Blog di Krugman

Le illusioni neomonetariste (dal blog di krugman, 1 luglio 2014)

 

Jul 1 8:30 pmJul 1 8:30 pm

Neomonetarist Delusions

Danny Vinik notes that “reform conservatives”, who are trying either to rescue the right from its intellectual torpor or to provide cover for its fundamental anti-intellectualism — your choice — have gotten a fair bit of lip service for some of their ideas, but none at all for one key proposal: activist monetary policy to assure full employment.

This was predictable.

The neomonetarist movement starts from an acknowledgement of reality: shortfalls of aggregate demand do happen, and they do matter, and we need an answer. Like the original monetarists, however, they reject any government role in the form of discretionary fiscal policy. Instead, they argue that the Fed and its counterparts can do the job all on their own if they really want to.

I don’t buy this on the economics; to do what’s needed central banks either have to take on a lot of risk, which is in effect a form of fiscal policy, or change inflation expectations, which is far beyond conventional monetary policy. But we don’t need to hash this out here. The more important point is that the neomonetarists are deluded in imagining that there is any constituency for their ideas in the modern conservative movement.

Remember what happened when the Fed began a partial move toward the kind of policy they want: practically the whole Republican establishment began screaming at Ben Bernanke that he was debasing the currency. And surely you don’t think that the failure of inflation to materialize has changed their minds.

And underlying this total opposition to monetary expansion lie two deep forces. First, much of the right is thoroughly committed to the view that bad things only happen because of the government, that the private sector will never have problems if it has low taxes and the security of the gold standard. Paul Ryan is effectively the intellectual leader of the GOP — and he gets his monetary economics from characters in Ayn Rand novels.

Moreover, the Kalecki argument about why business interests oppose activist fiscal policy applies to monetary policy too. If “captains of industry” want the body politic to believe that prosperity depends on their “confidence” — so that any criticism leads to depression — they’re going to hate monetarism as much as they hate Keynesianism, because both imply that full employment depends on policy, not their hurt feelings.

So there’s really no constituency for neomonetarism. Milton Friedman would be an isolated outcast in today’s conservative movement, and his would-be successors have no home.

 

 

Le illusioni neomonetariste

 

Danny Vinik nota che i “conservatori riformisti” che stanno cercando sia di salvare la destra dal suo torpore intellettuale che di dare copertura al suo fondamentale anti-intellettualismo – come preferite – hanno ottenuto una discreta adesione di facciata per alcune delle loro idee, ma non hanno ottenuto proprio niente su una proposta cruciale: una politica monetaria attiva per assicurare la piena occupazione.

Il movimento neomonetarista [1] prende le mosse dal riconoscimento della realtà: cadute della domanda aggregata accadono per davvero, e sono importanti, e dobbiamo dare una risposta. Come gli originali monetaristi, tuttavia, essi respingono ogni ruolo del Governo nella forma di una politica discrezionale della finanza pubblica. Invece, sostengono che la Fed ed i suoi omologhi, se davvero lo vogliono, possono fare tutto il lavoro per loro conto.

Io non aderisco a questa posizione di teoria economica; per fare quello che è necessario le banche centrali devono prendersi una buona dose di rischio, che in effetti è una forma di politica della finanza pubblica, ed anche modificare le aspettative inflazionistiche, che è qualcosa che va molto oltre la politica monetaria convenzionale. Ma non abbiamo bisogno di far pasticci oltre a questo. Il punto più importante è che i neomonetaristi si sono illusi che ci sia un qualche seguito alle loro idee nel movimento conservatore contemporaneo.

Ricordate cosa accadde quando la Fed cominciò a muoversi in parte verso il genere di politica che essi vogliono: praticamente l’intero gruppo dirigente del Partito Repubblicano cominciò a urlare verso Ben Bernanke, che stava svalutando la moneta. E di sicuro non è il caso di pensare che il fatto che non vi sia segno di inflazione abbia cambiato qualcosa nelle loro teste.

E dietro questa totale opposizione alla espansione monetaria sussistono due forze potenti. La prima. Gran parte della destra si attiene scrupolosamente al punto di vista secondo il quale le cose negative vengono solo dal Governo, e che il settore privato non avrà mai problemi se avrà basse tasse e la sicurezza del gold standard. Paul Ryan è effettivamente il leader intellettuale del Partito Repubblicano – e trae la sua economia monetaria dai personaggi dei racconti di Ayn Rand [2].

Inoltre, la tesi di Kalecki [3] secondo la quale gli interessi delle imprese si oppongono ad una politica della finanza pubblica attiva si applica anche alla politica monetaria. Se i “capitani dell’industria” vogliono che il corpo politico dipenda dalla loro “fiducia” – cosicché ogni critica sia come una spinta verso la depressione – sono destinati ad odiare il monetarismo nello stesso modo in cui odiano il keynesismo, perché per entrambi è implicito che la piena occupazione dipende dalla politica, e non dai loro sentimenti feriti.

Dunque, non c’è davvero nessun seguito per il neomonetarismo. Milton Friedman sarebbe un emarginato isolato nel movimento conservatore odierno, ed i suoi aspiranti successori sono senza casa.

 

 

 

[1] Il neomonetarismo – ovvero la versione più recente del monetarismo, il cui esponente principale nel secolo scorso fu Milton Friedman – vede tra i suoi esponenti Warren Mosler, L. Randall Wray, Stephanie Kelton, e Bill Mitchell e, forse con una maggiore autonomia di orientamenti e di ricerca, James K. Galbraith.

[2] Per la scrittrice Ayn Rand vedi le note sulla traduzione.

[3] A proposito di questa tesi di Kalecki, Krugman scrisse un articolo l’8 agosto 2013, dal titolo “Il fattore della paura fasulla”, qua tradotto.

Michał Kalecki (Łódź, 22 giugno 1899Varsavia, 18 aprile 1970) è stato un economista polacco. Le sue teorie sono considerate, da alcuni, come precorritrici delle idee esposte nella Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di John Maynard Keynes.[1]

Il suo lavoro ha riguardato principalmente la macroeconomia, in particolare il ciclo economico, la distribuzione del reddito e la matematica applicata alle analisi dinamiche dell’economia. Secondo John Kenneth Galbraith, va considerato, insieme a Oskar Lange uno dei due principali economisti socialisti del primo dopoguerra.[2] I punti di convergenza tra Kalecki e Keynes sono numerosi a partire dall’analisi delle classi sociali e dalla separazione delle decisioni di risparmio ed investimento, fino alla presa di coscienza di molte caratteristiche proprie di una economia monetaria, come quella per cui i lavoratori sono remunerati in termini monetari e non in termini reali (Wikipedia).

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Stabilità o sadomonetarismo? (1 luglio 2014)

luglio 1, 2014

 

Jul 1 4:48 pmJul 1 4:48 pm

Stability or Sadomonetarism?

Simon Wren-Lewis is harsh about the current tight-money crowd, exemplified by the Bank for International Settlements, who are urging tight money despite weak economies, for fear that investors will take excessive risks. But he’s not harsh enough.

He’s right that it’s more or less insane to argue that the economy must be kept persistently depressed for fear that investors will be too exuberant — and at the same time to argue against fiscal expansion or anything else that might offset rising rates. What he doesn’t note, however, is that while the BIS has argued for raising interest rates at least since 2010, it keeps changing its reasoning. Here’s what it said in 2011 (pdf):

Tighter global monetary policy is needed in order to contain inflation pressures and ward off financial stability risks. It is also crucial if central banks are to preserve their hard-won inflation fighting credibility, which is particularly important now, when high public and private sector debt may be perceived as constraining the ability of central banks to maintain price stability. Central banks may have to be prepared to raise policy rates at a faster pace than in previous tightening episodes.

And it praised the ECB for what we now know was a terrible decision to raise rates.

So, that was three years ago, and Europe in particular is struggling with dangerously low inflation. Has the BIS changed its prescriptions? No, it’s just changed the reason for demanding the same thing.

What all this suggests is that the BIS basically just wants to raise rates, and is always looking for a reason. It’s about sadomonetarism, not stability.

 

Stabilità o sadomonetarismo?

 

Simon Wren-Lewis è duro sulla attuale affollamento a favore di politiche di restrizione monetaria esemplificato dalla Banca Internazionale dei Regolamenti, che stanno premendo per tali politiche nonostante le economie deboli, per paura che gli investitori assumano rischi eccessivi. Ma non è duro abbastanza.

Ha ragione che è più o meno pazzesco sostenere che l’economia debba essere tenuta costantemente depressa per paura che gli investitori diventino troppo esuberanti – e nello stesso tempo pronunciarsi contro una politica di espansione della spesa pubblica o qualsiasi altra cosa possa bilanciare i tassi crescenti. Quello che non nota, tuttavia, è che mentre la BIR si era pronunciata a favore di tassi di interesse crescenti almeno sin dal 2010, essa continua a cambiare il suo ragionamento. Ecco quello che disse nel 2010 (connessione in pdf):

“Una politica monetaria più restrittiva è necessaria allo scopo di contenere le spinte dell’inflazione e tener lontani i rischi per la stabilità finanziaria. E’ anche cruciale che le banche vogliano preservare la loro credibilità, conquistata con fatica, nel combattere l’inflazione, cosa che è particolarmente importante oggi, quando l’elevato debito pubblico e del settore privato può essere percepito come una limitazione alla capacità delle banche centrali nel mantenere la stabilità dei prezzi. E’ possibile che le banche centrali debbano essere pronte ad elevare i tassi di riferimento con un ritmo più rapido di quanto fatto in episodi precedenti di restrizione.”

Ed essa elogiava la BCE per quella che oggi sappiamo essere stata la decisione terribile di elevare i tassi.

Dunque, questo avveniva tre anni fa, e l’Europa in particolare sta combattendo contro una inflazione pericolosamente bassa. La BIR ha cambiato le sue prescrizioni? No, ha solo cambiato l’argomento per chiedere la medesima cosa.

Ciò che tutto questo suggerisce è che la BIR fondamentalmente vuole soltanto elevare i tassi, ed è alla permanente ricerca di un pretesto. Questo riguarda il sadomonetarismo, non la stabilità.

Il segreto del successo del Belgio (1 luglio 2014)

luglio 1, 2014

 

Jul 1 2:32 pmJul 1 2:32 pm

The Secret of Belgium’s Success

No, not about soccer. But since we’re talking about Belgium, a little-known fact is that the Belgian economy has actually done considerably better than its neighbors since the crisis began:

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How have they managed this? Well, a leading hypothesis is that Belgium has benefited from not having a government, which means that it can’t pursue austerity policies:

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International Monetary Fund (for 2007 to 2013)

Just saying.

 

 

Il segreto del successo del Belgio

 

No, non ha a che vedere col calcio. Ma dal momento che stiamo parlando del Belgio, un fatto poco noto è che l’economia belga ha avuto una prestazione assai migliore di quella dei suoi vicini, dal momento in cui la crisi è cominciata:

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Come è stato ottenuto? Ebbene, l’ipotesi principale è che il Belgio abbia tratto beneficio dal non avere un Governo, il che significa che non ha potuto perseguire politiche di austerità:

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Fondo Monetario Internazionale (dal 2007 al 2013)

 

Solo per dire.

Inettitudine macroeconomica procurata (dal blog di Krugman, 1 luglio 2014)

luglio 1, 2014

 

Jul 1 10:51 amJul 1 10:51 am

Learned Macroeconomic Helplessness

One of the oddest, most frustrating things about the six years plus since the Great Recession began is the incessant whining from pundits that it’s all very complicated, and nobody knows what to do. As Dean Baker says, the story of this slump is remarkably simple; I would give more role to household debt than he does, but basically yes, it’s a huge slump in housing. Here’s residential investment as a percentage of GDP:

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This created a big hole in demand, one that couldn’t be filled with conventional monetary policy; so the answer should have been some mix of fiscal expansion, unconventional monetary policy, and debt relief. This wasn’t hard or unconventional economics; it was not much beyond Econ 101.

What about all the objections raised? Expansionary monetary policy would cause inflation! Budget deficits will drive up interest rates! We need to reduce deficits to encourage the confidence fairy! Two things: First, none of this came from the standard economic models, which said that money wouldn’t be inflationary in a liquidity trap, deficits wouldn’t drive up interest rates, and contractionary policy would be contractionary. And so it proved: low inflation, low interest rates, and here’s the effect of austerity from 2009 to 2013:

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So basic models told us what to do, and the models have worked very well.

The only complicated thing about responding to this crisis has been the ideological unwillingness of influential people to take yes for an answer. We had the knowledge and the tools to have avoided most of the pain, but we didn’t, and instead cried “It’s all so complicated.”

 

 

Inettitudine macroeconomica procurata

 

Una delle cose più curiose, più frustranti dei sei anni e più da quando la Grande Recessione ebbe inizio è l’incessante lamentela da parte dei commentatori secondo la quale tutto è molto complicato, e nessuno sa cosa fare. Come dice Dean Baker, la storia di questa crisi è considerevolmente semplice; io darei, rispetto a lui, un ruolo maggiore al debito delle famiglie, ma fondamentalmente è vero: si tratta di un vasto cedimento nel settore abitativo. Ecco l’investimento residenziale come percentuale del PIL:

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Questo ha creato un grande buco nella domanda, un buco che non poteva essere riempito con la politica monetaria convenzionale; così la risposta avrebbe dovuto in qualche modo riguardare un mix di espansione delle finanza pubblica, di politica monetaria non convenzionale e di attenuazione del debito. Questa non era economia difficile o non convenzionale; non era molto di più di quello che è scritto nei libri di testo.

Che dire di tutte le obiezioni sollevate? La politica monetaria espansiva avrebbe provocato l’inflazione! I deficit di bilancio avrebbero spinto verso l’alto i tassi di interesse! Abbiamo bisogno di ridurre i deficit per incoraggiare la fata della fiducia! Due cose: la prima è che niente di questo viene dai modelli economici consueti, che dicono che la moneta, in una trappola di liquidità, non può avere effetti inflazionistici; che i deficit non possono spingere in alto i tassi di interesse; e che una politica restrittiva avrà effetti restrittivi. E così si è dimostrato: bassa inflazione, bassi tassi di interesse, ed ecco l’effetto dell’austerità dal 2009 al 2013:

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Dunque, i modelli di base ci dicono cosa fare e i modelli hanno funzionato benissimo.

La sola cosa complicata nel rispondere alla crisi è stata l’indisponibilità ideologica delle persone influenti di non contentarsi di una risposta affermativa. Abbiamo la conoscenza e gli strumenti che potevano evitare gran parte della sofferenza, ma non li abbiamo usati, ci siamo invece lamentati perché “E’ tutto così complicato”.

La macchia irachena (30 giugno 2014)

giugno 30, 2014

 

Jun 30 5:40 pm

The Iraq Stain

I don’t write much about Iraq and all that these days, but this report from James Risen brings back the horror of the whole thing. And I don’t just mean the fact that we were lied into war; that most of our media and policy elite rushed to join the bandwagon; that the venture led to awesome waste of lives and money.

No, Iraq was also a moral cesspit. Not only were we taken to war on false pretenses, it was clear that this was done in part for domestic political gain. The occupation was treated not as a solemn task on which the nation’s honor depended, but as an opportunity to reward cronies. And don’t forget the torture.

So in a way it’s not too surprising to learn that we didn’t just, incredibly, rely heavily on politically connected mercenaries, but that said mercenaries threatened violence against our own officials:

Just weeks before Blackwater guards fatally shot 17 civilians at Baghdad’s Nisour Square in 2007, the State Department began investigating the security contractor’s operations in Iraq. But the inquiry was abandoned after Blackwater’s top manager there issued a threat: “that he could kill” the government’s chief investigator and “no one could or would do anything about it as we were in Iraq,” according to department reports.

And guess what:

American Embassy officials in Baghdad sided with Blackwater rather than the State Department investigators as a dispute over the probe escalated in August 2007, the previously undisclosed documents show.

But it’s still shocking, and a reminder of just how deep the betrayal went.

 

La macchia irachena

 Non scrivo molto questi giorni sull’Iraq e su tutto il resto – ma questo resoconto di James Risen [1] restituisce l’orrore dell’intera faccenda. E non intendo solo il fatto che fummo portati alla guerra con l’inganno; che la maggior parte dei media e della classe dirigente politica si precipitarono a raggiungere il carro del vincitore; o che quell’avventura condusse ad uno spreco terribile di vite umane e di soldi.

No, l’Iraq fu anche una fogna morale. Non soltanto fummo portati in guerra con falsi pretesti, era chiaro che questo in parte veniva fatto per un vantaggio politico interno. L’occupazione venne gestita non come un impegno solenne dal quale dipendeva l’onore della nazione, ma come una opportunità per premiare le clientele amiche. E non ci si scordi della tortura.

Così, in un modo che non sorprende poi tanto, apprendiamo che non solo, incredibilmente, ci basammo su organizzazioni di mercenari che erano politicamente ben inserite, ma che tali mercenari minacciavano con la violenza i nostri stessi ufficiali:

“Nel 2007, soltanto alcune settimane prima che le guardie della Blackwater [2] fatalmente sparassero su 17 civili presso la Baghdad’s Nisour Square, il Dipartimento di Stato aveva iniziato ad investigare sulle operazioni dell’impresa appaltatrice di sicurezza in Iraq. Ma l’inchiesta venne abbandonata – secondo fonti del Dipartimento – dopo che il massimo locale dirigente della Blackwater rese nota una minaccia: ‘che avrebbe potuto uccidere’ il capo degli investigatori governativi, e ‘nessuno ci avrebbe potuto o voluto far niente, dato che eravamo in Iraq’”.

E pensate un po’:

“I documenti in precedenza segreti dimostrano che i dirigenti dell’Ambasciata Americana a Bagdad si schierarono con la Blackwater, anziché con gli investigatori del Dipartimento di Stato, in occasione di uno scontro sull’inchiesta che si inasprì nell’agosto del 2007.”

Eppure si tratta di cose ancora impressionanti, a memoria di quanto il tradimento non conobbe limiti.

 

 

[1] Il riferimento è ad un articolo pubblicato dal New York Times il 29 di giugno.

[2] La Blackwater Worldwide, già conosciuta come Blackwater USA e Xe Services LLC, dal dicembre 2011, come Academi, è una compagnia militare privata statunitense fondata nel 1997 da Erik Prince, un ex-Navy SEAL erede di una ricca fortuna di famiglia. Ecco alcune guardie della Backwater che scortano un amministratore civile americano in ispezione:

 

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Vecchi ma buoni (30 giugno 2014)

giugno 30, 2014

 

Jun 30 10:34 am

Oldies But Goodies

Ah — so we learn that Ezra Klein’s Vox is under attack — as is the current Democratic agenda — because it’s “tired”, recycling ideas from the 60s and even earlier.

Indeed. You know what else is tired? The whole engineering agenda, which keeps recycling old ideas like conservation of energy and mass.

The point, of course, is that attacking ideas simply because they’ve been around for a long time is an act of deep intellectual laziness. What matters is whether the ideas work; clinging to old ideas only becomes a problem if you refuse to change in the face of contrary evidence. Yes, liberals call for progressive taxation and redistribution to limit inequality and reduce poverty; these aren’t new ideas, but they are ideas that work. Conservatives cling to supply-side economics, which is also an old idea — but the problem is that it’s an idea that keeps failing, but they refuse to accept that reality.

A case in point: remember the attempt to privatize Social Security in 2005? A fair number of allegedly liberal commentators supported that effort, on the grounds that we needed new structures for the information age, or something. In fact, a simple defined-benefit program makes even more sense in an unstable economic landscape. The age of the idea is neither here nor there.

And sometimes old ideas that have for whatever reason fallen out of the discourse can actually be liberating, even revolutionary — which is why Mark Thoma’s classic remark that “new economic thinking means reading old books” was so on the mark. The liquidity trap is an old idea, going back in essentially its modern form to Hicks 1937, yet people who understood it came across as radicals after 2008 — and were right.

So yes, the liberal agenda these days involves a lot of harking back to old concepts — concepts that were largely abandoned during the era of right-wing ascendancy. But those old concepts worked, whereas the “new” (now themselves quite old) ideas didn’t. Back to the future!

 

Vecchi ma buoni

 

Eccoci. Apprendiamo dunque che il blog Vox di Ezra Klein è sotto attacco – nello stesso modo del programma attuale dei democratici – perché è “trito”, ricicla idee degli anni ’60 e di prima ancora.

In effetti. Sapete cosa è anche trito? L’intero programma della facoltà di ingegneria, che continua a riciclare vecchie idee come quella della conservazione dell’energia e della massa.

Il punto, naturalmente, è che attaccare idee semplicemente perché sono in circolazione da lungo tempo è un atto di profonda pigrizia intellettuale. Quello che conta è se le idee funzionano; restare attaccati a vecchie idee diventa un problema se rifiutate di cambiarle a fronte delle prove contrarie. Sì, i liberals si pronunciano per una tassazione progressiva e per una redistribuzione, al fine di limitare l’ineguaglianza e di ridurre la povertà; queste non sono idee nuove, ma sono idee che funzionano. I conservatori restano attaccati all’economia dal lato dell’offerta, che è anch’essa una vecchia idea – ma il problema è che è un’idea che colleziona fallimenti, sennonché essi si rifiutano di accettare la realtà.

Un esempio a proposito: ricordate il tentativo di privatizzare la Previdenza Sociale nel 2005? Un discreto numero di commentatori sedicenti progressisti sostenevano quell’idea, basandosi sul fatto che avevamo bisogno di nuove strutture per l’epoca dell’informazione, o qualcosa del genere. Di fatto, un semplice programma con sussidi determinati ha ancora più senso in un orizzonte economico instabile. L’età dell’idea non c’entra un bel niente.

E talvolta le vecchie idee che per una qualche ragione sono uscite dalla discussione possono in effetti essere liberatorie, persino rivoluzionarie – che è la ragione per la quale la famosa osservazione di Mark Thoma seconda la quale “il nuovo pensiero economico significa leggere libri antichi” era così sensata. La trappola di liquidità è una vecchia idea, che nella sua forma attuale si rifà essenzialmente allo Hicks del 1937, tuttavia le persone che intesero quel modello dopo il 2008 diedero l’impressione di essere radicali – e avevano ragione.

Dunque sì, l’agenda progressista di questi tempi include una gran quantità di vecchi concetti che vengono riportati alla memoria – concetti che vennero abbandonati durante l’epoca dell’influenza della destra. Ma quei vecchi concetti funzionavano, mentre le “nuove” idee (peraltro esse stesse un po’ vecchiotte) non hanno funzionato. Ritorno al futuro!

La Stagflazione e la caduta della macroeconomia (28 giugno 2014)

giugno 28, 2014

 

Stagflation and the Fall of Macroeconomics

June 28, 2014 3:00 pm

Simon Wren-Lewis and Mark Thoma write about the rise of New Classical Macroeconomics — basically the rejection of Keynes and the attempted assimilation of macro into micro. Unusually, I have some bones to pick with both, although we clearly agree on the big stuff.

Mark writes about the rise and fall of new classical macro — which is, I’m sorry to say, much too optimistic. Anti-Keynesian views, indeed real business cycle theory asserting that inadequate demand can never be a problem, retains a firm grip on much of the profession. It’s still quite hard to publish papers doing anything like what I would consider useful business cycle analysis in good journals, and it’s still very hard for young macroeconomists with a reality sense to get appointments and promotion.

More broadly, the fundamental shift in intellectual criteria that Simon has written about several times — from “does the model fit the facts?” to “does it have rigorous foundations in maximization?” — remains very much in force.

You might have expected both the 2008 crisis and the years of poor performance that followed — years in which new classical types made massively wrong predictions, while people who remembered IS-LM did much better — would have changed this a lot. But remember that new classical macro fundamentally elevated microfoundations above empirical success; so orthodoxy largely brushed aside empirical failure.

But my small quarrel with Simon involves how we got into this state. He dismisses the stagflation of the 1970s, on the grounds that IS-LM macroeconomics quickly adapted to the new information. Indeed, this happened very fast: by 1978 both the leading undergraduate macro textbooks, Dornbusch-Fischer and Gordon, had accelerationist Phillips curves and extensive discussions of stagflation. (Compare this with new classical macro, which failed decisively in the 1980s, but never adjusted at all.)

Nonetheless, I remember the 70s quite well, and stagflation did indeed play a role in the rise of new classical macro, albeit in a subtler way than the caricature that it proved Keynes wrong, or something like that.

What mattered instead was the fact that stagflation had in effect been predicted by Friedman and Phelps; and the way they made that prediction was by taking a step in the direction of microfoundations. Specifically, they asked what a more or less rational price-setter would do in the face of persistent inflation; their answer was, raise prices preemptively, and if everyone did this it would shift the Phillips curve up by the amount of expected inflation. Sure enough, the Phillips curve did seem to shift as predicted.

What this did was to give immense prestige to the notion that you could use the assumption of rationality to make better predictions than you could using historical experience alone. And for a while, this created a presumption that more rationality in the model was always progress.

In the 80s, as I said, this was proved wrong, and the whole enterprise should have been reconsidered. But by then you already had a self-perpetuating clique that cared very little about evidence and regarded the assumption of perfect rationality as sacrosanct — if you weren’t assuming that, you weren’t doing real economics. So the effects of events were asymmetric: the 70s led Keynesians to adapt, but new classicals shrugged off the 80s, just as they are shrugging off the Great Recession.

In the long run, new classical macro may erode in the face of its uselessness. But in the long run — well, you know.

 

 

La Stagflazione e la caduta della macroeconomia

 

Simon Wren-Lewis e Mark Thoma scrivono sulla ascesa di una Nuova Macroeconomia Neoclassica – fondamentalmente il rigetto di Keynes ed il tentativo di assimilare la macroeconomia alla microeconomia. Non è frequente, ma ho qualche punto da chiarirmi con entrambi, sebbene sulle cose più importanti siamo d’accordo.

Mark scrive della ascesa e della caduta di una nuova macroeconomia classica – la qualcosa, mi spiace dirlo, è troppo ottimistica. I punti di vista anti-keynesiani, in sostanza la teoria del ciclo economico reale che sostiene che una domanda inadeguata non può mai essere un problema, mantengono una forte presa su una buona parte della disciplina. E’ ancora abbastanza arduo pubblicare saggi facendo ciò che io riterrei utile come analisi del ciclo economico su riviste importanti, ed è davvero molto difficile per giovani macroeconomisti con un senso della realtà ottenere nomine e promozioni.

Più in generale, il fondamentale cambiamento nei criteri intellettuali di cui Simon ha scritto molte volte – da “il modello si adatta ai fatti?” al “ci sono fondamenti rigorosi nella teoria della massimizzazione?” – resta in gran parte irrealizzato.

Ci si sarebbe potuto aspettare che sia la crisi del 2008 che gli anni delle modeste prestazioni che sono seguiti – anni nei quali gli individui dell’orientamento neoclassico hanno fatto previsioni completamente sbagliate, mentre le persone che si ricordavano del modello IS-LM si sono comportate assai meglio – avrebbero modificato molto questa situazione. Ma si rammenti che la nuova macroeconomia classica sostanzialmente pone i fondamenti microeconomici al di sopra delle affermazioni empiriche; dunque l’ortodossia in gran parte trascura le controindicazioni empiriche.

Ma il mio piccolo dissenso con Simon riguarda il modo in cui siamo finiti in questa situazione. Egli trascura la stagflazione degli anni ’70, sulla base del fatto che la macroeconomia del modello IS-LM si adattò rapidamente alle nuove acquisizioni. In effetti, questo avvenne molto rapidamente: con il 1978, entrambi i più importanti libro di testo, di Dornbusch-Fisher e di Gordon, contenevano le curve accelerazioniste di Phillips [1] ed ampie trattazioni sulla stagflazione (a confronto con la macroeconomia classica, che in modo definitivo non fu all’altezza dei problemi negli anni ’80, ma non si corresse mai).

Purtuttavia io ricordo abbastanza bene gli anni ’70, e la stagflazione giocò in effetti un ruolo nell’ascesa della nuova macroeconomia classica, sebbene in un modo più sottile della caricatura secondo la quale essa avrebbe smascherato il torto di Keynes, o cose del genere.

Quello che invece fu importante fu il fatto che la stagflazione era in effetti stata prevista da Friedman e Phelps; ed il modo in cui essi fecero quella previsione consistette nel fare un passo verso la teoria dei fondamenti micro. In modo particolare, essi si chiesero cosa avrebbe fatto un più o meno razionale determinatore dei prezzi a fronte di una persistente inflazione; la loro risposta fu che avrebbe elevato i prezzi preventivamente, e se ognuno si fosse comportato in questo modo ciò avrebbe spostato verso l’alto la curva di Phillips per la quantità della inflazione attesa. Di fatto, la curva di Phillips non sembrò spostarsi come previsto.

Negli anni ’80, come ho detto, questo si mostrò infondato, e l’intera impresa dovette essere riconsiderata. Ma a quel punto esisteva già una cricca tendente alla auto-perpetuazione che si curava molto poco delle prove e considerava gli assunti della perfetta razionalità come sacrosanti – se non partivate da quelle premesse, non stavate facendo vera economia. Dunque, gli effetti dei fatti furono asimmetrici: gli anni ’70 portano i keynesiani ad un adattamento, ma i neoclassici trascurano gli anni ’80, proprio come stanno trascurando la Grande Recessione.

Nel lungo periodo la macroeconomia neoclassica può sgretolarsi a fronte della sua inutilità. Ma nel lungo periodo …. ebbene, lo sapete [2].

 

 

[1] Per la “curva di Phillips” vedi le note sulla traduzione.

[2] Nel lungo periodo, secondo la nota espressione di Keynes, saremo tutti morti.

Economia della depressione e politica del clima (27 giugno 2014)

giugno 27, 2014

 

Jun 27 2:58 pm

Depression Economics and Climate Policy

There’s been a bit of back and forth over “reform conservatism” — which is, depending on your point of view, either an important new trend or an attempt by reasonably sane conservatives to pretend that they aren’t part of an essentially insane movement. And climate change, where the current GOP orthodoxy essentially revolves around a crazy conspiracy theory, is the flash point.

Ross Douthat attempts to justify the reform conservative backdown on climate policy; John Quiggin isn’t persuaded. But there’s one argument Quiggin, somewhat surprisingly, doesn’t make: Douthat has the economics all wrong.

Douthat’s essential point, as I understand it, is that economic troubles make this a bad time to take on the burden of climate adjustment, that they strengthen the case for waiting to see if we can get by doing less and using cheaper approaches.

But that’s exactly backwards. Yes, we’re having tough times — but the toughness stems from insufficient demand, which has led to an oversupply of both labor and capital. Here’s the real cost of government borrowing:

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Climate action would mainly involve investment — especially investment in new or retrofitted power plants, replacing coal-fired plants with lower-emission sources. In good times such investment would mean diverting labor and capital from other useful activities. But in the post-2008 economy we’ve been awash in unemployed labor and capital with no place to go. This is an ideal time to be doing a lot about climate!

Now, you may believe that conservatives just don’t see it this way, that their shift on climate reflects an honest misunderstanding of the economics. If so, not only will I sell you a bridge, but I’ll throw in some free power plants on the side.

 

Economia della depressione e politica del clima.

 

C’è stato un po’ di tira e molla sul “conservatorismo riformatore” – che è, a seconda dei punti di vista, o una interessante nuova tendenza o un tentativo da parte di conservatori di discreto equilibrio mentale di fingere di non far parte di un movimento essenzialmente di squilibrati. E il cambiamento climatico, per il quale l’ortodossia del Partito Repubblicano in sostanza si impernia sulla pazzesca teoria di una cospirazione, è l’argomento culminante.

Ross Douthat tenta di giustificare il cedimento del conservatorismo riformatore sulla politica del clima; John Quiggin non è persuaso. Ma, in modo abbastanza sorprendente, c’è un argomento che Quiggin non avanza: l’economia di Douthat è tutta sbagliata.

Il punto essenziale di Douthat, per come lo comprendo, è che i guai economici rendono questo momento del tutto inadatto a prendersi carico del cambiamento climatico, che essi rafforzano l’ipotesi a favore di una pausa, per vedere se possiamo avere risultati facendo di meno ed utilizzando approcci più convenienti.

Sennonché è esattamente al contrario. E’ vero, abbiamo tempi difficili – ma la difficoltà deriva da un domanda insufficiente, che ha condotto ad una offerta eccedente sia di lavoro che di capitale. Ecco il costo reale dell’indebitamento da parte dello Stato:

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L’iniziativa sul clima comporterebbe principalmente investimenti – specialmente investimenti in centrali elettriche nuove o ristrutturate, rimpiazzando impianti alimentati a carbone con fonti a minori emissioni. In tempi buoni tali investimenti dirotterebbero lavoro e capitale da altre attività utili. Ma nell’economia del dopo-2008 siamo inondati da lavoro disoccupato e da capitali che non sanno dove andare. E’ un momento ideale per fare molto sul cambiamento climatico!

Ora, si può ritenere che i conservatori semplicemente non la vedano in questo modo, che la loro deriva sul clima rifletta una onesta incomprensione dell’economia. Se è così, non solo vi farei accettare un ponte, ma in aggiunta ci metterei anche qualche centrale elettrica gratis [1].

 

 

[1] Forse il ponte di cui si parla è il tanto discusso tunnel ferroviario sul fiume Hudson, bloccato dal Governatore repubblicano del New Jersey?

Questi tempi di cose scadenti (27 giugno 2014)

giugno 27, 2014

 

Jun 27 11:13 am

These Ages of Shoddy

Henry Petroski, an engineer who’s also a fine writer, has a lament about the decline of good construction in today’s Times. It’s a great read; I’m trying to figure out whether I believe in his premise.

One thing is clear: there has been a shocking and inexcusable decline in public investment at a time when we should be doing far more investment. Construction workers are suffering high unemployment; public borrowing costs are at record lows; the economy is essentially awash with excess labor and capital, begging to be used. And here’s what’s happening to public construction:

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Public construction as percent of GDP

But Petroski argues that private construction is also in a bad way, with cheap materials and poor workmanship.

It’s easy to collect anecdotes to that effect, and almost everyone has the sense that we used to build things better. A few years ago there was a condo building under construction at 86th and West End Avenue; it bore a huge banner promising “Twenty-First Century Pre-War Living”. If you know New York, that meant high ceilings and thick walls.

And when I first moved to Princeton, for a while we lived in a brand-new McMansion in West Windsor, which was huge, with gigantic rooms, and was falling apart from day one.

But I worry about biased samples. Yes, the old buildings we know seem to be better built than the new ones. But isn’t there an issue of survivorship bias? Cheaply constructed buildings of the past are much more likely to have collapsed or for that matter torn down than the quality structures, so what we see now is the best of the bunch. The years after the Civil War were described at the time as the Age of Shoddy (originally a word for cheap fabric produced by war profiteers), and surely there were a lot of badly built tenements going up.

And when I was young — both as a graduate student and as an assistant professor — I and my friends lived in Boston area triple-deckers; let me tell you, they were not well built. Some of my friends had a rope tied around their refrigerator door, because otherwise it would swing open thanks to their slanting floor …

Oh, and not everything worth doing is doing well. Cheap construction makes sense if you suspect that changing land use will make expensively built structure obsolete fairly soon.

That said, I don’t know that Petroski is wrong; maybe we really are building worse. But I’d need better evidence.

 

 

Questi tempi di cose scadenti

 

Henry Petroski, un ingegnere che è anche un bravo scrittore, sul Times di oggi si lamenta del tramonto delle buone costruzioni. E’ una grande lettura: sto cercando di capire se condivido la sua premessa.

Una cosa è chiara: c’è stato un impressionante e imperdonabile declino dell’investimento pubblico in un’epoca nella quale avremmo dovuto realizzare molti più investimenti. I lavoratori dell’edilizia stanno subendo una disoccupazione elevata; i costi dell’indebitamento pubblico sono ai minimi storici; l’economia è essenzialmente inondata da un eccesso di lavoro e di capitale, che implora di essere utilizzato. Ed ecco quello che sta accadendo all’edilizia nel settore pubblico:

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Edilizia pubblica come percentuale del PIL

 

Ma Petroski sostiene che anche l’edilizia privata è in cattive acque, con materiali di seconda mano e prodotti scadenti.

A tal fine è facile raccogliere aneddoti, e quasi tutti hanno l’impressione che fossimo abituati a costruire cose migliori. Pochi anni orsono era in costruzione un edificio condominiale sulla 86° strada e in West End Avenue; innalzava un grande striscione che prometteva “Ambienti di stile prebellico nel Ventunesimo Secolo”. Se si conosce New York, questa significava soffitti alti e pareti robuste.

E quando inizialmente mi spostai a Princeton, per un certo periodo vivevamo in una villetta nuova di zecca in West Windsor, un grande edificio, con stanze gigantesche, e che sin dall’inizio non faceva altro che cadere a pezzi.

Però mi preoccupano gli esempi tendenziosi. E’ vero, i vecchi edifici che conosciamo sembrano costruiti meglio dei nuovi. Ma non c’è in questo l’aspetto dell’errore di prospettiva di tutto ciò che sopravvive? I palazzi costruiti più economicamente del passato è molto più probabile che siano collassati o magari che siano anche stati demoliti delle strutture di qualità, cosicché noi oggi vediamo il meglio della categoria. Un tempo, gli anni dopo la Guerra Civile venivano descritti come l’Età delle Cose Scadenti (all’origine una parola che indicava tessuti a poco prezzo prodotti degli speculatori di guerra), e sicuramente ci furono una gran quantità di palazzi mal costruiti che vennero tirati su.

E quando ero giovane – nel periodo in cui studiavo all’Università ed in quello in cui ero professore assistente – con i miei amici vivevamo a Boston in una zona di edifici a tre piani [1]; consentitemi di dire che non erano affatto ben costruiti. Alcuni miei amici avevano una corda legata attorno allo sportello del loro frigorifero, perché altrimenti si sarebbe aperto in continuazione grazie alla pendenza del pavimento ….

Inoltre, non tutto quello che è il caso di fare viene fatto bene. Costruzioni economiche hanno senso se pensate che cambiando l’uso del territorio si renderanno abbastanza rapidamente obsolete strutture costruite con grandi costi.

Ciò detto, io non so se Petroski abbia torto: è possibile che stiamo costruendo cose peggiori. Ma avrei bisogno di qualche prova in più.

 

 

 

[1] Un esempio di “triple-decker”:

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Sei a zero (26 giugno 2014)

giugno 26, 2014

 

Jun 26 5:14 pm

Zero for Six

For reference: I count at least six distinct predictions of Obamacare doom made by the usual suspects, not one of which has come true. Here they are:

1. Enrollment will be very low, and

2. Even if people sign up, they won’t pay their premiums.

 

Reality: Signups exceeded expectations, and the vast majority paid.

 

3. More people will lose coverage cancelled by Obamacare than gain it.

 

Reality: Sharp drop in the number of uninsured.

 

4. Rate shock.

 

Reality: Like it says, affordable care.

 

5. Young people not signing up, and death spiral.

 

Reality: Pretty good demographics.

 

6. Soaring health costs.

 

Reality: Health costs are below anyone’s expectations.

 

It’s quite an impressive track record, actually. And what’s even more impressive is that none of the usual suspects will even consider admitting having been wrong.

 

 

Sei a zero

 

Per memoria: tengo il conto di almeno sei distinte previsioni di sciagura sulla riforma sanitaria di Obama avanzate dai soliti noti, nessuna delle quali si è avverata. Eccole:

 

1 Le iscrizioni saranno molto scarse, e …

2 anche se le persone si iscrivono, non pagheranno le loro polizze.

 

In realtà: le iscrizioni sono state superiori alle attese, e la grande maggioranza ha pagato.

 

3 Saranno di più le persone che perderanno una copertura assicurativa, di quelle che la otterranno a seguito della riforma di Obama.

 

In realtà: brusca caduta nel numero dei non assicurati.

 

4 Lo shock delle aliquote.

 

In realtà: come ho detto, assistenza sostenibile.

 

5 I giovani non si iscriveranno, e ci sarà una ‘spirale fatale’ [1].

 

In realtà: l’aspetto della composizione demografica è abbastanza buono.

 

6 I costi sanitari saliranno alle stelle.

 

In realtà: i costi sanitari sono al di sotto di ogni aspettativa.

 

In effetti, è una sequenza di prestazioni abbastanza impressionante. E quello che è ancor più impressionante è che nessuno dei soliti noti prenderà mai in considerazione l’ammettere di essersi sbagliato.

 

 

[1] Ovvero, i costi saliranno per la scarsità di persone giovani (le persone giovani, ovviamente, sono quelle che costano di meno in una assicurazione sanitaria) e di conseguenza i costi per i restanti diventeranno più alti ….

Sulla responsabilità sociale degli esperti (25 giugno 2014)

giugno 25, 2014

 

Jun 25 10:27 am

On the Social Responsibility of Wonks

Jared Bernstein agonizes over the role of wonkish analysis (which spell-check keeps trying to change to “monkish”) in a political environment in which “facts and smart policy are on the run.” It’s something I worry about too.

On one side, if wonks don’t point out what we really should be doing, who will? To take a current pressing example, it may be that nobody in the British political mainstream is willing to take a stand against austerity, but economists should nonetheless keep pointing out that it’s really bad policy.

On the other hand, if wonks only propose things that won’t happen, what good are they?

The best answer I can come up with is to work on two tracks — to talk about first-best policies but also be prepared to support second-best policies if that’s what is on offer. Obamacare is a Rube Goldberg device that is nonetheless much better than nothing — and it’s working. Carbon taxes would be the way to go in a better world, but in this one various administrative actions may be the best you can do.

It’s a tricky balancing act. You don’t want to give up on good ideas and make it seem as if flawed political compromises are better than they are — and if they’re bad enough, you have to oppose them. (And how do we know if they’re bad enough? Um ….) But you certainly haven’t done your job if you just lay out your fine theory and walk away from the real choices on offer.

Nobody said life would be easy.

 

Sulla responsabilità sociale degli esperti

 

Jared Bernstein si arrovella sul ruolo delle analisi dei “wonkish” (che il controllo ortografico continua a cercar di modificare in “monkish” [1]) in un contesto politico nel quale “i fatti e la politica intelligente sono in fuga”. E’ qualcosa di cui mi preoccupo anch’io.

Da una parte, se gli esperti non mettono in evidenza quello che davvero si dovrebbe fare, chi lo farà? Per prendere un esempio attualmente incalzante, può darsi che nessuno nell’orientamento prevalente della politica inglese sia disponibile a prendere posizione contro l’austerità [2], ma gli economisti dovrebbero nondimeno continuare a mettere in evidenza che essa è realmente una pessima politica.

D’altra parte, se gli esperti si limitano a proporre cose che non accadono, a cosa servono?

La migliore risposta che mi viene in mente è lavorare su due prospettive – parlare delle migliori politiche in prima istanza, ma essere anche preparati a sostenere politiche di seconda istanza, se è quello che passa il convento. La riforma della sanità di Obama è un congegno alla Rube Goldberg [3] che purtuttavia è meglio di niente – e sta funzionando. Le tasse sull’anidride carbonica sarebbero il modo per andare verso un mondo migliore, ma in questo mondo reale varie azioni al livello amministrativo possono essere la cosa migliore da fare.

Si tratta di una azione complicata di bilanciamento. Non si deve rinunciare alle buone idee e far apparire che i compromessi politici siano meglio di quello che sono – e se essi sono assolutamente negativi, ci si deve opporre (e come sappiamo se sono assolutamente cattivi? Hm … ) Ma di certo non si fa il proprio lavoro se semplicemente ci si affida alle proprie belle teorie e si trascurano le scelte effettive che sono sul campo.

Nessuno ha detto che la vita sarebbe stata facile.

 

 

 

[1] “Wonkish” – da “wonk” più il suffisso “ish” – secondo i dizionari sarebbe principalmente traducibile con “secchione”, anche se io noto che non ha necessariamente la accentuazione ironica ed anche negativa del termine italiano. Ovvero, non è necessariamente qualcuno che eccelle solo per la volontà di studiare; talora ha più oggettivamente il senso di “sapientone”, quando non – come forse in questo caso – più semplicemente il significato di “esperto nella materia”. Anche se questa interpretazione è forse più esatta per “wonk”, dato che il suffisso “ish” dovrebbe accentuare un senso di relativa approssimazione o incertezza (magari “saputello”?). “Monkish” significa invece “da monaco, proprio di un monaco”, ma il suggerimento del controllo ortografico del computer, in questo caso, è solo casuale.

[2] La connessione nel testo è con un post su un blog britannico (“Stumbling and mumbling” – che significa “Inciampando e borbottando”) che è gestito da Chris Dillow, un simpatico giovane giornalista londinese. L’autore si presenta, nel sottotitolo del blog, come “Un estremista, non un fanatico”.

[3] Famoso autore americano di fumetti del dopoguerra. Riempiva le sue vignette di stranissimi congegni molto complicati destinati a fare cose semplicissime, come il seguente:

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L’ironia della Export-Import Bank (24 giugno 2014)

giugno 24, 2014

 

Jun 24 4:32 pm

ExIm Irony

So it looks quite likely that the Tea Party will claim a scalp from the business lobby, and kill the Export-Import Bank. And there is a case for doing away with the lender – except that this is the worst possible time for it.

Under normal circumstances, we can argue that ExIm neither improves the US trade balance nor creates jobs. Even if it does succeed in increasing some exports, the standard view would be that any expansion of the US economy would be choked off by a rise in interest rates as the Fed tries to prevent overheating, which would lead to a rise in the dollar, which would lead to a fall in other exports and/or a rise in imports. So you can claim that ExIm is mercantilist trade policy, and counterproductive.

Against this you can make various strategic trade policy arguments, but the case for a special export lender is weak at best.

Right now, however, we’re at the zero lower bound, which means that the Fed won’t raise rates. As I’ve said a number of times, under current conditions mercantilism works – so this is exactly the moment when ending an export-support program really would cost jobs.

By the way, I was sloppy in my post about America as a lousy exporter. When I said that the trade balance is determined by savings and investment, I should have added “under conditions where the Fed can achieve full employment.” I was thinking about history there; that’s not the case right now, and may not be the case for a long time.

 

L’ironia della Export-Import Bank [1]

 

Dunque, sembra abbastanza probabile che il Tea Party pretenderà uno scalpo dalla lobby affaristica, e farà fuori la Export-Import Bank. E c’è una ragione per sbarazzarsi di chi ha prestato i soldi – sennonché questo è il peggior momento possibile per farlo.

In condizioni normali, si può sostenere che la ExIm non migliora la bilancia commerciale degli Stati Uniti, né crea posti di lavoro. Persino se essa avesse davvero qualche risultato nell’accrescere le esportazioni, il punto di vista normale sarebbe che una qualsiasi espansione dell’economia americana verrebbe soffocata da una crescita nei tassi di interesse nel momento in cui la Fed cercasse di impedire un surriscaldamento, il che porterebbe ad un apprezzamento del dollaro, il che a sua volta porterebbe ad una caduta di altre esportazioni, oppure ad una crescita delle importazioni. Si può dunque sostenere che la ExIm è politica commerciale mercantilista e controproducente.

Contro ciò si possono avanzare vari argomenti strategici di politica commerciale, ma l’argomento di un istituto di credito speciale per le esportazioni è il più debole di tutti.

In questo momento, tuttavia, siamo dinanzi al limiti inferiore dello zero. Il che significa che la Fed non alzerà i tassi. Come ho detto un certo numero di volte, nelle attuali condizioni il mercantilismo funziona – cosicché questo è esattamente il momento nel quale chiudere un programma di sostegno alle esportazioni comporterebbe davvero la perdita di posti di lavoro.

Per inciso, sono stato superficiale nel mio post sull’America come pessima esportatrice. Quando ho affermato che la bilancia commerciale è determinata dai risparmi e dagli investimenti, avrei dovuto aggiungere “alle condizioni nelle quali la Fed può ottenere la piena occupazione”. In quel momento stavo pensando alla storia; non è quello il caso di oggi né lo sarà per un lungo periodo.

 

 

[1] Il post si riferisce ad un dibattito che è in pieno svolgimento negli USA sulla proroga delle funzioni di questo istituto di credito alla esportazione, oppure sulla sua scomparsa. La Export-Import Bank ha 80 anni di vita, e grandi aziende come la Boeing e la General Electric sono attivamente impegnate per un conferma delle sue funzioni. Il Presidente Obama si è espresso nettamente a favore della conferma, con un programma che innalzerebbe il tetto dei prestiti totale che la banca potrebbe garantire, dai 140 miliardi di dollari attuali ai 160. Obama ha affermato che gli interventi della Banca hanno interessato per l’89 per cento imprese di piccole dimensioni. Il numero due dei repubblicani della Camera, Kevin McCarthy, si è espresso invece per il non rinnovo delle funzioni della banca, e senza la approvazione della Camera, la solo approvazione da parte del Senato non sarebbe sufficiente. In sostanza, la tesi dei repubblicani è che le funzioni potrebbero essere assunte da imprese private, ed i componenti del Tea Party sono in questi giorni particolarmente attivi a sostegno della tesi della scomparsa della Banca. Il fatto che alla Camera ci sia una maggioranza di repubblicani rende l’ipotesi di un non rinnovo piuttosto plausibile.

Di seguito la foto di un intervento del Segretario di Stato John Kerry presso la Export-Import Bank:

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Simpatie per i “Trustafariani” (24 giugno 2014)

giugno 24, 2014

 

Jun 24 12:32 pm

Sympathy for the Trustafarians

A number of people have asked me to comment on Greg Mankiw’s defense of inherited wealth. It’s a strange piece, oddly disconnected from the real concerns about patrimonial capitalism. But let me focus on two key problems with Mankiw’s analysis – one purely economic, one involving political economy.

So, on the economics: Mankiw argues that accumulation of dynastic wealth is good for everyone, because it increases the capital stock and therefore trickles down to workers in the form of higher wages. Is this a good argument?

Well, if there’s one thing I thought economists were trained to do, it was to be clear about opportunity cost. We should compare accumulation of dynastic wealth with some alternative use of resources – not assume, as Mankiw in effect does, that if not passed on to heirs that wealth would simply disappear. Maybe he’s assuming that the alternative would be riotous living by the current rich, but that’s not a policy alternative.

In fact, what we’re really talking about here is taxation of wealth., and the question is what would happen to that revenue versus what happens if the rich get to keep the money. If the government uses the extra revenue to reduce deficits, then all of it is saved – as opposed to only part of it if it’s passed on to heirs. If the government uses the revenue to pay for social insurance and/or public goods, that’s likely to provide a lot more benefit to workers than the trickle-down from increased capital.

The point is that you can only justify Mankiw’s claim that inherited wealth is necessarily good for workers by insisting that the government would do nothing useful with the revenue from inheritance taxes. I’d call that assuming your conclusions; in any case, it’s a claim that deserves to be made openly, not smuggled in on the pretense that you’re just doing economic analysis.

But the larger criticism of Mankiw’s piece is that it ignores the main reason we’re concerned about the concentration of wealth in family dynasties – the belief that it warps our political economy, that it undermines democracy. You don’t have to be a radical to share this concern; not only did people like Teddy Roosevelt openly talk about this problem, so (as Thomas Piketty points out) did Irving Fisher in his 1919 presidential address to the American Economic Association.

What’s curious is that conservative economists are well aware of the danger of “regulatory capture”, in which public institutions are hijacked by vested interests, yet blithely dismiss (or refuse even to mention) the essentially equivalent problem of democratic institutions hijacked by concentrated wealth. I take regulatory capture quite seriously; but I take plutocratic capture equally seriously. And this is not an issue you can deal with by claiming that the benefits of capital accumulation trickle down to workers.

If Mankiw wants to argue that the costs of any attempt to limit wealth concentration would exceed the benefits, fine. But “more capital is good” is not a helpful contribution to the discussion.

 

Simpatie per i “Trustafariani” [1]

 

Un certo numero di persone mi hanno chiesto di commentare la difesa di Greg Mankiw della ricchezza ereditaria. Si tratta di uno strano articolo, curiosamente disconnesso dalle preoccupazioni vere sul capitalismo ereditario. Ma consentitemi di concentrarmi su due problemi chiave della analisi di Mankiw – uno puramente economico e l’altro che riguarda anche l’economia politica.

Dunque, su quello economico: Mankiw sostiene che l’accumulazione della ricchezza dinastica è positiva per tutti, perché incrementa le riserve di capitale e di conseguenza scende sino alle tasche dei lavoratori nella forma di salari più elevati. Si tratta di un buon argomento?

Ebbene, se c’è una cosa alla quale pensavo gli economisti fossero esercitati, era quella di essere chiari a proposito del costo di opportunità [2]. Si dovrebbe stabilire un confronto tra la accumulazione della ricchezza dinastica ed un qualche uso alternativo delle risorse – non assumere, come fa Mankiw, che se non si trasferisce agli eredi una ricchezza, essa semplicemente scompare. Può darsi che egli stia ipotizzando che l’alternativa sarebbe un vivere sfrenato da parte dei ricchi attuali, ma quella non è una alternativa politica.

Di fatto, quello di cui stiamo effettivamente parlando in questo caso è la tassazione della ricchezza, e la domanda è che cosa accadrebbe di quella entrata a confronto con quello che accade se per i ricchi è possibile tenersi il denaro. Se il governo usa l’entrata supplementare per ridurre i deficit, allora essa viene tutta risparmiata – al contrario di quando una parte di essa si trasferisce agli eredi. Se il governo usa l’entrata per pagare la assicurazione sociale e/o i beni pubblici, quella soluzione è probabile che fornisca una quantità molto maggiore di benefici ai lavoratori che non un po’ di briciole [3] che derivano dal capitale aumentato.

Il punto è che l’unico modo per giustificare la pretesa di Mankiw secondo la quale la ricchezza ereditaria è per logica una buona cosa per i lavoratori, è quello di sostenere che il governo non farebbe niente di utile con le entrate derivanti dalle tasse di successione. Direi che si tratta di un assunto basato sulle conclusioni; in ogni caso è una tesi che merita di essere esposta apertamente, e non contrabbandata con la pretesa che si stia solo sviluppando una analisi economica.

Ma le maggiori critiche all’articolo di Mankiw sono che esso ignora la principale ragione per la quale siamo preoccupati della concentrazione della ricchezza nelle dinastie familiari – la convinzione che essa distorca la nostra economia politica, che mini la democrazia. Non c’è bisogno di essere radicali per condividere questa preoccupazione; non solo persone come Teddy Roosevelt parlarono apertamente di questo problema, lo stesso fece (come Thomas Piketty sottolinea) Irving Fisher nel suo discorso da presidente della Associazione Economica Americana del 1919.

Quello che è singolare è che gli economisti conservatori sono ben consapevoli del pericolo della cosiddetta “cattura normativa” [4], per il quale le istituzioni pubbliche sono prese in ostaggio dagli interessi costituiti, tuttavia liquidano spensieratamente (o rifiutano persino di menzionare) il problema essenzialmente equivalente di istituzioni democratiche prese in ostaggio dalla concentrazione della ricchezza. Io prendo abbastanza sul serio la “cattura normativa”; ma prendo altrettanto sul serio la cattura normativa plutocratica. E questo non è una tema che si possa affrontare sostenendo che le briciole della accumulazione del capitale scivolano sui lavoratori.

Se Mankiw vuole sostenere che i costi di ogni tentativo di limitare la concentrazione della ricchezza sarebbero superiori ai benefici, va bene. Ma dire che “più capitale è una buona cosa” non è un contributo utile alla discussione.

 

 

[1] Non saprei come inventare una espressione analoga in italiano. All’origine del termine c’è la setta dei “rastafariani”, che però era un’effettiva setta religiosa, nata in Etiopia attorno al mito dell’imperatore Hailé Selassié (anni ’30 del novecento), che veniva considerato come un erede di Cristo e che era nominato Ras Tafari. Ma quel termine è entrato nella successiva espressione di “trustafarian” sostanzialmente con il senso di una sottocultura un po’ eccentrica, abbastanza anarchica e dedita a forme di vita del tutto libere. Tale operazione linguistica è derivata dall’accostamento al termine “rastafarian” del suffisso “Trust fund” (laddove “trust” sostituisce “rast”) – che significa ‘fondo fiduciario’ – ed esprime la condizione di quei ragazzi ‘di buona famiglia’ che possono permettersi ogni genere di originalità, per effetto della disponibilità, appunto, di quei fondi finanziari che assicurano loro una esistenza agiata. Probabilmente “trustafiano” fu un termine coniato coniato da qualche conservatore fantasioso per prendersela con gli “hyppies”. In questo post “trustafariano” diventa sinonimo di erede di grandi ricchezze.

[2] Il costo opportunità in economia è il costo derivante dal mancato sfruttamento di una opportunità concessa al soggetto economico. Quantitativamente, il costo opportunità è il valore della migliore alternativa tralasciata. In altri termini, il costo opportunità è il sacrificio che un operatore economico deve compiere per effettuare una scelta economica. L’alternativa a cui si deve rinunciare quando si effettua una scelta economica è detta costo opportunità (opportunity cost). Ad esempio, quando una persona inizia a lavorare rinuncia ad una parte del proprio tempo libero al fine di ottenere un reddito economico, il tempo libero rappresenta il costo opportunità della scelta. (Wikipedia)

[3] Espressione quasi equivalente del “trickle down”. Che però non ha il significato polemico delle ‘briciole alla mensa dei ricchi’, visto che negli USA lo ‘sgocciolamento’ della ricchezza dall’alto in basso – almeno negli ambienti conservatori – ha la dignità di un a teoria economica, che era molto in voga all’epoca di Reagan.

[4] Il termine inglese regulatory capture (traducibile in italiano come “cattura normativa”) è utilizzato con riferimento a situazioni in cui un’agenzia di regolamentazione statale creata per agire nell’interesse pubblico, agisce invece in favore degli interessi commerciali o speciali dominanti nell’industria o nel settore oggetto della regolamentazione. La regulatory capture è una forma di fallimento dello stato, in quanto può agire come incentivo per le grandi imprese alla produzione di esternalità negative. (Wikipedia)

Lezioni inglesi sull’isteria della inflazione (23 giugno 2014)

giugno 23, 2014

 

Jun 23 10:10 am

British Lessons on Inflation Hysteria

Tim Duy tells us that “inflation hysteria is gripping Wall Street“; that matches my own observations. A modest uptick in core inflation has all the usual suspects declaring that the Fed will/must tighten now now now. Meanwhile, Janet Yellen is looking at wages, which are going nowhere, and sitting tight.

There is actually a recent historical parallel, which I’m surprised hasn’t been pointed out: Britain in 2011, which had a much more pronounced inflationary bulge than anything we’re seeing here:

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But wages were going nowhere, and the Bank of England refused to tighten.

I remember being given a great deal of grief for defending this policy, with many accusations of being blind to the terrible inflationary risks. In fact, however, it turned out that the inflation bump was a blip, that you can’t have an inflation takeoff with quiescent wages. And the BoE was right to stay the course.

So Yellen has history on her side.

 

Lezioni inglesi sull’isteria della inflazione

 

Tim Duy ci racconta che “l’isteria dell’inflazione sta afferrando Wall Street”; il che corrisponde alle mie stesse osservazioni. Un modesto incremento della inflazione sostanziale [1] porta tutti i soliti noti a dichiarare che la Fed deve operare una restrizione, senza alcun indugio. Nel frattempo, Janet Yellen sta osservando i salari, che non vanno da nessuna parte, e non si muovono di una virgola.

Per la verità c’è un parallelo storico recente, che sono rimasto sorpreso non sia stato messo in evidenza: l’Inghilterra nel 2011, che ebbe un rigonfiamento inflazionistico assai più pronunciato rispetto a quanto stiamo osservando nel nostro caso:

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Ma i salari non si muovevano, e la Banca di Inghilterra si rifiutò di procedere ad una stretta.

Ricordo di essermi procurato una gran quantità di guai per aver difeso quella politica, con svariate accuse di cecità verso i terribili rischi di inflazione. Di fatto, tuttavia, venne fuori che quella gobba di inflazione era un contrattempo, che non era possibile un decollo dell’inflazione con i salari che restavano fermi. E la Banca di Inghilterra ebbe ragione a mantener ferma la rotta.

Dunque, la Yellen ha la storia dalla sua parte.

 

 

[1] Sulla differenza tra “headline inflation” e “core inflation” vedi le note sulla traduzione.

Il danno fatto (22 giugno 2014)

giugno 22, 2014

 

Jun 22 11:38 am

The Damage Done

A note to myself, mainly. Look at the Spring 2008 World Economic Outlook of the IMF, which projected real GDP (pdf) for advanced countries, and compare it with the actual path:

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That’s a huge shortfall. Yet the IMF believes that the output gap is only a couple of percentage points. If so, either there was a huge coincidence — a sudden, unanticipated drop off in potential growth that just happened to coincide with the financial crisis — or the crisis, and the poor macroeconomic management that followed, have done incredible damage.

 

Il danno fatto

 

Un appunto, principalmente per me stesso. Si guardi al World Economic Outlook del FMI della primavera del 2008, che forniva le prospettive del PIL reale per i paesi avanzati (disponibile in pdf), e lo si confronti con l’indirizzo attuale:

z 92

 

 

 

 

 

 

 

 

E’ un deficit grandissimo. Tuttavia il FMI crede che il differenziale della produzione sia soltanto di un paio di punti percentuali. Se è così, o c’è stata una grande coincidenza – una improvvisa, imprevista caduta della crescita potenziale che casualmente ha proprio coinciso con la crisi finanziaria – oppure la crisi, e la misera gestione macroeconomia che le ha fatto seguito, ha fatto un danno incredibile.

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