Blog di Krugman

La solitudine del repubblicano sano di mente (22 giugno 2014)

 

Jun 22 11:31 am 88

The Loneliness of the Non-Crazy Republican

Hank Paulson has a very sad opinion piece about climate change in today’s Times. We must act, he declares, in the same way we acted to contain the financial crisis.

It’s a dubious analogy: the 2008 crisis was fast-moving, and people like Paulson could credibly warn that unless we acted the whole world economy would fall apart in a matter of days. Meanwhile, climate change is slow but inexorable, with enormous momentum; by the time it becomes undeniable that there’s a crisis, it will be too late to avoid catastrophe.

But that’s not the sad part about Paulson’s piece; no, what’s sad is that he imagines that anyone in the party he still claims as his own is listening. Earth to Paulson: the GOP you imagine, which respects science and is willing to consider even market-friendly government interventions like carbon taxes, no longer exists. The reins of power now rest firmly, irreversibly, in the hands of men who believe that climate change is a hoax concocted by liberal scientists to justify Big Government, who refuse to acknowledge that government intervention to correct market failures can ever be justified.

Given the state of U.S. politics today, climate action is entirely dependent on Democrats, With a Democrat in the White House, we got some movement through executive action; if Democrats eventually regain the House, there could be more. If Paulson believes that he can support Republicans while still pushing for climate action, he’s just delusional.

 

La solitudine del repubblicano sano di mente

 

Hank Paulson pubblica un tristissimo articolo di commento sul cambiamento climatico sul Times di oggi. Dobbiamo agire, afferma, nello stesso modo in cui agimmo per contenere la crisi finanziaria.

E’ una analogia dubbia: la crisi del 2008 si sviluppò rapidamente, e persone come Paulson potrebbero credibilmente mettere in guardia che se non avessimo agito il mondo intero sarebbe finito a pezzi in una manciata di giorni. Di contro, il cambiamento climatico è lento ma inesorabile, ha una forza interna enorme: quando diventerà innegabile l’esistenza di una crisi, sarà troppo tardi per evitare la catastrofe.

Ma non è questa la parte triste dell’articolo di Paulson; no, quello che è triste è che egli si immagini che qualcuno nel partito che egli continua a considerare come il suo stia dando ascolto. Metti i piedi per terra Paulson: il Partito Repubblicano che ti immagini, che rispetta la scienza ed è disponibile a prendere in considerazione addirittura interventi statali favorevoli al mercato come le tasse sull’anidride carbonica, non esiste più. In questo momento le redini del potere sono saldamente e irreversibilmente nelle mani di uomini che credono che il cambiamento climatico sia una balla escogitata da scienziati progressisti per giustificare una dilatazione delle funzioni pubbliche, che rifiutano di riconoscere che l’intervento dello Stato per correggere il fallimento del mercato possa mai essere giustificato.

Data la condizione della politica statunitense in questi tempi, l’iniziativa sul clima dipende interamente dai democratici, con un democratico alla Casa Bianca abbiamo ottenuto un qualche progresso attraverso una iniziativa al livello dell’esecutivo; se i democratici alla fine riconquisteranno la Camera, ci potrebbero essere possibilità maggiori. Se Paulson crede di poter sostenere i repubblicani nel mentre spinge per una iniziativa sul clima, semplicemente si illude.

Austerità ed isteresi (20 giugno 2014)

giugno 20, 2014

 

Jun 20 9:34 am

Austerity and Hysteresis

Larry Ball has an important paper documenting, on a consistent basis, a very disturbing point: if you believe official estimates of potential output, the Great Recession and its aftermath have done incredible damage, not just to short-run output and employment, but to long-run prospects.

Here’s my back of the envelope version. If you look at the IMF’s “advanced country” real GDP aggregate, it grew 18 percent from 2000 to 2007 — and back in 2007 it was generally expected to keep rising at more or less the same rate. In fact, advanced-country GDP is likely to be only around 6 percent higher in 2014 than it was in 2007, or 10 percent below trend. Yet official estimates of economic slack are much lower than 10 percent — the IMF’s estimate for 2014 is only 2.2 percent. So the numbers seem to imply that the economic crisis caused something like an 8 percent hit to economic potential all across the advanced world, which is huge.

One possibility is that the output gap numbers are wrong; we’re actually having a very hard time figuring out how much slack there is. Another possibility is that it’s just a coincidence that underlying growth slowed at the same time as the crisis. But if you take the numbers seriously, they do seem to indicate that hysteresis — short-term shocks quasi-permanently hurt the economy’s potential — is a very big issue.

Suppose, in particular, that we look at the correlation between austerity policies and the decline in potential output. In the figure below I plot the IMF’s estimates of the change in structural deficits as a percentage of potential GDP, 2009-2013, against Ball’s estimates of the decline in potential output in 2013 relative to pre-crisis expectations:

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This suggests that austerity equal to one percent of GDP reduces potential output by around 1 percent. That’s huge — easy enough to make austerity a hugely self-defeating policy even in purely fiscal terms.

There are various ways you can try to rationalize away this correlation. But it nonetheless looks as if economic policy has been even more destructive than we thought.

 

Austerità ed isteresi

 

Larry Ball pubblica un importante saggio che documenta, con abbondanza di riferimenti, un aspetto assai inquietante: se si crede alle cifre ufficiali sulla produzione potenziale, la Grande Recessione e le sue conseguenze hanno fatto un danno incredibile, non solo sulla produzione nel breve periodo e sull’occupazione, ma anche sulle prospettive di lungo periodo.

Ecco la mia versione buttata giù alla svelta. Se si osserva l’aggregato del PIL reale alla voce “paesi avanzati” del FMI, esso è cresciuto del 18 per cento dal 2000 al 2007 – e nel passato 2007 in generale ci si aspettava che continuasse a crescere più o meno allo stesso ritmo. Nei fatti, il PIL dei paesi avanzati è probabile che nel 2014 sia più alto di appena circa il 6 per cento rispetto al 2007, ovvero il 10 per cento al di sotto della linea di tendenza. Tuttavia, le stime ufficiali della lentezza dell’economia sono molto più basse del 10 per cento – la stima del FMI per il 2014 è soltanto il 2,2 per cento. Dunque, i numeri sembrano comportare che la crisi economica abbia provocato un colpo pari ad un 8 per cento al potenziale economico in tutto il mondo avanzato, che è un dato molto grande.

Una possibilità è che i dati sul differenziale della produzione siano sbagliati; in verità abbiamo molte difficoltà ad immaginarci quanto la situazione sia fiacca. Un’altra possibilità è che si tratti solo di una coincidenza, che la crescita in corso abbia rallentato nello stesso periodo della crisi. Ma se si prendono quei dati sul serio, essi sembrano indicare che l’isteresi – gli eventi negativi di breve periodo che danneggiano in modo quasi permanente il potenziale economico – sia un tema molto grande [1].

Supponiamo, in particolare, che si osservi la correlazione tra le politiche dell’austerità ed il declino nella produzione potenziale. Nella figura sotto traccio le stime del FMI sui mutamenti dei deficit strutturali come percentuali del PIL potenziale, periodo 2009-2013, a confronto con le stime di Ball sul declino della produzione potenziale nel 2013 in rapporto con le aspettative precedenti alla crisi:

z 87

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo suggerisce che una austerità pari all’1 per cento del PIL riduce la produzione potenziale di circa l’1 per cento. E’ molto – del tutto sufficiente a rendere l’austerità una politica ampiamente autodistruttiva, persino in termini puramente di finanza pubblica.

Ci sono vari modi nei quali si può cercare di trarre spunti da questa correlazione. Nondimeno, sembra che la politica economica sia stata persino più distruttiva di quanto pensassimo.

 

 

[1] L’Isteresi è il fenomeno per il quale il valore assunto da una grandezza che dipende da altri fattori è determinato non solo dagli ultimi valori di tali fattori, ma anche dai valori che essi avevano in precedenza, che in qualche modo cumulano i loro effetti sull’oggetto che si sta considerando. Più semplicemente, è il fenomeno per il quale un sistema reagisce in ritardo alle sollecitazioni e sconta la loro linea di tendenza complessiva. Il termine, derivante dal greco ὑστέρησις (hystéresis, “ritardo”), fu introdotto nel senso moderno da James Alfred Ewing nel 1890, ed è usato in generale nella teoria dei sistemi dinamici, quindi non solo in fisica, ma anche in biologia ed economia. (Wikipedia)

L’America è una pessima esportatrice (20 giugno 2014)

giugno 20, 2014

 

Jun 20 9:17 am

America As A Lousy Exporter

Sorry about two-day silence — busy with real life and various obligations.

Resurfacing, I find that I have confused Ryan Avent by asserting that the United States is lousy at exporting. Mea culpa — I didn’t explain my criteria. But we are indeed lousy.

As Avent says, you can’t assess our export competence by looking at our trade balance — the trade balance is a macroeconomic phenomenon, determined by the excess of savings over investment. What you can look at, however, is the real exchange rate — and, in particular, the relative unit labor cost — at which a given trade balance is achieved.

And what you see here is that the U.S. consistently does well on international productivity comparisons, including those limited to manufacturing; and it also pays manufacturing workers less than many other advanced countries, as I showed in the previous post. So you would expect U.S. manufacturing to be super-competitive on world markets (or you would expect the dollar to rise so that our trade deficit occurs via high labor costs). You don’t.

And this situation, where U.S. manufacturing looks very competitive by the numbers but doesn’t seem that way when you look at trade flows, has persisted for decades. I remember talking about it with Rudi Dornbusch when I was in graduate school!

Just to be clear, this isn’t a major problem for the U.S. economy. If we were better at exporting we’d have better terms of trade, and slightly higher real income, but we’re not talking about large numbers. But it is a puzzle.

 

L’America è una pessima esportatrice

 

Spiacente per i due giorni di silenzio – ero occupato con la vita quotidiana e con varie scadenze.

Tornando alla superficie, ho scoperto di aver disorientato Ryan Avent [1] sostenendo che gli Stati Uniti hanno prestazioni negative come esportatori. Mea culpa – non ho chiarito il mio ragionamento. Ma siamo davvero assai mediocri.

Come dice Avent, non possiamo stimare le nostre capacità di esportare osservando la nostra bilancia commerciale – la bilancia commerciale è un fenomeno macroeconomico, determinato dall’eccesso dei risparmi sugli investimenti. Quello che si può osservare, tuttavia, è il tasso reale di cambio – e in particolare il costo relativo per unità di lavoro – sulla base del quale si ottiene una determinata bilancia commerciale.

E quello che in questo caso si vede è che gli Stati Uniti hanno costantemente buone prestazioni nei confronti internazionali sulla produttività, compresi quelli limitati al solo settore manifatturiero; ed anche che pagano i lavoratori del settore manifatturiero meno di altri paesi avanzati, come avevo mostrato nel post precedente. Dunque ci si aspetterebbe che il settore manifatturiero sia ultra competitivo sui mercati mondiali (oppure ci si aspetterebbe che il dollaro cresca di valore, cosicché il nostro deficit commerciale esisterebbe per gli alti costi del lavoro). Non è così.

E questa situazione, nella quale il settore manifatturiero americano appare sulla base dei dati molto competitivo, ma a questo non sembra corrispondano i flussi commerciali, dura da decenni. Ricordo che ne parlavo con Rudi Dornbusch quando ero all’università!

Per chiarezza, questo non è un problema importante per l’economia americana. Se fossimo più bravi nelle esportazioni avremmo ragioni di scambio migliori, ed un reddito reale leggermente più elevato, ma non stiamo parlando di grandi numeri. Eppure è un enigma.

 

 

[1] Giornalista che scrive su The Economist (l’articolo in questione è del 19 giugno).

Il pensiero duplice tra i commentatori (17 giugno 2014)

giugno 17, 2014

 

Jun 17 4:08 pm

Doublethink in Punditry

A belated reaction to Mark Thoma’s comments on Barry Ritholtz and the issue of pundit accountability. Mark writes:

I would separate those who are honestly wrong from those who take a misleading position (or one they know is wrong) for political purposes. There should be consequences in both cases, those who are honestly wrong again and again should come to be ignored, but those who intend to mislead and deceive should face much higher penalties.

That’s clearly right — but the division between the honestly wrong-headed and the politically motivated is not, I think, as clear-cut as all that. I don’t think there are all that many self-consciously cynical hacks, who privately admit to themselves that what they’re saying is all wrong but do it anyway to serve their masters. Much more common are people who rationalize — who know who they’re working for, but mostly manage to convince themselves that they’re engaged in honest intellectual inquiry that somehow always ends up justifying tax cuts for the rich, benefit cuts for the poor, and freedom to pollute.

You might think that such people would, once in a while, take their self-image of independent thought seriously and break with the party line. And it does happen now and then. But Orwell knew whereof he wrote when he introduced the concept of double-think: many people, including famous economists, are quite capable of being simultaneously cynical and self-righteous.

 

Il pensiero duplice tra i commentatori

 

Una reazione in ritardo ai commenti di Mark Thoma su Barry Ritholtz e sul tema della responsabilità degli esperti. Scrive Mark:

“Vorrei distinguere coloro che sbagliano onestamente da coloro che prendono una posizione fuorviante (o che essi sanno essere sbagliata) per ragioni politiche. Ci dovrebbero essere conseguenze in entrambi i casi, quelli che sbagliano onestamente di continuo dovrebbero essere ignorati, ma coloro che intendono fuorviare ed ingannare dovrebbero esser messi dinanzi a punizioni molto maggiori.”

E’ chiaramente giusto – ma la divisione tra coloro che sbagliano onestamente e quelli che hanno motivazioni politiche non è, penso, così evidente. Io non penso che ci siano molti pennivendoli cinicamente autocoscienti, che in privato ammettono con se stessi che quello che stanno dicendo è tutto sbagliato, ma in ogni modo lo fanno per ossequiare i loro padroni. Sono molto più comuni le persone che razionalizzano – che sanno per chi stanno lavorando, ma nella maggioranza dei casi cercano di convincersi di essere impegnati in una onesta indagine intellettuale che in qualche modo finisce sempre per giustificare gli sgravi fiscali ai ricchi, i tagli dei sussidi ai poveri e la libertà di inquinare.

Si potrebbe pensare che persone del genere dovrebbero, una volta ogni tanto, prendere sul serio l’immagine di se stessi come pensatori indipendenti e rompere con la linea del partito. E qua e là ogni tanto accade. Ma Orwell sapeva quello di cui scriveva quando coniò il concetto del ‘pensiero duplice’: molte persone, compresi economisti famosi, non hanno grandi difficoltà ad essere contemporaneamente ciniche e ipocrite con se stesse.

Il morto che pretende di saper tutto (17 giugno 2014)

giugno 17, 2014

 

Jun 17 3:55 pm

The Wonking Dead

The Commonwealth Fund is out with a new report comparing advanced-country health care systems, and the (mostly pre-Obamacare) US system looks very bad indeed: vastly higher spending per capita than anyone else, with worse results.

Of course, this is nothing new. And as always pointing out the obvious brings out claims that the US system is somehow superior despite its lousy outcomes. Aaron Carroll helpfully reminds us that all of the arguments surfacing here are zombies – arguments that should have died in the face of clear evidence that they’re wrong, but keep on shambling along nonetheless. (I actually learned the term “zombie idea” from the health care discussion, specifically the unending attempts to trash the Canadian system.)

I think it’s important, however, to be explicit about something Carroll obviously knows but doesn’t emphasize: the reason for the prevalence of zombies in this field. Some of it is chauvinism. But the main reason for the zombies is unwillingness to accept facts that conflict with ideology. The American health care system is by far the most privatized, most market-oriented system in the advanced world; it’s also far and away the most expensive, without any sign of getting anything for all that money.

If you are committed to the view that the magic of the market solves all problems, this is disturbing – so it must not be true. Bring on the zombies!

 

Il morto che pretende di saper tutto [1]

 

E’ uscito un nuovo rapporto di The Commonwealth Fund che confronta i sistemi di assistenza sanitaria dei paesi avanzati, e il sistema statunitense (in gran parte precedente alla riforma di Obama) appare assai negativamente: di gran lunga la spesa procapite più elevata di tutti gli altri, con risultati peggiori.

Naturalmente, non c’è niente di nuovo. E come sempre mettere in evidenza ciò che è ovvio ci riporta alle pretese secondo le quali il sistema statunitense sarebbe in qualche modo superiore nonostante i suoi risultati mediocri. Aaron Carroll fa bene a ricordarci che tutti gli argomenti che riappaiono sono ‘argomenti zombi’ – dovrebbero esser morti a fronte dell’evidenza della loro fallacia, ma ciononostante continuano a circolare, sia pur precariamente (in effetti, appresi il termine “idea zombi” in occasione di un dibattito sulla assistenza sanitaria, in particolare a proposito degli inesauribili tentativi di parlar male del sistema canadese).

Penso che sia importante, tuttavia, essere espliciti su qualcosa che Carroll ovviamente conosce, ma su cui non pone l’accento: per quale ragione gli zombi sono così numerosi in questo campo. In parte si tratta di sciovinismo. Ma la ragione principale degli zombi è la indisponibilità ad accettare i fatti che contrastano con l’ideologia. Il sistema americano di assistenza sanitaria è di gran lunga il più privatizzato, il più favorevole al mercato del mondo avanzato; esso è anche di gran lunga il più costoso, e non mostra in alcun modo di avere niente in cambio di tutti quei soldi.

Se siete legati al punto di vista secondo il quale la magia del mercato risolve tutti i problemi – questo è fastidioso, cosicché non deve essere vero. E via con gli zombi!

 

 

[1] “The walking dead”, come si sa, è il ‘morto che cammina’, ovvero lo zombi. “Wonk” è invece il “secchione”, colui che sa tutto o cerca di saper tutto in una materia. Se non è un errore, penso che il gioco di parole sia quello.

I costi del lavoro tedeschi (17 giugno 2014)

giugno 17, 2014

 

Jun 17 10:53 am

German Labor Costs

I gather from some of the reactions to my post on innovation hype that many readers don’t know about the remarkable German export story. Here’s the key point: German labor is very expensive, even compared with the United States:

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And this has been true for decades. Yet Germany is a very successful exporter all the same. How do they do it? Not by producing the latest trendy tech product, but by maintaining a reputation for very high-quality goods, year after year.

If Germany seems remarkably competitive given its high costs, the United States is the reverse; our productivity is high, but we seem consistently bad at exporting — and have all my professional life. I used to think it was our cultural insularity, our difficulty in thinking about what other people might want. But is that still plausible?

 

I costi del lavoro tedeschi

 

Ho desunto da alcune reazioni al mio post sul battage pubblicitario sull’innovazione che molti lettori non conoscono la storia importante delle esportazioni tedesche. Ecco il punto chiave: il costo del lavoro in Germania è molto alto, persino se confrontato con gli Stati Uniti:

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E questo è vero da decenni. Tuttavia la Germania è sempre stata una esportatrice di successo. Come ci riescono? Non producendo l’ultimo prodotto tecnologico di moda, ma preservando un apprezzamento per una qualità molto elevata dei prodotti, anno dopo anno.

Se la Germania, in considerazione dei suoi costi elevati, sembra molto competitiva, per gli Stati Uniti è l’opposto: la nostra produttività è alta, ma sembriamo regolarmente mediocri nelle esportazioni – ed è così da quando faccio questo lavoro. Ero abituato a pensare che dipendesse dalla nostra insularità culturale, dalla nostra difficoltà a ragionare nei termini delle preferenze degli altri paesi. Ma è ancora plausibile?

Distruzione creativa etc. etc. (16 giugno 2014)

giugno 16, 2014

 

Creative Destruction Yada Yada

June 16, 2014 6:26 pm

Jill Lepore has a great article in the New Yorker debunking the hyping of “disruptive innovation” as the key to success in business and everything else. It’s not a bah-humbug piece; it is instead a careful takedown, in which she goes back to the case studies supposedly showing the overwhelming importance of upstart innovators, and shows that what actually happened didn’t fit the script. Specifically, many of the “upstarts” were actually long-established firms, and more often than not the big payoffs went not to disruptive innovators but to firms that focused on incremental change and ordinary forms of efficiency and quality.

Andrew Leonard reports that Silicon Valley types are not pleased. You can understand why. But their annoyance also tells you why the whole disruptive innovation thing took off: it glamorizes business, it lets nerdy guys come across as bold heroes.

The same impulse, I think, is why Schumpeter gets cited so much. If you read his stuff directly, it’s interesting, I guess, although his attempts to explain the business cycle were a waste of good paper. But it’s that glamorizing phrase “creative destruction” that did it, because it’s so flattering to the big money (and excuses a lot of suffering, too).

Lepore tells us that innovation became a popular buzzword in the 1990s. I guess I thought it came much earlier — I wrote about product-cycle models of trade back in the 1970s, and even then I was formalizing a much older literature.

And in trade, as in business competition, it’s far from clear that the big rewards go to those who trash the past and invent new stuff. What’s the most remarkable export success story out there? Surely it’s Germany, which manages to be an export powerhouse despite very high labor costs. How do the Germans do it? Not by constantly coming out with revolutionary new products, but by producing very high quality goods for which people are willing to pay premium prices.

So here’s a revolutionary thought: maybe we need to do less disruption and put more effort into doing whatever we do well.

 

Distruzione creativa etc. etc.

 

Jill Lepore ha un grande articolo sul New Yorker, che liquida tutto il battage sulla “innovazione perturbatrice” come la chiave del successo negli affari come in ogni altra cosa. Non è un pezzo di parole in libertà; piuttosto una verifica scrupolosa, nella quale ella ritorna agli studi specifici che si suppone dimostrino l’importanza degli innovatori che partono dalla gavetta, e dimostra che quello che è effettivamente accaduto è ben diverso dal copione. In particolare, molte delle esperienze innovative sono in effetti imprese da tempo in funzione, e il più delle volte i grandi profitti non sono venuti da innovatori che hanno rotto la tradizione, ma da imprese che si sono concentrate su modifiche incrementali e si forme ordinarie di efficienza e di qualità.

Secondo un resoconto di Andrew Leonard, questo non sarebbe stato gradito dagli individui di Silicon Valley. Si può comprendere il motivo. Ma questo fastidio ci dice anche perché abbia preso piede l’intera faccenda della innovazione perturbatrice: essa rende affascinante il mondo degli affari, consente a individui fanatici di alcune specialità di fare l’impressione di eroi coraggiosi.

Lo stesso impulso, suppongo, è il motivo per il quale Schumpeter è così tanto citato. Se si leggono le sue cose direttamente, credo che esse siano interessanti, sebbene i suoi tentativi di spiegare il ciclo economico furono uno spreco di carta. Ma fu quella frase accattivante sulla “distruzione creativa” a provocarlo, perché essa è talmente lusinghiera per i grandi affaristi (ed è anche una giustificazione di una gran quantità di sofferenze).

Lepore ci spiega che l’innovazione è diventata una parola di grido popolare negli anni ’90. Avrei detto che fosse avvenuto molto prima – io scrissi riguardo ai modelli sui cicli di vita dei prodotti del commercio nei passati anni ’70, ed anche allora mi riferivo ad una letteratura molto più antica.

E nel commercio, come nella competizione economica, è lungi dall’essere chiaro che i grandi premi vadano a coloro che buttano il passato nel cestino ed inventano nuove cose. Quale è in giro la più rilevante storia di successo nelle esportazioni? E’ certamente il caso della Germania, che riesce ad avere un primato nelle esportazioni nonostante costi del lavoro molto elevati. Come ci riescono i tedeschi? Non venendo fuori in continuazione con nuovi prodotti rivoluzionari, ma producendo beni di elevatissima qualità per quegli individui che sono disponibili a pagare prezzi maggiorati.

Eccolo, dunque, il pensiero rivoluzionario: forse abbiamo bisogno di fare minore perturbazione e di mettere maggiore impegno nel far bene tutto quello che facciamo.

Democratici disciplinati (15 giugno 2014)

giugno 15, 2014

 

Jun 15 10:02 am

Disciplined Democrats

Matt Yglesias pushes back against claims, by Ross Douthat among others, that the Democratic Party is a fragile coalition held together only by Hillary Clinton’s personal popularity. He’s right; I’d just like to add a few thoughts.

As Yglesias says, Democrats are remarkably unified on policy. They want to preserve health reform; they want to preserve financial reform, even though some would want to push it further; they want action on climate change; they may be conflicted on immigration, but that’s mostly internal soul-searching rather than a division between party factions.

This policy unity has been helped by the fact that Obama has had a moderate degree of success in achieving these goals. If he had had an easy time, the party might be divided between those wanting more radical action and those not in a hurry; if he had failed utterly, the party might be divided (as it was for much of the past three decades) between a liberal faction and a Republican-lite faction. As it is, however, Obama has managed to achieve a lot of what Democrats have sought for generations, but only with great difficulty against scorched-earth opposition. This means that the conflict between “the Democratic wing of the Democratic Party” — exemplified these days by Elizabeth Warren — and the more pro-big-business wing is relatively muted: the liberal wing knows that Obama has gotten most of what could be gotten, and the actual policies haven’t been the kind that would scare off the less liberal wing.

The Wall Street tantrum of recent years also, in a peculiar way, helps party unity. Bankers who used to support Democrats have thrown their support to Republicans, whining all the way that Obama is looking at them funny; this has reduced their influence on the Democrats, leaving a workable consensus about regulation and tax policy among those left.

How do personalities matter in all this? Not so much. In the end, Obama implemented Clinton’s health plan (remember how he was against mandates?), and Clinton, if elected, will continue Obama’s legacy. The party is willing to rally around an individual because it’s unified on policy, not the other way around.

In fact, it’s the Republicans who desperately need a hero. In retrospect, they needed W much more than they realized: he combined policy fealty to the plutocrats with a personal manner that appealed to the base, in a way no Republican now manages.

Stuff happens; a recession in 2016 could sweep a Republican, any Republican, into the White House. But the Democratic coalition isn’t fragile, while the Republican coalition is.

 

Democratici disciplinati

 

Matt Yglesias respinge le pretese, tra gli altri di Ross Douthat, secondo le quali il Partito Democratico sarebbe una fragile coalizione tenuta assieme soltanto dalla popolarità personale di Hillary Clinton. Ha ragione; vorrei soltanto aggiungere poche riflessioni.

Come afferma Yglesias, i democratici sulle scelte politiche sono considerevolmente uniti. Vogliono preservare la riforma sanitaria, anche se alcuni vorrebbero spingerla in avanti; può darsi che siano in conflitto sul tema dell’immigrazione, ma si tratta più che altro problemi di coscienza interni, piuttosto che di una frattura tra correnti del partito.

A questa unità politica ha contribuito il fatto che Obama abbia ottenuto un discreto grado di successo nella realizzazione dei suoi obbiettivi. Se egli avesse avuto un periodo facile, il partito poteva dividersi tra coloro che volevano iniziative più radicali e coloro che non le volevano in modo precipitoso; se avesse avuto un completo fallimento, il partito poteva dividersi (come era avvenuto per gran parte dei tre decenni passati) tra una corrente progressista ed una corrente paragonabile ai repubblicani ragionevoli. Comunque sia, tuttavia, Obama è riuscito ad ottenere quello che i democratici stavano cercando da generazioni, ma solo con grandi difficoltà, contro le tattiche della ‘terra bruciata’ dell’opposizione. Questo significa che il contrasto tra ‘l’ala democratica del Partito Democratico’ – di questi tempi rappresentata da Elizabeth Warren – e l’ala più favorevole alle imprese è relativamente mutato: l’ala progressista sa che Obama ha ottenuto più di quello che essa avrebbe potuto ottenere, e le politiche effettive non sono state del genere di quelle che avrebbero spaventato l’ala meno progressista.

Il ritornello di Wall Street degli anni recenti, ha anch’esso aiutato, in modo peculiare, l’unità del Partito. I banchieri che erano soliti sostenere i democratici hanno spostato il loro sostegno verso i repubblicani, lamentandosi in tutti i modi che Obama non aveva per loro nessuna considerazione; questo ha ridotto la loro influenza sui democratici, consentendo una unità di intenti praticabile sulle regolamentazioni e sulla politica fiscale tra coloro che avevano abbandonato.

Quanto contano in tutto questo le personalità? Non così tanto. Alla fine, Obama ha messo in pratica il piano della Clinton per la sanità (si ricorda come egli fosse contrario alla soluzione della assicurazione obbligatoria? [1]), e la Clinton, se eletta, continuerà il lascito di Obama. Il meccanismo è che il Partito è disponibile a stringersi attorno ad un individuo perché è unito nella politica, non l’opposto.

Di fatto, sono i repubblicani che hanno disperatamente bisogno di un campione. Guardando indietro, essi avevano bisogno di Bush molti di più di quanto si rendessero conto: egli univa alla sudditanza ai plutocrati uno stile personale che appagava la base, in un modo che oggi non riesce a nessun repubblicano.

Può sempre succedere: una recessione nel 2016 potrebbe far entrare trionfalmente un repubblicano, qualsiasi repubblicano, alla Casa Bianca. Ma la coalizione dei democratici non è fragile, mentre la coalizione repubblicana lo è.

 

 

[1] Come altre volte abbiamo chiarito, il “mandate” (“delega”) è il criterio che la riforma di Obama ha adottato per ottenere che ogni cittadino fosse tenuto all’acquisto di una assicurazione, prevedendo l’aiuto dei sussidi pubblici a coloro che avevano redditi insufficienti.

Le imprese e i folli (15 giugno 2014)

giugno 15, 2014

 

Jun 15 9:37 am

The Corporates and the Crazies

Jeremy Peters and Shaila Dewan write about corporate shock over the sudden fall of Eric Cantor; it’s further confirmation of the story I told in my last column. Corporations and plutocrats had a good deal going: they bankrolled politicians who talked cultural populism during campaigns, but more or less ignored all that and focused on tax cuts and deregulation after the polls closed. And Cantor fit that profile perfectly.

But now the big money has lost control; the base is demanding politicians who don’t just talk the crazy talk, but walk the crazy walk. For a couple of months the story line was that the money was regaining control, but between Cantor and Cochran that narrative has been blown out of the water.

What’s unclear is what comes next. By pivoting so hard to the GOP, the money has lost much of its leverage over the Democrats — yes, there’s Andrew Cuomo and people like him, but it’s not the same as once it was.

How bad is it? So bad that some establishment Republicans — which means people who work for the corporate side — are pining for another run by, yes, Mitt Romney.

 

Le imprese e i folli

 

Jeremy Peters e Shaila Dewan scrivono sullo shock delle imprese a proposito dell’improvvisa caduta di Eric Cantor; è una ulteriore conferma di quanto ho raccontato nel mio recente articolo. Le imprese e i plutocrati avevano un buon affare in corso: durante le campagne elettorali foraggiavano gli uomini politici che usavano il linguaggio della cultura populista, ma una volta che i risultati elettorali erano noti, in sostanza ignoravano il tutto e si concentravano sugli sgravi fiscali e le deregolamentazioni. E Cantor si adattava perfettamente a quel profilo.

Ma ora il mondo degli affari ha perso il controllo; la base sta chiedendo agli uomini politici che non si limitino a dire cose pazzesche, bensì che mettano in pratica cose pazzesche. Per un paio di mesi la falsariga del racconto era che i soldi stavano riprendendo il controllo, ma tra Cantor e Cochrane questo racconto è andato distrutto.

Quello che non è chiaro è cosa viene dopo. Facendo perno in modo così accanito sul Partito Repubblicano, il mondo degli affari ha perso gran parte della sua leva sui Democratici – sì, c’è Andrew Como e gente come lui, ma non è la stessa cosa di un tempo.

E’ una cosa negativa? Talmente negativa che alcuni repubblicani del gruppo dirigente – il che significa persone che lavorano per la componente delle imprese – stanno morendo dalla voglia di rimettere in corsa proprio lui, Mitt Romney.

Non si può avere una spirale prezzi-salari senza i salari (14 giugno 2014)

giugno 14, 2014

 

Jun 14 9:27 am

You Can’t Have A Wage-Price Spiral Without Wages

There was a fairly characteristic argument over dinner last night about when the Fed should tighten. I’m in the camp that says it should wait until we see wages rising at least at pre-crisis rates. The other side says that wages are a lagging indicator, and if it waits that long the Fed will be behind the curve.

My answer to this is that I’m much more worried about a slide into a Japan-style trap of low or negative inflation than I am of a return to 70s-style stagflation, and that the big risk is that the Fed will tighten much too soon.

One thing should be clear: there is no sign of wage pressure. It’s important not to pick and choose, highlighting whichever wage measure is going fastest. Jared Bernstein does this the right way, taking the first principal component of a number of different wage series — basically a measure of the underlying wage trend that is imperfectly captured by any one measure, but much better captured by looking at all of them. It looks like this:

z 84

 

 

 

 

 

 

 

 

 

No hint of wage pressure — and also no hint that we’ve been closing the gap between actual and potential output.

So my plea to the Fed: hold your fire.

 

Non si può avere una spirale prezzi-salari senza i salari

 

La scorsa notte, a cena, c’era una discussione abbastanza caratteristica a proposito di quando la Fed dovrebbe attuare una restrizione. Io sono nel campo che afferma che dovrebbe attendere sinché non si vedano i salari salire almeno ai livelli dei tassi precedenti alla crisi. L’altra parte afferma che i salari sono un indicatore in ritardo, e se si aspetta così a lungo la Fed si ritroverà dietro l’angolo.

La mia risposta a ciò è che io sono molto più preoccupato di scivolare in una trappola del genere di quella del Giappone, di una inflazione bassa o negativa, piuttosto di un ritorno ad una stagflazione stile anni ‘70, e che il grande rischio è che la Fed operi troppo presto una restrizione.

Una cosa dovrebbe essere chiara: non c’è alcun segno di pressione salariale. E’ essenziale non estrarre dati a scelta, mettendo l’attenzione su qualsiasi misurazione dei salari che stia procedendo con la massima velocità. Jared Bernstein lo fa nel modo giusto, prendendo la prima componente di un certo numero di diverse serie salariali – fondamentalmente una rappresentazione della tendenza salariale di fondo che è imperfettamente individuata da una misurazione qualsiasi, e molto meglio derivabile dalla congiunta osservazione di tutte. Ecco cosa ne deriva:

z 84

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non c’è alcun segno di pressione salariale – e neanche alcun segno che si stia per chiudere il differenziale tra la produzione attuale e quello potenziale.

Il mio appello alla Fed è dunque: trattenete il vostro entusiasmo.

Saremo i benvenuti come liberatori (14 giugno 2014)

giugno 14, 2014

 

Jun 14 9:12 am

We Will Be Welcomed As Liberators

I’ve often noted that to a first approximation, nobody ever admits having been wrong about anything. My usual prime example is all the people who issued dire warnings five years ago that runaway inflation was imminent — and are issuing identical warnings to this day. But all of that is nothing as compared with the way the same people who assured us that the invasion of Iraq would be a splendid little war — remember “Everyone wants to go to Baghdad, real mean want to go to Tehran”? — are now insisting that we should go all in on behalf of a corrupt, incompetent regime that is basically Iran’s ally, not ours.

 

Saremo i benvenuti come liberatori

 

Ho spesso osservato che ad una prima approssimazione nessuno ammette mai di aver avuto torto su niente. Il mio esempio consueto sono tutte le persone che misero in giro cinque anni orsono ammonimenti terribili su una imminente inflazione fuori controllo – e che stanno facendo la stessa cosa oggi. Ma tutto questo non è niente se confrontato con il modo in cui gli stessi individui che ci garantivano che l’invasione dell’Iraq sarebbe stata una piccola guerra stupenda – ricordate “Tutti vogliono andare a Baghdad, gli uomini veri vogliono andare a Teheran”?[1] – stanno oggi insistendo sul fatto che dovremmo intervenire nell’interesse di un regime corrotto ed incompetente, che fondamentalmente è un alleato dell’Iran, non nostro.

 

 

[1] Ci dovrebbe essere un errore nel testo. L’espressione pare che venisse da una ‘secca’ dichiarazione di un militare britannico – riportata in un articolo del “The New Yorker” del 21 aprile del 2003. Ma il militare aveva affermato che “real men” (gli “uomini veri”, e non “real mean” …. ) intendevano proseguire per Teheran.

Come spiegava l’articolo, l’euforia per il rapido successo presunto, faceva pensare a molti che dopo Baghdad si sarebbe potuto osare un po’ di tutto: Damasco, Beirut, Khartoum, Pyongyang etc. Richard Perle, uno dei massimi consiglieri del Pentagono, spiegò nel corso di una udienza che, dopo l’invasione di successo all’Iraq, in tutti gli altri casi “si sarebbe potuto inviare un breve messaggio di due parole: “You’re next” (“voi siete i prossimi”).

Quando sbagliare è un problema e quando non lo è (17 giugno 2014)

giugno 13, 2014

 

Wrongness, OK and Not

June 13, 2014 5:49 am

USA! USA! NYC! Back from Oxford, but still — as you can see from the posting time — jet-lagged. I have a steakhouse dinner tonight with some business economists; we’ll see if I end up face down in my tenderloin.

One of the people I expect to see is Barry Ritholtz, who has a nice post acknowledging an error (not at all fundamental) in his column and discussing how to deal with mistakes when you make them — which you will! I’d like to add that there are mistakes and then there are mistakes, and it’s important to know which you’ve made.I’ve written on this before, but may have a somewhat new way to make the point.

Suppose that you’re making a prediction — and every assertion about how the world works has to involve at least an implicit prediction of something, because otherwise it’s empty. This prediction comes from some kind of model — if you don’t think you have a model, you’re kidding yourself, and your model is all the worse because you imagine that you aren’t using it. For the sake of argument, let’s say that your model takes the form

y = a + b*x + u

where y is what you’re predicting, x is some kind of explanatory variable, a and b are parameters, and u represents random stuff (not necessarily really random, but stuff that isn’t part of your model). That last term is important: nobody, and nobody’s model, gets things totally right.

So, suppose your prediction about y ends up having been pretty far off. What does that tell you?

It could say simply that, as the bumper stickers don’t quite say, Stuff Happens. There could have been a random shock; or for that matter your explanatory variables may not have done what you expected them to. But it could also say that your underlying model was just all wrong, requiring a rethink.

And here’s the thing: over the course of your life, you’re going to make both kinds of mistakes. The question is whether to hold em or fold em — to stick with your basic story, or realize that the story is wrong.

Let me give four examples, from my own considerable record of mistakes.

First, back in the mid-1990s I was extremely skeptical about claims of an IT-drive surge in productivity. And I was just wrong: productivity really was surging, although it eventually tapered off. What kind of error was that?

The answer was, not fundamental. My model of how the world works didn’t at all preclude productivity surges, I was just misjudging the one in sight. One thing I did learn, however, was to take buzz that isn’t in the official numbers more seriously than I used to.

Second, in 2003 I warned about a US financial crisis driven by fiscal irresponsibility, somehow comparable to the crises in Asia a few years earlier. This was, I now believe, a fundamental error: countries that borrow in their own currency don’t face the same kind of risk as countries that don’t. What really annoys me about this error was that my own analysis was trying to tell me that: I had done quite a lot of work on the Asian crisis, with models that relied crucially on foreign currency debt and balance sheet effects. But I put that analysis aside and went with my gut, almost always a bad idea.

So this was a fundamental modeling error, calling for a major revision of views — which I did.

Third, I worried a lot in 2010-2012 about a euro breakup. And here too I had a fundamentally flawed model. But the flaw wasn’t in my economic model, which has worked pretty well, but in my implicit political model: I simply failed to appreciate the incentives facing European elites and how willing they would be to do whatever it takes, both in debtor countries and at the ECB, to avoid an outright rift. So, fundamental change called for — but in my political model, not my economic model.

Finally, Britain is growing much faster right now than I expected. Fundamental model flaw? I don’t think so. As Simon Wren-Lewis has pointed out repeatedly, the Cameron government essentially stopped tightening fiscal policy before the upturn, which means in effect that the “x” in my equation didn’t do what I thought it would. On top of that, there was a drop in private savings, which is one of those things that happens now and then.The point is that the deviation of British growth from what a standard Keynesian model would have predicted, while real, wasn’t out of line with the normal range of variation-due-to-stuff-happening; nothing there that warranted a major revision of framework.

So you will be wrong sometimes, and need to do your best to figure out why.

What you should never ever do, of course, is make excuses, or pretend that you didn’t say what you said. Unfortunately, many if not most prognosticators do all the time what nobody should do ever.

 

Quando sbagliare è un problema e quando non lo è

 

Stati Uniti! Stati Uniti! New York City! Sono di ritorno da Oxford ma, come potete constatare dall’orario di queste note, ancora sotto l’effetto della sindrome da fuso orario. Stanotte ho una cena a bistecche in un ristorante in onore di Eric Cantor con alcuni esperti di economia aziendale; vedremo se riuscirò a farcela con il mio filetto di manzo.

Una delle persone che penso di incontrare è Barry Ritholtz, che ha scritto un grazioso post con il quale riconosce un errore (per niente fondamentale) nel suo articolo e discute su come fare con gli errori quando capita di farli – la qualcosa succede sempre! Vorrei aggiungere che ci sono errori ed errori, ed è importante capire che cosa si è fatto. Ho scritto su questo in precedenza, ma credo di aver individuato un modo nuovo per esprimere la mia opinione.

Supponiamo che stiate facendo una previsione – ed ogni giudizio su come il mondo funziona deve implicare almeno una implicita previsione di qualcosa, perché altrimenti è un giudizio vuoto. Questa previsione viene da un qualche genere di modello – se pensate di non avere un modello, vi state prendendo in giro, ed il vostro modello è dei peggiori perché vi immaginate di non adoperarlo. Per ipotesi, ipotizziamo che il vostro modello assuma la forma

y = a + b*x + u

 

dove y è quello che state prevedendo, x è una variabile esplicativa di una qualche natura, ed u rappresenta un qualcosa di casuale (non necessariamente per davvero casuale, ma qualcosa che non è parte del vostro modello). Quest’ultimo passaggio è importante: nessuno, né il modello di nessuno, possiede cose totalmente giuste.

Dunque, supponiamo che la vostra previsione su y finisca col risultare abbastanza lontana dal vero. Che cosa vi dice ciò?

Potrebbe semplicemente significare che, come gli adesivi sui paraurti non ripetono a sufficienza [1], “sono cose che succedono”. Potrebbe esserci stato un evento casuale; oppure per qualche ragione le vostre variabili esplicative possono non aver funzionato come vi aspettavate. Ma potrebbe anche significare che il vostro implicito modello era del tutto sbagliato, e richiede un ripensamento.

E qua è il punto: nel corso della vita, siamo destinati a fare tutti e due i generi di errori. La domanda è se tenersi le proprie carte o cambiarle – impuntarsi sulla sostanza del proprio ragionamento o comprendere che quel ragionamento è sbagliato.

Fatemi fare quattro esempi desunti dalla mia considerevole personale serie di errori.

In primo luogo, sulla metà degli anni ’90 ero estremamente scettico sulle tesi di un innalzamento della produttività guidato dalla tecnologia delle informazioni. Ed avevo proprio torto: la produttività salì realmente, anche se alla fine tale crescita si ridusse. Di quale genere di errore si trattava?

La risposta fu: non un errore fondamentale. Il mio modello di funzionamento del mondo non escludeva affatto aumenti di produttività, ero soltanto io che giudicavo scorrettamente quell’incremento che avevo dinanzi agli occhi. Una cosa che imparai, tuttavia, fu quella di prendere più sul serio le voci che non compaiono sui dati ufficiali, rispetto a quanto ero solito fare.

In una seconda occasione, nel 2003, misi in guardia su una crisi finanziaria negli Stati Uniti provocata da irresponsabilità nella gestione della finanza pubblica, in qualche modo paragonabile alle crisi asiatiche di qualche anno precedenti. Si trattò, oggi ne sono convinto, di un errore di fondo: i paesi che si indebitano nella propria valuta non corrono lo stesso genere di rischi degli altri. Quello che davvero mi infastidisce è che la mia stessa analisi aveva gli elementi per spiegarmi un errore del genere: avevo lavorato molto sulle crisi asiatiche, con modelli che si basavano fondamentalmente sul debito in valuta estera e sugli effetti sugli equilibri patrimoniali. Ma misi da parte quella analisi e procedetti di istinto, la qualcosa è quasi sempre una cattiva idea.

In una terza occasione, nel 2010-2012 mi preoccupai molto di un collasso dell’euro. Ed anche in questo caso, avevo un modello fondamentalmente difettoso. Ma il difetto non era nel mio modello economico, che aveva funzionato abbastanza bene, ma nel mio modello politico implicito: semplicemente non fui capace di valutare quali incentivi avessero dinanzi le classi dirigenti europee e quanto sarebbero state invogliate a fare tutto ciò di cui c’era bisogno, sia nei paesi debitori che al livello della BCE, per evitare di scavare un solco definitivo. Dunque, ero chiamato ad un cambiamento di fondo – ma nel mio modello politico, non in quello economico.

Infine, il Regno Unito sta oggi crescendo molto più rapidamente di quanto non mi aspettassi. Un difetto di fondo nel modello? Non penso. Come ha ripetutamente messo in evidenza Simon Wren-Lewis, il Governo Cameron ha in sostanza fermato la politica di restrizione della finanza pubblica prima delle ripresa, il che significa in effetti che la “x” nella mia equazione non stava facendo quello che pensavo facesse. Oltre a ciò, c’era una caduta nei risparmi privati, che è una di quelle cose che ogni tanto accadono. Il punto è che la deviazione della crescita inglese da quello che il modello keynesiano consueto avrebbe previsto, non era fuori linea rispetto alla normale gamma delle variazioni ordinarie che possono avvenire; non c’era niente che giustificasse una importante revisione del modello.

Qualche volta, dunque, si sbaglia, ed è necessario fare del proprio meglio per capirne la ragione.

Quello che non si dovrebbe mai fare, naturalmente, è accampare scuse, o fingere di non aver detto quello che si è detto. Sfortunatamente, molti previsori fanno in continuazione quello che nessuno dovrebbe fare.

 

 

 

 

[1] Da quello che capisco negli USA gli adesivi sui paraurti sono, in modo forse più diffuso che da noi, dei segni identitari, dei modi per comunicare qualche personale convincimento. In tal senso, l’adesivo un po’ fatalista che invita a considerare che è inutile darsi troppa pena, perché ci sono cose che succedono e basta, sarebbe opportuno che fosse più divulgato. A meno che, suppongo, non sia collocato sul paraurti posteriore e non venga interpretato come una disponibilità a subire tamponamenti. Questo è un esempio di un adesivo di destra:

z 83

 

 

 

 

Sintesi perduta (dal blog di Krugman 12 giugno 2914)

giugno 12, 2014

 

Synthesis Lost

June 12, 2014 2:01 am

Brad DeLong has some notes on the evident trouble we’ve been having maintaining the “neoclassical synthesis” — the doctrine, made famous by Paul Samuelson but actually there in Keynes too, that macroeconomic policy is needed for full employment but once you have that a relatively free-market policy works.

As it happens, I wrote a longish post about this back in 2010. Here’s my section on economic doctrine:

The brand of economics I use in my daily work – the brand that I still consider by far the most reasonable approach out there – was largely established by Paul Samuelson back in 1948, when he published the first edition of his classic textbook. It’s an approach that combines the grand tradition of microeconomics, with its emphasis on how the invisible hand leads to generally desirable outcomes, with Keynesian macroeconomics, which emphasizes the way the economy can develop magneto trouble, requiring policy intervention. In the Samuelsonian synthesis, one must count on the government to ensure more or less full employment; only once that can be taken as given do the usual virtues of free markets come to the fore.

It’s a deeply reasonable approach – but it’s also intellectually unstable. For it requires some strategic inconsistency in how you think about the economy. When you’re doing micro, you assume rational individuals and rapidly clearing markets; when you’re doing macro, frictions and ad hoc behavioral assumptions are essential.

So what? Inconsistency in the pursuit of useful guidance is no vice. The map is not the territory, and it’s OK to use different kinds of maps depending on what you’re trying to accomplish: if you’re driving, a road map suffices, if you’re going hiking, you really need a topo.

But economists were bound to push at the dividing line between micro and macro – which in practice has meant trying to make macro more like micro, basing more and more of it on optimization and market-clearing. And if the attempts to provide “microfoundations” fell short? Well, given human propensities, plus the law of diminishing disciples, it was probably inevitable that a substantial part of the economics profession would simply assume away the realities of the business cycle, because they didn’t fit the models.

The result was what I’ve called the Dark Age of macroeconomics, in which large numbers of economists literally knew nothing of the hard-won insights of the 30s and 40s – and, of course, went into spasms of rage when their ignorance was pointed out.

I’d add that I agree with Robert Waldmann: the policy judgement that you shouldn’t have too much detailed government intervention mainly reflects an appreciation for imperfect government, not faith in perfect markets.

And I still think that the Keynes/Samuelson view is reasonable, although market imperfections loom larger in my mind than they used to. But these are not reasonable times …

 

 

 

Sintesi perduta

 

Brad DeLong scrive alcune note sulla evidente difficoltà che abbiamo avuto a mantenere la “sintesi neoclassica” – la dottrina, che Paul Samuelson rese famosa ma che è in verità anche in Keynes, secondo la quale la politica macroeconomica è necessaria per la piena occupazione, ma a condizione che si comprenda che una politica di un mercato relativamente libero funziona.

Si dà il caso che io scrissi un post lunghetto a questo proposito nel passato 2010. Ecco il mio pezzo sulla dottrina economica:

“Il genere di economia che io uso nel mio lavoro quotidiano – il genere che considero di gran lunga ancora l’approccio più ragionevole in circolazione – fu fissato in buona misura da Paul Samuelson nel lontano 1948, quando egli pubblicò la prima edizione del suo classico libro di testo. Si tratta di un approccio che combina la grande tradizione della macroeconomia, con l’enfasi su come la mano invisibile conduca a risultati generalmente desiderabili, con la macroeconomia keynesiana, che mette l’accento sul modo in cui l’economia può sviluppare problemi al motore di avviamento, richiedendo l’intervento della politica. Nella sintesi samuelsoniana, uno deve far conto sul governo per assicurare una occupazione più o meno piena; solo una volta che questo possa essere considerato acquisito, le normali virtù dei liberi mercati si fanno avanti.

E’ un approccio profondamente ragionevole – ma è anche intellettualmente instabile, perché richiede qualche incoerenza strategica nel modo in cui si pensa all’economia. Quando si sta facendo microeconomia, si assumono individui razionali e mercati capaci di rapida compensazione tra domanda ed offerta; quando si sta facendo macroeconomia, gli assunti sulle frizioni e sui comportamenti ad-hoc sono essenziali.

Cosa c’è che non va? L’incoerenza nel perseguimento di un indirizzo utile non è un vizio. Una mappa non è un territorio, ed è giusto utilizzare diversi tipi di mappa a seconda di quello che si sta cercando di realizzare: se state guidando una macchina, una mappa stradale è sufficiente, se state facendo un’escursione avete bisogno di una mappa topografica.

Ma gli economisti si sono sentiti in dovere di insistere presso la linea divisoria tra micro e macroeconomia – la qualcosa ha significato in pratica fare una macroeconomia più simile alla microeconomia, basandosi sempre di più sulla ottimizzazione e su mercati che generano equilibrio. E se i tentativi di fornire “fondamenta microeconomiche” non bastano? Ebbene, date le inclinazioni umane, in aggiunta alla legge della crescente modestia intellettuale degli allievi, è stato probabilmente inevitabile che una parte sostanziale della disciplina economica semplicemente prescindesse dalle realtà del ciclo economico, dato che esse erano refrattarie ai modelli.

Il risultato è stato quella che io ho definito l’Età Buia della macroeconomia, nella quale un largo numero di macroeconomisti semplicemente ignoravano del tutto le intuizioni ottenute a fatica negli anni ’30 e ’40 – e, naturalmente, si sono fatti prendere da convulsioni di rabbia, quando la loro ignoranza è stata rimarcata.”

 

Aggiungerei che sono d’accordo con Robert Waldmann: il giudizio politico secondo il quale non si dovrebbe avere interventi statali troppo dettagliati, principalmente riflette una valutazione sulla imperfezione dei governi, non una fede nella perfezione dei mercati.

E penso ancora che il punto di vista di Keynes/Samuelson sia ragionevole, sebbene le imperfezioni dei mercati si prospettino assai più ampie nella mia mente rispetto a quanto erano abituati loro. Ma questi non sono tempi ragionevoli …

La caduta di un uomo d’apparato (11 giugno 2014)

giugno 11, 2014

 

June 11, 2014 1:57 am

Fall of an Apparatchik

Wow — Eric Cantor lost his primary, by a large margin. Amazing.

Obviously I know nothing about his district, or what exactly happened. Fivethirtyeight does have something interesting, pointing out that Tea Party upsets seem correlated with the second dimension of DW-nominate, the Poole-Rosenthal system that maps roll call votes into an implied position space. If you have no idea what I’m talking about, I might come back to this, but basically I’m telling you that I remain a serious nerd.

What I think I might add to this discussion is a note on incentives: Cantor’s loss is part of a process that could well unravel movement conservatism as we know it.

Movement conservatism — as distinct from just plain conservatism, which has always been a part of the landscape and always will be — is a distinct feature of modern American politics. It dates, more or less, back to the 1970s, when conservatives, with lots of money from the likes of Richard Mellon Scaife, set about building an institutional infrastructure of think tanks, pressure groups, captive media, etc.. At first this infrastructure mainly provided backing to right-thinking (in both senses) politicians. But eventually it provided a career path for up and coming conservatives.

In particular, being a movement conservative in good standing meant considerable career safety: even if you or the politician you worked for lost an election, there were jobs to be had at think tanks (e.g. Rick Santorum heading up the “America’s enemies” program at a Scaife-backed think tank), media gigs (two Bush speechwriters writing columns for the Washington Post, not to mention the gaggle at the WSJ and Fox News), and so on.

In other words, being a hard line conservative, which to be fair involved some career risks back in the 60s and into the 70s, became a safe choice; you could count on powerful backing, and if not favored by fortune, you could fall back on wingnut welfare.

And Eric Cantor, who got into politics long after the Reagan revolution and for the most part made his career post Gingrich, came across very much as a movement conservative apparatchik. He took very hard line stances, but never seemed especially passionate; he was, arguably, basically a careerist, and as such was fairly typical.

Maybe that’s what the primary voters sensed.

Whatever the reason, it turns out that being a movement conservative apparatchik is no longer a safe career choice. This is a very big deal. Conservatives, as I said, will always be with us. But the structure that shaped them into a cohesive movement is now starting to unravel, at a time when movement progressivism — which is much less cohesive and much less lucrative, but nonetheless now exists in a way it didn’t 15 years ago — is on the rise.

Meanwhile, don’t cry for Eric Cantor.

 

La caduta di un uomo d’apparato

 

Ehilà! Eric Cantor ha perso alle sue primarie, con un largo margine. Sorprendente.

Ovviamente non so nulla del suo distretto elettorale, o di quello che è accaduto esattamente. Il blog 538 contiene in effetti qualcosa di interessante, sottolineando che le sconfitte del Tea Party sembrano correlate con la seconda dimensione del “DW-nominate”, il sistema di Poole e Rosenthal che disegna la mappa dei voti in una sottintesa posizione spaziale [1]. Se non avete alcuna idea di cosa sto dicendo, potrei tornare su questo tema, ma fondamentalmente vi potete fidare del fatto che resto un serio fanatico della materia.

Quello che penso potrei aggiungere a questo dibattito è una nota sugli incentivi: la sconfitta di Cantor è parte di un processo che potrebbe davvero disfare il movimento conservatore per come lo conosciamo.

Il movimento conservatore – come fenomeno distinto dal semplice conservatorismo, che è sempre stato una parte del paesaggio politico e sempre lo sarà – è un aspetto distinto della politica americana contemporanea. Data, più o meno, ai lontani anni ’70, quando i conservatori, con grandi quantità di denaro proveniente da soggetti come Richard Mellon Scaife, cominciarono a costruire infrastrutture formali di gruppi di ricerca, di gruppi di pressione, di media asserviti etc. Dapprima, queste infrastrutture principalmente fornirono un sostegno agli uomini politici orientati a destra (o, se si vuole, benpensanti). Ma alla fine fornì prospettive di carriera ai conservatori emergenti.

In particolare, essere un conservatore in buona posizione significava una rilevante sicurezza nella carriera: anche se essi, o i politici per i quali lavoravano, perdevano una elezione, c’erano posti di lavoro che si potevano ottenere presso le sedi della ricerca e della propaganda (ad esempio, Rick Santorum, che guidava il programma “I nemici dell’America” in uno di quei gruppi sostenuto da Scaife), attraverso varie prestazioni nei media (i due autori dei discorsi di Bush che scrivono articolo per il Washington Post, per non dire del gruppo presso il Wall Street Journal e Fox News), e così via.

In altre parole, essere un conservatore favorevole ad una linea dura, negli anni ’60 e ’70, divenne una scelta sicura; si poteva contare su sostegni potenti, e se non si era aiutati dalla fortuna, si poteva ripiegare su un discreto foraggiamento.

Ed Eric Cantor, che entrò in politica molto tempo dopo la rivoluzione reaganiana, e per una gran parte fece la sua carriera successivamente a Gingrich, apparve in tutti i sensi come un uomo d’apparato del movimento conservatore. Assunse posizioni dure, senza mai sembrare particolarmente appassionato; fu, probabilmente, soprattutto un carrierista, e come tale fu un caso abbastanza tipico.

Forse è questo che ha avuto un significato per i votanti alle primarie.

Qualsiasi sia la ragione, si scopre che essere un uomo d’apparato del movimento conservatore non è più la scelta di una carriera sicura. Questa è una faccenda davvero grossa. I conservatori, come ho detto, saranno sempre tra noi. Ma la struttura che li ha conformati come un movimento coeso ora comincia a sfaldarsi, in un momento nel quale il movimento progressista – che è molto meno coeso e molto meno remunerativo, ma ciononostante oggi esiste in un modo in cui non esisteva 15 anni orsono – è in crescita.

Nel frattempo, non piangiamo per Eric Cantor.

 

 

[1] Posso solo riferire che su Wikipedia (testo in inglese) c’ una ampia voce a proposito, per me assolutamente difficile da comprendere. Si tratta comunque di scienza statistica applicata ai dati elettorali, nel caso specifico degli elettori iscritti nel registri (“roll call”) delle primarie. Il DW-nominate è una versione elaborata del nominate, che a sua volta è un acronimo di Nominal Three Steps Estimation.

Gli incentivi e la tecnologia (10 giugno 2014)

giugno 10, 2014

 

Jun 10 12:19 pm

Incentives and Technology

The invaluable Mark Thoma leads me to this post attacking what I thought was a totally obvious takedown of Roger Pielke Jr.. In general, reading attacks on oneself should be done in very limited doses, but in this case I learned something — namely, that what I assumed was obvious apparently isn’t to everyone.

So, we are told that

Krugman seems to believe that by sprinkling the fairy dust of incentives over society the emission busting new technologies will emerge.

Um, no. There has been a lot of theorizing about induced innovation, but it’s not solidly grounded in empirical evidence and was not at all what I was talking about. I was talking about the fact that at any given time we have a choice of already existing technologies. You can drive a conventional SUV, but you could also drive a hybrid, or for that matter a smaller vehicle that, say, emits half as much carbon as the SUV while providing services that are a lot more than half of what the SUV would provide. You can generate electricity using a coal-fired plant, but you can also use a gas-fired plant, a wind turbine, or solar panels.

None of these are technologies that need developing; they’re already here and in fairly widespread use. And do you really want to deny that which technology people choose is affected by incentives?

Mea culpa: I thought this was totally obvious, and didn’t imagine that anyone could be confused about this, or seriously argue with the proposition that energy use involves choices. But I was wrong: it turns out that people can get confused about such things, and even convince themselves that they are being deep and sophisticated while doing so. So I’m grateful to be enlightened.

 

Gli incentivi e la tecnologia

 

L’inestimabile Mark Thoma mi rimanda a questo post che polemizza con quella che pensavo fosse una stroncatura del tutto giustificata di Roger Pielke Jr [1]. In generale, la lettura degli attacchi a se stessi dovrebbe essere fatta in dosi molto limitate, ma in questo caso ho imparato qualcosa – specialmente che quello che io pensavo fosse ovvio non lo è per tutti.

Dunque, ci viene raccontato che

“Krugman crede che spargendo la polvere magica degli incentivi sulla società, emergeranno le nuove tecnologie che eliminano le emissioni.”

Beh, non è così. Ci sono state una quantità di teorie sulla innovazione indotta, ma esse non sono basate su prove empiriche e non era affatto quello di cui stavo parlando. Io stavo parlando del fatto che in ogni dato momento abbiamo una scelta di tecnologie già esistenti. Potete guidare un SUV convenzionale, ma potreste guidare anche un ibrido, o allo stesso scopo un veicolo più piccolo che, diciamo, emetta la metà di anidride carbonica di un SUV, fornendo servizi che sono molto più della metà di quelli che fornirebbe il SUV. Potete produrre elettricità utilizzando una centrale alimentata col carbone, ma potete anche utilizzare una centrale alimentata a gas, una turbina eolica o i pannelli solari.

Nessuna di queste tecnologie hanno bisogno di essere sviluppate; sono già a portata di mano ed utilizzate abbastanza diffusamente. E ve la sentite davvero di negare che la tecnologia che la gente ha scelto sia influenzata dagli incentivi?

Mea culpa: pensavo che questo fosse totalmente evidente e non immaginavo che qualcuno potesse rimanere confuso a questo proposito, oppure seriamente contestare il concetto che l’uso dell’energia comporta scelte. Ma sbagliavo: si scopre che ci sono persone che possono confondersi con cose del genere, e persino convincersi, nel farlo, di essere profonde e sofisticate. Dunque sono grato di essere stato illuminato.

 

 

[1] E’ il post del 5 giugno, dal titolo “Scelte energetiche”.

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