Aug 9 2:40 pm
One of the truly amazing (and disheartening) things about the Great Recession and its aftermath has been the continuing insistence of many economists that it’s somehow a supply-side slump, driven by the evils of Obamacare or something. This tends to come from people who view stagflation in the 1970s as having permanently refuted all things Keynes.
So I guess it’s worth pointing out repeatedly that the recent slump shows all the hallmarks of a demand-side shock; in particular, rising unemployment has been associated with falling inflation — the opposite of stagflation. Here’s an international comparison I happen to have produced for other purposes, comparing the change in unemployment from 2007 to 2013 with the change in inflation over the same period:
Unemployment and inflation, 2007-13. IMF World Economic Outlook database
An interesting point: if you fit a linear equation to these points, the slope of the implied Phillips curve is -0.16 — which is the same number the influential recent paper by Kiley (pdf) finds using combined time series and cross-section on US metropolitan areas. Just a coincidence, probably, but I had expected the international relationship to look weaker.
L’opposto della stagflazione
Una delle cose davvero stupefacenti (e demoralizzanti) sulla Grande Recessione e le sue conseguenze è stata la continua insistenza di molti economisti che essa fosse una crisi dal lato dell’offerta, guidata dai guasti prodotti dalla riforma sanitaria di Obama o da qualcosa del genere. Sono cose che di solito provengono da individui che considerano la stagflazione degli anni ’70 come se avesse definitivamente confutato ogni argomento di Keynes.
Dunque, credo sia il caso di sottolineare che la recente recessione mostra tutti i tratti di uno shock dal lato della domanda; in particolare, la disoccupazione crescente è stata associata con una caduta della inflazione – il contrario della stagflazione. Ecco un confronto internazionale che mi è capitato di realizzare per altri scopi, mettendo assieme il mutamento nella disoccupazione dal 2007 al 2013 con il mutamento nell’inflazione nello stesso periodo:
Disoccupazione e inflazione, 2007-2013. Database del World Economic Outlook del FMI
Si tratta di un aspetto interessante: se adattate a questi punti una equazione lineare, l’inclinazione della curva di Phillips [1] che ne deriva è -0,16 – che è lo stesso numero che l’importante recente saggio di Kiley [2] (disponibile in pdf) scopre utilizzando in modo congiunto serie temporali e campionature sulle aree metropolitane degli Stati Uniti. Solo una coincidenza, probabilmente, ma mi ero aspettato che la relazione internazionale apparisse più debole.
[1] Vedi le note sulla traduzione.
[2] Si tratta di uno studio di Michael T. Kiley, per conto del Consiglio della Federal Reserve di Washington, dal titolo. “Una valutazione della pressione inflazionistica associata con la disoccupazione a breve e lungo termine”.
agosto 9, 2014
Aug 9 9:09 am
Robert Draper’s long magazine piece about the possibility of a “libertarian moment” has drawn a fair bit of commentary; much of it involves questioning the supposed polling evidence. As Jonathan Chait points out, independent polling — as opposed to surveys conducted by libertarians seeking to boost their own profile — suggests that young Americans are actually much more pro-government than their elders. They may look relatively kindly on anti-war libertarians, but they really don’t support the policy agenda.
But there’s what I would consider an even bigger problem: when it comes to substance, libertarians are living in a fantasy world. Often that’s quite literally true: Paul Ryan thinks that we’re living in an Ayn Rand novel. More to the point, however, the libertarian vision of the society we actually have bears little resemblance to reality.
Mike Konczal takes on a specific example: the currently trendy idea among libertarians that we can make things much better by replacing the welfare state with a basic guaranteed income. As Mike says, this notion rests on the belief that the welfare state is a crazily complicated mess of inefficient programs, and that simplification would save enough money to pay for universal grants that are neither means-tested nor conditional on misfortune. But the reality is nothing like that. The great bulk of welfare-state spending comes from a handful of major programs, and these programs are fairly efficient, with low administrative costs.
Actually, the cost of bureaucracy is in general vastly overestimated. Compensation of workers accounts for only around 6 percent of non defense federal spending, and only a fraction of that compensation goes to people you could reasonably call bureaucrats.
And what Konczal says about welfare is also true, although harder to quantify, for regulation. For sure there are wasteful and unnecessary government regulations — but not nearly as many as libertarians want to believe. When, for example, meddling bureaucrats tell you what you can and can’t have in your dishwashing detergent, it turns out that there’s a very good reason. America in 2014 is not India under the License Raj.
In other words, libertarianism is a crusade against problems we don’t have, or at least not to the extent the libertarians want to imagine. Nowhere is this better illustrated than in the case of monetary policy, where many libertarians are determined to stop the Fed from irresponsible money-printing — which is not, in fact, something it’s doing.
And what all this means in turn is that libertarianism does not offer a workable policy agenda. I don’t mean that I dislike the agenda, which is a separate issue; I mean that if we should somehow end up with libertarian government, it would quickly find itself unable to fulfill any of its promises.
So no, we aren’t about to have a libertarian moment. And that’s a good thing.
Fantasie libertariane [1]
Il lungo articolo sulla rivista (Times Magazine) di Robert Draper sulla possibilità di un “momento libertariano” ha provocato una discreta quantità di commenti; una gran parte dei quali riguarda l’interrogativo sulle presunte prove dei sondaggi. Come mette in evidenza Jonathan Chait, i sondaggi indipendenti – al contrario di quelli promossi dai libertariani a sostegno del loro proprio profilo – indicano che i giovani americani sono per la verità più favorevoli al Governo che non gli anziani. Essi possono sembrare relativamente benevoli verso la contrarietà alla guerra dei libertariani, ma in realtà non sostengono il loro programma politico.
Ma c’è quella che io considererei una prova persino più grande: quando si va alla sostanza, i libertariani è come vivessero in un mondo fantastico. Spesso questo è vero quasi alla lettera: Paul Ryan pensa che stiamo vivendo in un racconto di Ayn Rand. Più in concreto, tuttavia, la visione della società che effettivamente otteniamo dai libertariani ha poca somiglianza con la realtà.
Mike Konczal considera un esempio specifico: l’idea attualmente di moda tra i libertariani secondo la quale faremmo cose molto migliori se rimpiazzassimo lo stato assistenziale con un reddito di base garantito. Come afferma Mike, questa idea si fonda sulla convinzione che lo stato assistenziale sia una congerie pazzescamente complicata di programmi inefficaci, e che con quella semplificazione si risparmierebbe denaro a sufficienza da pagare sussidi universali che non siano né sottoposti ai limiti di reddito, né al condizionamento della cattiva sorte. Ma la realtà è del tutto diversa. La maggior parte della spesa dello stato assistenziale consiste in una manciata di programmi importanti, e questi programmi sono discretamente efficienti, con bassi costi amministrativi.
Effettivamente, il costo della burocrazia è in generale grandemente sovrastimato. I compensi degli impiegati costituiscono soltanto il 6 per cento della spesa federale, esclusa quella militare, e solo una frazione di quei compensi va a persone che potreste ragionevolmente chiamare burocrati.
E quello che Konczal dice sullo stato assistenziale è anche vero, sebbene più difficile da quantificare, a proposito dei regolamenti. Di sicuro ci sono regolamenti governativi dispendiosi e superflui – ma neanche lontanamente così numerosi come i libertariani vogliono credere. Quando, ad esempio, burocrati ficcanaso vi dicono quello che potete e non potete avere nei detergenti per le lavastoviglie, si scopre che c’è un’ottima ragione. L’America del 2014 non è l’India all’epoca della License Ray [2].
In altre parole, il libertarianismo è una crociata contro problemi che non esistono, o almeno non nella misura in cui i libertariani vogliono immaginare. L’esempio nel quale questo a particolarmente bene illustrato è quello della politica monetaria, dove molti libertariani sono determinati a fermare la Fed dallo stampare moneta – che è qualcosa, di fatto, che essa non sta facendo.
A sua volta, quello che tutto questo significa è che il libertarianismo non offre un programma politico plausibile. Non intendo dire che io non gradisco quel programma, che è un problema distinto; intendo dire che se dovessimo finire con un governo libertariano, in breve lo si scoprirebbe incapace di mantenere ogni sua promessa.
Dunque non siamo davvero vicini ad un “momento” libertariano. Ed è un bene.
[1] Per il termine “libertariano” si può leggere questa estrema sintesi della vita e del pensiero di Ayn Rand, considerata la capostipite di tale ideologia, che si trova nelle note sulla traduzione:
“Ayn Rand, è lo pseudonimo di Alisa Zinov’yevna Rosenbaum O’Connor (San Pietroburgo, 2 febbraio1905 – New York, 6 marzo1982); scrittrice, filosofa e sceneggiatrice statunitense di origine russa. La sua filosofia e la sua narrativa insistono sui concetti di individualismo, egoismo razionale (“interesse razionale”) e ed etica del capitalismo, nonché sulla sua opposizione al comunismo ed a ogni forma di collettivismo socialista e fascista. Il pensiero cosiddetto “oggettivista” della Rand ha – come anche tutto il “libertarianism” – molteplici origini liberali, anarchiche, antitotalitarie ed anche, più singolarmente, capitalistiche; spesso con esiti irreligiosi. Ma il mito dell’industriale creativo soffocato dalla burocrazia e costretto ad una resistenza addirittura “militante” – che è il tema del suo romanzo “Atlas Shrugged” – è certamente una passione americana, nel senso almeno che sarebbe arduo immaginarlo come tema di un romanzo, altrove. Più recentemente, il libro della Rand è stato indicato come riferimento favorito da parte di molti repubblicani americani.”
Questo spiega anche perché il termine “libertariano” è praticamente intraducibile con espressioni apparentemente contigue – ad esempio: radicale, o liberista – che in realtà alludono a ben altro, nel pensiero politico europeo, pur presentando occasionali somiglianze. Neanche mi pare si possa immaginare che si tratti di una ideologia organica, cresciuta nel tempo con una sua struttura di approfondimenti, di ricerca e di organizzazione interna, al pari di altre ideologie del secolo passato.
Forse è più giusto concepire il fenomeno del “libertarianismo” come tipicamente americano; una sorta di attrazione che agisce in modo ‘carsico’ sul conservatorismo americano, in certi momenti storici collegando le politiche presenti ad una sensibilità antica e per qualche aspetto fondativa di una parte del pensiero politico di quel paese. L’idea, della quale Krugman parla alla fine di questo articolo, di una “economia forte per una completa assenza di regole” , è il caposaldo di questa mitologia libertariana fuori del tempo. Ma, in effetti, nel periodo recente quella attrazione è tornata a risultare evidente in movimenti come il Tea Party e in una componente probabilmente oggi maggioritaria del Partito Repubblicano.
[2] La License Ray era un complicato sistema di licenze, regolamenti e procedure burocratiche che nell’India accompagnavano l’avvio di attività economiche nel lungo periodo dal 1947 al 1990. In sostanza fu la versione indiana dello statalismo e dell’economia pianificata, talora anche definito come il “tasso di crescita Hindu”.
agosto 8, 2014
Aug 8 10:50 am
The truly vile attack on Rick Perlstein’s new book has been revealing in a number of ways. It’s not just the instinctive effort to suppress and punish anyone who raises questions; it’s also the way supposedly reasonable, civilized conservatives have contorted themselves to support the party line (which they always do when it matters, no matter how much open-mindedness they seem to display when it doesn’t).
And why this determination to quash Perlstein? It’s all about Reaganolatry, the right’s need to see the man as perfect. John Quiggin has some thoughts about the phenomenon; I’d just add that the economic myth of Reagan is truly remarkable. Everyone on the right knows that Reagan presided over job creation on a scale never seen before or since; but it just isn’t so. In fact, if you look at monthly rates of job creation for the past six administrations, it’s actually startling:
You may have known that Clinton was a better “job creator” than Reagan, but did you know that over the course of the Carter administration — January 1977 to January 1981 — the economy actually added jobs faster than it did under Reagan? Maybe you want to claim that the 1981-82 recession was Carter’s fault (although actually it was the Fed’s doing), so that you start counting from almost two years into Reagan’s term; but in that case why not give Obama the same courtesy? The general point is that the supposed awesomeness of Reagan’s economic record just doesn’t pop out of the data.
But don’t expect the Reaganlators to acknowledge that. Their whole sense of identity is bound up with their faith.
Sulla Reaganlatria
L’attacco davvero indegno al nuovo libro di Rick Perlstein [1] è stato in molti sensi rivelatore. Non si tratta soltanto del tentativo istintivo di liquidare e di punire chiunque sollevi domande; c’è anche il modo in cui conservatori che si supponevano ragionevoli e di buone maniere si sono aggrovigliati pur di sostenere la linea del partito (cosa che fanno sempre quando conviene, a prescindere da quanto mostrino una mentalità aperta su cose secondarie).
E perché questa determinazione quasi a cancellare Perlstein? Si tratta della Reaganlatria, del bisogno della destra di vedere perfezione in quell’uomo. John Quiggin ha un po’ riflettuto sul fenomeno; io aggiungerei soltanto che è il caso di sottolineare il mito economico di Reagan. Tutti a destra sanno che Reagan governò una creazione di posti di lavoro in una dimensione che non c’era mai stata, prima e dopo di lui; il punto è che non è così. Di fatto, se guardate ai tassi mensili di creazione dei posti di lavoro nelle passate sei amministrazioni, è effettivamente impressionante:
Forse sapevate che Clinton fu un “creatore di posti di lavoro” migliore di Reagan, ma sapevate che nel corso della Amministrazione Carter – da Gennaio 1977 a gennaio 1981 – l’economia crebbe quanto a posti di lavoro più velocemente che sotto Reagan? Potreste forse sostenere che la recessione del 1981-1982 fu una responsabilità di Carter (sebbene in effetti fosse stata provocata dalla Fed), cosicché potreste cominciare a fare i conti a partire da almeno due anni all’interno del mandato di Reagan; ma in qual caso perché non usare la stessa cortesia anche nei confronti di Obama? Il punto generale è che le presunte fantastiche prestazioni economiche di Reagan non c’è proprio verso che vengano fuori dai dati.
Ma non mi aspetto che i seguaci della Reaganolatria lo riconoscano. Il loro intero senso di identità dipende da quella fede.
[1] Eric Perlstein è uno storico ed un giornalista americano, che scrive su vari quotidiani e riviste di sinistra (The New Repubblic, The Nation, Mother Jones ed altri).
agosto 5, 2014
Aug 5 10:36 am
OK, this is grotesque. Rick Perlstein has a new book, continuing his awesomely informative history of the rise of movement conservatism — and he’s facing completely spurious charges of plagiarism.
How do we know that they’re spurious? The people making the charges — almost all of whom have, surprise, movement conservative connections — aren’t pointing to any actual passages that, you know, were lifted from some other book. Instead, they’re claiming that Perlstein paraphrased what other people said. Um, what? Unless there’s a very close match, telling more or less the same story someone else has told before is perfectly ordinary — in fact, it would be distressing if history books didn’t correspond on some things.
Can I say, I’m familiar with this process? There was a time when various of the usual suspects went around claiming that I was doing illegitimate things with jobs data; what I was doing was in fact perfectly normal — but that didn’t stop Daniel Okrent, the outgoing public editor, from firing a parting shot (with no chance for me to reply) accusing me of fiddling with the numbers. I also heard internally that there were claims of plagiarism directed at me, too, but evidently they couldn’t cook up enough stuff to even pretend to make that stick.
The thing to understand is that fake accusations of professional malpractice are a familiar tactic for these people. And this tactic should be punctured by the press, not given momentum with “opinions differ on shape of the planet” reporting.
Imbrattare Rick Perlstein
Questa è davvero grottesca. E’ uscito un nuovo libro di Rick Perlstein, che prosegue il suo fantastico racconto informativo sull’avvento della nuova destra [1] – e si trova a fare i conti con accuse completamente false di plagio.
Come sappiamo che sono false? Gli individui che formulano quelle accuse – che, sorpresa, hanno quasi tutti collegamenti con la nuova destra – non indicano alcun passaggio che, come vi aspettereste, sia stato copiato da un altro libro. Essi, invece, sostengono che Perlstein ha parafrasato quello che altri avevano detto. Un momento, cosa? Se non c’è un vero e proprio abbinamento, raccontare la stessa storia che qualcun altro ha raccontato in precedenza è perfettamente ordinario – di fatto, sarebbe devastante se i libri di storia non avessero punti di contatto su qualcosa.
Posso dire di avere una certa familiarità con accuse del genere? Ci fu un periodo nel quale vari soggetti tra i soliti noti andavano in giro sostenendo che io facevo cose non lecite con i dati sui posti di lavoro; in realtà quello che facevo era perfettamente normale – ma ciò non impedì a Daniel Okrent, l’estroverso public editor [2], di indirizzarmi una stoccata (senza che io avessi alcuna possibilità di replica) accusandomi di armeggiare con i numeri. Sentii anche dire, dall’interno, che c’erano pretese di plagio anche nei miei confronti, ma evidentemente non si poté architettare argomenti sufficienti per pretendere di avanzare anche tale accusa.
Quello che si deve sapere è che le false accuse di cattiva pratica professionale sono una tattica consueta per gente del genere. E questa tattica dovrebbe essere messa al bando dalla stampa, anziché dare l’occasione per un tipo di giornalismo secondo il quale “ci sono opinioni diverse sulla forma del pianeta”[3].
[1] “Nuova”, in realtà, sin dagli anni ’70; nel senso che – secondo la definizione che ne diede Nash nel 2009 – il movimento combinava almeno cinque principali indirizzi: i libertariani, i conservatori tradizionalisti, gli anticomunisti (che erano componenti ovviamente presenti da tempo, dagli anni ’30 agli anni ’60), ma anche i neoconservatori ed i rappresentanti di ideologie religiose.
[2] Occorrerebbe inventare, credo, un neologismo; si tratta di una figura di “controllore” o di “supervisore” del rispetto e della attuazione di norme di eticità e di correttezza, che normalmente appartiene allo stesso giornale che è oggetto della sua attività. Mi pare che l’aggiunta di “public” significhi che agisce nell’interesse della opinione pubblica. Il fatto che appartenga alla stessa ‘ditta’, almeno per i giornali importanti, non costituisce un limite rilevante, perché non verrebbe in mente a nessuno di licenziare un “public editor” particolarmente critico nei confronti dei contenuti del giornale stesso (per il prestigio del giornale, è maggiormente rilevante che la sua autonomia venga salvaguardata). Il che non significa necessariamente che le sue osservazioni siano sempre ineccepibili ed intelligenti.
[3] Si tratta di una battuta frequente di Krugman, che nacque all’epoca di Bush. Per sottolineare l’equilibrismo di molta stampa, egli notò che se addirittura Bush avesse dichiarato che la Terra era piatta, alcuni avrebbero dato la notizia di “diversi punti di vista” sulla forma del Pianeta.
agosto 5, 2014
Aug 5 10:01 am
Jonathan Cohn looks at the evidence so far on health insurance premiums, and finds things not too bad:
Coverage will get more expensive for the majority of consumers, as it almost always does. Changes in premiums will vary enormously, from state to state and from plan to plan. But, overall, the 2015 premiums increases will not be significantly worse than they were in the past. They might even be a little better.
Charles Gaba finds much the same. Furthermore, there’s a clear trend within the trend: states that did their best to make Obamacare work are also delivering good deals to their residents. California is heading for an increase of only 4.2 percent. On the other hand, things are not looking too good in Florida:
In Florida, by contrast, the Republicans in charge did very little to promote the law and, at times, seemed determined to undermine it. Never was this more clear than in 2013, when the legislature passed and Governor Rick Scott signed a bill that suspended state government’s ability to reject excessive premium increases.
Overall, yet more evidence that this reform works wherever politicians let it work.
Continua a non fallire
Jonathan Cook si attiene ai fatti sulle polizze assicurative sino a questo punto, e trova che le cose non sono troppo negative:
“La copertura assicurativa diventerà più costosa per la maggioranza dei consumatori, come accade quasi sempre. Le modifiche nelle polizze varieranno enormemente, da Stato a Stato e da programma a programma. Ma, nel complesso, gli incrementi delle polizze del 2015 non saranno significativamente peggiori di quelli che erano nel passato. Potranno persino essere un po’ migliori.”
Charles Gaba arriva in gran parte alla stessa conclusione. Inoltre c’è una chiara tendenza dentro la tendenza: gli Stati che hanno fatto del loro meglio per far funzionare la riforma sanitaria di Obama, stanno consegnando dei buoni affari ai loro cittadini. La California si sta indirizzando verso un incremento solo del 4,2 per cento. D’altra parte, le cose non sembrano così positive in Florida:
“In Florida, all’opposto, i repubblicani in carica hanno fatto molto poco per promuovere la legge e, talvolta, sono sembrati determinati a danneggiarla. Questo è stato particolarmente chiaro nel 2013, allorché la legislazione venne approvata ed il Governatore Rick Scott firmò una proposta di legge che sospendeva la possibilità per il governo statale di respingere eccessivi incrementi nelle polizze.”
In sostanza, una prova ulteriore che questa riforma funziona dovunque gli uomini politici la lasciano operare.
agosto 5, 2014
Aug 5 9:52 am
Does anyone remember this, from Erick Erickson of Red State?
Washington State has turned its residents into a group of drug runners — crossing state lines to buy dish washer detergent with phosphate. At what point do the people tell the politicians to go to hell? At what point do they get off the couch, march down to their state legislator’s house, pull him outside, and beat him to a bloody pulp for being an idiot? At some point soon, it will happen.
Yes, because there’s no possible reason meddling politicians should interfere with Americans’ God-given right to use phosphates however they like. Oh, wait.
It took a serendipitous slug of toxins and the loss of drinking water for a half-million residents to bring home what scientists and government officials in this part of the country have been saying for years: Lake Erie is in trouble, and getting worse by the year.
Flooded by tides of phosphorus washed from fertilized farms, cattle feedlots and leaky septic systems, the most intensely developed of the Great Lakes is increasingly being choked each summer by thick mats of algae, much of it poisonous. What plagues Toledo and, experts say, potentially all 11 million lakeside residents, is increasingly a serious problem across the United States.
It’s true that farms are the biggest problem, but every little bit hurts.
Oh, and when it comes to the obvious public health and safety issue of limiting pollution from farm runoff — well, you know what happens when the EPA, cooperating with state governments, tries to do something:
Earlier this year, a group of 21 Attorneys General from states as far away from the Chesapeake Bay as Alaska and Wyoming submitted an amicus brief that aims to strike down the EPA’s Chesapeake cleanup plan. The AGs argue that the cleanup plan raises serious concerns about states’ rights, and they worry that if the plan is left to stand, the EPA could enact similar pollution limits on watersheds such as the Mississippi.
As far as I can tell, there isn’t a well-organized phosphate denial campaign, insisting that runoff has nothing to do with algae blooms. But I’m sure one will arise as policy action grows nearer.
Memorie dei fosfati
Si ricorda qualcuno di queste parole, di Erick Erickson su Red State [1] ?
“Lo Stato di Washington ha trasformato i suoi residenti in un gruppo di trafficanti di droga, che attraversano i confini dello Stato per acquistare detergenti per lavapiatti che contengono fosfati. Quando succederà che la gente dirà agli uomini politici di andare all’inferno? Quando scenderanno dal divano per marciare sulla casa del loro deputato statale, tirarlo fuori da lì e picchiarlo sino a ridurlo in poltiglia sanguinolenta, per la sua idiozia?”
Sì, perché non c’è ragione alcuna perché i politici ficcanaso debbano interferire con il diritto che gli Americani hanno ricevuto da Dio di usare fosfati a piacimento. Aspettate un momento:
“C’è voluta una botta fortuita di tossine e la perdita dell’acqua potabile per un mezzo milione di residenti per far capire quello che gli scienziati e i dirigenti del Governo in questa parte del paese stavano dicendo da anni: il Lago Erie è messo male, e peggiorerà entro l’anno.
Inondato da una marea di fosforo dilavato dalle aziende agricole che usano fertilizzanti, dai recinti di ingrasso del bestiame e da fosse settiche a perdita, il più intensamente sviluppato dei Grandi Laghi ogni estate soffoca a seguito di densi tappeti di alghe, in gran parte velenose. Ciò che affligge Toledo e, dicono gli esperti, potenzialmente tutti gli 11 milioni di residenti sulle rive del lago, è sempre di più un problema serio in tutti gli Stati Uniti.”
E’ vero che le imprese agricole sono il problema più grande, ma il danno viene anche dagli inquinamenti minori.
Inoltre, quando si arriva all’ovvio tema di salute e di sicurezza pubblica del limitare gli sversamenti dalle imprese agricole – ebbene, è noto quello che accade quando l’EPA, in cooperazione con i Governi degli Stati, cerca di fare qualcosa:
“Agli inizi di quest’anno, un gruppo di 11 Procuratori Generali provenienti da Stati lontani dalla Chesapeake Bay quanto l’Alaska e il Wyoming hanno presentato un parere legale [2] che ha l’obbiettivo di annullare il programma di disinquinamento del Chesapeake dell’EPA. I Procuratori Generali sostengono che il programma di disinquinamento solleva serie preoccupazioni sui diritti degli Stati, ed essi sono preoccupati che se si consente che il programma resti in vigore, l’EPA potrebbe stabilire limiti analoghi all’inquinamento su interi bacini idrografici come quello del Mississippi.
Per quanto capisco, si tratta di una ben organizzata campagna di negazione del problema dei fosfati, tesa a ribadire che gli sversamenti non hanno niente a che fare con le fioriture delle alghe.
[1] Un blog della destra americana.
[2] Probabilmente esiste una espressione di tecnica giurisprudenziale più precisa. L’ “amicus curiae” è una espressione legale latina, dalla quale deriva “amicus brief”, che sta a indicare qualcuno che non è parte in una causa (è “amico della Corte”), e che offre informazioni che aiutano la Corte ad esprimere un giudizio, senza essere stato sollecitato da nessuna delle due parti. L’ “amicus brief” – ovvero l’ “informazione dell’amicus” – può essere una testimonianza o un parere legale e serve alla Corte in particolare per rappresentare preoccupazioni su possibili effetti legali delle decisioni che deve assumere, che potrebbero riguardare soggetti diversi, rispetto alle due parti in causa. E’ la Corte che ha discrezione se accogliere tali informazioni o pareri oppure no.
agosto 3, 2014
Aug 3 4:24 pm
Brad DeLong finds Larry Kotlikoff fulminating about how mean I am — so mean that he apparently could’t bring himself to read what I wrote. No, I didn’t say that Paul Ryan is stupid. I did imply — and have said explicitly on many other occasions — that he is a con man. Why did I do that?
Not as a way to avoid having a substantive discussion. I’ve documented Ryan’s many cons very extensively, showing in particular that his budgets were sold on false pretenses — all the alleged fiscal responsibility lay not in the much-hyped changes to Medicare, but in magic asterisks claiming huge but unspecified savings from discretionary spending and huge but unspecified revenue gains from closing loopholes he refused to name.
Still, why not pretend that we’re having a nice, honest discussion? Because I’m trying to inform readers about what’s going on — and the attempt to sell right-wing goals under false pretenses is an important part of the story. If you fell for the carefully crafted image of Ryan as an honest wonk, you were being taken in — and it’s my job to ensure that you’re properly informed.
I wish we lived in a world in which you could presume that major figures are arguing in good faith, in which what they claim to be doing in their policy proposals was what they were actually doing. But wishing doesn’t make it so, and I would be acting in bad faith myself if I pretended that the world was like that.
I truffatori non sono stupidi
Brad DeLong si accorge che Larry Kotlikoff si scaglia contro la mia supposta meschinità – una meschinità tale che in apparenza potrebbe indurlo a leggere quello che ho scritto. No, io non ho detto che Paul Ryan sia stupido. Ho suggerito – e l’ho detto esplicitamente in molte altre occasioni – che è un individuo che confonde le carte in tavola. Perché l’ho fatto?
Non per evitare di avere una discussione reale. Ho documentato molti imbrogli di Ryan assai per esteso, mostrando in particolare che i suoi bilanci venivano messi in circolazione sotto false apparenze – l’intera pretesa responsabilità finanziaria non si basava sui tanto conclamati cambiamenti di Medicare, ma sui ‘magici asterischi’ che pretendevano di ottenere vasti ma non specificati risparmi dalle spese discrezionali, e vasti ma non specificati miglioramenti delle entrate dalla interruzione delle elusioni fiscali, che Ryan rifiutava di definire con precisione.
Eppure, perché non fingere che sia in corso una discussione piacevole ed onesta? Perché io sto cercando di informare i lettori su quello che sta accadendo – ed il tentativo di rivendere gli obbiettivi della destra sotto false spoglie è una parte importante della storia. Se ci si fa ingannare dalla immagine costruita ad arte di Ryan come un onesto esperto, si viene abbindolati – e il mio lavoro è fare in modo che abbiate una informazione corretta.
Mi piacerebbe vivere in un mondo nel quale si possa supporre che le personalità importanti stanno discutendo in buona fede, nel quale quello che esse sostengono di fare con le loro proposte politiche corrisponde a quello che effettivamente fanno. Ma desiderare ciò non lo rende reale, ed io ingannerei me stesso se fingessi che veniamo da un mondo di questo genere.
agosto 2, 2014
Aug 2 1:00 pm
I figured that I could count on Dean Baker to debunk Larry Kotlikoff’s “Eeek! Debt!” column. But Dean doesn’t go far enough.
What Kotlikoff does is calculate the present discounted value of predicted funding gaps in federal programs, point out that they are really, really big numbers, and declare America bankrupt. As Dean says, this is silly, disingenuous, or both. The US economy is expected to grow a lot in the future; meanwhile, real interest rates are expected to be only slightly above growth rates. So any persistent gap between spending and revenues as a percentage of GDP will be a huge number if converted to present values. However, the present value of expected future GDP is also immense — at least a couple of quadrillion dollars. So is the gap big compared with the resources available to cover it? Kotlikoff gives us no way to judge.
The questions you should ask are how the fiscal path is likely to play out in reality, and what if anything we should be doing now to make the story better.
It’s true that if current policies are continued with no change, we’re highly likely to face an unsustainable fiscal gap — a gap that can’t go on forever — if we look far enough away. Stein’s Law therefore applies: if something can’t go on forever, it will stop. Sooner or later, we will have some combination of benefits cuts and/or revenue increases.
Saying that this means that the United States is bankrupt is hyperbole; more important, it’s not helpful. What, exactly, should we be doing right now?
The answer all the deficit-panic types offer is basically that we must cut future benefits. But why, exactly, is that something that must be done immediately? If you state the supposed logic, it seems to be that to avoid future benefit cuts, we must cut future benefits. I’ve asked for further clarification many times, and never gotten it.
You can argue that it’s better to avoid abrupt changes — to put things on a glide path to sustainability. But that’s a much weaker point than you might expect given all the cries of bankruptcy and crisis.
And Dr. Evil-type invocations of two hundred trillion dollars serve no purpose at all, unless your real goal is to scare people into preemptively dismantling the welfare state.
Quadrilioni di quadrilioni [1]
Mi immaginavo di poter contare su Dean Baker nello smascherare l’articolo di Larry Kotlikoff, della fattispecie: “Oddio” Il debito!”. Eppure Dean non si spinge abbastanza in là.
Quello che Kotlikoff fa è calcolare il presente valore scontato dei previsti divari di finanziamento dei programmi federali, mettere in evidenza che si tratta di numeri per davvero proprio grandi, e dichiarare la bancarotta dell’America. Come dice Dean, è una operazione sciocca, in malafede, o tutte e due le cose. Ci si aspetta che l’economia degli Stati Uniti cresca molto nel futuro; nel frattempi ci si aspetta che i tassi di interesse reali siano solo leggermente sopra i tassi di crescita. Dunque, qualsiasi persistente divario tra la spesa e le entrate come percentuale del PIL sarà un numero enorme, se confrontato con i valori presenti. Tuttavia, anche il valore presente del PIL previsto per il futuro è immenso – almeno un paio di quadrilioni di dollari. Dunque, è confrontabile il grande divario con le risorse disponibili per coprirlo? Kotlikoff non ci offre alcun modo di giudicarlo.
Le domande che dovreste porvi sono come l’indirizzo della finanza pubblica è probabile che si comporti nella realtà, e semmai che cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione.
E’ vero che se le politiche attuali continuassero senza alcun cambiamento, molto probabilmente dovremmo affrontare un buco insostenibile nella finanza pubblica – un buco che non può proseguire all’infinito – se continuiamo a trascurare il problema. Si applica di conseguenza la legge di Stein [2]: se qualcosa non può procedere all’infinito, si fermerà. Prima o poi avremo una qualche combinazione di tagli ai sussidi e/o di aumenti delle entrate.
Dire questo significa che la bancarotta degli Stati Uniti è un’iperbole; ancora più importante, è un concetto inutile. Che cosa, esattamente, si dovrebbe fare a questo punto?
La risposta che offrono tutti i personaggi del ‘panico da deficit’ è che fondamentalmente dovremmo tagliare i sussidi futuri. Ma perché, esattamente, lo dovremmo fare immediatamente? Se stabilite quella presunta logica, la conclusione sembra essere che per evitare futuri tagli ai sussidi, si debbano tagliare i sussidi futuri. Ho richiesto un ulteriore chiarimento molte volte, e non l’ho mai ottenuto.
Potete sostenere che sia meglio evitare cambiamenti repentini – porre le cose su un terreno in discesa di sostenibilità. Ma si tratta di un concetto molto più debole di quello che vi potreste aspettare, considerati tutti gli strepiti di bancarotta e di crisi.
E le invocazioni del genere del Dottor Male sui duecento mila miliardi di dollari non servono proprio a nessuno scopo, a meno che il vostro obbiettivo reale non sia spaventare la gente allo scopo di smantellare preventivamente lo stato sociale.
[1] Un quadrilione è: 1.000.000.000.000.000.000.000.000; ovvero dieci alla ventiquattresima.
[2] Docente all’American Enterprise Institute, fu Presidente del Comitato dei consiglieri economici dei Presidenti Nixon e Ford. E’ scomparso nel 1999.
agosto 2, 2014
Aug 2 9:16 am
The right-wing attack on Neil deGrasse Tyson — which has reached a sort of apogee in the National Review cover story — is notable for a number of reasons. What’s especially interesting, as I see it, is the attempt to have it both ways. On one side, there’s the sneering disapproval of anyone who tries to bring facts and evidence into political debate — you think you’re so smart, huh? At the same time, there’s the claim that liberal “experts” are poseurs, not real experts. Hey, we’re not anti-science, not us!
One question you might ask, then, is whether the likes of Mr. Tyson are unrepresentative — whether the predominance of liberals among the nerds one sees in the public sphere is strongly at odds with the political leanings of scientists as a group. Well, we know the answer to that question:
Scientists as a group are, in fact, a lot more liberal and Democratic-leaning than the population as a whole. In fact, in other contexts conservatives use this disparity to attack scientists, or academics in general, for their bias.
So what’s going on here? One simple explanation would be that current Republican doctrine really is anti-science and anti-intellectual, and that scientists are responding to that. But that would, of course, be an unbalanced view. So the right tries to insist both that public figures like Mr. Tyson are poseurs and that there is some kind of conspiracy causing scientists in general have similar views.
How about just using Occam’s razor?
L’antintellettualismo che non osa esporsi
L’attacco della destra su Neil deGrasse Tyson [1] – che ha raggiunto una sorta di apogeo nell’articolo di copertina della National Review – è rilevante per un certo numero di ragioni. Quello che è particolarmente interessante, a mio avviso, è il suo tentativo di avere la botte piena e la moglie ubriaca [2]. Da una parte, c’è la disapprovazione beffarda di chiunque cerchi di addurre fatti e testimonianze nel dibattito politico – pensate di essere così intelligenti? Al diavolo! Allo stesso tempo, c’è la pretesa che gli “esperti” progressisti si atteggino, non siano dei veri esperti. Ehi, non siamo noi contro la scienza, sono gli altri!
Una domanda che ci si può porre, allora, è se i soggetti a cui si riferisce il signor Tyson non siano rappresentativi – se il predominio dei progressisti che si osserva tra le persone competenti nella sfera pubblica sia decisamente agli antipodi degli orientamenti degli scienziati come gruppo. Ebbene, conosciamo la risposta a tale domanda [3]:
Gli scienziati come gruppo sono, di fatto, molto più progressisti e favorevoli ai democratici della popolazione nel suo complesso. Per la verità, in altri contesti i conservatori usano questa disparità per attaccare gli scienziati, o gli accademici in generale, per le loro tendenze.
Cosa sta dunque accadendo in questo caso? Una spiegazione semplice sarebbe che la attuale dottrina repubblicana è effettivamente contro la scienza, e che gli scienziati stanno reagendo. Ma sarebbe, evidentemente, un punto di vista sbilanciato. Cosicché la destra cerca di insistere sia sul fatto che figure pubbliche come il signor Tyson siano degli impostori, sia che ci sia un qualche genere di cospirazione all’origine del fatto che gli scienziati hanno tali punti di vista.
Che dire di usare semplicemente il principio del “rasoio di Occam”? [4]
[1] Neil deGrasse Tyson è un astrofisico e divulgatore scientifico statunitense, attualmente direttore dell’Hayden Planetarium del Rose Center for Earth and Space di New York. Non ho capito bene perché sia finito al centro delle polemiche; parrebbe per alcune sue affermazioni sul crescente clima di scetticismo verso la scienza della destra americana. Una sua battuta che pare abbia particolarmente irritato è stata quella seconda la quale gli alieni avrebbero effettivamente raggiunto il nostro Pianeta, ma avrebbero deciso di non approfondire le ricerche per un evidente difetto di vita intelligente.
[2] Ovviamente è il corrispondente italiano all’idiomatico “averlo in entrambi i modi”.
[3] Il sondaggio dal quale è estratta la tabella successiva è a cura dell’istituto di ricerca PEW Research.
[4] Rasoio di Occam (Novacula Occami in latino) è il nome con cui viene contraddistinto un principio metodologico espresso nel XIV secolo dal filosofo e frate francescano inglese William of Ockham, noto in italiano come Guglielmo di Occam. Tale principio, ritenuto alla base del pensiero scientifico moderno, nella sua forma più immediata suggerisce l’inutilità di formulare più ipotesi di quelle che siano strettamente necessarie per spiegare un dato fenomeno quando quelle iniziali siano sufficienti.
La metafora del rasoio concretizza l’idea che sia opportuno, dal punto di vista metodologico, eliminare con tagli di lama e mediante approssimazioni successive le ipotesi più complicate. In questo senso il principio può essere formulato come segue: « A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire » (Guglielmo di Occam).
Wikipedia.
agosto 1, 2014
Aug 1 4:39 pm
The two big achievements of the Obama administration are health reform and financial reform. (Maybe carbon regulation will be added to the list; stay tuned.) For the most part, however, neither has gotten much respect. I think this may finally be changing on health reform, as the evidence piles up for a dramatic improvement in coverage in states that didn’t obstruct the law. But financial reform is still unloved, attacked by the right as anti-business and by the left as too weak to work.
There is, however, an important new GAO report suggesting that reform is mattering a lot on one key hot-button issue: too big to fail. I’m not, however, seeing much clear writing about this; the always excellent Mike Konczal is on the case, but I suspect that most readers won’t know enough about the background to appreciate what’s going on.
So here’s an explanation. If you go back to what happened in 2008, you had a situation in which the impending collapse of some key financial institutions threatened to bring down the whole world economy. So they were bailed out — with many people complaining that the bailouts rewarded bad behavior. Indeed, some people — including me — argued for taking troubled banks into receivership, so that none of the bailout would go to stockholders. But key officials at Treasury argued that they didn’t have the legal authority.
This episode created a concern: now that everyone knew that big financial institutions would be bailed out if they went bad, wouldn’t this (a) give such too-big-to-fail institutions a continuing advantage, because their government guaranteed safety would make them able to borrow cheaply, and (b) encourage irresponsible behavior? And there was a fair bit of evidence for (a): large financial institutions did indeed seem to have a funding advantage.
To deal with this, Dodd-Frank created Ordinary Liquidation Authority, otherwise known as resolution authority — giving the government the legal authority to seize institutions the way it arguably should have in 2008-2009.
But Republican leaders fiercely opposed financial reform — and claimed that resolution authority actually made too-big-to-fail worse, because it institutionalized bailouts. This always seemed implausible; bailouts will happen in crises, one way or another. And if financial reform was a giveaway to the banks, why did Wall Street, which used to look relatively favorably on Democrats, turn overwhelmingly Republican after reform passed?
Still, you’d like some evidence. And GAO has the goods. There was indeed a large-bank funding advantage during and for some time after the crisis, but it has now been diminished or gone away — maybe even slightly reversed. That is, financial markets are now acting as if they believe that future bailouts won’t be as favorable to fat cats as the bailouts of 2008.
This news is part of broader evidence that Dodd-Frank has actually done considerable good, on fronts from consumer protection to bank capitalization. Of course it should have been stronger; and I don’t expect it ever to look as good as Obamacare increasingly does. But claims that it was counterproductive now look like claims that black is white. Are you surprised?
Buone notizie sulla riforma finanziaria
I due grandi risultati della Amministrazione Obama sono la riforma sanitaria e quella del sistema finanziario (può darsi che la regolamentazione sulla anidride carbonica si aggiungerà alla lista; stiamo a vedere). Nella maggioranza dei casi, tuttavia, nessuna delle due ha ottenuto grandi riconoscimenti. Penso che questo, nel caso della riforma sanitaria, stia finalmente per cambiare, dato che si accumulano prove di uno spettacolare miglioramento nella copertura assicurativa negli Stati che non hanno fatto ostruzionismo alla legge. Ma la riforma del settore finanziario resta non amata, attaccata dalla destra in quanto ostile agli affari e dalla sinistra in quanto troppo debole per funzionare.
C’è tuttavia un nuovo resoconto del Government Accountability Office [1] che indica che la riforma sta acquistando molta importanza su un tema fondamentale e molto sensibile: il “troppo grande per fallire”. Tuttavia, non sto leggendo cose molto chiare su questo aspetto; il sempre eccellente Mike Konczal se ne occupa, ma suppongo che la maggioranza dei lettori non conosca gli antefatti al punto da farsi una idea di quello che sta accadendo.
Ecco, dunque, una spiegazione. Se si torna a quello che accadde nel 2008, si aveva una situazione nella quale un imminente collasso di alcuni fondamentali istituti finanziari minacciava di abbattere l’intera economia mondiale. Così avvennero i salvataggi – con molte persone che si lamentarono che i salvataggi premiavano pessimi comportamenti. In effetti, alcuni – compreso il sottoscritto – si espressero per mantenere le banche in difficoltà in amministrazione controllata, in modo tale che nessuno dei benefici andasse agli azionisti. Ma i principali dirigenti del Tesoro sostennero di non averne l’autorità legale.
Quell’episodio creò una preoccupazione: dal momento che tutti sapevano che i grandi istituti finanziari sarebbero stati salvati se fossero finiti in difficoltà, tutto questo non avrebbe: a) fornito a tali istituti “troppo-grandi-per-fallire” un vantaggio permanente, giacché la loro sicurezza garantita dal Governo li avrebbe messi nelle condizioni di indebitarsi in modo conveniente; e b) incoraggiato condotte irresponsabili? E c’erano un bel po’ di prove a proposito del primo aspetto: grandi istituti finanziari in effetti sembrarono avere un vantaggio nei finanziamenti.
Per fare i conti con tutto questo, la Legge Dodd-Frank creò la Autorità per la Ordinaria Liquidazione, anche nota come autorità di risoluzione – che dà al Governo l’autorità legale per prendere possesso degli istituti nel modo in cui probabilmente si doveva fare nel 2008-2009.
Ma i dirigenti repubblicani si opposero accanitamente alla riforma del sistema finanziario – e sostennero che l’autorità di risoluzione avrebbe reso il problema del “troppo-grande-per-fallire” anche peggiore, perché avrebbe istituzionalizzato i salvataggi. Questo è sempre sembrato non plausibile; nel caso di crisi, i salvataggi ci saranno, in un modo o nell’altro. E se la riforma finanziaria era un omaggio alle banche, perché Wall Street, che era solita guardare con un certo favore ai democratici, si spostò massicciamente sui repubblicani, una volta approvata la riforma?
Eppure, sarebbe stata gradita qualche prova. E l’Ufficio della Trasparenza ha oggi le prove buone. C’è stato in effetti un vantaggio di finanziamento nel confronti della grandi banche, durante e per un po’ di tempo dopo la crisi, ma adesso esso è diminuito o scomparso – forse persino leggermente invertito. Vale a dire, i mercati finanziari si stanno ora comportando come se ritenessero che i salvataggi futuri non saranno così favorevoli ai magnati come i salvataggi del 2008.
Questa notizia fa parte di una più ampia testimonianza, secondo la quale la Dodd-Frank ha ottenuto risultati considerevolmente buoni, in materia di protezione dei consumatori e di capitalizzazione delle banche. Naturalmente, avrebbe dovuto essere più energica; né io mi aspetto che essa apparirà mai altrettanto positiva rispetto a quanto, in modo crescente, si manifesta la riforma sanitaria di Obama. Ma a questo punto la pretesa che fosse controproducente sembra essere una negazione dell’evidenza. Siete sorpresi?
[1] Si potrebbe tradurre: Ufficio Governativo della Trasparenza.
agosto 1, 2014
Aug 1 10:38 am
The Columbia Journalism Review has more about Stephen Moore’s fact-challenged attempt to demonstrate the virtues of tax cuts, which I wrote about the other day. We learn a bit more about the story — the piece was published because Moore demanded the opportunity to reply to my column about Kansas — which makes it even funnier and more remarkable that he couldn’t be bothered to get the numbers right. Also, my favorite line from the piece:
The original version published in Investor’s Business Daily remains uncorrected as of this writing. (IBD, which identifies Moore as part of its “brain trust,” did not respond to a request for comment.)
There’s more: Moore evidently did not admit error gracefully, instead engaging in a “snippy” exchange in which he protested a column highlighting his errors. And when he did sort of correct what he wrote, he did so not by presenting data over the period he originally claimed to be covering, but by shifting from five-year comparisons to comparisons of job growth since 1990, which (surprise!) do show higher growth in low-tax states.
What strikes me here, again, is the laziness and sloppiness. State job numbers aren’t hard to look up, but apparently that was too much work. Beyond that, it’s obvious that Moore simply doesn’t expect anyone ever to check his facts.
For what it’s worth, I know that there are lots of people gunning for me, and I also work for a publication that takes corrections very seriously — they have to appear in print, in a subsequent column, as well as being appended to the original online. So I supply fact-checking material with every article; these days most of that material is at the links you can see in the online version.
Let me also say that the people who published the piece appear to have been extremely naive. Again, from CJR:
Of course, both Pepper and Brownlee were republishing a piece that had appeared elsewhere first—it was in IBD before the Star—and therefore should have been factchecked already.
“You assume Heritage has edited these pieces too,” Pepper says. “But, lesson learned. There will be no future Heritage pieces published that don’t get thorough factchecking.”
Heritage, factchecking? That is really, really funny.
I fatti hanno ancora …. ebbene, lo sapete [1]
La Columbia Journalism Review ritorna sul tentativo di Stephen Moore di dimostrare, sfidando l’evidenza, le virtù degli sgravi fiscali, sulla quale ho scritto l’altro giorno. Apprendiamo qualcosa in più sulla storia – l’articolo era stato pubblicato perché Moore aveva richiesto l’opportunità di una replica a quello apparso sulla mia rubrica a proposito del Kansas – il che rende anche più divertente e rimarchevole il fatto che non potesse preoccuparsi di ottenere i dati corretti. Inoltre, la frase che preferisco dell’articolo in questione:
“La versione originale pubblicata su ‘Investor’s Business Daily’ resta non corretta, come quella di questo scritto (IBD, che identifica Moore come componente del suo ‘gruppo di esperti’, non risponde ad una richiesta di commento).”
C’è di più: Moore evidentemente non ha ammesso di buon animo l’errore, impegnandosi piuttosto in un brusco scambio nel quale si è lamentato dell’articolo che metteva in evidenza i suoi errori. E quando ha fatto una specie di correzione di quello che aveva scritto, lo ha fatto non presentando i dati sul periodo al quale all’origine aveva sostenuto di riferirsi, ma spostandosi dai confronti sui quinquenni a quelli sulla crescita dei posti di lavoro a partire dal 1990, i quali (sorpresa!) mostrano davvero una crescita più alta negli Stati con le tasse minori.
Quello che in questo caso mi stupisce, ancora una volta, è la pigrizia e la sciatteria. I dati sui posti di lavoro negli Stati non sono difficili da consultare, ma sembra che ci volesse molto lavoro. Oltre a ciò, è evidente che Moore semplicemente non si aspetta che gli altri controllino i suoi dati.
Per quel che vale, io so che ci sono molte persone che mi danno la caccia, e inoltre lavoro per una pubblicazione che consideri le correzioni molto seriamente – nell’articolo successivo, esse devono apparire pubblicate, come se fossero aggiunte all’originale on-line. Dunque, offro con ogni articolo materiale verificabile quanto ai dati; oggi gran parte di quel materiale è nei collegamenti che si possono vedere nella versione on-line.
Lasciatemi anche dire che le persone che hanno pubblicato il pezzo sembrano essere estremamente ingenue. Ancora, dalla Columbia Journalism Review:
“Naturalmente, sia Pepper che Brownlee stavano ripubblicando un articolo che era già apparso altrove una prima volta – era stato sull’Investor’s Business Daily prima che sullo Star – e di conseguenza avrebbe dovuto essere già verificato nei dati.
‘Si consideri’ – dice Pepper – ‘ che anche Heritage aveva già pubblicato questi articoli. Comunque, lezione imparata. Non saranno più pubblicati in futuro articoli provenienti dall’Heritage che non subiscono uno scrupoloso controllo sui dati’”.
Controllo sui dati di Heritage? Questa è davvero, proprio buffa.
[1] La frase intera che Krugman frequentemente adopera è che “i fatti hanno una tendenza di sinistra”.
agosto 1, 2014
Aug 1 10:17 am
The inflation hawks went on another mini-rampage yesterday, after the latex number on the employment cost index came in above expectations. Inflation is here!!!!
Or, not. Core inflation remains low:
And if you look at multiple series on wages, as you should, it’s clear that wage growth remains far below pre-crisis levels, with at most a slight uptick:
There is simply no case in the data for tightening now.
One more thing: given that the measured unemployment rate is 6.2, inflation expectations appear to be stable, and wage growth still very low, there is nothing in the picture to support claims that there has been a large increase in structural unemployment.
I falchi se ne stiano alla larga
Ieri i falchi dell’inflazione sono tornati in piccolo ad infuriarsi, dopo l’arrivo degli ultimi dati sull’indice del costo del lavoro superiori alle aspettative. E’ arrivata l’inflazione !!!!!
O magari no. Perché l’inflazione sostanziale resta bassa:
E se si guarda, come si dovrebbe, alle varie serie relative ai salari, è chiaro che la crescita dei salari resta assai al di sotto dei livelli precedenti alla crisi, al massimo con una leggera crescita:
Semplicemente, non c’è niente nei dati per allarmarsi in questo momento.
Una cosa ancora: dato che il tasso della disoccupazione accertata è al 6,2, che le aspettative di inflazione appaiono stabili e che la crescita salariale è ancora molto bassa, non c’è niente in questo quadro che sostenga la pretesa che ci sia stata una ampia crescita della disoccupazione strutturale.
luglio 30, 2014
Jul 30 2:05 pm
Justin Wolfers calls our attention to the latest IGM survey of economic experts, which revisits the question of the efficacy of fiscal stimulus. IGM has been trying to pose regular questions to a more or less balanced panel of well-regarded economists, so as to establish where a consensus of opinion more or less exists. And when it comes to stimulus, the consensus is fairly overwhelming: by 36 to 1, those responding believe that the ARRA reduced unemployment, and by 25 to 2 they believe that it was beneficial.
This is, if you think about it, very depressing.
Wolfers is encouraged by the degree of consensus — economics as a discipline is not as quarrelsome as its reputation. But I think about policy and political discourse, and note that policy has been dominated by pro-austerity views while stimulus has become a dirty word in politics.
What this says is that in practical terms the professional consensus doesn’t matter. Alberto Alesina may be literally the odd man out, the only member of the panel who doesn’t believe that the fiscal multiplier is positive — but back when key decisions were being made, it was “Alesina’s hour” in Europe and among Republicans.
You might want to say that the professional consensus was rejected because it didn’t work. But actually it did. Mainstream macroeconomics made some predictions — deficits wouldn’t drive up interest rates in a depressed economy, “fiat money” wouldn’t be inflationary, austerity would lead to economic contraction — that drew widespread scorn; Stephen Moore at the WSJ (which was predicting soaring rates and inflation) dismissed “fancy theories” that “defy common sense.” The fancy theorists were, of course, right — but nobody who rejected the consensus has changed his mind. Oh, and Moore became the chief economist at Heritage.
So, two thoughts. One is a point I think I’ve made before. You fairly often hear people describe the very poor track record of policy since 2008 as an indictment of economists, who clearly didn’t have the right answers. But actually mainstream macro has a pretty decent track record since 2008 — the problem was that what it said about policy was disregarded by the policymakers, who went with what they wanted to believe.
The other is that you have to wonder what good we’re all doing. If policymakers ignore professional consensus, and if views about how the world works are completely insensitive to evidence and results, does knowledge matter. If a tree falls in the academic forest, but nobody in Brussels or Washington hears it, did it make a sound?
Competenza inutile
Justin Wolfers richiama la nostra attenzione sull’ultimo sondaggio di esperti economici da parte di Initiative on Global Markets [1], che torna sul tema della efficacia delle misure di sostegno tramite la spesa pubblica (della Amministrazione Obama). IGM cerca di porre regolarmente domande ad un gruppo più o meno equilibrato di economisti stimati, in modo da stabilire in quali casi esista un consenso di opinioni maggiore o minore. E quando si arriva allo ‘stimolo’, il consenso è abbastanza schiacciante: in un rapporto di 36 ad 1 gli intervistati credono che la Legge sulla Ripresa e i nuovi investimenti in America abbia ridotto la disoccupazione, e 25 di loro contro 2 credono che essa sia stata utile.
Se ci pensate, si tratta di una cosa molto deprimente.
Wolfers è incoraggiato dalla misura del consenso – la disciplina economica non è così litigiosa quanto la sua reputazione. Ma io penso alla politica ed al dibattito politico, ed osservo che la politica è stata dominata dai punti di vista favorevoli all’austerità, mentre in politica lo ‘stimolo’ è diventato una parola impronunciabile.
Questo ci dice che in termini pratici, il consenso professionale non conta. Alberto Alesina può essere letteralmente l’eccentrico che se ne sta ai margini, è l’unico membro del gruppo che non crede che il moltiplicatore [2] della spesa pubblica sia positivo – ma quando furono prese le decisioni fondamentali nel passato, quello fu “il momento di Alesina”, in Europa e tra i repubblicani (americani).
Potreste essere tentati di dire che il consenso professionale venne respinto perché non funzionava, alla prova dei fatti. Ma per la verità funzionava. La macroeconomia prevalente aveva stabilito alcune previsioni – in una economia depressa i deficit non avrebbero spinto in alto i tassi di interesse, stampare moneta non sarebbe stato inflazionistico, l’austerità avrebbe condotto alla contrazione dell’economia – che furono accolte con un generale disprezzo; Stephen Moore sul Wall Street Journal (che stava prevedendo tassi ed inflazione alle stelle) le liquidò come “teorie fantasiose” che “sfidano il senso comune”. Naturalmente, le teorie fantasiose erano giuste – ma nessuno che respinse quel consenso ha cambiato il suo modo di pensare. Per non dire che Moore divenne capo economista della Fondazione Heritage.
Cosicché, due pensieri. Uno è un argomento che ho avanzato in precedenza. Abbastanza spesso si sentono individui descrivere le prestazioni della politica a partire dal 2008 come una accusa verso gli economisti, che evidentemente non avevano le risposte giuste. Ma in verità, la macroeconomia prevalente ha avuto una prestazione piuttosto apprezzabile a partire dal 2008 – il problema è stato che quello che essa affermò in materia di politica economica non è stato preso in considerazione dagli operatori politici, che sono andati dietro a quello che volevano credere.
Il secondo pensiero è che ci si deve chiedere quanto bene essi, tutti assieme, stiano facendo. Se gli operatori politici ignorano il consenso professionale, e se i punti di vista su come il mondo funziona sono completamente insensibili alla prove ed ai risultati, quanto conta la conoscenza? Se nella foresta accademica casca un albero, ma nessuno lo sente a Bruxelles o a Washington, ha davvero fatto rumore?
[1] E’ lo stesso tema dell’articolo sul New York Times del 31 luglio.
[2] Per il concetto di “multiplier” vedi le note sulla traduzione.
luglio 30, 2014
Jul 30 11:56 am
The Kaiser Family Foundation has a new survey (pdf) on Obamacare in California, and it’s full of remarkably good news. For those who haven’t been following this, CA — with its now-dominant Democratic Party — is where Obamacare was implemented the way it was supposed to be implemented: the website worked pretty well from the beginning, Medicaid expansion was implemented, and the state worked hard on outreach. It was also a place that really needed reform: the uninsured were a high percentage of the population, and an individual market without community rating meant that the mere hint of a preexisting condition was enough to prevent coverage.
So it now appears that most of California’s uninsured — 58 percent of the total, or well over 60 percent of those eligible (because undocumented immigrants aren’t covered) have gained insurance in the first year. Considering the complexity of the scheme, that’s really impressive, and it strongly suggests that next year, once those who missed out have had a chance to learn via word of mouth, California will have gotten much of the way toward universal coverage for legal residents.
But there’s something else the Kaiser report drives home: most of those gaining coverage are doing so not via the exchanges (although those are important too) but via Medicaid. And that’s important as an answer to critics of Obamacare from the left.
There have always been critics complaining that what we really should have is single-payer, and angry that subsidies were being funneled through the insurance companies. And in principle they’re right; the trouble was that cutting the insurers out of the loop would have made the plan politically impossible, both because of the industry’s power and because of the unwillingness of people with good coverage to take a leap into a completely new system. So we got this awkward public-private hybrid, which I supported because it was what we could get and despite its impurity it dramatically improves many people’s lives.
But it turns out that many of the newly insured are in fact being covered under a single-payer system — Medicaid. And as I’ve pointed out before,
Medicaid is actually the piece of the US system that looks most like European health systems, which cost far less than ours while delivering comparable results.
All in all, liberals really should be celebrating. California shows how Obamacare can and should work, and it’s looking pretty good.
Un unico centro di pagamento nascosto
La Fondazione Famiglia Kaiser ha un nuovo sondaggio (disponibile in pdf) sulla riforma sanitaria di Obama in California, ed è pieno di rilevanti buone notizie. Per coloro che non stanno seguendo questa tematica, la California – con il suo oggi dominante Partito Democratico – è il posto dove la riforma sanitaria di Obama è stata messa in atto come si supponeva che dovesse: il sito web (relativo alle iscrizioni) ha funzionato abbastanza bene sin dagli inizi, l’espansione di Medicaid è stata attuata, e lo Stato ha lavorato con impegno nel coinvolgimento sociale. Era anche il posto che davvero aveva bisogno della riforma: i non assicurati erano una percentuale elevata della popolazione, ed un mercato individuale privo di una valutazione del rischio a livello di comunità significava che un mero accenno di preesistenti patologie era sufficiente ad impedire la copertura assicurativa [1].
Dunque, ora si constata che la maggioranza dei non assicurati della California – il 58 per cento del totale, ovvero ben più del 60 per cento degli aventi diritto (perché gli immigranti senza cittadinanza non sono coperti) si sono procurati sin dal primo anno l’assicurazione. Considerando la complessità del meccanismo, che è davvero impressionante, ciò indica con forza che il prossimo anno, una volta che coloro che sono rimasti esclusi avranno avuto la possibilità di comprendere le cose, leggendole o sentendole raccontare, la California avrà fatto gran parte della strada verso la copertura universale dei residenti legali.
Ma c’è qualcos’altro che il rapporto Kaiser fa ben capire: gran parte di coloro che ottengono l’assicurazione lo fanno non attraverso le ‘borse sanitarie’ [2] (sebbene anch’esse siano importanti), ma attraverso Medicaid. E ciò costituisce una risposta importante ai critici di sinistra della riforma della assistenza di Obama.
[3]
Ci sono sempre stati critici che si lamentavano che avremmo dovuto avere un unico centro di pagamenti, e che erano arrabbiati perché i sussidi venivano incanalati attraverso le società assicurative. E in via di principio, avevano ragione; il guaio era che mettere gli assicuratori fuori dal giro avrebbe reso il programma politicamente impossibile, sia per il potere del settore assicurativo, sia per l’indisponibilità delle persone che disponevano di una buona assistenza a fare un salto in un sistema completamente nuovo. Abbiamo dunque avuto questo sgraziato ibrido pubblico-privato, che io ho sostenuto perché era quello che potevamo ottenere e, nonostante la sua impurità, migliora in modo spettacolare la vita di molte persone.
Ma si scopre che molti dei nuovi assicurati vengono di fatto assistiti sotto un sistema con un unico centro di pagamenti – Medicaid. E, come avevo messo in evidenza in precedenza [4]:
“Medicaid è in realtà il pezzo del sistema statunitense che assomiglia maggiormente ai sistemi sanitari europei, che costano molto meno del nostro e ottengono risultati paragonabili.”
In conclusione i progressisti dovrebbero per davvero festeggiare. La California mostra che la riforma della assistenza sanitaria di Obama può e dovrebbe funzionare, e questa sembra un’ottima cosa.
[1] Per “community rating” si intende una valutazione del rischio assicurativo – in questo caso della possibilità media di ammalarsi e di aver bisogno di cure sanitarie – che viene condotta al livello di una intera area geografica o comunità. Con una valutazione di quel genere, che oggi in pratica è imposta dalla legge di riforma, i costi assicurativi calcolati nella definizione delle polizze si distribuiscono per tutta la popolazione, e vige dunque il principio di una sorta di solidarietà tra i più cagionevoli di salute ed anziani, ed i meno cagionevoli e giovani. Ma prima della riforma, l’equilibrio dei costi (a prescindere dai sovraprofitti …) veniva semplicemente messo a carico dei più deboli ed ammalati, e il costo della assicurazione veniva definito sulla base delle patologie preesistenti degli assicurati. Di conseguenza, molti non si assicuravano.
[2] Ovvero, i luoghi – prevalentemente informatici – introdotti dalla riforma, nei quali è possibile comparare le proposte dei vari pacchetti assicurativi, comprendere i meccanismi della riforma, le possibilità di ottenere sussidi etc.
[3] La tabella mostra, che coloro che restano non assicurati (il 42%) si dividono in un 29% di non assicurati che hanno tuttavia diritto ad iscriversi, ed in un 13% che non sono assicurati perché non hanno residenza regolare negli USA. Invece, ben il 25% dei nuovi assicurati sono stati inclusi nel programma Medicaid (a seguito della sua espansione, ovvero dell’ampliamento dei requisiti minimi di reddito di quel programma statale, che riguarda la popolazione povera o con bassi redditi); il 9% – se ben capisco – sono stati coperti da una integrazione di una programma statale californiano; il 12% sono stati coperti da assicurazioni favorite dai datori di lavoro. Gli altri gruppi minori sono meno definibili.
[4] Vedi il post di Krugman del 10 gennaio 2014, tradotto in questo blog.
luglio 28, 2014
Jul 28 8:43 pm
Brad DeLong does yeoman work in tracking down a veritable host of right-wing proclamations over the past five years that high inflation is just around the corner, or maybe has already landed but the feds are hiding it in Area 51. But I think he falls short in analyzing the phenomenon, trying to attribute it to bad models or just finding it incomprehensible.
Clearly, there’s something deeper at work here. After all, clinging to beliefs that have been wrong, wrong, wrong for so long — beliefs that would have cost you money if you acted on them — and remember, Eric Cantor, the lost white knight of the reformicons, did in fact do just that — shows that there is some underlying reason those beliefs are a necessary part of the right-wing identity.
What has to be going on is that the general hatred of government activism, the constant complaint that bureaucrats are taking away your hard-earned wealth and giving it to moochers and looters, carries with it an overwhelming need to see fiat money as theft. Even alleged moderate Republicans do it. It’s a form of obsessive-compulsive political disorder, and not susceptible to rational argument.
And this in turn means that the market monetarists have a hopeless task. James Pethokoukis writes about the weird obsession of his political teammates with inflation; he needs to ask why that obsession persists, in fact has gotten stronger, after five years of utter empirical failure.
As I’ve said before, there are two topics on which, in my experience, conservatives become completely unhinged, red-in-the-face angry and screaming. One is health care, where the possibility of a successful government-backed program is unacceptable despite the fact that everyone, even America for its seniors, does it, and the other is monetary policy. It’s time to stop pretending that these are rational discussions, and start looking for the roots of the compulsion.
Inflazione da “disordine ossessivo-compulsivo” [1]
Brad DeLong ha compiuto un lavoro improbo [2] nel rintracciare un mucchio davvero rilevante di proclami della destra nei cinque anni passati, secondo i quali l’inflazione era proprio dietro l’angolo, o forse era già atterrata, ma i “federali” la stavano nascondendo in qualche “Area 51”. Ma penso che egli difetti nell’analizzare il fenomeno, cercando di attribuirlo a pessimi modelli, o trovandolo semplicemente incomprensibile.
Chiaramente, in questo caso c’è qualcosa di più profondo all’opera. Dopo tutto, aggrapparsi a convinzioni che sono state per tanto tempo così sbagliate ed ancora sbagliate – convinzioni che vi sarebbero costate soldi se aveste agito di conseguenza ad esse – dimostra che c’è una ragione implicita in queste convinzioni, che è una parte necessaria dell’identità della destra.
Quello che deve star accadendo è che il disprezzo generale per l’attività pubblica, la lamentela costante che i burocrati vi stanno togliendo la vostra faticata ricchezza per darla ai profittatori ed ai parassiti, si accompagna ad un bisogno generale di considerare l’emissione di denaro come un furto. Persino i repubblicani che si suppongono moderati ragionano così. E’ una forma di disordine ossessivo-compulsivo di natura politica, e non è suscettibile di argomentazione razionale.
E questo a sua volta significa che i monetaristi di mercato hanno un compito senza speranza. James Pethokoukis scrive a proposito della strana ossessione dei suoi colleghi per l’inflazione; deve chiedersi perché l’ossessione persista, di fatto è diventata più forte, dopo cinque anni di completi fallimenti nella pratica.
Come ho detto in passato, ci sono due temi sui quali, per la mia esperienza, i conservatori escono completamente di senno, diventano rossi dalla rabbia e strillano. Il primo è la riforma sanitaria, dove la possibilità di un programma di successo sostenuto dal governo è inaccettabile, nonostante il fatto che ognuno lo faccia, persino in America nel caso degli anziani, e l’altro è la politica monetaria. E’ tempo si smetterla di fingere che queste siano discussioni razionali, e cominciare a considerare le origini della compulsione.
[1] OCD è l’acronimo di “obsessive-compulsive disorder”.
[2] Traduco così, in questo caso, il termine “yeoman”, che originariamente si riferiva ai proprietari terrieri britannici, alcuni dei quali poi trasferitisi nel corpo delle “Guardie Reali” (che erano, dunque, un corpo volontario). Suppongo esprima un attività meritevole, laboriosa, servizievole.
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