Jul 14 10:44 am
Brad DeLong finds Chris House taking me to task for failing to “own up” to the puzzling failure of deflation to emerge despite years of depression, and is baffled — because I have in fact repeatedly acknowledged the puzzle, and talked about it a lot.
Partly this is House once again desperately seeking false equivalence; he starts from the proposition that everyone must be equally at fault, and that I must therefore be as unwilling to acknowledge wrong predictions as the equilibrium macro types — no need to check what I actually wrote. (I’m still waiting for examples of things I’ve said that are as crazy as Prescott’s insistence that there is no evidence that monetary policy matters.)
But let’s leave that stuff aside; there’s a point I think needs making about how a Keynesian (or if you like, a Hicksian — let’s not get into the question of What Keynes Really Meant) thinks he knows.
As I see it, we have a general proposition — most recessions are the result of inadequate demand. And we have a pretty good model of aggregate demand, and of how monetary and fiscal policy affect that demand. That model is IS-LM, with endogenous money as appropriate. You can, for some purposes, usefully think of the IS curve as derived from intertemporal optimization, but that’s a metaphor rather than a principle.
We do not have an equally good model of aggregate supply. What we have, instead, is an observation: prices and wages clearly are sticky in the short run, and maybe for longer than that. There’s overwhelming evidence for that proposition, but in trying to justify it we engage in various kinds of hand-waving about menu costs and bounded rationality.
The thing is, for many purposes this slightly vague notion of aggregate supply is enough; we can, for example, be fairly sure that expansionary policies in a depressed economy won’t be inflationary, and we can use the pretty good demand side model to tell us that monetary expansion won’t work but fiscal policy will when we’re at the zero lower bound.
Still, we try. New Keynesians do stuff like one-period-ahead price setting or Calvo pricing, in which prices are revised randomly. Practicing Keynesians have tended to rely on “accelerationist” Phillips curves in which unemployment determined the rate of change rather than the level of inflation.
So what has happened since 2008 is that both of these approaches have been found wanting: inflation has dropped, but stayed positive despite high unemployment. What the data actually look like is an old-fashioned non-expectations Phillips curve. And there are a couple of popular stories about why: downward wage rigidity even in the long run, anchored expectations.
The point, however, is that the price-setting side of the models has never been an integral part of Keynesian doctrine, and the surprising resilience of inflation hasn’t undermined the core insights.
And it remains true that Keynesians have been hugely right on the effects of monetary and fiscal policy, while equilibrium macro types have been wrong about everything.
Domanda aggregata, offerta aggregata e quello che conosciamo (per esperti)
Brad DeLong scopre che Chris House mi rimprovera per aver rifiutato di “ammettere” la sconcertante non emersione della deflazione nonostante anni di depressione, ed è confuso – perché di fatto io ho ripetutamente riconosciuto quel mistero, ed ho detto molto a quel proposito.
In parte questo dipende ancora una volta dal disperato tentativo di House di affermare la ‘falsa equivalenza’; egli parte dall’idea che tutti debbono essere egualmente responsabili, e di conseguenza che io debba essere indisponibile a riconoscere le previsioni sbagliate come i soggetti della macroeconomia dell’equilibrio [1] – non c’è bisogno di controllare quello che ho effettivamente scritto (sto ancora aspettando esempi di cose che avrei detto che reggano il confronto con la pazzesca insistenza di Prescott seconda la quale non c’è alcuna prova della rilevanza della politica monetaria).
Ma, lasciando da parte quelle cose; c’è un punto che penso sia necessario porre su come un keynesiano ragiona di quello che conosce (o, se preferite, un hicksiano [2], per non finire nella discussione su “cosa Keynes effettivamente voleva dire”).
Per come la vedo io, c’è un concetto generale – gran parte delle recessioni sono il risultato di una domanda inadeguata. Ed abbiamo un modello piuttosto buono della domanda aggregata, e di come la politica monetaria e della finanza pubblica influenzino quella domanda. Quel modello è lo IS-LM, con la valuta che si considera proveniente dall’interno. Si può, per scopi particolari, pensare utilmente alla curva IS come derivante da una ottimizzazione intertemporale, ma si tratta di una metafora più che di un principio.
Non abbiamo un modello altrettanto buono di offerta aggregata. Quello che abbiamo, piuttosto, è una osservazione: chiaramente i prezzi ed i salari sono vischiosi nel breve periodo, e forse per un periodo anche più lungo. Ci sono prove schiaccianti di questa affermazione, ma nel cercare di giustificarla ci impegnamo in vari generi di approssimazione sul costo delle operazioni sui prezzi dei listini e sui deficit di razionalità.
Il punto è che per molti scopi questa nozione piuttosto vaga di offerta aggregata è sufficiente; possiamo, ad esempio, essere abbastanza certi che politiche espansive in una economia depressa non saranno inflazionistiche, e possiamo utilizzare il modello discretamente buono dal lato della domanda per apprendere che, quando siamo al limite inferiore dello zero dei tassi di interesse, l’espansione monetaria non funzionerà, mentre funzionerà la politica della spesa pubblica.
Eppure, ci proviamo. I neo keynesiani fanno cose come la fissazione di un prezzo di un periodo futuro o il metodo di definizione dei prezzi di Calvo, nel quale i prezzi sono corretti con casualità. I keynesiani impegnati nella analisi degli andamenti reali hanno teso a basarsi sulle curve “accelerazioniste” di Phillips, nelle quali la disoccupazione ha determinato il tasso di cambio piuttosto che il livello di inflazione.
Dunque, quello che è accaduto dal 2008 è che si è scoperto che entrambi questi approcci sono carenti: l’inflazione è caduta, ma è rimasta positiva nonostante l’elevata disoccupazione. Quello a cui i dati effettivamente assomigliano è una curva tradizionale di Phillips, che non considera le aspettative. E ci sono un paio di spiegazioni in circolazione sulle ragioni di ciò: la rigidità dei salari verso il basso, le aspettative bloccate.
Il punto, tuttavia, è che l’aspetto della definizione dei prezzi nei modelli non è mai stato una parte integrante della dottrina keynesiana, e che la sorprendente elasticità dell’inflazione non ha messo in crisi le intuizioni fondamentali.
E resta vero che i Keynesiani hanno avuto ampiamente ragione sugli effetti della politica monetaria e della finanza pubblica, mentre gli economisti dell’equilibrio macroeconomico hanno avuto torto pressoché su tutto.
[1] Ovvero, la macroeconomia secondo la quale la condizione di una economia è regolata dall’incontro obbligatorio tra la domanda e l’offerta aggregata. Cambiamenti fuori dalla norma su ognuno dei due versanti, troveranno una compensazione per effetto delle loro conseguenze sui prezzi, sull’occupazione e sull’inflazione.
[2] Ovvero un economista che si ispira a Hicks, e in particolare al suo modello IS-LM (vedi sulle note per la traduzione).
luglio 10, 2014
Jul 10 6:37 pm
A sample:
Well, I suppose some of the people who predicted doom will reconsider their views, and engage in some soul-searching about why they were so wrong — maybe even realize that they were letting their politics distort their analysis.
You can stop laughing now.
Osservare la riforma di Obama implodere
Ci si può connettere con questi tre siti [1].
Un esempio:
Ebbene, suppongo che qualcuno che aveva previsto disgrazie riconsidererà il suo punto di vista, e si impegnerà in una analisi di coscienza perché capire la ragione di uno sbaglio così grave – forse persino comprendendo di aver consentito agli orientamenti politici di distorcere la propria analisi.
Adesso smettetela di ridere.
[1] Si tratta di tre articoli sullo stato della riforma sanitaria in America, rispettivamente sul blog di Urban Institute, su quello di Gallup e su The Commonwealth Fund. Dal secondo è tratto il diagramma del post, ma può essere interessante mostrare anche il seguente diagramma, tratto da Urban Institute, che mostra i diversi andamenti dei ‘non-assicurati’ negli Stati che hanno aderito alla espansione di Medicaid ed in quelli, governati dai repubblicani, che l’hanno sabotata. Come si vede, la differenza dei non assicurati tra i primi ed i secondi è oggi abbastanza impressionante:
luglio 10, 2014
Jul 10 6:31 pm
Urg. Glug. Mmph. My head feels like it’s stuffed with oatmeal.
No, I haven’t been drinking (although I plan to start in a few minutes.) I have, instead, been spending a lot of time in the monetary fever swamps.
I was aware that there were a fair number of people on the right attacking the Fed, not for running the risk of inflation or financial instability or something, but for expropriating the property of right-thinking, clean-living people who deserve higher interest earnings. But there’s more of it, and it’s more explicit, than I realized. Here’s an example, but there are many more.
The starting point seems to be the notion that the Fed is keeping interest rates below their “free market” level. I don’t think the people saying this even realize that this is a problematic concept, let alone that open-market operations aren’t the same thing as price controls. Hey, even John Taylor has managed to fall into this absurd trap, which shows just how quickly tribal loyalty can eat your brain.
And then there is the assertion that there are lots of salt-of-the-earth regular Americans who are having their rightful incomes stolen by this anti-free-market policy. Actually, interest income for retirees is both fairly small in aggregate and highly concentrated among a small number of people. The AARP tells us that the average senior had more than $3,000 in interest income in 2012, but that the median was only $255. That’s saying that interest income is minor for the great majority.
But this stuff is out there, and has more influence than most economists suspect.
Le paludi della febbre monetaria
Accidenti. Devo inghiottire. Ma non respiro. Ho la testa come imbottita di fiocchi d’avena [1].
No, non mi sono fatto una bevuta (sebbene conto di cominciare tra pochi minuti). Piuttosto, ho speso un bel po’ di tempo nelle paludi della febbre monetaria.
Ero consapevole che ci fosse un discreto numero di persone sulla destra che attaccano la Fed non perché si corra il rischio dell’inflazione o della instabilità finanziaria o di qualcosa del genere, ma per l’espropriazione delle persone che ragionano correttamente, che vivono onestamente e che meritano di guadagnare interessi più elevati. Ma c’è molto di più di questo, ed è molto più esplicito di quello che avevo compreso. In questa connessione [2] c’è un esempio, ma ce ne sono molti altri.
Il punto di partenza sembra essere l’idea secondo la quale la Fed sta tenendo i tassi di interesse al di sotto del livello di “libero mercato”. Io non penso che le persone che lo sostengono si rendano neppure conto di quanto si tratti di un concetto arduo, a parte il fatto che le operazioni ‘a mercato aperto’ non sono la stessa cosa dei controlli dei prezzi. Si badi, persino John Taylor è riuscito a cadere in questa trappola assurda, il che dimostra proprio con quanto rapidità l’attaccamento ai preconcetti tribali possa mangiarsi il cervello delle persone.
E poi c’è il giudizio secondo il quale ci sarebbero moltissimi americani, il sale-della-Terra, che starebbero subendo il furto dei loro meritati guadagni da parte di questa politica ostile al libero mercato. In effetti, il reddito derivante da interessi dei pensionati è discretamente piccolo nel complesso e fortemente concentrato su un numero modesto di persone. Ma la AARP [3] ci riferisce che gli anziani in media hanno avuto più di 3.000 dollari nel 2012, mentre dato intermedio [4] era soltanto di 255 dollari. Il che è come dire che il reddito da interessi è minore per la grande maggioranza.
Ma questa roba riguarda altri, ed ha maggiore influenza di quello che gran parte degli economisti ritiene.
[1] Noi non disponiamo di tanti termini onomatopeici, forse per non aver avuto Paperino – che pure ci ha insegnato i vari ‘gasp’ e ‘gulp’ e ‘mumble’ – in lingua nostra. Quanto agli effetti dei fiocchi d’avena che, invece che scendere nello stomaco, si fermano nella testa, lascio giudicare ai consumatori abituali.
[2] La connessione è con un articolo di Robert Higgs sul blog di destra “The Beacon, The Indipendent Institute”.
[3] Una Associazione di pensionati americani.
[4] Ovvero, intermedio tra varie classi di reddito. Mentre il dato relativo alla media di tutti i pensionati è molto più elevato, perché la quantità di guadagni di una piccola fetta di pensionati lo alza molto.
luglio 9, 2014
No, it’s not about boredom. Instead, a further thought on the question of who might be upset about low-interest-rate policies. Low policy rates plus quantitative easing have indeed meant much lower interest earnings across the board, and this is a serious hit to the incomes of those who own interest-bearing assets. So who are we talking about?
Yes, there are some middle-class retirees collecting interest on their CDs. But the big losers are people with very high incomes. Again from the Piketty-Saez data, we can track the decline in interest incomes from 2007 to 2011 (measured in 2012 dollars) and compare it with income in 2007 at different percentiles. Here’s what it looks like:
It’s not a big deal for people in the bottom half of the top 10 percent, who might well consider themselves middle class. But among the top 0.01 percent, low interest rates have actually been a bigger income hit than Obama’s tax hikes (partial reversal of Bush cuts plus the ACA surcharge).
You’re living in a fantasy world if you don’t think this has something to do with the diatribes against currency debasement and all that.
Sulla perdita dell’interesse
No, non mi riferisco alla noia. Piuttosto, un ulteriore pensiero sul tema di chi potrebbe essere turbato dalle politiche dei bassi tassi di interesse. Tassi di riferimento bassi in aggiunta alla ‘facilitazione quantitativa’ hanno in effetti comportato in modo generalizzato guadagni molto minori dagli interessi, e questo è un colpo serio ai redditi di coloro i cui asset generano interessi. Dunque, di chi stiamo parlando?
E’ vero, ci sono alcuni pensionati della classe media che raccolgono interessi dai loro ‘certificati di deposito’. Ma coloro che ci rimettono molto sono le persone con redditi molto elevati. Ancora dalle statistiche di Piketty – Saez, noi possiamo seguire il declino dei redditi da interessi dal 2007 al 2011 (misurato in dollari del 2012) e confrontarlo con i redditi nel 2007 per i diversi percentili [1]. Ecco quello che ne deriva:
Non è un grande affare nelle persone della metà superiore del gruppo del 10 per cento dei più ricchi, che possono ben essere considerati classe media. Ma tra i ricchissimi dello 0,01 per cento, i bassi tassi di interesse sono effettivamente stati un colpo maggiore degli aumenti fiscali di Obama (ovvero, della parziale inversione degli sgravi di Bush in aggiunta alla nuova tassazione derivante dalla legge di riforma sanitaria).
Se pensate che tutto questo non abbia niente a che fare con le diatribe sulla svalutazione del dollaro e compagnia cantando, vivete in un mondo di fantasie.
[1] Come si vede i percentili del diagramma riguardano tutti i redditi più elevati, dal 90° percentile al 100° percentile. Essi sono suddivisi in questo modo: dal 90° al 95°; dal 95° al 99°; dal 99° al 99,5°; dal 99,5° al 99,9°; dal 99,9° al 99,99°; dal 99,99° al 100°. L’ultima categoria a destra, dunque, riguarda lo 0,01 per cento dei redditi e subisce una perdita pari al 9 per cento del reddito complessivo.
luglio 9, 2014
Jul 9 11:57 am
Brad Delong does a chart of the “reform conservative” wonks cited by Sam Tanenhaus in his “party of ideas” piece; basically, it’s all Yuval Levin and Ramesh Ponnuru. So what do we know about these would-be reformers?
Well, I went searching for what they said about Paul Ryan, which is kind of my touchstone, and both did indeed strongly defend his smoke-and-mirrors budgets. But what I found especially interesting was the back-and-forth between Levin and Jonathan Chait on a topic I know a lot about, austerity. Chait pointed out that Republicans in general, and Ryan in particular, went all in both on expansionary austerity and on doom at 90 percent, and therefore took a serious credibility hit when both Alesina/Ardagna and Reinhart/Rogoff pretty much collapsed.
Levin’s response was interesting, in the worst way. He could have defended the position he and Ryan took, or he could have acknowledged having gone somewhat off track. But what he actually did was to deny that he and his associates had in fact done what they did, complaining that Chait
assumes that what Paul Ryan or I or others on the right argue for is a version of European austerity, which it plainly isn’t, and that conservative fiscal worries were based on the particular finding of a particular paper by two Harvard economists that has been shown to have had some data errors.
OK, that’s just being dishonest. Go to the big JEC report “Spend less, owe less, grow the economy” (pdf) and you’ll see that it heavily features both Alesina/Ardagna and Reinhart/Rogoff.
So we have a problem. It’s one thing to get a major issue wrong, and rely on the wrong research. It’s something else, and much worse, to pretend after the fact that you did no such thing. If this is what new thinking on the right looks like, let’s just say that it’s not a good sign.
I conservatori riformisti con l’imbroglio
Brad DeLong stende un grafico degli esperti “conservatori riformisti” citati da Sam Tanenhaus nel suo “partito delle idee”; fondamentalmente si tratta di Yuval Levin e di Ramesh Ponnuru. Dunque, cosa sappiamo di questi aspiranti riformatori?
Ebbene, sono andato a cercare cosa dissero a proposito di Paul Ryan, che per me è una specie di pietra miliare, e in effetti ambedue difesero con forza le sue proposte di bilancio fatte di giochi di prestigio. Ma quello che ho trovato specialmente interessante è stato lo scambio di opinioni tra Levin e Jonathan Chait su un tema sul quale ho una certa competenza, l’austerità. Chait metteva in evidenza che in generale i repubblicani, e Ryan in particolare, erano stati tutti a favore della austerità espansiva e della supposta sventura del debito al 90 per cento, e di conseguenza la loro credibilità aveva preso un serio colpo quando sia Alesina/Ardagna che Reinhart/Rogoff ebbero una sostanziale smentita.
La risposta di Levin fu interessante, nel senso peggiore possibile. Egli avrebbe potuto difendere la posizione presa da lui e da Ryan, o avrebbe potuto riconoscere di aver fatto qualcosa fuori dalla norma. Ma quello che effettivamente fece fu negare che lui ed i suoi associati avessero mai fatto quello che fecero, lamentandosi per il fatto che Chait:
“sostiene che quello che a destra Paul Ryan, o io od altri sosteniamo sia una versione dell’austerità europea, il che semplicemente non è vero, e che le preoccupazioni dei conservatori sulla finanza pubblica siano basate su una particolare scoperta di un particolare studio da parte di due economisti di Harvard, che è stato dimostrato contenesse alcuni errori statistici”.
Ebbene, questo è proprio essere disonesti. Si vada al grande rapporto della Commissione Congiunta per l’economia (“Spendere di meno, aver meno debiti, far crescere l’economia”) – disponibile in pdf – e si vedrà che esso pesantemente si caratterizza per le tesi di Alesina/Ardagna e di Reinhart/Rogoff.
Dunque, abbiamo un problema. Una cosa è fare uno sbaglio su un tema importante, e basarsi su una ricerca sbagliata. Un’altra cosa, molto peggiore, è pretendere, dopo ciò, di non aver fatto niente del genere. Se è questo quello a cui il nuovo pensiero della destra assomiglia, diciamo che non è un buon segno.
luglio 8, 2014
Jul 8 12:37 pm
I’ve been writing a lot lately about the continuing influence of inflation hysterics despite their awesome wrongness over the past five-plus years. One question that naturally arises is whose interests are served by this unjustified influence.
You don’t want to be too crude about it. I don’t think there are a lot of clear-headed hard-money types who secretly admit to themselves that their models have failed and that the policies they advocate could mire the economy in a permanent slump, but nonetheless say what will support their class interests. Instead, interests feed ideology, and the ideologues may then be sorta-kinda sincere in their beliefs.
Still, it is worth asking who benefits from low inflation or deflation, and from higher interest rates. And the answer, basically, is rich old men.
On the rich part: Using SIPP data, we can look at the comparison between financial assets and debt by household net worth:
Only the top end have more financial assets (as opposed to real assets like housing) than they have nominal debt; so they’re much more likely to be hurt by mild inflation and be helped by deflation than the rest.
Now, it’s true that some of these financial assets are stocks, which are claims on real assets. If we only look at interest-bearing assets, even the top group has more liabilities than assets:
But the SIPP top isn’t very high; in 2007 you needed a net worth of more than $8 million just to be in the top 1 percent. And since the ratio of interest-bearing assets to debt is clearly rising with wealth, we can be sure that the truly wealthy are indeed in the category where they have more to lose than to gain by a rise in the price level.
I won’t give a chart by age, but it’s also clearly true that the elderly rich are especially likely to own lots of bonds and not have much debt.
But what about the people I keep hearing about — struggling middle-class retirees living on the interest on their CDs? Well, they exist, but there aren’t many of them and they’re less middle-class than you think.
Basically, inflation redistributes wealth down the scale of both wealth and age, while deflation does the reverse.
And therein lies the deep explanation for inflation hysteria. The Fed’s efforts to boost the economy haven’t had the disastrous effects the usual suspects predicted, but it’s nonetheless true that this is no policy for rich old men (ROMs?). And playing to the paranoia of the ROMs is basically what the WSJ editorial page, Fox News, etc. is all about.
Le classi e la politica monetaria
Di recente scrivo molto sulla perdurante influenza degli isterici dell’inflazione, nonostante i loro tremendi errori nei cinque anni e più passati. Un quesito che naturalmente si solleva è quello degli interessi ai quali questa ingiustificata influenza fa comodo.
A questo proposito, non si deve essere troppo rozzi. Io non credo che ci siano molti soggetti lucidamente a favore della moneta forte, che in segreto tra sé e sé riconoscono che i loro modelli non hanno funzionato e che le politiche da essi sostenute potrebbero impantanare l’economia in una recessione permanente, purtuttavia scegliendo di continuare a sostenere i loro interessi di classe. Piuttosto, gli interessi alimentano l’ideologia, e di conseguenza gli ideologi a modo loro possono essere sinceri nelle loro convinzioni.
Eppure vale la pena di chiedersi chi tragga beneficio dalla bassa inflazione o dalla deflazione, e da tassi di interesse più elevati. E, fondamentalmente, la risposta è le persone ricche ed anziane.
Per l’aspetto dei ricchi: utilizzando i dati SIPP [1] possiamo osservare il confronto tra gli asset finanziari ed il valore netto del debito delle famiglie [2]:
Solo la componente più elevata ha asset finanziari (che sono altra cosa dagli asset reali come le abitazioni) superiori al debito nominale; dunque è molto più probabile che essi siano danneggiati da una leggera inflazione e che siano aiutati dalla deflazione, rispetto agli altri.
Ora, è vero che alcuni di questi asset finanziari sono azioni, che costituiscono diritti su asset reali. Se noi guardiamo solo agli asset che sono gravati da interessi, anche il gruppo dei più ricchi ha passività superiori agli asset:
Ma la quota più elevata di quel sondaggio non è molto alta; nel 2007 si doveva possedere un valore netto superiore agli 8 milioni di dollari all’anno, soltanto per far parte dell’1 per cento dei più ricchi. E dal momento che la percentuale degli asset gravati da interessi rispetto al debito è chiaramente in crescita con la ricchezza, possiamo esser certi che i ricchi veri e propri sono di fatto dentro la categoria nella quale si ha più da perdere che da guadagnare da una crescita del livello dei prezzi.
Non fornirò un diagramma in relazione all’età, ma è abbastanza chiaro che per i ricchi più anziani è particolarmente probabile possedere grandi quantità di bond e non avere un debito molto grande.
Ma cosa dire delle persone delle quali continuo a sentir parlare – i pensionati della classe media che vivono a fatica sugli interessi sui loro ‘certificati di deposito’? Ebbene, ce ne sono, ma non ce ne sono molti tra di loro, e sono meno classe-media di quello che pensate.
Fondamentalmente, l’inflazione redistribuisce la ricchezza verso il basso della scala, sia della ricchezza che dell’età, mentre la deflazione fa l’inverso.
E in questo sta la spiegazione profonda dell’isteria dell’inflazione. Gli sforzi della Fed di incoraggiare l’economia non hanno avuto gli effetti disastrosi che i soliti noti prevedevano, nondimeno è vero che questa non è la politica per i ricchi uomini anziani (li chiamiamo ROM?). E giocare sulla paranoia dei ROM è fondamentalmente quello che fanno la pagina editoriale del Wall Street Journal, Fox News e tutti gli altri.
[1] Sono dati dell’Ufficio del Censimento degli Stati Uniti, raccolti attraverso uno specifico sondaggio denominato SIPP (“Survey on Income and Program Participation”).
[2] Come si nota, sull’asse orizzontale sono espresse le varie categorie di reddito. Le famiglie, ad esempio, che hanno un reddito annuo pari o superiore a 500.000 dollari, hahnno un debito di poco superiore ai 100.000 ed asset vicini ai 160.000. Di contro, le famiglie che hanno un reddito tra i 25.000 ed i 50.000 dollari, hanno un debito che è pari a circa ¾ , ed asset che sono neppure 1/20 di quelli dei più ricchi. La qualcosa, forse, non stupisce tanto per gli asset, che si possono immaginare, quanto per la somiglianza dell’entità del debito. E si badi, come Krugman chiarisce subito dopo, che per asset si intendono quelli finanziari, escluse le abitazioni.
luglio 8, 2014
Jul 8 12:10 pm
Danny Vinik says that the “reform conservatives” may have decided to stop supporting Paul Ryan, which he says may pose a problem for the GOP’s erstwhile intellectual leader:
Ryan has long had passionate supporters among conservative intellectuals. Whenever Paul Krugman called Ryan “unserious,” they were often there to defend him. But Ryan is walking into a fight where he may not have the support from a large swath of conservative wonks—and that could put his carefully crafted reputation at risk.
But, you know, I didn’t just call Ryan unserious; I showed that he was unserious. It has been obvious since his first budget “plan” that he was just pretending to be a budget wonk; look even briefly at anything he has put out and it turns out to depend crucially on magic asterisks. Strip those out and he turns out to combine huge tax cuts for the rich with savage but smaller cuts in aid to the poor and the middle class, increasing inequality while worsening the deficit.
So Ryan wasn’t just a fake wonk, but an obviously fake wonk. And what does that say about the supposed wonks who passionately defended him?
L’esperto [1] che non è mai stato
Danny Vinik dice che i “conservatori riformisti” potrebbero aver deciso di smettere di sostenere Paul Ryan, il che egli dice può porre un problema al precedente leader intellettuale del Partito Repubblicano:
“Per molto tempo Ryan ha avuto sostenitori appassionati tra gli intellettuali conservatori. Ogni qual volta Paul Krugman definiva Ryan “poco serio”, essi di solito erano lì a difenderlo. Ma Ryan procede in una battaglia nella quale può non trovare sostegno da parte di un ampio gruppo di esperti conservatori – e che potrebbe mettere a rischio la sua reputazione attentamente costruita.”
Ma il punto è che io non l’ho semplicemente definito poco serio; ho dimostrato che era tale. Era ovvio sin dal suo promo ‘programma’ di bilancio che egli fingeva soltanto di essere un esperto di finanze; si guardi anche superficialmente tutto quello che ha esposto e si scoprirà che esso dipende fondamentalmente dalla tecnica dei ‘rimandi’ [2]. Eliminate quei rimandi e si vede che egli mette assieme grandi sgravi fiscali per i ricchi con selvaggi, seppure più modesti, tagli agli aiuti ai poveri ed alla classe media, accrescendo l’ineguaglianza nel mentre si peggiora il deficit.
Dunque Ryan non era soltanto un falso esperto, ma un evidentemente falso esperto. E cosa ci dice tutto ciò a proposito dei presunti esperti che appassionatamente lo difendevano?
[1] L’uso di “wonk” in questo post conferma che la traduzione suggerita dai dizionari che conosco (“secchione”) è spesso imprecisa. E’ vero che di solito per “wonk” si intende qualcuno che è particolarmente meticoloso e tende ad esibire la sua competenza; ma non necessariamente con la accentuazione negativa che ha ‘secchione’ in italiano.
[2] I “magici asterischi”, sui quali Krugman ha spesso ironizzato a proposito di Ryan, consistono nell’affermare concetti e numeri che ‘rimandano’ a delucidazioni in fondo pagina che non si trovano mai.
luglio 7, 2014
Jul 7 8:28 pm
Neil Irwin has a nice piece about high asset prices that actually ties into my Wicksell discussion from earlier today.
What Irwin points out is that the price of just about every asset category is now high by historical standards. Bond prices in “safe” countries are very high, which is the same thing as saying that interest rates are very low. But so are prices of risky sovereign debt — Paul De Grauwe points out that Spain’s borrowing costs are now the same as Britain’s. Corporate bond rates are low; stock prices are high; all across the board, assets are up.
The proximate cause is obvious: policy interest rates are very low, and expected to remain low, so money is pouring into alternative assets, driving their yields down too. The question is what you think about this situation.
Quite a few people — including a lot of people on Wall Street, at the BIS, and so on — look at this and say that it’s terrible: the Fed is keeping interest rates “artificially low” and thereby distorting asset prices across the board, and it will all end in grief.
But although I hear the phrase “artificially low” all the time, I don’t think many people who use it have thought through what they mean. What would a non-artificial interest rate be?
Well, we do know from Wicksell what an unnatural rate, which sounds like more or less the same thing, would be: it would be an interest rate set too low in the sense that the economy overheats and we have accelerating inflation. But that hasn’t been happening; yes, there’s a slight uptick in some U.S. inflation measures, but nothing out there that suggests an interest rate that is way too low in this macroeconomic sense.
So what are the people complaining about artificially low rates talking about? Partly that they’re low by historical standards — but there are enough changes in the landscape, from deleveraging to demography, that this isn’t a convincing argument. But the main thing, I think, is those asset prices, which the advocates of tight money think are too high — because they wouldn’t make sense without those “artificially low” interest rates.
In case you haven’t noticed, this is a completely circular argument. Once you accept the possibility that rates belong where they are, or even a bit lower, to correspond to the Wicksellian natural rate, you also conclude that asset prices might make sense; and once you concede that asset prices might make sense, you lose the supposed evidence that rates are all wrong.
And one more thing: where is the wild exuberance that we associate with dangerous bubbles? I don’t see popular TV shows about house-flipping, and CNBC viewership is plumbing new lows.
Mainly, though, there simply isn’t any macroeconomic case for claiming that interest rates are wildly depressed relative to fundamentals, and not much reason to believe that assets in general are overvalued.
I prezzi degli asset di Knut [1]
Neil Irwin pubblica un bell’articolo sui prezzi degli asset che effettivamente si collega con la mia discussione su Wicksell di questa mattina.
Quello che Irwin mette in evidenza è che proprio il prezzo di tutte le categorie di asset è oggi elevato, in rapporto agli standard storici. I prezzi dei bond nei paesi “sicuri” sono molto alti, il che è come dire che i tassi di interesse sono molto bassi. Ma tali sono i prezzi del rischioso debito sovrano – Paul DeGrauwe indica che i costi di indebitamento della Spagna sono oggi gli stessi del Regno Unito. I tassi dei bond delle imprese sono bassi; i prezzi delle azioni sono alti; in generale, gli asset sono alti dappertutto.
La causa più vicina è evidente: i tassi di interesse di riferimento [2] sono molto bassi, e ci si aspetta che restino bassi, cosicché il denaro si riversa in asset alternativi, spingendo verso il basso anche i loro rendimenti. La questione è quello che si pensa di questa situazione.
Un certo numero di persone – inclusi molti a Wall Street, alla BIR, e in ambienti simili – osserva tutto ciò e dice che è terribile: la Fed sta tenendo i tassi di interesse “artificialmente bassi” e di conseguenza distorce in modo generalizzato i prezzi degli asset, e saranno dolori.
Ma, sebbene io senta in continuazione la frase “artificialmente bassi”, non penso che molte persone che la usano abbiano riflettuto su quello che significa. Cosa sarebbe un tasso di interesse non-artificiale?
Ebbene, noi sappiamo da Wicksell cosa è un tasso innaturale, che sembra più o meno la stessa cosa: esso sarebbe un tasso di interesse troppo basso, nel senso che l’economia si surriscalderebbe e accelereremmo l’inflazione. Ma non è quello che sta accadendo; sì, c’è una leggera crescita in alcune misure statunitensi dell’inflazione, ma non c’è niente in giro che indichi un tasso di interesse eccessivamente basso, in questo significato macroeconomico.
Dunque, di cosa stanno parlando coloro che si lamentano dei tassi artificialmente bassi? In parte essi sono bassi per gli standard storici – ma sono così tanti i cambiamenti nel paesaggio circostante, dalla riduzione dei rapporti di indebitamento alla demografia, che questo non è un argomento convincente. Ma la cosa principale, penso, siano quei prezzi degli asset, che i sostenitori della moneta forte pensano siano troppo elevati – perché essi non avrebbero senso senza quei tassi di interesse “artificialmente alti”.
Nel caso non l’abbiate notato, questo è un argomento completamente circolare. Una volta che si accetta la possibilità che i tassi debbano stare dove stanno, o persino un po’ più in basso, per corrispondere al tasso di interesse naturale wickselliano, si arriva anche alla conclusione che i prezzi degli asset potrebbero aver senso; ed una volta che si ammette che i prezzi degli asset potrebbero avere senso, scompaiono le presunte prove secondo le quali i tassi sarebbero tutti sbagliati.
Ed una cosa ancora: dov’è la selvaggia esuberanza che associamo con le bolle pericolose? Io non vedo i programmi televisivi popolari su come fare rapide speculazioni sul ‘mattone’, e la audience della CNBC sta scendendo ai livelli minimi.
Ciononostante, principalmente non c’è alcun argomento macroeconomico per sostenere che i tassi di interesse siano depressi in modo impressionante rispetto ai fondamentali, e non ci sono molte ragioni per credere che gli asset in generale siano sopravvalutati.
[1] Suppongo che prosegua, rispetto al post precedente, il riferimento a Knut Wicksell, e che “Knutty” sia il neologismo relativo. Ma forse potrebbe, oltre a questo, esserci un gioco di parole con “nutty”, che significa anche ‘pazzesco’.
[2] Ovvero, i tassi che la Banca Centrale stabilisce nelle relazioni interbancarie.
luglio 7, 2014
Jul 7 10:13 am
Gavyn Davies takes on the de facto debate between the hard-money men at the BIS and the monetary doves, and frames it as a conflict between Keynes and Wicksell. But I don’t think that’s right. The BIS position is in fact just as inconsistent with Wicksell as it is with Keynes. That doesn’t mean that the BIS is wrong (although I believe that it is); it does mean that its view is much stranger and harder to defend than Davies suggests.
So, for those wondering what this is all about: The Keynesian view of monetary policy is that the central bank should, if it can, set interest rates at a level that produces full employment. Sometimes it can’t: even at a zero rate the economy remains depressed, so you need fiscal policy. But in normal times the Fed and its counterparts should be aiming at the full-employment interest rate.
Wicksellian analysis is an older tradition; it argues that there is at any given time a “natural” rate of interest in the sense that keeping rates below that level leads to inflation, keeping them above it leads to deflation.
I have always considered these approaches essentially equivalent: the Wicksellian natural rate is the rate that would lead to full employment in a Keynesian model. I have, in fact, treated them as equivalent on a number of occasions, e.g. here.
Now, what about the BIS? It is arguing that central banks have consistently kept rates too low for the past couple of decades. But this is not a statement about the Wicksellian natural rate. After all, inflation is lower now than it was 20 years ago.
No, what the BIS is arguing is that there is some other appropriate rate, defined as a rate sufficiently high to discourage bubbles, and that central banks should target this rate even though it is above the Wicksellian natural rate – or, equivalently, that the economy should be kept permanently depressed in order to curb the irrational exuberance of investors.
It’s true that they don’t put it that way – probably because the policy recommendation sounds outrageous when you do. We can’t regulate finance effectively, so we have to accept a permanent slump instead? Really? But that’s what it amounts to.
Non è Knut [1]
Gavyn Davies interviene in sostanza sul dibattito tra le persone favorevoli alla ‘moneta forte’ alla BIR [2] e le colombe monetarie, e lo inquadra come un conflitto tra Keynes e Wicksell. Ma io non credo che sia giusto. La posizione della BIR è di fatto proprio in disaccordo sia con Wicksell che con Keynes. Questo non significa di per sé che la BIR abbia torto (sebbene io creda che abbia torto); significa che il suo punto di vista è più strano e più difficile da difendere di quello che Davies indica.
Dunque, per coloro che si stanno chiedendo di che cosa si tratti: il punto di vista Keynesiano sulla politica monetaria è che la banca centrale dovrebbe, se può, collocare i tassi di interesse ad un livello che produce la piena occupazione. Talvolta non è possibile: persino ad un tasso zero l’economia può restare depressa, cosicché si ha bisogno della politica della finanza pubblica. Ma in tempi normali, la Fed ed i suoi omologhi dovrebbero avere di mira il tasso di interesse della piena occupazione.
La analisi wickselliana è una tradizione più antica; essa sostiene che c’è, per ogni determinato periodo, una tasso di interesse “naturale”, nel senso che tenere i tassi al di sotto di quel livello conduce all’inflazione, tenerli sopra conduce alla deflazione.
Ho sempre considerato questi approcci sostanzialmente equivalenti: il tasso di interesse naturale wickselliano è il tasso che porterebbe alla piena occupazione in un modello keynesiano. Li ho, di fatto, trattati come equivalenti in un certo numero di occasioni, ad esempio in questa connessione [3].
Ora, cosa dire della BIR? Essa sta sostenendo che le banche centrali hanno tenuto stabilmente troppo bassi i tassi di interesse negli ultimi due decenni. Ma questa non è una affermazione che riguarda il tasso wickselliano naturale. Dopo tutto, l’inflazione è più bassa oggi di quanto lo fosse 20 anni fa.
No, quello che la BIR sta sostenendo è che c’è un qualche altro tasso appropriato, definito come tasso sufficientemente alto da scoraggiare le bolle, e che le banche centrali dovrebbero darsi come obbiettivo questo tasso anche se esso è superiore al tasso di interesse naturale wickselliano – oppure, il che è equivalente, che dovrebbero mantenere l’economia permanentemente depressa allo scopo di tenere a freno l’irrazionale esuberanza degli investitori.
E’ vero che non si esprimono in quel modo – probabilmente perché dirlo in quei termini sembrerebbe una raccomandazione politica inaccettabile. Noi non possiamo regolare le finanze efficacemente, dunque dovremmo accettare piuttosto una recessione permanente? Davvero? Ma in sostanza si tratta di questo.
[1] Johan Gustaf Knut Wicksell (Stoccolma, 20 dicembre 1851 – Stocksund, 3 maggio 1926) è stato un economista svedese. Wicksell, molto influenzato dalle visioni economiche di Léon Walras, Eugen von Böhm-Bawerk e David Ricardo, cercò di trovare una sintesi proprio tra questi tre importanti economisti. Il suo lavoro di creazione di una teoria economica sintetica gli valse l’appellativo di “economista degli economisti”. Partendo da presupposti marginalisti, e difendendo la distribuzione della ricchezza prodotta, Wicksell sostenne la necessità dell’intervento dello Stato per implementare lo stato sociale. Wicksell contribuì molto alla teoria dell’interesse, soprattutto attraverso l’opera del 1898, intitolata Geldzins und Güterpreise. Wicksell separò il concetto di interesse naturale da quello di interesse della moneta. Il primo è neutrale rispetto ai prezzi del mercato reale mentre il secondo è la mera visione dell’interesse del mercato dei capitali. Questo concetto si ricollega alla scuola austriaca, la quale sostiene che il boom economico avviene quando l’interesse naturale è più alto del prezzo di mercato. (Wikipedia)
[2] Banca Internazionale dei Regolamenti, con sede a Basilea.
[3] Un post del 4 settembre 2012.
luglio 6, 2014
Jul 6 9:56 am
Noah Smith has another post on John Cochrane’s anti-Keynesian screed, in which he takes on various “structural” stories about the continuing weakness of the economy. As usual, Noah is very mild and eager to give the benefit of the doubt, although even so there’s not much there.
What I’d like to point out, however, is that there’s an overarching reason not to take any of this stuff seriously. All the anti-Keynesian stories (except “uncertainty”, which as Nick Rowe points out is actually a Keynesian story but doesn’t know it) are supply-side stories; Cochrane even puts scare quotes around the word “demand”. Basically, they’re claiming that unemployment benefits, or Obamacare, or regulations, or something, are reducing the willingness of workers and firms to produce stuff.
How would you test this? In a supply-constrained economy, the kind of monetary policy we’ve had, with the Fed quintupling the size of its balance sheet over a short period of time, would be highly inflationary. Indeed, just about everyone on the right has been predicting runaway inflation year after year.
Meanwhile, if you had a demand-side view, and considered the implications of the zero lower bound, you declared that nothing of the sort would happen:
Now, the equation [the quantity equation for money] still holds. But all that tells us is that any changes in the money supply are offset one for one by changes in velocity …
Actually, in the real world it’s even worse, because central banks don’t control the money supply, they only control the monetary base. Broad aggregates like M2 may well be unaffected by what the central bank does: increase the monetary base, and all that happens is an offsetting fall in the money multiplier.
(I was arguing against neomonetarism, but the point holds more generally.)
Reality:
It seems to me that the failure of the inflation predicted by anti-Keynesians to appear — and the fact that this failure was predicted by Keynesian models — is a further big reason not to take what these people are saying seriously.
Storie di recessione e il test dell’inflazione
Noah Smith ha un altro post sul sermone anti keynesiano di John Cochrane, nel quale egli ha accolto varie spiegazioni “strutturali” per la perdurante debolezza dell’economia. Come al solito, Noah è molto gentile e desideroso di concedere il beneficio del dubbio, sebbene anche in questo modo c’è poco da fare.
Quello che vorrei segnalare, tuttavia, è che c’è una ragione complessiva per non prendere questa roba sul serio. Tutte le storie anti-keynesiane (eccetto “l’incertezza” che, come Nick Rowe sottolinea, effettivamente è una spiegazione keynesiano, anche se lui[1] lo ignora) sono racconti dal lato dell’offerta; Cochrane ha persino paura ad utilizzare il termine “domanda”. Fondamentalmente, quello che stanno sostenendo è che i sussidi di disoccupazione, la riforma sanitaria di Obama, o i regolamenti, o qualsiasi cosa simile, stanno riducendo la volontà dei lavoratori e delle imprese a produrre.
Come si potrebbe verificarlo? In una economia condizionata dall’offerta, il genere di politica monetaria che è in atto, con la Fed che sta quintuplicando l’ampiezza del suo bilancio patrimoniale in un breve periodo di tempo, sarebbe altamente inflazionistica. In effetti, praticamente tutti a destra stanno predicando, anno dopo anno, una inflazione fuori controllo.
Invece, se si avesse un punto di vista dal lato della domanda, e si considerassero le implicazioni del limite inferiore dello zero nei tassi di interesse, si sosterrebbe che niente del genere è destinato ad accadere [2]:
“Ora, l’equazione (l’equazione di quantità per la moneta) tiene ancora. Ma tutto ci dice che tutti i cambiamenti nell’offerta di moneta sono bilanciati, in rapporto di uno ad uno, da cambiamenti nella velocità ….
In effetti, nel mondo reale, le cose vanno ancora peggio, perché i banchieri centrali non controllano l’offerta di moneta, essi controllano soltanto la base monetaria. Gli aggregati generali come lo M2 possono ben essere non influenzati da quello che fa la banca centrale: si accresce la base monetaria e tutto quello che accade è una caduta compensativa del moltiplicatore della moneta”.
(allora stavo argomentando contro il neomonetarismo, ma il punto più in generale resta valido).
La realtà:
Sembra a me che il fallimento dell’inflazione che era stata prevista dagli anti keynesiani – ed il fatto che un tale esito fosse stato previsto dai modelli keynesiani – sia una ulteriore grande ragione per non prendere sul serio quello che dice questa gente.
[1] In questo caso “lui” è Cochrane.
[2] Krugman offre questa connessione con un suo vecchio post del 6 novembre 2009, dal quale trae la citazione tra virgolette.
luglio 5, 2014
Jul 5 3:05 pm
At Bloomberg View, Leonid Bershinksy weeps over the cruel world that for some reason isn’t listening to Jaime Caruana of the BIS, who warns that we must raise interest rates now now now. Why is this prophet so lonely?
Well, it might have something to do with the fact that three years ago Caruana and the BIS warned that interest rates must rise to avert a surge of inflation. That didn’t happen — in fact, low inflation and the threat of deflation came instead.
Now, everyone gets things wrong sometimes. But when that happens, you’re supposed to think about why you were wrong, and reconsider your policy views. If the BIS did any soul-searching, nobody else noticed — and it’s still calling for higher rates, with a new justification (and where it used to warn about inflation, now it’s arguing that deflation isn’t so bad.) Why, exactly, should anyone take its views seriously at this point?
But being a hard-money guy seems to mean never having to reconsider. I missed my chance to mark the anniversary, but it’s now five years plus since the WSJ warned that wildly inflationary monetary and fiscal policies were bringing on the bond vigilantes. And to read their opinion pages, you’d think they were right all along.
In che modo i profeti restano soli
Su Bloomberg View, Leonid Bershinski piange per il mondo crudele che per qualche motivo non presta ascolto a Jaime Caruana della Banca dei Regolamenti Internazionali, il quale mette in guardia che dobbiamo alzare i tassi di interesse senza perdere un istante. Perché questo profeta è così isolato?
Ebbene, potrebbe dipendere dal fatto che tre anni fa Caruana e la BIR avevano messo in guardia che i tassi dovevano salire, per evitare un rialzo dell’inflazione. La qualcosa non è successa – di fatto, sono invece arrivate la bassa inflazione e la minaccia di deflazione.
Ora, qualche volta tutti fanno cose sbagliate. Ma quando accade, si suppone che pensiate a cosa avete fatto di sbagliato, e che riconsideriate i vostri punti di vista politici. Se la BIR ha fatto un esame di coscienza, non se ne è accorto proprio nessuno – ed essa continua a pronunciarsi per tassi più elevati, con una nuova giustificazione (laddove era solita mettere in guardia sull’inflazione, ora sta sostenendo che la deflazione non è così male). Perché mai qualcuno dovrebbe proprio prendere sul serio i suoi punti di vista, a questo punto?
Ma per gli individui che sono a favore di una politica monetaria dura sembra non ci sia mai l’obbligo di una riconsiderazione. Ho sciupato l’occasione che avevo di segnalare l’anniversario, ma sono oggi cinque anni da quando il Wall Street Journal ammonì che politiche monetarie e della spesa pubblica estremamente inflazionistiche stavano mettendo in funzione i “guardiani dei bond”. E a leggere le loro pagine dei commenti, pensereste cha abbiano sempre avuto ragione.
luglio 5, 2014
Jul 5 11:36 am
OK, this is fairly amazing. I’ve written often about sadomonetarism among central bankers — the evident urge to find some reason, any reason, to raise interest rates despite high unemployment and low inflation. The most influential hive of this kind of thinking is the Bank for International Settlements, which for some reason commands great respect even though it offers an ever-changing rationale — inflation! Any day now! Or maybe not! Financial stability! — for its never-changing advocacy of tight money. But the place where policy makers most dramatically gave in to this urge is Sweden, where the majority at the Riksbank decided to indulge its rate-hike vice while freezing out one of the world’s leading experts on deflation risks, my friend and former colleague Lars Svensson.
Well, guess what: Lars has been proved so dramatically right by events — raising rates didn’t curb rising debt, but it did push Sweden into deflation — that the Riksbank has done an abrupt U-turn, slashing rates (and overruling the governor and first deputy governor).
Actually, the drama of this U-turn may be a very good thing, since it might convince investors that this is a real regime change.
Intoppo sadomonetarista svedese
Sì, questa è abbastanza sorprendente. Ho scritto spesso sul sadomonetarismo tra i banchieri centrali – il bisogno evidente di trovare una ragione, una ragione qualsiasi, per elevare i tassi di interesse nonostante l’elevata disoccupazione e la bassa inflazione. La più influente fucina di questo genere di pensieri è la Banca dei Regolamenti Internazionali, che per qualche ragione suscita grande rispetto anche se offre una logica in continuo mutamento (l’inflazione! E’ questione di giorni! O forse no! La stabilità finanziaria!), per il suo immutabile sostegno alla restrizione monetaria. Ma il posto nel quale gli operatori politici nel modo più spettacolare sottostanno a questo bisogno è la Svezia, dove la maggioranza della Riksbank ha deciso di concedersi al suo vizio del rialzo dei tassi tagliando fuori uno dei principali esperti dei rischi di deflazione del mondo, il mio amico e passato collega Lars Svensson.
Ebbene, indovinate un po’: Lars è stato confermato nel giusto in modo così plateale dagli eventi – alzare i tassi non ha tenuto a freno il debito crescente, ma ha spinto la Svezia nella deflazione – che la Svezia ha fatto una improvvisa curva ad U, tagliando i tassi (e revocando il Governatore ed il primo Vice Governatore).
In effetti, lo spettacolo di questo voltafaccia potrebbe essere un’ottima cosa, se potesse convincere gli investitori che è un mutamento reale di concezione.
luglio 4, 2014
Jul 4 10:34 amJul 4 10:34 am
One of the interesting things about the ongoing economic crisis is the way it has demonstrated the importance of historical knowledge. This is only the second global financial crisis serious enough to drive interest rates down to the zero lower bound in most major economies; making sense of it has depended crucially on knowing something about the first.
But it’s not just economic history that turns out to be extremely relevant; intellectual history — the history of economic thought — turns out to be relevant too.
Consider, in particular, the recent to-and-fro about stagflation and the rise of new classical macroeconomics. You might think that this is just economist navel-gazing; but you’d be wrong.
To see why, consider John Cochrane’s latest. Cochrane has opened his mind a bit over the past five years; in 2009 he was asserting that accounting identities implied that shortfalls in demand can’t happen and that a potential role for fiscal policy was a fairy tale nobody believed in. Now he’s at least aware that New Keynesian economics exists, even if he still seems to have trouble understanding that the case for fiscal policy doesn’t depend on second-round effects on consumption, and still puts scare quotes around the word “demand”.
But what’s interesting about Cochrane’s current argument is that it effectively depends on the notion that there must have been very good reasons for the rejection of Keynesianism, and that harkening back to old ideas must involve some kind of intellectual regression. And that’s where it’s important — as David Glasner notes — to understand what really happened in the 70s.
The point is that the new classical revolution in macroeconomics was not a classic scientific revolution, in which an old theory failed crucial empirical tests and was supplanted by a new theory that did better. The rejection of Keynes was driven by a quest for purity, not an inability to explain the data — and when the new models clearly failed the test of experience, the new classicals just dug in deeper. They didn’t back down even when people like Chris Sims (pdf), using the very kinds of time-series methods they introduced, found that they strongly pointed to a demand-side model of economic fluctuations.
And critiques like Cochrane’s continue to show a curious lack of interest in evidence. After all, we’ve had a series of big natural experiments in recent years: a quadrupling of the monetary base, massive deficits, extreme austerity measures. The results of all these natural experiments have been consistent with a Keynesian view, inconsistent with any kind of supply-side view. And there has also been an explosion of empirical work.
In short, you have a much better sense of what’s really going on here, and which ideas remain relevant, if you know about the unhappy history of macroeconomic thought.
Dibattiti di macroeconomia e l’importanza della storia intellettuale
Una delle cose interessanti della perdurante crisi economica è il modo in cui essa ha dimostrato l’importanza della conoscenza storica. Questa è soltanto la seconda crisi finanziaria globale a tal punto seria da spingere in basso i tassi di interesse sino al limite inferiore dello zero: dare un senso a ciò è dipeso fondamentalmente dalla conoscenza della prima crisi.
Ma non è solo la storia economica che si scopre essere estremamente rilevante; si scopre che anche la storia intellettuale – la storia del pensiero economico – è rilevante.
Si consideri, in particolare, il recente ripresentarsi del tema della stagflazione e della ascesa della muova macroeconomia neoclassica. Potreste pensare che si tratti soltanto del guardarsi all’ombelico di un economista; ma avreste torto.
Si consideri, ad esempio, il più recente John Cochrane. Cochrane ha discretamente aperto la sua mente negli ultimi cinque anni; nel 2009 egli sosteneva che le identità contabili comportavano che le cadute della domanda non possono aver luogo e che un ruolo possibile per la finanza pubblica era un racconto di fate a cui nessuno credeva. Oggi egli è almeno consapevole che l’economia neo keynesiana esiste, anche se sembra avere ancora problemi nel comprendere che l’argomento della politica della finanza pubblica non dipende dagli effetti in seconda battuta sui consumi, e se ancora avanza citazioni impaurite sulla sola parola “domanda”.
Ma quello che è interessante nella argomentazione attuale di Cochrane è che essa sostanzialmente dipende dal concetto che non possono non esserci state buone ragioni per il rigetto del keynesismo, e che tornare a dare ascolto a vecchie idee deve comportare una sorta di regressione intellettuale. E il punto che è importante da capire – come nota David Glasner – è quello che realmente è successo negli anni ’70.
Il punto è che la rivoluzione neo classica in economica non fu una classica rivoluzione scientifica, nella quale una vecchia teoria non superò fondamentali test scientifici e fu soppiantata da una nuova teoria che si mostrava più adatta. Il rigetto di Keynes fu guidato da una ricerca di purezza, non da una incapacità a spiegare i dati – e quando i nuovi modelli chiaramente non furono capaci di superare la prova dell’esperienza, i neoclassici semplicemente scavarono più in profondità. Essi non si ritirarono neppure quando persone come Chris Sims (disponibile in pdf), utilizzando esattamente i tipi di metodi delle serie temporali da essi introdotti, scoprirono che proprio questi ultimi indicavano un modello dal lato della domanda delle fluttuazioni economiche.
E critiche come quella di Cochrane continuano a mostrare un curioso disinteresse per tali prove. Dopo tutto, abbiamo avuto una serie di grandi esperimenti naturali negli anni recenti: una quadruplicazione della base monetaria, deficit massicci, misure di austerità estreme. I risultati di tutti questi esperimenti naturali sono stati coerenti con un punto di vista keynesiano, ed incoerenti con ogni genere di approccio dal lato dell’offerta. E c’è anche stata una esplosione di ricerche empiriche.
In breve, si è avuta una percezione molto migliore di quello che sta effettivamente accadendo, e di quali idee restano importanti, se si conosce la storia infelice del pensiero economico.
luglio 3, 2014
Jul 3 9:13 amJul 3 9:13 am
Here’s total public spending on construction, adjusted for the price level (GDP deflator) and population growth; 2007IV=100:
And if no deal is made on the federal highway fund, it will soon plunge even further.
It’s important here not to get caught up too much in the details. Yes, it’s absurd that the federal gasoline tax has been flat in nominal terms since 1993, which means that in real terms it has fallen 40 percent. But highways don’t have to be paid for with gas taxes — the fund could be (and has been) topped up with transfers from general revenue. And federal borrowing costs remain incredibly low by historical standards.
So the highway issue should be seen as part of the larger craziness of infrastructure policy, in which spending has crashed at a time when by any reasonable criterion we should have been building much more.
Il grande disinvestimento
Ecco la spesa pubblica totale nel settore delle costruzioni, corretta per il livello dei prezzi (deflatore del PIL) e la crescita della popolazione; fatto 100 il quarto trimestre del 2007:
E se non si fa niente sul fondo della viabilità federale, crollerà ulteriormente.
In questo caso non è importante essere troppo aggiornati nei dettagli. Sì, è assurdo che la tassa federale sulla benzina sia rimasta piatta in termini nominali a partire dal 1993, il che significa che in termini reali è diminuita del 40 per cento. Ma non è necessario pagare le strade principali con le tasse sui carburanti – il fondo potrebbe essere (ed è stato) rimpinguato con trasferimenti dalle entrate generali. E l’indebitamento federale resta incredibilmente ai minimi storici.
Dunque, il tema della viabilità dovrebbe essere considerato come un aspetto della più generale follia della politica delle infrastrutture, dove la spesa è crollata in un periodo nel quale ogni ragionevole criterio avrebbe dovuto essere costruire di più.
luglio 2, 2014
Jul 2 12:50 pmJul 2 12:50 pm
Sam Tanenhaus asks, “Can the G.O.P. Be a Party of Ideas?”
Why, no. This is another edition of simple answers to simple questions.
More specifically, the “reform conservatives” seem mainly to be offering supposedly new ideas for the sake of being seen to offer new ideas. And there isn’t much there there; can you find anything in the Tanenhaus piece that sounds like an important new idea rather than a minor tweak on the current conservative catechism? I can’t. I mean, converting federal poverty programs into bloc grants is supposed to be a major departure?
But then, the whole notion that new ideas are what politics is about is greatly overrated. Governing isn’t like selling smartphones; the underlying shape of the problems you have to confront changes quite slowly, and the basics of policy debate are quite stable.
In particular, the central policy debate in US politics hasn’t changed in decades, nor should it. Liberals want a strong social safety net, financed with relatively high taxes, especially on high incomes. Conservatives want much less of a safety net, and much lower taxes on the affluent.
Thirty-five years ago conservatives did produce a new argument — the claim that high taxes and generous benefits were producing such a drag on the economy that even lower-income Americans would be better off if we slashed all of that. And they got most of what they wanted — much lower taxes on top incomes, an end to welfare as we knew it, though not to the big middle-class programs. But growth failed to take off while inequality soared, so that the income of typical families grew much more slowly after the conservative revolution than before:
So much for that big idea. Is there anything like that on the horizon? No — and it’s not clear why you should expect anything of the kind. What’s certain is that tweaking policy at the edges isn’t going to do much.
And I suspect that at some level the reform conservatives know this. The point of their proposed policy tweaks, I’d argue, is less to achieve results than to let the GOP dissociate itself from soaring inequality and stagnating incomes, without changing its fundamental policy stance. And it’s not a trick that’s likely to work.
Trucchi e ritocchi
Sam Tanenhaus si chiede: “Il Partito Repubblicano può essere un partito di idee?”
Perchè no. Questa è un’altra versione di risposte semplici a domande semplici.
Più precisamente, i “conservatori riformisti” sembra che principalmente stiano offrendo nuove idee con l’interesse di far vedere che offrono nuove idee. E in tutto ciò non c’è davvero molto: trovate qualcosa in tutto l’articolo di Tanenhaus che assomigli ad una qualche importante nuova idea, piuttosto che ad un ritocco secondario del catechismo attuale dei conservatori? A me non riesce. Voglio dire, scambiare i programmi federali sulla povertà in un unico complesso di assegnazioni si suppone faccia una gran differenza?
Ma allora, è l’intero concetto che le nuove idee sono ciò che contraddistingue la politica ad essere grandemente sopravvalutato. Governare non è come vendere telefonini; la forma implicita dei problemi con i quali ci si misura cambia abbastanza lentamente, e gli aspetti fondamentali del dibattito politico sono relativamente stabili.
In particolare, sono decenni che il dibattito centrale delle politiche negli Stati Uniti non è cambiato, né avrebbe dovuto cambiare. I progressisti vogliono forti reti della sicurezza sociale, finanziate con tasse relativamente elevate, particolarmente sui redditi alti. I conservatori vogliono molta meno sicurezza sociale, e tasse molto più basse sui ricchi.
Trentacinque anni fa i conservatori avanzarono un nuovo argomento – la tesi secondo la quale alte tasse e sussidi generosi stavano producendo un tale prelievo sull’economia che persino gli americani con i redditi più bassi sarebbero stati meglio se avessimo abbattuto tutto ciò. Ed ottennero gran parte di quello che volevano – tasse molto più basse sui redditi più elevati, ed una fine dello stato assistenziale per come lo conoscevamo, sebbene non dei grandi programmi per le classi medie. Ma la crescita non decollò mentre crebbe l’ineguaglianza, cosicché il reddito delle famiglie comuni avanzò molto più lentamente dopo la rivoluzione conservatrice che non in precedenza:
Questo è quanto basta per quella grande idea. C’è qualcosa di simile all’orizzonte? No – e non è chiaro perché ci si dovrebbe aspettare niente del genere. Quello che è certo è che la politica dei ritocchi ai margini non è destinata a produrre granché.
Ed io sospetto che a qualche livello i conservatori riformisti lo sappiano. Il punto sui ritocchi politici che propongono, direi, non riguarda tanto ottenere risultati, quanto consentire al Partito Repubblicano di distinguersi dalla crescente ineguaglianza e dai redditi stagnanti, senza cambiare il suo fondamentale indirizzo politico. Ed è un trucco che è probabile che non funzioni.