociali è che adesso c’è una chiara alternativa di metodologie. Fondamentalmente, quanto peso si dovrebbe affidare ai sondaggi, rispetto alle caratteristiche fondamentali, quali i già noti orientamenti di partito degli Stati. Questo conta molto, perché la cartina dà ai repubblicani un grande vantaggio (in parte perché i Democratici nel 2008 vinsero in alcuni Stati che di norma erano davvero “rossi” [1]), ma i sondaggi sono sembrati apparire in qualche modo migliori per i democratici, rispetto a dove ci si aspetterebbe porterebbero i dati di fondo.

Abbiamo dunque una varietà di modelli. Il ‘modello’ Times’ è quello con la maggiore tendenza a favore dei repubblicani – esso dà il 60 per cento di probabilità alla prevalenza dei repubblicani, in calo grazie agli interessanti sviluppi del Kansas [2]. Sam Wang, dell’Università di Princeton, si colloca al lato opposto, sebbene il suo ultimo aggiornamento mi risulti un po’ confuso – penso che stia dicendo che, se le elezioni ci fossero oggi, ci sarebbe il 90 per cento di probabilità di una prevalenza dei democratici, ma soltanto il 65 per cento per il giorno effettivo delle elezioni, dato che sono cose che accadono. Il Monkey Cage dice che i repubblicani hanno il 53 per cento delle possibilità, DailyKos parla del 56 per cento ai democratici, Huffington Post si era espresso per un 52 per cento ai democratici prima del cambiamento radicale nel Kansas.

Non ho un particolare interesse in questa contesa – non è il mio campo e non ho svolto una preparazione sufficiente per avanzare un mio giudizio sui diversi approcci. E’ interessante che nessuno sembra stia prevedendo una vittoria a mani basse del Partito Repubblicano, nonostante il diagramma delle basse percentuali di apprezzamento su Obama – la qualcosa è coerente con l’opinione secondo la quale gli indici di consenso al Presidente non significano quello che erano soliti significare, grazie alla estrema faziosità.

In ogni modo, cose divertenti, sennonché questo è il mio paese e il destino del mondo dipende dall’avere le persone giuste in carica. Godiamocele.

 

 

[1] Ovvero, a maggioranza repubblicana.

[2] Da quello che capisco, nelle elezioni del Kansas starebbe emergendo una certa probabilità di successo di un candidato indipendente, tale Greg Orman. E credo di capire che questa sarebbe una cattiva sorpresa per i repubblicani, perché il candidato democratico non ha speranze, e sembra essersi posto in anticipo fuori gioco. Dalle dichiarazioni di Orman si è compreso che la sua successiva collocazione in Senato dipenderà dagli equilibri post elezioni; se i Democratici controlleranno almeno 50 seggi senza il Kansas, lui si schiererebbe con i Democratici; se i Repubblicani ne controlleranno almeno 51 senza il Kansas, si schiererebbe con i Repubblicani. Il tutto, nell’interesse del Kansas.

Pericolose nel senso peggiore (4 settembre 2014)

settembre 4, 2014

 

Sep 4 3:33 pm

Dangerous for Evil

“It is ideas, not vested interests, which are dangerous for good or evil.” So declared Keynes at the end of The General Theory; although I don’t think he appreciated the extent to which vested interests can buy the ideas they want to hear. Anyway, this seems relevant to Brad DeLong’s flashback to 2009, when I was lamenting bad ideas from freshwater economists and Justin Fox was dismissing them as having no influence on policy.

As Brad says, it turned out that the bad ideas mattered a lot; Henry Farrell and John Quiggin (pdf) explain why. The reality was that the Keynesian policy consensus of early 2009, such as it was — and it wasn’t much, even then — was fragile. Key actors with real power — Republicans in the US, Germany, and the Trichet-era ECB — were strongly anti-Keynesian by instinct. They were temporarily bowled over by the vocal Keynesian consensus among economists who had strong public platforms, but were ready to grab hold of seemingly credentialed people willing to offer justifications for austerity and hard money.

And a quorum of economists obliged. Alesina-Ardagna expansionary austerity never got a lot of traction among policy-oriented macroeconomists, but the Harvard connection meant that it was good enough to give the austerians an intellectual fig leaf; the same for Reinhart-Rogoff and the 90 percent of doom. Having John Cochrane insist that Keynesian economics had been proved wrong and nobody was teaching it helped the austerian case even though it was completely untrue; so did having Robert Lucas accuse Christy Romer of being intellectually corrupt. Bad economic ideas didn’t really drive bad policy, but they acted as enablers for bad policy instincts.

And the people who promulgated these bad ideas therefore have a lot to answer for.

 

Pericolose nel senso peggiore

“Sono le idee, non gli interessi costituiti, ad essere pericolose nel bene o nel male”. Così affermava Keynes alla fine di The General Theory; sebbene io creda che non si potesse render conto di quanto gli interessi costituti possano foraggiare le idee che vogliono sentirsi dire. In ogni modo, questo pare rilevante per la retrospettiva al 2009 di Brad DeLong, quando io mi lamentavo per le cattive idee degli economisti dell’ “acqua dolce” [1] e Justin Fox le liquidava come se non avessero peso nella politica.

Come dice Brad, si è scoperto che la cattive idee contavano molto; Henry Farrell e John Quiggin (disponibile in pdf) spiegano perché. La realtà era che il consenso alle politiche keynesiane degli inizi del 2009, per quello che era – e non era molto, neppure allora – era fragile. Protagonisti fondamentali con un potere effettivo – i repubblicani negli Stati Uniti, la Germania e la BCE dell’epoca di Trichet – erano fortemente antikeynesiani per istinto. Essi furono provvisoriamente atterrati dal dichiarato consenso al keynesismo tra gli economisti che avevano potenti tribune pubbliche, ma furono pronti ad afferrarsi a persone apparentemente dotate di credenziali che erano disponibili ad offrire giustificazioni per l’austerità e la moneta forte.

Ed un numero sufficiente di economisti fecero il favore. L’austerità espansiva di Alesina-Ardagna non ha mai avuto molto seguito tra i macroeconomisti orientati alla politica, ma la “Harvard connection” comportò che fosse buona a sufficienza per dare ai filo-austeri una foglia di fico intellettuale; lo stesso accadde per Reinhart-Rogoff e per il tragico destino di chi superava il 90 per cento del debito. (Lo comportò) consentendo a John Cochrane di insistere che l’economia keynesiana si era manifestata sbagliata mentre nessuno insegnava che questo aiutava la tesi dei filo austeri, anche se era completamente sbagliata; così come lo comportò consentendo a Robert Lucas di accusare Christy Romer di essere intellettualmente non onesta.

E di conseguenza, le persone che misero in giro queste pessime idee hanno molte risposte da dare.

 

 

[1] Per “freshwater economics” vedi le note sulla traduzione.

La moneta nell’epoca dello zero (3 settembre 2014)

settembre 3, 2014

 

Money in a Time of Zero

September 3, 2014 9:16 am

My old teacher Charles Kindleberger used to say that anyone who spends too much time thinking about international money goes mad; he meant that people start obsessing about the international role of the dollar or whatever, and start to think that it’s the most important thing in the world, when it’s actually fairly trivial. What he didn’t say, but seems obvious these days, is that a similar thing happens to people who spend too much time thinking about money in general — specifically, on trying to decode money’s true meaning and find the real, true measure of the money supply; they end up starting to believe that everything in economics hinges on getting that measure right, when in fact almost nothing does.

One particular variant of this madness — which I found myself thinking about after reading these two pieces by Simon Wren-Lewis and Frances Coppola (neither of whom has, I think, gone mad in this way, but allude to people who have) — is the sort of boomerang position that since we can’t clearly define money, and because there isn’t a fixed money multiplier, monetary policy doesn’t matter. That’s as wrong as the simplistic quantity-theory view that “printing money” leads directly to inflation, do not pass Go, do not collect $200.

It’s true that we’re living in a time of monetary impotence, where central banks trying to reflate economies are not having much success gaining traction. But it’s important to note that contractionary monetary policy is working just fine; all the central banks that mistakenly decided that it was time to raise rates succeeded in doing just that, before realizing their error and reversing course.

But what about the fact that vast increases in the monetary base have failed to do much to the economy, and that various broad measures of money haven’t moved; doesn’t this show that monetary policy doesn’t matter?

No, not at all. The irrelevance of the monetary base isn’t a generic issue, it’s something that happens when you’re in a liquidity trap — when interest rates are at the zero lower bound. And this is not hindsight. Way back in 1998, when I analyzed the liquidity trap in Japan, I predicted exactly this disconnect (pdf):

[P]utting financial intermediation into a liquidity trap framework suggests, pace Friedman and Schwartz, that it is quite misleading to look at monetary aggregates under these circumstances: in a liquidity trap, the central bank may well find that it cannot increase broader monetary aggregates, that increments to the monetary base are simply added to reserves and currency holdings, and thus both that such aggregates are no longer valid indicators of the stance of monetary policy and that their failure to rise does not indicate that the essential problem lies in the banking sector.

You can see, by the way, why I get annoyed both by people who declare that nobody could have predicted the failure of balance-sheet expansion to cause inflation, and by those who claim that conventional economists like me just don’t understand that money is endogenous. Guys, I laid it all out 16 years ago.

And as for the idea that the absence of a clear definition of money, plus the fact that most money is created by financial institutions, means that central banks don’t matter, James Tobin dealt with all that more than fifty years ago (pdf). Just read the first couple of pages of that paper; Tobin anticipated just about every piece of the current debate.

The point is that if you think something deeply disturbing from an analytical perspective has taken place, if you think that recent events require a fundamental rethinking of monetary theory, you basically weren’t paying attention. If you read your Tobin, if you read what people like Mike Woodford and I had to say about the liquidity trap, you expected to see exactly what we’re seeing.

 

La moneta nell’epoca dello zero

Il mio vecchio insegnante Charles Kindleberger era solito dire che quelli che spendono troppo tempo a pensare alla valuta su scala internazionale diventano matti; voleva riferirsi a quelle persone che cominciano ad avere l’ossessione del ruolo internazionale del dollaro o di qualcos’altro, e cominciano a pensare che questa sia la cosa più importante al mondo, quando per la verità è abbastanza banale. Quello che non diceva, ma che sembra abbastanza ovvio di questi tempi, è che una cosa simile accade alle persone che spendono troppo tempo a pensare in generale alla moneta – in particolare, nel cercare di decodificare il significato vero della moneta e di scoprire la vera, effettiva misura dell’offerta di moneta; costoro si ritrovano col cominciare a credere che ogni cosa in economia dipenda dall’avere quella misura giusta, quando di fatto quasi nessuna ce l’ha.

Una particolare variante di questa follia – sulla quale mi sono ritrovato a ragionare dopo aver letto questi due pezzi di Simon Wren-Lewis e Frances Coppola (nessuno dei quali è diventato matto per questa strada, ma si riferiscono a persone che lo sono diventate) – è quella sorta di posizione boomerang per la quale, dal momento che non possiamo chiaramente definire la moneta, e giacché non c’è un moltiplicatore fisso della moneta, la politica monetaria non conta. Il che è altrettanto sbagliato del semplicistico punto di vista della teoria quantitativa secondo la quale “stampare moneta” porta direttamente all’inflazione, non c’è niente da fare [1].

E’ vero che stiamo vivendo in un tempo di impotenza monetaria, nel quale le banche centrali che cercano di reflazionare le economie non stanno avendo molto successo nell’ottenere effetti di trazione. Ma è importante notare che la politica monetaria restrittiva sta proprio funzionando bene; tutte le banche centrali che hanno deciso sbagliando che era tempo di elevare i tassi sono proprio riuscite a farlo, salvo comprendere successivamente il loro errore e cambiare indirizzo.

Ma cosa dire del fatto che ampi incrementi nella base monetaria non sono riusciti a far molto per l’economia, e che le varie misurazioni generali della moneta non si sono mosse; non mostra tutto questo che la politica monetaria non conta?

No, niente affatto. L’irrilevanza della base monetaria non è un tema generico, è qualcosa che succede quando si è in una trappola di liquidità – quando i tassi di interesse sono al limite inferiore dello zero. E non dico questo col senno di poi. Nel passato 1998, quando analizzavo la trappola di liquidità nel Giappone, avevo previsto esattamente questa disconnessione (disponibile in pdf):

“Applicare l’intermediazione finanziaria dentro lo schema di una trappola di liquidità indica, con buona pace di Friedman e Schwartz, che è quasi fuorviante guardare agli aggregati monetari in queste circostanze: in una trappola di liquidità la banca centrale può tranquillamente scoprire di non poter incrementare gli aggregati monetari più generali, che gli incrementi alla base monetaria si vanno semplicemente ad aggiungere alle riserve e ai depositi di contante, e di conseguenza entrambi tali aggregati non sono più indicatori validi dei margini della politica monetaria e che la loro impotenza a crescere non indica che il problema essenziale consista nel settore bancario.”

Vi rendete conto, per inciso, della ragione per la quale mi arrabbio con le persone che affermano che nessuno avrebbe potuto prevedere che l’espansione degli equilibri patrimoniali non avrebbe provocato l’inflazione, e con coloro che sostengono che gli economisti convenzionali come il sottoscritto proprio non intendono che la moneta è un fattore endogeno. Signori, ho scritto quelle cose 16 anni fa.

Lo stesso vale per l’idea secondo la quale l’assenza di una chiara definizione della moneta, aggiunta al fatto che gran parte della moneta è creata dalle istituzioni finanziarie, comporta che la banca centrale non conta: James Tobin si era misurato con tutto ciò più di cinquanta anni orsono (disponibile in pdf). Leggete soltanto le prime due pagine del saggio; Tobin anticipava quasi ogni aspetto del dibattito attuale.

Il punto è che se si pensa che abbia preso piede da un punto di vista analitico qualcosa di profondamente sconcertante, se si pensa che gli eventi recenti richiedano un ripensamento complessivo della teoria monetaria, fondamentalmente vuol dire che non si è stati attenti. Se vi leggete il vostro Tobin, se leggete che cosa persone come Mike Woodford ed il sottoscritto hanno detto sulla trappola di liquidità, non siete stati sorpresi dal vedere esattamente quello che state vedendo.

 

 

[1] “Do not pass Go, do not collect $200” è una espressione che deriva dal gioco del Monopoli. Dovrebbe significare che non si può procedere e neanche raccogliere duecento dollari, ma ci giocavo mezzo secolo fa e in italiano. In ogni caso, secondo Wikipedia, ha acquisito nel linguaggio popolare il senso di una situazione nella quale c’è una via d’uscita unica, irreversibile ed altamente sfavorevole.

Interessi di classe e politica monetaria, parte seconda (2 settembre 2014)

settembre 2, 2014

 

Sep 2 9:53 am

Class Interests and Monetary Policy, Take II

Steve Randy Waldman has a long, thoughtful take on my speculations about the hard-money preferences of the wealthy. Basically I confessed myself somewhat confused: I get why creditors should hate inflation, but aggressive monetary responses to the Lesser Depression have been good for asset prices, and hence for the wealthy. Why, then, the vociferous protests?

Waldman raises a historical point I neglected: if your view is that it’s all about the 1970s (by the way, “septaphobia” is Kevin Drum’s coinage, not mine), you have to ask not just about defense of the gold standard in the 30s but about the truly massive rallying of the propertied classes against William Jennings Bryan.

As I understand part of his argument, it is that while monetary expansion might be expected on average to be a good thing in a weak economy, that’s a risky proposition for wealth holders, and they hate risk. I might put it a bit differently: someone like me could argue that loose money, despite its direct adverse effects on creditors, will produce large gains indirectly; but those indirect effects are less certain than the direct effects, and assessing them depends on your model of the economy. So wealthy creditors may go for the direct stuff: they want low inflation and higher interest rates, and never mind the consequences.

But I’m not entirely prepared to give up on the false consciousness notion, in part because I keep being struck by the enormous appetite of the one percent for really bad economic analysis. Think about CNBC economics (aka Santellinomics, aka the finance macro canon). This stuff, with its prediction of soaring inflation and interest rates, has been utterly wrong for more than five years. Yet it remains very popular among wealthy investors.

I think this may in part reflect the problem that always comes with wealth and power: people tell you what you want to hear. CNBC economics stays on the air, despite its awesomely bad track record, because it caters to the prejudices of the target audience. Politicians who buy into this stuff also reap large rewards, in the form of campaign contributions when running and a very plus safety net when they leave. Eric Cantor is moving into investment banking — surprise — and the firm offering him the position explicitly says that it’s in part because he “has proven himself to be a pro-business advocate”.

Now, Waldman says that the elite loves the 70s — I’d say they hated them when they were happening, but love the morality play they’ve been turned into. For yes, the 70s can be portrayed (inaccurately) as the decade when it was proved that terrible things happen unless you cater to the interests and beliefs of the 0.01 percent.

Meanwhile, what I’m doing here is groping toward a story about why policy botched the Lesser Depression so badly. More in subsequent posts.

 

Interessi di classe e politica monetaria, parte seconda

Steve Randy Waldman ha una lunga presa di posizione sulle mie speculazioni sulle preferenze per le restrizioni monetarie da parte dei ricchi. Fondamentalmente avevo ammesso di essere rimasto in qualche modo confuso: capisco perché i creditori dovrebbero odiare l’inflazione, ma le risposte monetarie aggressive alla Depressione Minore [1] sono state positive per i prezzi degli asset, e dunque per i ricchi. Perché, allora quelle proteste sguaiate?

Waldman solleva un aspetto storico che avevo trascurato: se il vostro punto di vista è che tutto dipenda dall’influenza degli anni ’70 (per inciso, la “septafobia” fu una espressione coniata da Kevin Drum, non da me), ci si deve porre domande non solo sulla difesa del gold standard negli anni ’30, ma sul massiccio raccogliersi delle classi proprietarie contro William Jennings Bryan.

Per come io capisco una parte del suo argomento è che se in media ci si potrebbe aspettare che l’espansione monetaria sia una buona cosa in un’economia debole, quello è un concetto rischioso per i detentori di ricchezza, ed essi odiano i rischi. Io metterei le cose in modo un po’ diverso: alcuni come me potrebbero sostenere che il denaro facile, nonostante i suoi diretti effetti negativi sui creditori, produrrà indirettamente larghi guadagni; ma quegli effetti indiretti sono meno certi degli effetti diretti, e valutarli dipende dal vostro modello di economia. Dunque, i creditori ricchi possono indirizzarsi verso le cose dirette: vogliono bassa inflazione e più alti tassi di interesse, e non doversi curare mai delle conseguenze.

Ma io non sono del tutto pronto a rinunciare al concetto di falsa coscienza, in parte perché continuo ad essere sbalordito dall’enorme attrazione dell’1 per cento per le pessime analisi economiche. Si pensi all’economia della CNBC [2] (anche detta “Santellinomics” [3], oppure il “canone macroeconomico del mondo della finanza” [4]). Questa roba, con le sue previsioni di una inflazione e di tassi di interesse che schizzano alle stelle, si è mostrata completamente sbagliata per più di cinque anni. Tuttavia resta estremamente popolare tra gli investitori ricchi.

Penso che questo in parte possa essere il riflesso del problema di come le cose spesso vanno con la ricchezza ed il potere: le persone vi raccontano quello che volete sentirvi dire. L’economia della CNBC resta in circolazione, nonostante le sue terrificanti prestazioni negative, perché soddisfa i pregiudizi della audience alla quale si rivolge. Gli uomini politici che credono a cose del genere ne raccolgono larghe ricompense, nella forma di contributi elettorali quando sono in corsa e di sostanziose aggiuntive reti di sicurezza quando abbandonano. Eric Cantor si sta spostando nel settore delle banche di investimento – sorpresa – e l’impresa che gli offre il posto dice che questo in parte dipende dal fatto che “ si è dimostrato un sostenitore degli interessi delle imprese”.

Ora, Waldman dice che le élite amano gli anni ’70 – io direi che li hanno odiati quando erano in corso, ma che amano il genere di moralismo che sono diventati. Perché sì, gli anni ’70 possono essere descritti (impropriamente) come il decennio nel quale è stato mostrato quali cose terribili accadono se non si soddisfano gli interessi e le convinzioni dello 0,01 per cento dei più ricchi.

Nel frattempo, quello che in questo caso io sto facendo è brancolare verso una spiegazione del perché la politica si è misurata in modo così raffazzonato con la Depressione Minore. Dirò altro in post successivi.

 

 

[1] Ovvero alla crisi di questi anni, talvolta definita Grande Recessione (in quel caso, la differenza dagli anni ’30 è che in quel caso si trattò non di recessione, ma di una effettiva Depressione, ovvero di un fenomeno che secondo gli economisti e gli uffici di statistica ha una intensità maggiore), talvolta come Depressione Minore.

[2] La CNBC (“Notizie per i consumatori e canale per le imprese”) è un canale televisivo americano di proprietà della NBC Universal News Group).

[3] Si tratta di Rick Santelli, un commentatore economico della CNBC.

[4] E’ una espressione di recente coniata da Noah Smith sul suo blog, in un post del 15 marzo.

L’inflazione, la fobia degli anni Settanta e la dottrina dello shock (1 settembre 2014)

settembre 1, 2014

 

Sep 1 2:23 pm

Inflation, Septaphobia, and the Shock Doctrine

The bad news from Europe is a reminder that the basic insight some of us have been trying to convey, mostly in vain, ever since 2008 remains valid: the great danger facing advanced economies is that governments and central banks will do too little, not too much. The risk of elevated inflation or fiscal difficulties is dwarfed by the risk of ending up trapped in a deflationary vortex. This view has been overwhelmingly supported by recent experience — if you acted on what they were saying on CNBC or the WSJ editorial page, you would have lost a lot of money. Yet the power of the hard money/fiscal austerity orthodoxy (yes, market monetarists want one without the other, but they have no constituency) remains immense. Why?

I’m currently mucking around on the political economy of hard money/austerity — looking at the available data, trying out various stories, to see how they work. This post is mainly notes to myself.

One thought I’ve had and written about is that the one percent (or actually the 0.01 percent) like hard money because they’re rentiers. But you can argue that this is foolish — that they have much more to gain from asset appreciation than they have to lose from the small chance of runaway inflation. In fact, if you compare stock prices in the US, with its aggressively easing Fed, with Europe, you can see the difference:

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But maybe the 1% doesn’t make the connection?

An alternative is selective historical memory. Some time ago Kevin Drum suggested that it’s all about septaphobia, fear of the 1970s. And it’s true that the 70s were a really bad time for investors, although not nearly as bad for workers as the post-2008 era:

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But weren’t the one percent equally devoted to the gold standard in the 1930s, with no Jimmy Carter in their past? And why does the inflation of 1979 remain seared in memory, while the boom after Volcker loosened money in 1982 is forgotten? (This is like the question of why Germans remember 1923 but not Bruening.)

Finally, there’s the notion that it’s implicitly about politics: crises are a chance to force “reforms” that strip away worker protections and the welfare state, and any suggestion that technical solutions, monetary or fiscal, could do the job is rejected.

The thing is, it sure looks like a form of false consciousness on the part of elite. But I’m still trying to figure it out.

 

L’inflazione, la fobia degli anni Settanta e la dottrina dello shock

La cattiva notizia dall’Europa ci ricorda che l’intuizione di fondo che alcuni di noi avevano cercato di trasmettere, in gran parte invano, sin dal 2008 resta valida: il grande pericolo dinanzi al quale si trovano le economie avanzate non è quello che i governi e le banche centrali facciano troppo, ma troppo poco. Il rischio della elevata inflazione o le difficoltà di bilancio sono poca cosa, rispetto al rischio di ritrovarsi intrappolati in un vortice deflazionistico. Le recenti esperienze hanno confermato in modo schiacciante questo punto di vista – se aveste agito sulla base di quello che dicevano la CNBC [1] o la pagina editoriale del Wall Street Journal, avreste perso una gran quantità di denaro. Tuttavia il potere della ortodossia della restrizione monetaria/austerità di bilancio (è vero, i monetaristi di mercato vorrebbero l’una senza l’altra, ma non hanno seguiti) resta immenso. Perché?

Attualmente sto un po’ giocando sui temi dell’economia politica della restrizione monetaria e dell’austerità – osservando i dati disponibili, provando varie ricostruzioni, per vedere come funzionano. Questo post è principalmente una annotazione per me stesso.

Un pensiero che ho avuto e che ho messo per scritto su questo è che l’1 per cento dei più ricchi (per la verità, lo 0,01 per cento) amano la moneta forte perché sono redditieri. Ma si può sostenere che sia una sciocchezza – che essi abbiano molto più da guadagnare da una rivalutazione degli asset, rispetto a quello che hanno da perdere da una piccola possibilità di una inflazione fuori controllo. Di fatto, se confrontate i prezzi delle azioni negli Stati Uniti, con le facilitazioni aggressive della Fed, con l’Europa, potete vedere la differenza [2]:

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Ma forse l’1 per cento non coglie la connessione?

In alternativa si può ricorrere alla memoria storica selettiva. Un po’ di tempo fa indicò che questo dipende tutto dalla “septafobia”, dalla paura degli anni ’70. Ed è vero che gli anni ’70 furono un’epoca realmente negativa per gli investitori, sebbene neanche lontanamente così negativa come il periodo successivo al 2008 per i lavoratori:

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Ma l’1 per cento non era in egual modo fanatico del gold standard degli anni ’30, senza che ci fosse alcun Jimmy Carter in quel passato? E perché l’inflazione del 1979 continua a bruciare nella memoria, mentre l’espansione dopo l’allentamento monetario di Volcker nel 1982 è dimenticata? Domanda, questa, simile a quella per la quale i tedeschi ricordano il 1923 ma non Bruening [3].

C’è, infine, un concetto che riguarda implicitamente la politica: le crisi sono una possibilità per costringere a quelle “riforme” che liquidano le protezioni dei lavoratori e lo stato assistenziale, ed ogni suggerimento secondo il quale soluzioni tecniche, monetarie o di bilancio, potrebbero creare lavoro, viene respinto.

Il punto è che sembra chiaro si tratti di una forma di falsa coscienza di una parte delle classi dirigenti. Ma sto ancora cercando di capirlo.

 

 

 

[1] La CNBC (“Notizie per i consumatori e canale per le imprese”) è un canale televisivo americano di proprietà della NBC Universal News Group).

[2] La tabella è interessante in particolare per noi. Il dato in rosso è relativo agli Stati Uniti, quello in blu alla Germania, quello in verde all’Italia. In particolare si nota che il disaccoppiamento ha cominciato ad essere marcato con le seconda recessione dovuta ai debiti sovrani in Europa, ma in modo molto più marcato nel caso italiano.

[3] Il 1923 fu l’epoca della iperinflazione tedesca. Bruening invece fu Cancelliere della Repubblica della Germania dal 1930 al 1932, ed è noto che reagì alla Grande Depressione con una forte restrizione monetaria e di bilancio che esasperò la disoccupazione e portò il Cancelliere alla sfiducia del Reichstag. Per quella ed altre ragioni, comprese alcune ambiguità nel rapporto con il Partito nazista, il fallimento di Bruening fu un fattore decisivo della ascesa del nazismo.

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Scilla, Cariddi e l’Euro (30 agosto 2014)

agosto 30, 2014

 

Aug 30 11:34 am

Scylla, Charybdis, and the Euro

I’ve been talking to some people I respect about the fate of the euro, and specifically yesterday’s column, and it seems to me that the key issue here involves the balance of risks.

Think of it as Scylla and Charybdis. On one side, there is the risk of seeing European economies dashed against the rocks of debt crisis; on the other, the danger of seeing Europe pulled down into a vortex of deflation.

For the past four years European policy has been dominated by a completely one-sided assessment of these risks: imminent debt disaster (90 percent omg), and nothing to worry about from austerity — the Confidence Fairy will take care of it. But there is a more sober, serious position which considers the shoals of debt a serious risk, and the vortex of deflation not yet too threatening.

As you might guess, I have a different view. Now that the ECB is willing to do its job as lender of last resort, the debt threat is much less pressing than previously portrayed — and I have been arguing all along that for non-euro countries it’s not a threat at all. Meanwhile, I’m terrified about that vortex; Europe may still be circling the drain fairly slowly, but inflation expectations have become unmoored, actual inflation is falling, the recovery, such as it was, has stalled. And by the time the downward spiral becomes undeniable it may well be irreversible.

Could I be wrong? Of course. But economic policy always involves balancing risks, and I think we should be much more afraid of a European depression than we are of fiscal crisis.

 

Scilla, Cariddi e l’Euro.

Vengo ripetendo a varie persone il mio rispetto per il destino dell’euro, in particolare nell’articolo di ieri, e mi pare che il tema fondamentale riguardi l’equilibrio dei rischi.

Si ragioni come si fosse tra Scilla e Cariddi. Da una parte, c’è il rischio di vedere le economie europee precipitare contro una crisi del debito; dall’altra, il pericolo di vedere l’Europa trascinata in un vortice di deflazione.

Nei quattro anni passati l’economia europea è stata dominata da una valutazione completamente unilaterale di questi rischi: l’imminente disastro del debito (Dio mio! Il 90 per cento.), e nessun timore per l’austerità – la Fata della Fiducia se ne sarebbe fatta carico. Ma c’è una posizione più misurata e seria, che considera le masse del debito un rischio serio, ed il vortice della deflazione non ancora abbastanza minaccioso.

Come sapete, il mio punto di vista è diverso. Ora che la BCE ha la volontà di operare come prestatore di ultima istanza, la minaccia del debito è molto meno pressante di quanto la si dipingesse in precedenza – e vengo sostenendo sin dagli inizi che per i paesi non aderenti all’euro essa non è affatto una minaccia. Contemporaneamente, io sono atterrito da quel vortice; l’Europa può ancora abbastanza lentamente avvicinarsi al punto del non-ritorno, ma le aspettative di inflazione sono diventate prive di ancoraggio, l’inflazione effettiva sta precipitando, la ripresa, da quale era, si è bloccata. E al momento in cui la spirale verso il basso diventa innegabile, essa può ben essere irreversibile.

Potrei sbagliarmi? Certamente. Ma la politica economica riguarda sempre un bilanciamento di rischi, ed io penso che dovremmo essere molto più spaventati da una depressione europea che da una crisi della finanza pubblica.

Il peccato della Germania (29 agosto 2014)

agosto 29, 2014

 

Aug 29 9:16 am

Germany’s Sin

Simon Wren-Lewis has two very good posts about the European situation, first laying out the problem, then taking on those who don’t get it. I just want to add a bit to one of his key points: the impossibility of a resolution unless Germany accepts higher inflation.

In Germany, there’s a strong tendency to moralize, with appeals to the country’s own recent economic history. We pulled ourselves out of our late 90s doldrums, the Germans say, so why can’t Southern Europe do the same?

But a key part of the answer is that Southern Europe now faces a much less favorable environment than Germany did then — and Germany is the reason why.

Look at core inflation (excluding energy, food, alcohol, and tobacco). During the years when Germany was gaining competitiveness, euro area inflation was running at around 2 percent, and inflation in Southern Europe was running considerably higher. So Germany could gain competitiveness simply by having lowish inflation — no need to actually deflate. But these days German inflation is only one percent, euro area inflation is lower, and the only way for Southern Europe to gain ground is to have zero or negative inflation:

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Eurostat

This makes the adjustment problem incredibly difficult, both because wages are downwardly sticky and because deflation worsens the debt burden. Add onto this the fact that the eurozone as a whole remains depressed thanks to fiscal austerity and inadequate monetary expansion, and Germany is in effect demanding that Spain and others accomplish a task vastly harder than the Germans themselves had to achieve.

And the worst of it is that there’s no sign that Berlin understands, or is willing to understand, this reality. And if the euro fails, that refusal to think clearly will be the fundamental cause.

 

Il peccato della Germania

Simon Wren-Lewis ha due ottimi post sulla situazione europea, con il primo pone il problema, con il secondo affronta coloro che non lo intendono. Voglio soltanto aggiungere qualcosa ad uno dei suoi punti chiave: l’impossibilità di una soluzione, se la Germania non accetta una inflazione più elevata.

In Germania c’è una forte tendenza al moralismo, con appelli alla storia recente del proprio paese. Ci siamo tirati fuori dalla depressione degli anni ’90, dicono i tedeschi, perché dunque l’Europa meridionale non fa lo stesso?

Ma una parte fondamentale della risposta è che l’Europa meridionale sta oggi affrontando un contesto molto meno favorevole di quella che aveva di fronte la Germania di allora – ed è proprio la Germania la ragione di tutto ciò.

Si guardi alla inflazione sostanziale (esclusa l’energia, gli alimenti, l’alcol e il tabacco [1]). Durante gli anni nei quali la Germania stava guadagnando competitività, l’inflazione nell’area euro procedeva attorno al 2 per cento, e l’inflazione nell’Europa meridionale era considerevolmente più elevata. In tal modo la Germania poté guadagnare competitività semplicemente avendo una inflazione un po’ bassa – senza alcun bisogno di una effettiva deflazione. Ma l’inflazione nella Germania di oggi è soltanto all’1 per cento, l’inflazione nell’area euro è più bassa, e l’unico modo per l’Europa meridionale per guadagnare terreno è avere una inflazione a zero oppure negativa:

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Eurostat

 

Questo rende il problema della correzione incredibilmente difficoltoso, sia perché i salari sono rigidi verso il basso, sia perché la deflazione peggiora il problema del debito. Si aggiunga a questo che l’eurozona nel suo complesso resta depressa grazie all’austerità delle politiche di bilancio ed alla inadeguata espansione monetaria, e quello che la Germania sta chiedendo alla Spagna ed agli altri di realizzare è un compito assai più difficile di quello che la Germania stessa riuscì a realizzare.

E la cosa peggiore è che non c’è alcun segno che Berlino comprenda, o sia disponibile a comprendere, la realtà. E se l’euro fallisce, il rifiuto di ragionare con la mente sgombra sarà stata la causa fondamentale.

 

 

 

[1] Per i concetti di “headline inflation e core inflation” vedi le note sulla traduzione.

L’austerità e la sinistra sventurata (29 agosto 2014)

agosto 29, 2014

 

Aug 29 9:00 am

Austerity and the Hapless Left

In today’s column I am not nice to Francois Hollande, who has shown about as much strength in standing up to austerians as a wet Kleenex. But one does have to admit that he’s not alone in his haplessness; where, indeed, are the major political figures on the European left taking a stand against disastrous policies? Britain’s Labour Party has been almost surreally unwilling to challenge Cameron/Osborne’s core premises; is anyone doing better?

You can complain — and I have, often — about President Obama’s willingness to go along with belt-tightening rhetoric, the years he wasted in pursuit of a Grand Bargain, and so on; still, the Obama administration, while it won’t use the word “stimulus”, favors the thing itself, and in general American liberals have taken a much more forthright stand against hard-money, balanced-budget orthodoxy than their counterparts in Europe. Economists, in particular, have taken a much stronger stand. In Britain there are, to be sure, some prominent anti-austerity voices — Martin Wolf, Jonathan Portes, Simon Wren-Lewis, and I’m sure there are others I’m missing. But they don’t seem to have anything like the weight in the debate that Larry Summers, Alan Blinder, and many others have here.

Why the difference? I don’t really know. I have a couple of hypotheses. One is that the US intellectual ecology seems much more flexible: here, serious economists with celebrated research can also be public intellectuals with large followings, and even serve as public officials; and they can provide at least some counterweight to the Very Serious People. Think Larry Summers, but also Janet Yellen (and before her Ben Bernanke), and in a somewhat different way yours truly. Such people aren’t totally absent in Europe — Mervyn King was an academic central banker, and so in a way is Mario Draghi. But there’s much more of that in the US.

Another hypothesis is that American liberals have been toughened up by the craziness of our right, and in particular by the experience of the Bush years. After seeing the Very Serious People lionize W, a fundamentally ludicrous figure, and cheer on a war that was obviously cooked up on false pretenses, US liberals are more ready than European Social Democrats to believe that the men in good suits have no idea what they’re talking about. Oh, and America does have a network of progressive think tanks that is vastly bigger and more effective than anything in Europe.

But I’m just making suggestions here. The haplessness of the European left is still something I don’t fully understand.

 

L’austerità e la sinistra sventurata

Nell’articolo di oggi non sono gentile con Francois Hollande, che ha dimostrato nel resistere ai seguaci dell’austerità più o meno la stessa tenacia di un Kleenex umido. Ma si deve davvero riconoscere che egli non è solo nella sua cattiva sorte; dove sono, in effetti, le importanti figure politiche della sinistra europea che prendono posizione contro le politiche disastrose? Il Labour Party inglese è stato indisponibile a sfidare gli assunti di fondo di Cameron ed Osborne, in modo quasi surreale; qualcun altro sta facendo meglio?

Ci si può lamentare – io lo faccio spesso – della disponibilità del Presidente Obama a far propria la retorica dello stringersi la cinghia, gli anni che egli sprecò nel perseguimento delle Grande Intesa, e così via; eppure, la Amministrazione Obama, anche se non userà mai il termine “stimulus”, è a favore della cosa in sé, e in generale i progressisti americani hanno preso una posizione molto più netta contro l’ortodossia della moneta forte e dei bilanci in equilibrio dei loro omologhi in Europa. In particolare gli economisti hanno preso una posizione molto più netta. In Inghilterra ci sono, senza dubbio, alcune eminenti voci contro l’austerità – Martin Wolf, Jonathan Portes, Simon Wren-Lewis, e certamente altri che mi sfuggono. Ma non sembra che abbiano un peso nel dibattito per niente paragonabile a quello che Larry Summers, Alan Blinder e molti altri hanno qua.

Perché tale differenza? In realtà, non lo so. Ho un paio di ipotesi. Una è che l’adattamento intellettuale alla realtà negli Stati Uniti sembra molto più flessibile: da noi, economisti seri con ricerche altamente considerate possono essere intellettuali pubblici [1] con largo seguito, e persino avere funzioni di dirigenti della Amministrazione; e possono fornire almeno un qualche contrappeso alle Persone Molto Serie [2]. Si pensi a Larry Summers, ma anche a Janet Yellen (e prima a Ben Bernanke), per non dire in modo un po’ diverso anche il sottoscritto. Persone del genere non sono totalmente assenti in Europa – Mervyn King [3] era una banchiere centrale con una storia accademica, e lo stesso in un certo senso è Mario Draghi. Ma negli Stati Uniti quel fenomeno è molto più ampio.

Un’altra ipotesi è che i progressisti americani siano stati temprati dalla follia della nostra destra, e in particolare dalla esperienza degli anni di Bush. Dopo aver visto le Persone Molto Serie esaltare Bush, un personaggio fondamentalmente grottesco, e fare il tifo per una guerra che era evidentemente architettata su falsi pretesti, i liberals statunitensi sono più pronti, rispetto ai socialdemocratici europei, a ritenere che gli individui che circolano con abiti impeccabili non abbiano alcuna idea di quello di cui parlano. Inoltre, l’America ha una rete di gruppi di ricerca progressisti che è assai più vasta e più efficace di quello che c’è di simile in Europa.

Ma in questo caso sto solo avanzando suggestioni. La cattiva sorte della sinistra europea è ancora qualcosa che non capisco interamente.

 

 

[1] Per “public intellectual” vedi le note sulla traduzione. Per quanto il termine sia assai semplice, non mi pare che in italiano sia utilizzato. E non si può confondere con un termine quale “intellettuale organico” o simili. Il significato riguarda figure di intellettuali con una chiara importanza accademica, che svolgono anche – in modo generalmente autonomo – funzioni di rilievo nel dibattito pubblico. Talora, magari, assumendo ruoli di consulenza verso le Amministrazioni. In Italia sicuramente ne esistono, e neanche pochi, ma non sono definiti ‘intellettuali pubblici’.

[2] Vedi anche per questa espressione ironica le note sulla traduzione.

[3] Passato Presidente della Banca di Inghilterra.

Che succede in Francia? (dal blog di Krugman, 27 agosto 2014)

agosto 27, 2014

 

What’s The Matter With France?

August 27, 2014 8:58 pm

As I mentioned this morning, France’s President Hollande, after years of passivity, has finally taken strong action – firing anyone who questions his subservience to German and EC demands for ever more austerity. But what’s actually going on in the French economy? It is, of course, a catastrophe – hugely uncompetitive, failing to create jobs, etc. etc. – that’s what everyone says, so it must be true, right?

Actually looking at the data, however, reveals a number of surprises.

Let’s start with jobs. France has low labor force participation by the relatively old, thanks to generous retirement programs, and by the young, partly because generous aid means that few need to work while in school, partly perhaps because a high minimum wage and other factors discourage youth employment. What about prime-age workers? Figure 1 compares France and the United States. It’s a good thing we know that France is the country in crisis, isn’t it? Because otherwise you might get confused by employment performance that looks much better than ours.

Figure 1

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Still, we know that France is highly uncompetitive on world markets. Figure 2 shows the French current account balance as a percentage of GDP, which is in, um, mild deficit, nothing like the deficits the United States ran during the “Bush boom”.

Figure 2

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It’s interesting to note, by the way, that in the great European divide during the euro’s boom years, when costs in southern Europe surged relative to Germany, creating a huge problem of adjustment, France was – as you can see in Figure 3 – right in the middle, with no particular sign of getting out of line. This puts it in a somewhat awkward situation now that southern Europe is deflating while Germany refuses to inflate, causing an overall deflationary bias in Europe. But this isn’t a French problem so much as a euro problem.

Figure 3

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Speaking of deflation, France – as you can see in Figure 4 — is well below the conventional 2 percent target (which is too low) and falling fast. Mr. Hollande may like to say that the French problem is supply-side, but it sure looks like demand-side by this criterion.

Figure 4

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Still, France has to worry about bond vigilantes. After all, international investors are so worried about French prospects that they won’t lend to the country without being paid … well, the lowest rates in French history (Figure 5).

Figure 5

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OK, you get the picture. French economic data look nothing at all like the story everyone tells. Yes, you can tell stories of excessive regulation, but they don’t dominate the macro picture. Yet Mr. Hollande is meekly going along with demands for ever more belt-tightening, reserving his wrath for those who want France to stand up for itself. And the result is a sort of multiplier process in which austerity causes growth to falter, which worsens the budget prospect, which leads to even more austerity.

What’s going on here politically? Simon Wren-Lewis makes a very good point. In America, many of the people who shape economic discourse are forever living in the 1970s, when stagflation was the order of the day; in France, the corresponding nightmare is the early Mitterand era, when France was suffering from Eurosclerosis and an attempt to pursue unilateral fiscal expansion (with a fixed exchange rate) failed. But now is not then. To an important extent, what ails France in 2014 is hypochondria, belief that it has illnesses it doesn’t – and this hypochondria is leading it to accept quack cures that are the real cause of its distress.

 

Che succede in Francia?

Come ho accennato stamani, il Presidente francese Francois Hollande, dopo anni di passività, finalmente ha assunto una forte iniziativa – licenziando qualcuno che avanzava dubbi sulla sua subordinazione alle richieste di una austerità addirittura maggiore della Germania e della Commissione Europea. Ma come sta procedendo, nella realtà, l’economia francese? E’, senza dubbio alcuno, una catastrofe – del tutto incapace di competere, un fallimento nel creare lavoro etc. etc.? Quello che tutti dicono e che dunque deve essere vero, giusto?

Per la verità, l’osservazione dei dati presenta piuttosto un certo numero di sorprese

Cominciamo dai posti di lavoro. La Francia ha una bassa partecipazione alle forze di lavoro da parte degli individui relativamente anziani, grazie a generosi programmi pensionistici, e da parte dei giovani, in parte perché i generosi sussidi comportano che in pochi hanno bisogno di lavorare mentre sono a scuola, in parte a causa di un salario minimo elevato e di altri fattori che scoraggiano l’occupazione giovanile. Ma che dire dei lavoratori nella principale età lavorativa [1]? La Figura 1 mette a confronto la Francia e gli Stati Uniti. E’ un bene che si sappia che la Francia è un paese in crisi, non è vero? Perché altrimenti ci si confonderebbe per l’andamento dell’occupazione, che sembra molto migliore del nostro.

 

Figura 1

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Eppure sappiamo che la Francia è molto poco competitiva sui mercati mondiali. La Figura 2 mostra la bilancia francese di conto corrente come percentuale del PIL, che è – guarda un po’! – in leggero deficit, ma niente di simile ai deficit realizzati dagli Stati Uniti durante il “boom di Bush”:

 

Figura 2

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E’ interessante notare, per inciso, che nel grande divario che si aprì nell’Europa durante gli anni della espansione dell’euro, quando i costi nell’Europa meridionale salivano in rapporto alla Germania, creando un acuto problema di aggiustamento, la Francia – come si può vedere dalla Figura 3 – si collocò nel mezzo, senza nessuno scarto nel suo andamento. Questo la pone oggi in una situazione imbarazzante, nel mentre l’Europa del sud sta deflazionando e la Germania non intende inflazionare, provocando in Europa una generale tendenza deflattiva. Ma questo non è un problema maggiore in Francia, di quanto non lo sia nell’area euro.

 

Figura 3

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Parlando di deflazione, come potete vedere nella Figura 4, la Francia è ben al di sotto del convenzionale obbiettivo del 2 per cento (che è troppo basso) e diminuisce rapidamente. A Hollande può far piacere dire che il problema francese è dal lato dell’offerta, ma di certo, sulla base di questo metro di misura, sembrerebbe dal lato della domanda.

 

Figura 4

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Ancora, la Francia si deve preoccupare dei ‘guardiani dei bond’. Dopo tutto, gli investitori internazionali sono così preoccupati sulle prospettive della Francia, che non intenderanno concedere prestiti al paese senza essere pagati …. eppure, ecco i più bassi tassi di interesse nella storia francese:

 

Figura 5

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Va bene, questo è il quadro. I dati economici francesi non sembrano affatto corrispondere al racconto del quale tutti parlano. Sì, si possono raccontare spiegazioni sulla eccessiva regolamentazione, ma non sono quelle che dominano il quadro macroeconomico. Eppure Hollande sta docilmente acconsentendo alle richieste di una stretta sempre maggiore, e riserva la sua collera a coloro che vogliono che la Francia si rialzi da sola. E il risultato è una sorta di processo moltiplicatore nel quale l’austerità fa barcollare la crescita, che peggiora le prospettive di bilancio, che portano ad una austerità persino maggiore.

In termini politici, che cosa sta accadendo? Simon Wren-Lewis avanza un ottimo argomento. In America, molte delle persone che danno forma al dibattito economico è come se vivessero sempre negli anni ’70, quando la stagflazione era all’ordine del giorno; in Francia l’incubo corrispondente furono i primi periodi di Mitterand, quando la Francia stava soffrendo della ‘eurosclerosi’ e un tentativo di perseguire in modo unilaterale l’espansione delle politiche di bilancio (con un tasso di cambio fisso) non ebbe buon esito. Ma oggi non sono quei tempi. In misura determinante, quello che affligge la Francia nel 2014 è l’ipocondria, la convinzione di avere malattie che non ha – e questa ipocondria la sta portando ad accettare cure da ciarlatani che sono la causa vera del suo malessere.

 

 

 

[1] Ovvero, come di solito si calcola, dei lavoratori tra i 25 ed i 54 anni.

Americani veri ed economia reale (25 agosto 2014)

agosto 25, 2014

 

Aug 25 4:53 pm

Real Americans and Real Economics

Maybe I’m deluding myself, but it seems to me that we’re not hearing as much as we used to about “real Americans” — the notion that the true essence of the nation is white people living in small towns, associated these days with Sarah Palin but also invoked by whatshisname, the guy who lived in the White House between Clinton and Obama and misled us into war. But I’m sure that’s still how a lot of people on the right see it.

What made me think about that concept is something sort of parallel I’ve noticed about the reaction to my writings. Often, I find, the most rage-filled emails and voice mails come after I’ve written something fairly economistic, like today’s piece. And typically, part of the rant is something along the lines of “You call yourself an economist?” You see, the person delivering the rant has a notion of what economics is; he (it’s almost always a he) believes that “real economics” is about singing the praises of free markets — basically Capitalism Roolz. It’s inconceivable to him that you could have a more nuanced view without being a Marxist. And he’s outraged both that I have the temerity to claim that I’m doing economics and that other people seem to take me seriously.

And it’s not just random Tea Partiers who think this way. It includes hosts of TV business shows, and some famous economists too.

What’s really odd about this view is that you could hardly imagine a time when the evidence was less supportive. We’re just coming off a dramatic economic collapse that had nothing to do with any obvious supply-side factors, but seemed obviously connected to malfunctioning markets. And in the aftermath of the collapse, the supposed real economists made a lot of predictions about runaway inflation, soaring interest rates, and so on that proved notably wrong, while the unreal types like me have done more or less OK.

In fact, there is remarkably little evidence that “real economics” is right even in normal times. The efficiency of competitive markets is a nice story, but where are the dramatically successful predictions we generally look for as confirmation of scientific theories? Indeed, the general presumption even within the economics profession that microeconomics is solid and known to be valid, while macroeconomics is flaky and dubious, seems to me to rest on prejudice rather than evidence. Yes, much of micro can be derived rigorously from individual maximization plus equilibrium; but why, exactly, does that make it right?

So, in my mind the real America is the diverse America we actually live in, and real economics is the eclectic mix of ideas and techniques that seem to be useful, whether or not they have rigorous microfoundations. And I say that as both a real American and a real economist.

 

Americani veri ed economia reale

Forse mi illudo, ma mi sembra che non si senta molto parlare come un tempo di “americani veri” – il concetto secondo il quale l’essenza autentica della nazione consiste nella gente bianca che risiede nelle piccole cittadine, associato di questi tempi con Sarah Pelin ma anche invocato dall’ “Innominabile” [1], il personaggio che risiedette alla Casa Bianca tra Clinton ed Obama e ci portò in guerra in modo fraudolento. Eppure, sono certo che quello è ancora il modo in cui una quantità di persone a destra continua a vedere le cose.

Quello che mi ha fatto pensare a quel concetto è una specie di parallelo che ho notato sulle reazioni ai miei scritti. Spesso, scopro, le email e le mail a voce più piene di rabbia vengono dopo che ho scritto qualcosa di discretamente economicistico, come nel caso dell’articolo di oggi [2]. E solitamente, una parte delle invettive è qualcosa del genere di “e ti definisci un economista?” Vedete, la persone che mi indirizzano l’invettiva hanno un’idea di cosa sia l’economia: loro (quasi sempre sono uomini) credono che la “vera economia” abbia a che fare con il declamare gli elogi del libero mercato – fondamentalmente del genere di Capitalism roolz [3]. Per costoro è inconcepibile che possiate avere un punto di vista più sfumato, senza essere un marxista. Si sentono insultati sia dal fatto che io abbia la temerarietà di sostenere che sto facendo economia, che dal fatto che altre persone sembrano prendermi sul serio.

Né coloro che la pensano in questo modo sono componenti scelti a caso del Tea Party. Ne fanno parte conduttori di programmi economici ed anche famosi economisti.

Quello che è veramente strano a proposito di questo punto di vista è che a fatica si potrebbe immaginare un periodo nel quale i fatti siano di minore sostegno a tali tesi. Stiamo appena venendo fuori da un collasso che non ha avuto niente a che fare con evidenti fattori dal lato dell’offerta, ed è sembrato evidentemente connesso con il malfunzionamento dei mercati. E, a seguito di quel collasso, i presunti veri economisti hanno fatto una quantità di previsioni su una inflazione fuori controllo, su tassi di interesse che schizzavano in alto, e via di seguito, che si sono mostrate considerevolmente sbagliate, mentre gli improbabili soggetti come il sottoscritto più o meno hanno compreso le cose nel modo giusto.

Di fatto, c’è una considerevolmente modesta testimonianza che la “vera economia” sia giusta anche in tempi normali. L’efficienza dei mercati competitivi è una storia graziosa, ma dove sono le spettacolari previsioni di successo che in generale si richiedono come conferme delle teorie scientifiche? In effetti, l’assunto generale, persino all’interno della disciplina economica, secondo il quale la microeconomia è solida ed è nota per la sua efficacia, mentre la macroeconomia è confusionaria e dubbia, a me pare si basi su pregiudizi, anziché su prove. Sì, molta microeconomia può essere rigorosamente dedotta dall’idea della massimizzazione dei comportamenti individuali in aggiunta all’idea dell’equilibrio; ma perché, esattamente, ciò dovrebbe renderla giusta?

Dunque, secondo me la “vera America” sono le diverse Americhe nelle quali effettivamente viviamo, e la vera economia è l’eclettica combinazione di idee e di tecniche che sembrano essere utili, abbiano o no dei rigorosi fondamenti microeconomici. E lo dico sia come ‘vero americano’ che come ‘vero economista’.

 

 

[1] In connessione un articolo di Krugman sul New York Times del 7 maggio del 2002, che però non spiega l’origine della strana espressione “whatshisname” (“comesichiama”), che si riferisce a George W. Bush, e che traduco con l’Innominabile. Il fatto è che, se ben ricordo, tale espressione venne coniata ironicamente da Krugman negli anni nei quali le sue prime feroci critiche a Bush dovettero sfidare un atteggiamento generalizzato di rispetto nei confronti del Presidente, al punto che probabilmente le sue critiche venivano accolte con una certa freddezza anche sul suo giornale. Cosicché egli prese per un po’ a non indicarlo per nome e cognome, ma con quel termine, che voleva essere anche una critica nei confronti della esagerata condiscendenza nei confronti del Presidente, anche in ambienti progressisti.

[2] Il riferimento è all’articolo sul New York Times, tradotto in questo blog col titolo “Una nazione alla rovescia”, del 24 agosto 2014.

[3] Mi pare sia qualcosa che ha a che fare con un blog. Il termine comunque si potrebbe tradurre “Il Capitalismo domina”.

La Yellen, i salari e l’onestà intellettuale (25 agosto 2014)

agosto 25, 2014

 

Aug 25 12:02 pm

Yellen, Wages, and Intellectual Honesty

Jared Bernstein is a bit puzzled by the piece of Janet Yellen’s talk at Jackson Hole in which she suggests that some of the weakness in wages may reflect delayed adjustment rather than unemployment. Since her message was basically that the Fed should keep its pedal to the metal for a while yet, why blur the message?

But I think I understand what Yellen was doing — and her willingness to do it underscores the asymmetry between the two sides in this debate.

Here’s how it works: If you believe that we’ve spent the past six years suffering from a huge overhang of excess supply, that inadequate demand is the whole story — as Yellen does, I do, and so should you — you do have one slightly awkward question to answer: while inflation has been subdued, why hasn’t it turned into deflation? If labor is in huge excess supply, why are average wages still rising, albeit slowly?

Doves like me have taken that question seriously, and placed a fair bit of weight on downward nominal wage rigidity. If wages don’t fall except in extreme cases, you can explain average wages continuing to rise by the combination of sticky wages for some workers and rising wages for those workers who, for whatever reason, face better-than-average prospects.

If that’s your story, however, it has other implications, including the one Yellen identified — a sort of delayed wage-depression effect that persists for a while even as markets recover. And Yellen felt compelled to mention that implication, I think basically because she wanted to make it clear that she was engaged in a good-faith analytical exercise, not trying to build a brief for the policy she wanted for visceral or political reasons.

What’s notable, then, is that you hardly ever see this kind of thing on the other side. Inflation hawks rarely lay out any specific model of how inflation is supposed to take off in a depressed economy; nor do they talk about testable implications of their view, or for that matter offer any explanation of why they’ve been so wrong for so long.

It is, in other words, an asymmetric debate from an intellectual point of view. Doves are doves because their analysis leads them to believe that rates should stay low, and they make a point of explaining that analysis, addressing its implications even if they don’t lend support to their policy case, and suggesting what information might lead them to change their mind. Inflation hawks know what they want, and don’t feel any need to explain clearly why or how they might be wrong.

If this reminds you of other debates these days, it should. It’s not just facts that have a liberal bias; so does careful, open-minded analysis.

 

La Yellen, i salari e l’onestà intellettuale

Jared Bernstein è un po’ perplesso dall’articolo sul discorso di Janet Yellen a Jackson Hole, nel quale ella indica che una parte della debolezza nei salari potrebbe essere il riflesso di un rinvio di una correzione, piuttosto che della disoccupazione. Dal momento che il suo messaggio è stato fondamentalmente che la Fed continuerà a pigiare per un po’ ancora sull’acceleratore, perché offuscare quel messaggio?

Ma io penso di capire cosa la Yellen voleva fare – e la sua volontà di farlo sottolinea l’asimmetria tra i due schieramenti in questo dibattito.

Le cose stanno in questo modo: se credete che siano stati spesi i sei anni passati soffrendo per una eccedenza dell’offerta, che l’inadeguatezza della domanda sia l’intera spiegazione – come pensa la Yellen, il sottoscritto, e come dovreste ritenere pure voi – dovete rispondere ad una domanda leggermente imbarazzante: perché l’inflazione è stata attenuata, perché non si è trasformata in deflazione? Se il lavoro è in una ampia offerta eccedente, perché i salari medi ancora crescono, sia pure leggermente?

Le ‘colombe’ come il sottoscritto hanno preso sul serio tale domanda, ed hanno dato un certo peso alla rigidità dei salari nominali verso il basso. Se i salari non diminuiscono se non in casi estremi, si può spiegare che i salari medi continuino a crescere per effetto di una combinazione di salari rigidi per alcuni lavoratori e di salari crescenti per quei lavoratori che, per una qualsiasi ragione, si trovano dinanzi a prospettive migliori della media.

Se quella è la vostra spiegazione, tuttavia, essa ha altre implicazioni, compresa quella evidenziata dalla Yellen – una sorta di effetto rinviato di depressione sui salari che persiste per un certo periodo, mentre il mercato si riprende. E la Yellen si è sentita obbligata a ricordare quella implicazione, fondamentalmente, io credo, perché voleva rendere chiaro di sentirsi impegnata in un esercizio analitico in buona fede, anziché cercare di metter su un compendio a favore della politica che essa vuole, per ragioni sue personali o politiche.

Quello che è notevole, dunque, è che difficilmente vedrete mai qualcosa di analogo nell’altro schieramento. I falchi dell’inflazione raramente espongono un qualche specifico modello su come si suppone che l’inflazione decolli in una economia depressa; né discutono di implicazioni verificabili dei loro punti di vista, o, sempre in quel senso, offrono una qualche spiegazione delle ragioni per le quali sono stati smentiti per così lungo tempo.

Si tratta, in altre parole, di un dibattito asimmetrico da un punto di vista intellettuale. Le colombe sono colombe perché la loro analisi le porta a credere che i tassi dovevano restare bassi, e spiegare tale analisi è un punto di impegno, affrontando le sue implicazioni anche se esse non offrono sostegno alla loro tesi politica, ed indicando quali informazioni potrebbero indurle a cambiare opinione. I falchi dell’inflazione sanno quello che vogliono, e non sentono alcun bisogno di spiegare chiaramente perché o come potrebbero essere nel torto.

Questo dovrebbe farvi venire alla mente altri dibattiti di questi giorni. Non sono solo i fatti ad avere una inclinazione progressista; anche le analisi scrupolose e senza pregiudizi hanno tale tendenza.

Io, il regicida (25 agosto 2014)

agosto 25, 2014

 

Aug 25 11:37 am

Kingslayer Me

OK, this has to be the funniest headline I’ve seen for a while, on Business Insider: The French Government Has Collapsed, And It’s Partly Paul Krugman’s Fault. The French prime minister has tendered his resignation amid a dispute set off by the economy minister’s decision to go public with opposition to austerity orthodoxy, and since he cited me on the subject, Business Insider has made a funny.

The real story, of course, is the combination of the abject failure of austerity at a Europe-wide level, and the intransigence of the policy’s instigators:

The decision by French Prime Minister Manuel Valls to present his government’s resignation on Monday does not make any difference to Germany’s focus on economic policies that strive for growth, job-creation and fiscal consolidation, a German government spokesman said on Monday.

“We continue to work for stronger growth and employment and our government still believes there is no contradiction between consolidation and growth,” said deputy government spokesman Georg Streiter. “Nothing has changed with us.”

It’s hard to believe that more than four years have passed since I called out austerians for their belief in the Confidence Fairy; after all that time, and all the disastrous experiences (not to mention the collapse of whatever intellectual basis there was for the pro-austerity view), nothing has changed.

 

Io, il regicida [1]

Eccoci, questo deve essere il titolo più buffo che ho visto da molto tempo, su Business Insider: Il Governo francese è andato in crisi, e la responsabilità in parte è di Paul Krugman. Il Primo Ministro francese ha presentato le sue dimissioni nel mezzo di una disputa provocata dalla decisione del Ministro dell’Economia di rendere pubblica la sua opposizione alla ortodossia dell’austerità, e dal momento che egli mi ha citato a quel proposito, Business Insider ha fatto quel titolo divertente.

Il racconto vero, ovviamente, è una combinazione del miserevole fallimento della austerità al livello generale dell’Europa, e della intransigenza dei suoi artefici politici:

 

“Come un portavoce del Governo tedesco ha affermato lunedì, la decisione del Primo Ministro francese Manuel Valls di presentare lunedì le dimissioni del Governo non comporta alcuna novità nella concentrazione della Germania su politiche economiche impegnate alla crescita, alla creazione di posti di lavoro ed al consolidamento delle finanze pubbliche.

“Continuiamo a lavorare per una più solida crescita ed occupazione ed il nostro Governo crede ancora che non ci sia contraddizione tra consolidamento e crescita”, ha detto il secondo portavoce governativo Georg Streiter. “Da noi non è cambiato niente”.

 

E’ difficile da credere che siano passati più di quattro anni dal momento in cui chiamai in causa i filo-austeri per la loro fede nella Fata della Fiducia; dopo tutto quel tempo e dopo tutte le esperienze disastrose (per non dire del collasso di una qualsiasi base intellettuale che c’era a favore del punto di vista dell’austerità), niente è cambiato.

 

 

[1] Più precisamente, un “kinglayer” dovrebbe essere colui che uccide il Re pur essendo una sua guardia del corpo, e quindi tradendo il suo patto di lealtà col monarca. Che, secondo Wikipedia in inglese, sarebbe una cosa da non confondersi con il regicidio vero e proprio.

L’attacco dei pazzeschi centristi (23 agosto 2014)

agosto 23, 2014

 

Aug 23 11:10 am

Attack of the Crazy Centrists

I’m by no means the only person, or even pundit, who sometimes (often) feels that centrists are the craziest people in our political life. Liberals these days rarely stake out really extreme positions (more on that in a minute); conservatives may denounce Obama as a Muslim atheist communist, but at least they know what they want. The really strange people are those who insist that there is symmetry between left and right, that both are equally far out and equally at fault for polarization, and make up all kinds of strange stories to justify this claim.

Barack Obama is, of course, the biggest target of these delusions; it’s really amazing to see pundits accuse him of being chiefly to blame for Republican scorched-earth opposition — you see, he should have used his mystic powers of persuasion to bring them into the tent. But liberal commentators also get hit — usually via gross misrepresentations of what we said. And of course I get this most of all.

Today Jonathan Bernstein leads me to Andrew Gelman, who catches an assertion that I’m all wrong about the difference in conspiracy theorizing between left and right.

What I said was that conspiracy theories are supported by a lot of influential people on the right, but not on the left. They misrepresent this as a claim that most conspiracy theorists are on the right, and point to evidence that “motivated reasoning” is equally common on left and right as proof that I’m wrong.

This is doubly wrong. For one thing — Gelman doesn’t say this as clearly as I’d like — motivated reasoning isn’t the same thing as conspiracy theorizing. Believing that official inflation numbers understate true inflation, based not on understanding the data but on political leanings, is motivated reasoning. Believing that the BLS is deliberately understating inflation and unemployment as a political favor to the White House is a conspiracy theory.

And there’s a big difference even when it comes to conspiracy theorizing between having something believed by some, maybe even a lot, of people and having it stated by influential politicians and other members of the elite.

So how did my claim about elites and conspiracy theories — which I think is very defensible, even obvious — turn into a supposed claim that isn’t defensible, and can be dismissed as foolish? Well, you know the answer: centrists want to believe that liberals are just as bad as conservatives, so they see shrill partisanship even when it’s not really there.

It is, in short, a classic illustration of politically motivated reasoning.

 

L’attacco dei pazzeschi centristi

Io non sono affatto l’unica persona, persino tra gli esperti, che talvolta (spesso) ha la sensazione che i centristi siano le persone più pazze nella nostra vita politica. Di questi tempi i liberals raramente sorvegliano le posizioni davvero estreme (torno sul tema tra un attimo); i conservatori possono denunciare Obama come un musulmano ateo comunista, ma almeno sanno cosa vogliono. Gli individui davvero strani sono quelli che continuano a sostenere che c’è una simmetria tra sinistra e destra, che sono entrambe egualmente distanti ed egualmente responsabili della polarizzazione, e si inventano le storie più strane per giustificare questa pretesa.

Barack Obama, naturalmente, è l’obbiettivo principale di queste fissazioni; è davvero incredibile vedere i commentatori che lo accusano di essere il principale responsabile della opposizione da terra bruciata della opposizione repubblicana – sapete, dovrebbe usare i suoi poteri mistici di persuasione per tenerli dentro la baracca. Ma i commentatori progressisti non ne sono immuni – di solito attraverso rappresentazioni grossolanamente fuorvianti di quello che dice. E naturalmente io sono quello maggiormente nel mirino.

Oggi Jonathan Bernstein mi indirizza ad Andrew Gelman, che arriva ad asserire che io sbaglierei tutto a proposito della differenza tra sinistra e destra sulle teorie della cospirazione.

Quello che io ho detto è che le teorie sulla cospirazione sono sostenute da una quantità di persone influenti a destra, ma non a sinistra. Costoro deformano tutto questo come una affermazione secondo la quale gran parte dei teorici della cospirazione sono di destra, e si riferiscono al fatto che il “processo alle intenzioni [1]” è frequente sia a destra che a sinistra, come prova del mio errore.

Questo è doppiamente sbagliato. Da una parte – Gelman non lo dice così chiaramente come avrei gradito – il processo alle intenzioni non è la stessa cosa della teoria della cospirazione. Credere che i dati ufficiali sulla inflazione sottostimino l’inflazione reale, basandosi non sulla comprensione dei dati ma sulle tendenze politiche, è un processo alle intenzioni. Credere che l’Ufficio delle Statistiche sul Lavoro stia deliberatamente sottostimando l’inflazione e la disoccupazione per fare un favore alla Casa Bianca è una teoria della cospirazione.

E c’è una bella differenza, persino quando si passa alle teorie delle cospirazione, tra l’aver creduto qualcosa da qualche persona, persino da molte persone, ed averla dichiarata sulla scorta di persone influenti e di altri componenti delle classi dirigenti.

Come è possibile, dunque, che la mia affermazione sulle élite e sulle teorie della cospirazione – che penso sia del tutto giustificabile, persino ovvia – si trasformi in una non giustificabile supposta pretesa, e venga liquidata come una sciocchezza? Ebbene, conoscete la risposta: i centristi devono credere che i liberals sono altrettanto sgradevoli dei conservatori, cosicché possono strillare alla faziosità anche quando non c’è niente del genere.

In breve, si tratta di una classica manifestazione, in termini politici, di un processo alle intenzioni.

 

 

[1] Forse sbaglio, ma non trovo altri esempi sull’uso del termine “ragionamento motivato/indotto” nel linguaggio politico angloamericano. E mi pare che l’unico significato dovrebbe essere quello di “un ragionamento che si basa sulle (possibili) motivazioni (altrui)”. Che in questo contesto che si riferisce al tema della intensità e/o faziosità nelle critiche verso gli avversari politici, forse noi chiameremmo “processo alle intenzioni”.

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