Blog di Krugman

Disoccupazione: non c’è niente di personale (17 maggio 2014)

 

May 17, 9:34 am

Unemployment: It’s Not Personal

Matt O’Brien has an interesting if depressing piece on long-term unemployment, making the point that long-term unemployment is basically bad luck: if you got laid off in a bad economy, you have a hard time finding a new job, and the longer you stay unemployed the harder it becomes to find work.

Obviously I agree with this analysis – and I’d add that O’Brien’s results more or less decisively refute the alternative story, which is that the long-term unemployed are workers with a problem.

You can see how this story might work. Suppose that workers have some quality – sticktoitiveness, or something – that doesn’t show up in official skill measures but which potential employers can intuit. Then workers lacking this ineffable quality would tend to lose their jobs and have trouble getting new jobs; the difficulty the long-term unemployed have in job search would reflect their personal inadequacy.

Read between the lines of a lot of commentary on the unemployed – especially from those eager to slash benefits – and you’ll realize that something like this is the implicit underlying theory.

But here’s the thing: the association between worker quality and unemployment should be much stronger in a good economy than in a bad economy. In 2000, with labor scarce, there probably was something wrong with many people who got laid off; in 2009, it was just a matter of being in the wrong place. So if unemployment was about personal characteristics, being unemployed should have mattered less for job search after the Great Recession than before. What we actually see, of course, is the opposite.

In other words, it’s nothing personal; it’s the economy, stupid. And as O’Brien said, it’s one more reason failure to provide more stimulus is a crime against American workers.

 

Disoccupazione: non c’è niente di personale

 

Matt O’Brien ha un articolo interessante, seppur deprimente, sulla disoccupazione di lungo periodo, nel quale avanza la tesi che la disoccupazione di lungo periodo sia fondamentalmente una cattiva sorte: se siete stati licenziati in un periodo economico negativo, è difficile trovare un nuovo posto di lavoro, e più a lungo si resta disoccupati, più difficile è trovare lavoro.

Naturalmente sono d’accordo con questa analisi – e aggiungerei che i risultati di O’Brien confutano in modo abbastanza definitivo il racconto opposto, secondo il quale i disoccupati di lungo periodo sono lavoratori con un problema.

Ci si rende conto come questo racconto possa stare in piedi. Supponiamo che i lavoratori abbiano alcune qualità – la capacità di portare a fondo le cose, o qualcosa del genere – che non si manifesta nei modi ufficiali di misurare le competenze ma che i potenziali datori di lavoro possano intuire. In tal modo, i lavoratori che difettano di questa indescrivibile qualità tenderebbero a perdere i loro posti di lavoro ed a avere difficoltà nel trovare nuovi posti di lavoro; la difficoltà dei disoccupati di lungo termine nel cercare lavoro rifletterebbe la loro personale inadeguatezza.

Se si leggono tra le righe molte cronache sui disoccupati – specialmente quelle di coloro che sono ansiosi di tagliare i sussidi di disoccupazione – si comprenderà che qualcosa di questo genere è la teoria implicita di quelle descrizioni.

Ma il punto è qua: la associazione tra qualità del lavoratore e disoccupazione dovrebbe essere molto più forte in un periodo economico positivo che non in un periodo negativo. Nel 2000, con una scarsità di lavoro, probabilmente c’era qualcosa di sbagliato in molte persone che venivano licenziate; nel 2009, era solo una questione di trovarsi nel posto sbagliato. Dunque, se la disoccupazione dipendesse dalle caratteristiche delle persone, agli effetti della ricerca di una posto di lavoro, essere disoccupati dovrebbe avere avuto minore importanza dopo la Grande Recessione che prima. Per la verità ovviamente, si constata l’opposto.

In altre parole, non c’è niente di personale; è l’economia, stupidi! [1] E come ha detto O’Brien, essa è una ragione in più per la quale mancare di fornire maggiori misure pubbliche di sostegno è un crimine contro i lavoratori americani.

 

 

[1] Come è noto, l’espressione, ovvero l’aggiunta di “stupido/i!”, venne spontanea nella occasione di un dibattito pubblico a Bill Clinton, e da quel momento è entrata nell’uso comune.

La stagnazione secolare nell’area euro (17 maggio 2014)

maggio 17, 2014

 

May 17, 3:03 am

Secular Stagnation in the Euro Area

Most discussion about the possibility of secular stagnation has focused on US data, partly because most of the new secular stagnationists are American, partly because the data are easier to work with. But as Izabella Kaminska and James Mackintosh point out, the euro area seems closer to Japanification than the US. So are there structural changes in Europe that arguably will lead to persistently lower demand unless offset by policy?

Indeed there are. Start with demography: a falling rate of growth in the working-age population leads, other things equal, to lower investment as a share of GDP, because there is less need to equip workers with new factories, office buildings, houses, etc. And if we look at working-age population for the US, the euro area (EA), and Japan we see that Europe is now where Japan was around 1998, when I and other Japan worriers started talking in earnest about liquidity traps:

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Add to this the end of ever-increasing leverage. In the US we focus on how ever-growing household debt was a major source of demand before 2008, which won’t come back; in Europe much the same was going on, but it also makes sense to focus on a different measure, large capital flows to peripheral countries, which won’t come back even if the woes of austerity abate. And these flows were a big part of overall European demand before the crisis:

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So with a shrinking working-age population and without the boost to demand caused by the capital-flow bubble, Europe is extremely likely to have a significantly lower natural real rate of interest heading forward than it had in the past. This in turn suggests that it’s a really really bad idea to let inflation drift down, whether or not it turns into outright deflation.

 

La stagnazione secolare nell’area euro

 

La maggior parte delle discussioni sulla stagnazione secolare si sono concentrate sui dati degli Stati Uniti, in parte perché gran parte dei nuovi ‘stagnazionisti’ sono americani, in parte perché è più facile lavorare con quelle statistiche. Ma come hanno sottolineato Izabella Kaminska e James Mackintosh, l’area euro sembra più vicina degli Stati Uniti a seguire le orme del Giappone. Dunque, ci sono modifiche strutturali in Europa che potranno portare ad una domanda più bassa in modo persistente, se non saranno compensate dalla politica?

In effetti ci sono. Cominciamo con la demografia: una caduta del tasso di crescita della popolazione in età lavorativa conduce, a parità delle altre condizioni, ad una percentuale degli investimenti sul PIL più bassa, perché c’è meno necessità di attrezzare i lavoratori con nuovi stabilimenti, nuovi palazzi per uffici, nuove residenze etc. E se guardiamo alla popolazione in età lavorativa nei casi degli Stati Uniti, dell’area euro e del Giappone, vediamo che l’Europa è adesso dove era il Giappone nel 1998, quando io ed altri che eravamo preoccupati per il Giappone cominciammo esplicitamente a parlare di trappole di liquidità:

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Si aggiunga a questo la fine di rapporti di indebitamento in continua crescita. Negli Stati Uniti ci concentriamo sul problema di come un debito in continua crescita delle famiglie fosse una importante fonte di domanda prima del 2008, e su come non sia destinato e tornare indietro; in Europa è avvenuta in gran parte la stessa cosa, ma essa autorizza a mettere in evidenza un diverso dato: gli ampi flussi di capitali sui paesi periferici, anch’essi non destinati a ritornare anche se le pene dell’austerità si riducono. E quei flussi erano un gran parte della complessiva domanda europea prima della crisi [1]:

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Dunque, con una popolazione in età lavorativa che si riduce e senza la spinta alla domanda provocata dalla bolla dei flussi dei capitali, è estremamente probabile che, andando in avanti, l’Europa abbia un tasso di interesse reale naturale più basso che nel passato. Questo a sua volta indica che è per davvero una pessima idea lasciare che l’inflazione scivoli verso il basso, che essa si trasformi o meno in una aperta deflazione.

 

 

[1] Il titolo della tabella indica il complesso dei paesi debitori dell’Europa, forse più noti come PIGS. La differenza tra PIGS e PGIIS – a parte l’insultante omonimia del primo acronimo con il termine “maiali”, che provocò l’indignazione del Portogallo e della Spagna e fece decidere al Financial Times di sopprimere tale espressione – è in questo; che in uno c’è solo la lettera “I” dell’Italia, nell’altro c’è anche la lettera “I” dell’Irlanda. Il primo termine, in effetti, è abbastanza antico, perché si cominciò ad usarlo nei primi anni novanta, per indicare semplicemente i quattro paesi dell’Europa Meridionale; l’aggiunta dell’Irlanda venne dopo la crisi finanziaria del 2008.

Tassi di interesse, inflazione e fatti (17 maggio 2014)

maggio 17, 2014

 

May 17, 3:18 am

Interest Rates and Inflation and Evidence

Just a brief belated note on the “neo-Fisherite” view that lower interest rates lead to lower inflation, which has produced some surprising diffidence from economists you would expect to ridicule it; why doesn’t this debate emphasize the large empirical literature on the effects of monetary shocks?

I mean, we have a lot more evidence than just historical correlations between interest rates and inflation; we have multiple studies (like this recent one in Vox) that use either statistical techniques or a narrative approach (or a mix of the two) to identify innovations in monetary policy, which take the form of a rise or fall in policy rates. And we know what happens after a positive shock to policy interest rates: output and inflation both fall.

I mean, this is largely what Chris Sims got his prize for. It’s about as close to a fully established empirical result as we have in economics.

So why are people busy trying to come up with stories in which the opposite happens? Yes, if you work hard enough at it you can produce a model for perverse outcomes (that’s pretty close to a theorem). But what empirical motivation is there for doing all of this?

What I think happened here was actually that some economists said something silly, not out of deep conviction, but because they weren’t really thinking about what their equations meant; and that rather than back off, they have now spent the past few years trying to justify their initial claims. But there’s no reason to take this stuff seriously.

 

Tassi di interesse, inflazione e fatti

 

Soltanto una nota breve e tardiva sul punto di vista “neo-fisheriano” secondo il quale tassi di interesse più bassi portano ad una inflazione più bassa, che ha provocato una qualche sorprendente timidezza da parte di economisti che ci si sarebbe aspettato lo prendessero di mira; perché questo dibattito non dà rilievo alla ampia letteratura empirica sugli effetti degli shocks monetari?

Voglio dire, abbiamo molte prove in più che non soltanto le correlazioni storiche tra tassi di interesse ed inflazione; abbiamo molteplici studi (come questo recente sul blog Vox) che utilizzano sia le tecniche statistiche che l’approccio narrativo (o un misto dei due) per identificare le innovazioni nella politica monetaria, che prendono la forma di una salita o di una discesa nei tassi di riferimento. E sappiamo quello che accade dopo un shock positivo ai tassi di interesse di riferimento: la produzione e l’inflazione cadono entrambe.

Intendo dire, questo è in larga parte quello su cui Chris Sims ha preso il Premio (Nobel) [1]. E’ quanto abbiamo nella teoria economica di più vicino ad un risultato empirico pienamente confermato.

Perché dunque ci sono persone impegnate a tirar fuori storie nelle quali accade l’opposto? Sì, se ci si impegna abbastanza duramente si può produrre un modello per risultati devianti (cioè, abbastanza vicino ad un teorema). Ma quali motivazioni empiriche ci sono per far questo?

Quello che in questo caso penso sia successo è stato che alcuni economisti hanno detto qualcosa di sciocco, non per convinzione profonda, ma perché in realtà non stavano riflettendo al significato delle loro equazioni; e che piuttosto che tornare sui loro passi, adesso hanno speso gli ultimi anni nel cercare di dimostrare le loro tesi iniziali. Ma non c’è alcuna ragione di prendere queste cose sul serio.

 

 

 

[1] Christopher Albert Sims (Washington, 21 ottobre 1942) è un economista statunitense; è attualmente l’Harold B. Helms Professor of Economics and Banking presso l’Università di Princeton. Il 10 ottobre 2011 gli è stato assegnato il premio Nobel per l’economia assieme a Thomas J. Sargent, della New York University, per “la loro ricerca empirica su cause ed effetti nella macroeconomia”. (Wikipedia)

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Stravaganze basate sulla fede (16 maggio 2014)

maggio 16, 2014

 

May 16, 11:46 am

Faith-based Freaks

Noah Smith isn’t very happy with Steve Levitt, who thinks he was being smart by telling David Cameron that he should scrap the NHS and let the magic of the marketplace deal with health care. Strangely, Cameron wasn’t impressed.

I think there are actually several things going on here. One is a Levitt-specific, or maybe Freakonomics-specific, effect: the belief that a smart guy can waltz into any subject and that his shoot-from-the-hip assertions are as good as the experts’. Remember, Levitt did this on climate in his last book, delivering such brilliant judgements as the assertion that because solar panels are black (which they actually aren’t), they’ll absorb heat and make global warming worse. So it’s true to form that he would consider it unnecessary to pay attention to the work of lots of health economists, or for that matter the insights of Ken Arrow, and assert that hey, I don’t see any reason not to trust markets here.

There’s also the resurgence of faith-based free-market fundamentalism. I’ll write more on this soon, but I’m seeing on multiple fronts signs of an attempt to wave away everything that happened to the world these past seven years and go back to the notion that the market always knows best. Hey, it’s always about allocating scarce resources (never mind all those unemployed workers and zero interest rates), and why would you ever imagine that market prices are wrong (don’t mention the bubble).

And underlying all of this is a problem of methodology.

How should you use the perfectly competitive model, so beloved of economists? It is, of course, only a model, and we know that its underlying assumptions are untrue. There’s the Friedman dictum that this doesn’t matter as long as the model makes good predictions; that’s actually quite problematic, and there are good reasons to argue that the realism of the assumptions matters too.

But one thing you surely shouldn’t do — one thing that even Friedman would or at least should have said you shouldn’t do — is cling to the idealized free-market model when it makes lousy predictions.

In the case of health care, we know that all the assumptions behind free market optimality are grossly violated. Maybe, maybe, you could still justify treating health as a normal market if free markets in health care seemed, in practice, to work well. But they don’t! Even at the rawest level, health costs in advanced countries look like this, with health spending as a percentage of GDP on the vertical axis:

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That’s us in the upper right-hand corner: our uniquely privatized system is uniquely expensive, while overall indicators of the quality of care don’t point to any US superiority. So on the face of it, the evidence strongly suggests that the proposition that health is an area where private markets work badly is borne out by experience.

If you choose to reject that evidence, if you insist that markets must work just as well for surgery as for shoes, one has to ask, is there anything at all that would make you question free-market fundamentalism? If not, then you’re just selling pure faith.

 

Stravaganze basate sulla fede

 

Noah Smith è tutt’altro che contento di Steve Levitt, che pensa di essere stato furbo dicendo a David Cameron che dovrebbe smantellare il Sistema Nazionale Sanitario e lasciare che la magia del mercato si occupi della assistenza sanitaria. Strano a dirsi, Cameron non è rimasto impressionato.

Penso che in effetti vengano al pettine alcune cose a questo proposito. Una è il particolare effetto di Levitt, o forse della Freakonomics [1] : la convinzione che un tipo sveglio possa saltellare su ogni tema e che i suoi giudizi improvvisati siano affidabili come quelli degli esperti. Si ricordi, Levitt ha dedicato il suo ultimo libro al clima, esprimendo giudizi particolarmente brillanti come quello secondo il quale, poiché i pannelli solari sono neri (in effetti, non lo sono), essi assorbiranno il calore e renderanno il riscaldamento globale anche peggiore. Dunque, c’era da aspettarsi che egli avrebbe considerato superfluo prestare attenzione ai lavori di una quantità di economisti sanitari, o nello stesso modo alle intuizioni di Ken Arrow, e sostenesse che, signori cari, non c’è alcuna ragione per non dare fiducia ai mercati, in questa materia.

C’è anche il raffacciarsi di un fondamentalismo fideistico del libero mercato. Scriverò più a fondo prossimamente su questo tema, ma sto osservando in una molteplicità di fronti i segnali di un tentativo di liquidare tutto quello che è successo nel mondo nei sette anni passati e tornare all’idea che il mercato valuta le cose sempre nel migliore dei modi. Il suo ruolo è sempre quello di allocare risorse scarse (tutti quei lavoratori disoccupati ed i tassi di interesse allo zero non contano), e non si vede perché i prezzi di mercato dovrebbero essere sbagliati (a parte le bolle).

E, sullo fondo di tutto questo, c’è un problema di metodologia.

Come si dovrebbe adoperare il modello della competizione perfetta, così amato dagli economisti? Esso è, ovviamente, solo un modello, e sappiamo che i suoi impliciti assunti non sono veri. C’è il detto di Friedman secondo il quale questo non conta, finché un modello produce buone previsioni; che per la verità è abbastanza problematico, essendoci buone ragioni per sostenere che anche il realismo delle premesse è importante.

Ma sicuramente una cosa che non si dovrebbe fare – una cosa che persino Friedman avrebbe detto o avrebbe dovuto dire che non si deve fare – è aggrapparsi al modello idealizzato del libero mercato quand’esso produce previsioni scadenti.

Nel caso della assistenza sanitaria, sappiamo che tutti gli assunti che stanno dietro l’ottimalità del libero mercato sono grossolanamente violati. Forse, dico forse, si potrebbe ancora giustificare il trattare la salute come un normale mercato se i liberi mercati, nel caso della assistenza sanitaria, fossero risultati ben funzionanti. Ma non è così! Anche al livello più elementare, i costi sanitari nei paesi avanzati appaiono come nel diagramma seguente, con la spesa sanitaria come percentuale del PIL sull’asse verticale:

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Si consideri che noi ci collochiamo nell’angolo in alto a destra: il nostro sistema, privatizzato come nessun altro, è come nessun altro dispendioso, mentre gli indicatori generali di qualità della assistenza non indicano alcuna superiorità negli Stati Uniti. Dunque, a giudicare dalla apparenze, le prove indicano con forza che l’idea secondo la quale la sanità è un’area nelle quale i mercati privati funzionano malamente è suffragata dall’esperienza.

Se scegliete di respingere quella evidenza, se insistete che i mercati debbano funzionare egualmente bene con la chirurgia come con le scarpe, è il caso di chiedere se ci sarebbe mai qualcosa che potrebbe provocarvi un dubbio sul fondamentalismo del libero mercato. Se così non è, allora state mettendo in circolazione fideismo assoluto.

 

 

[1] Steven David “Steve” Levitt è un economista americano che insegna all’Università di Chicago, che si è occupato di fenomeni criminali, in generale segnalandosi per un passione per la applicazione di tecniche analitiche di derivazione economica agli oggetti più diversi (e, rispetto all’economia, talora anche un po’ stravaganti). E’ famoso per due bestseller, di cui è stato coautore col giornalista del New York Times Stephen J. Durben: Freakonomics (2005) e Superfreakonomics (2009). Per farsi un’idea, tra gli argomenti del libro: la tendenza all’imbroglio in categorie come gli insegnanti, i praticanti del sumo o i venditori di ciambelle nell’area di Washington; l’economia dello spaccio di droghe; il ruolo della legalizzazione dell’aborto nella riduzione del crimine.

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Non in via di guarigione (15 maggio 2014)

maggio 15, 2014

 

May 15, 7:26 am

Not On The Mend

There have been many proclamations that the euro crisis is over, that Europe’s economy is on the mend. Behind these proclamations lie something very real — a huge convergence in interest rates, thanks to the ECB’s support and growing belief that the political risks to the euro have receded — and something more dubious — a modest uptick in debtor-country growth.

So it’s worth saying that the latest GDP numbers are really disappointing.

It’s not just that overall growth remains slow — although after an extended slump economies are supposed to have a period of above-average growth as they return to trend, and 0.9 percent at an annual rate doesn’t cut it. It’s also that the growth is in the wrong places. We need to see convergence between the austerity-ravaged peripheral countries and the core; in fact, Germany is the main source of growth, with the periphery falling further behind.

Oh, and has anyone noticed that the Baltic miracles are looking a bit less miraculous now? Estonia is actually down on the year, and Latvia is growing no faster than the US.

The European story remains one of deeply destructive economic policies, which have inflicted vast harm — but have not led to unraveling, because the political cohesion of the euro is stronger than people like me realized. The cohesion is a good thing, I guess, but the policies still aren’t working.

 

Non in via di guarigione

 

Ci sono stati proclami sulla crisi dell’euro che era finita, sull’economia dell’Europa che era in via di guarigione. Dietro questo proclami c’è qualcosa di effettivamente reale – una vasta convergenza dei tassi di interesse, grazie al sostegno della BCE ed al crescente convincimento che i rischi politici connessi con l’euro si siano allontanati – e qualcosa di più dubbio – un modesto miglioramento della crescita nei paesi debitori.

E’ il caso di notare, dunque, che gli ultimi dato sui PIL sono davvero deludenti.

Non è solo il fatto che la crescita complessiva rimane lenta – sebbene dopo una crisi prolungata si suppone che le economie abbiano un periodo di crescita sopra la media nel mentre tornano alla loro tendenza, e lo 0,9 per cento di un tasso annuale non è uno stacco. Il punto è anche che la crescita è nei paesi sbagliati. Il bisogno che abbiamo è quello di assistere ad una convergenza tra i paesi della periferia devastati dall’austerità ed il centro: di fatto, la Germania è la fonte principale di crescita, con la periferia che cade ancora più indietro.

Inoltre, ha notato qualcuno che in questo momento i miracoli baltici stanno apparendo un po’ meno miracolosi? L’Estonia è in effetti al punto più basso dell’anno, e la Lettonia non sta crescendo più velocemente degli Stati Uniti.

La storia europea resta segnata da politiche economiche profondamente distruttive, che hanno provocato un danno grande – ma non hanno portato ad un disfacimento, perché la coesione politica dell’euro è più forte di quanto le persone come me avessero compreso. La coesione è un buona cosa, ma le politiche ritengo non stanno ancora producendo effetti.

Travisamenti asimmetrici (dal blog di Krugman, 13 maggio 2014)

maggio 13, 2014

 

May 13, 7:22 am

Asymmetric Misinformation

A followup to my post about Jaime Caruana at the BIS. One other thing that struck me was his claim that

policymakers respond asymmetrically over successive business and financial cycles, hardly tightening or even easing during booms and easing aggressively and persistently during busts

Is this true? Anyway, is symmetry in policy responses inherently desirable?

The claim that policymakers have an easy-money bias is one of those things usually said with an air of worldy wisdom; of course people don’t want to take away the punchbowl when everyone is having fun. But the reality doesn’t look at all like that. After all, if policy were consistently doing too much to fight slumps and not enough to curb booms, what you would expect is a steady ratcheting up of inflation — which isn’t at all what has happened over the past 35 years. This supposed piece of wisdom is actually a cliche from the 1970s, which hasn’t been remotely true for a generation.

And look at the ECB in particular. Twice since the crisis hit it has raised rates at the merest hint of above-target inflation, despite good reason to believe that these were just blips driven by commodity prices. But as inflation slides ever further below target, what we get is equivocation and persistent failure to act. If there’s an asymmetry here, it’s in the opposite direction: hasty action against dubious inflation threats, inaction against deflationary threats.

Incidentally, the fake wisdom on monetary policy resembles a corresponding piece of fake wisdom on fiscal policy — the claim that fiscal stimulus inevitably turns into a permanent rise in government spending, because the programs never go away. That didn’t happen this time:

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And in fact it has never happened in the United States, as far as I can tell — the WPA and the CCC did not, in fact, become permanent fixtures.

Beyond that, there are in fact good reasons for asymmetry in the response to booms and slumps, even if central banks don’t actually do that. Suppose that central banks wait too long to raise rates in a boom, so that the inflation rate rises above target. Well, we have the tools to reduce inflation: just raise rates enough to create a recession. It’s not nice, and you might worry a bit about the political economy — but see above on how little of a problem that has posed in practice.

On the other hand, suppose you wait too long to fight a slump, and the economy develops a case of deflation or at least lowflation. Turning that around is really hard — it depends on either fiscal policy (which tends not to happen) or unconventional monetary policy of uncertain effectiveness.

So there are good reasons to believe that it’s much more crucial to act quickly and forcefully to head off deflation than it is to head off inflation. Symmetry is not a virtue.

 

Travisamenti asimmetrici

 

Un seguito al mio post su Jaime Caruana, della Banca dei Regolamenti Internazionali. Un’altra cosa che mi ha colpito è stata la sua affermazione:

“gli uomini politici rispondono in modo asimmetrico ai cicli economici e finanziari che si succedono, raramente con restrizioni o persino con facilitazioni durante le espansioni e con facilitazioni aggressive e persistenti durante le crisi.”

E’ proprio così? In ogni modo, è intrinsecamente desiderabile l’asimmetria nelle risposte politiche?

La pretesa che gli uomini politici inclinino alla moneta facile è una di quelle cose che usualmente si dicono con un’aria di saggezza mondana: naturalmente le persone non vogliono togliere di mezzo la tazza del punch [1] quando tutti cominciano a divertirsi. Dopo tutto, se la politica con coerenza facesse troppo per combattere le crisi e non abbastanza per tenere a freno le espansioni, ciò che ci si aspetterebbe sarebbe un ininterrotto progresso dell’inflazione – che non è affatto quello che è accaduto nei passati 35 anni. Questo tratto di supposta saggezza è per la verità un cliché degli anni ’70, che per un generazione non è stato neanche lontanamente vero.

E si guardi alla BCE in particolare. Dal momento che la crisi ha colpito, essa per due volte ha elevato i tassi al minimo cenno di una inflazione sopra l’obbiettivo, nonostante buone ragioni per credere che si trattasse soltanto di ritocchi derivanti dai prezzi delle materie prime. Ma tutte le volte che l’inflazione scivola al di sotto dell’obbiettivo, quello che si ha sono reazioni ambigue e indisponibilità continua a fare alcunché. Se c’è una asimmetria, in questo caso, è nella direzione opposta: frettolosa azione a fronte di dubbie minacce di inflazione, inerzia contro le minacce deflattive.

Tra parentesi, la falsa saggezza sulla politica monetaria assomiglia ad una componente della falsa saggezza nella politica della finanza pubblica – la pretesa che le misure di sostegno pubbliche inevitabilmente si trasformino in una crescita permanente della spesa pubblica, perché i programmi (di quella spesa) durano all’infinito. Non è quello che sta accadendo in questo caso [2]:

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E, in sostanza, per quanto io sappia, non era mai accaduto negli Stati Uniti – la WPA [3] ed il CCC [4] non divennero, di fatto, istituzioni permanenti.

Oltre a ciò, ci sono nei fatti buone ragioni per una asimmetria nella riposta alle espansioni ed alle crisi, anche se le banche centrali non si comportano in tal modo. Supponiamo che le banche centrali aspettino troppo a lungo ad elevare i tassi di interesse in una espansione, al punto che il tasso di inflazione cresca oltre l’obbiettivo. Ebbene, abbiamo gli strumenti per ridurre l’inflazione: è sufficiente soltanto elevare i tassi per determinare una recessione. Non è un buon comportamento, e nel caso ci si dovrebbe un po’ preoccupare della gestione economica – ma si consideri quanto sia modesto in pratica il problema che si crea.

D’altra parte, si supponga di aspettare troppo a lungo nel combattere una recessione, e che l’economia sviluppi una situazione di deflazione o di bassa inflazione. Tornare indietro è davvero difficile – dipende o dalla politica della finanza pubblica (la qualcosa tende a non accadere) o da una politica monetaria non convenzionale di una certa efficacia.

Ci sono dunque buone ragioni per credere che sia assai più importante agire rapidamente e con energia per sbarrare la strada alla deflazione che per sbarrare la strada all’inflazione. La simmetria non è una virtù.

 

 

[1] E’ una espressione frequentemente usata per indicare il comportamento al quale si dovrebbero attenere, in particolare, le banche centrali, che dinanzi a segni di ripresa e di espansione dovrebbero restringere la politica monetaria, come quando una festa comincia a ‘riscaldarsi’ ed è consigliabile togliere di mezzo la zuppiera del punch.

[2] La tabella mostra gli effetti della legge dello ‘stimulus’ di Obama sul totale delle spese del Governo federale.

[3] La Works Progress Administration (ribattezzata nel corso del 1939, Work Projects Administration; WPA) è stata la più grande agenzia del New Deal che diede lavoro a milioni di persone nella costruzione di opere pubbliche, come edifici, strade e nella realizzazione di grandi progetti nelle arti, teatro, media e alfabetizzazione. Sfamò bambini e distribuì alimenti, vestiti e alloggi. Quasi ogni comunità negli Stati Uniti ha un parco, un ponte o una scuola costruiti dalla WPA, soprattutto negli Stati occidentali e tra le popolazioni rurali. Per questi aiuti tra il 1936 e il 1939 spese circa 7 miliardi di dollari. (Wikipedia)

[4] Altro programma del New Deal, rivolto ai disoccupati, agli uomini non sposati ed ai giovani dai 18 ai 25 anni (l’obbiettivo era principalmente quello di sollevare le famiglie dal mantenimento di persone disoccupate, fornendo loro cibo e un modesto salario, spesso lontano dai luoghi di residenza), e consistente nel realizzare progetti infrastrutturali e di conservazione dell’ambiente. In nove anni parteciparono 9 milioni di persone.

Squilibrati a Basilea (dal blog di Krugman, 13 maggio 2014)

maggio 13, 2014

 

Unbalanced in Basel

May 13, 2014, 4:04 am

Ambrose Evans-Pritchard draws our attention to a speech by Jaime Caruana, General Manager of the Bank for International Settlements. It is indeed a quite remarkable speech — and I mean that in the worst way; it’s a perfect illustration of the way permahawks keep finding new arguments for their never-changing demand that we raise interest rates now now now.

Some background: the BIS has spent almost the whole period since the financial crisis struck calling for tighter money. Oddly, however, it keeps changing its justifications for that call. At first it was dire warnings of inflation just around the corner. Then it was financial instability. Now, with low inflation and possible deflation a growing concern, Mr. Caruana argues that (a) deflation is not so bad (b) we’re in a balance sheet slump, and that means loose money is bad.

On the first point, isn’t it quite remarkable how the BIS has slid from warning about inflation — and dismissing concerns about deflation — to saying that deflation is OK? Beyond that, the main case for arguing that deflation is OK is economic growth during the late 19th century. Is that really a good model? Just to take the most obvious point: the late 19th century was marked by rapid population growth in the “zones of recent settlement” (basically places where Europeans were moving in, displacing or wiping out the locals). In the United States, population grew 2 percent a year from 1880-1910, sustaining high investment demand. And the zones of recent settlement also offered an outlet for very large capital outflows from Europe. In other words, the global situation was conducive to a high natural real rate of interest, making mild deflation much more sustainable than in today’s world.

I’ll probably want to write more about Gilded Age deflation. But for now, let me turn to the balance-sheet thing. Mr. Caruana draws a distinction between the view that we’re suffering from inadequate aggregate demand, and what he claims is a contrasting view that the problem is too much debt; and he claims that the excess debt/balance sheet approach implies that expansionary monetary policy is unhelpful and counterproductive.

And I wonder what on earth he’s talking about.

It’s true that balance-sheet considerations were underemphasized in macroeconomics until recently. But it’s not too hard to put them into a more or less New Keynesian model — see, in particular (ahem) Eggertsson and Krugman (pdf). And what this analysis tells you is that expansionary monetary policy is more, not less, helpful than a model without balance-sheet effects would suggest, because high income and prices reduce the burden of debt.

And conversely, deflation is much worse in a debt-laden world than without, again because of its effect on the real burden. You don’t have to take my word for it — read Irving Fisher from 1933!

So how does the balance-sheet story turn into a case for tight money? I have no idea — there’s certainly no clear explanation in the Caruana speech.

By all means let’s talk about balance-sheet effects. But is it really too much to demand a model, or at least a carefully spelled-out mechanism? Right now it looks as if the BIS is claiming that balance sheets make the case for tight money because in Basel everything makes the case for tight money.

 

Squilibrati a Basilea

 

Ambrose Evans-Pritchard attira la nostra attenzione su un discorso di Jaime Caruana, Direttore Generale della Banca dei Regolamenti Internazionali. Si tratta in effetti di un discorso considerevole – nel senso peggiore, voglio dire; una perfetta illustrazione del modo in cui i falchi più ostinati continuino a trovare nuovi argomenti per la loro immutabile richiesta che si alzino i tassi di interesse senza alcun indugio.

Qualche passo indietro: la BRI, dal momento in cui esplose la crisi finanziaria, ha speso quasi tutto il tempo a pronunciarsi per una restrizione monetaria. Curiosamente, tuttavia, essa ha continuato a cambiare le motivazioni di tale richiesta. In un primo tempo ci furono terribili ammonimenti su una inflazione proprio dietro l’angolo. Poi venne l’instabilità finanziaria. Ora, con una preoccupazione crescente per la bassa inflazione e la possibile deflazione, il signor Caruana sostiene che: a) la deflazione non è così negativa; b) siamo in una crisi degli equilibri patrimoniali [1], e questo significa che il denaro facile è negativo.

Quanto al primo aspetto: non è abbastanza interessante come la BRI sia scivolata dagli ammonimenti sull’inflazione – e dall’ignorare le preoccupazioni sulla deflazione – al dire che la deflazione va bene? Oltre a ciò, l’argomento principale per sostenere che la deflazione è positiva è la crescita economica durante l’ultima parte del XIX Secolo. E’ proprio un buon modello? Solo per considerare l’aspetto più ovvio: l’ultima parte del XIX Secolo fu contrassegnata da un rapido aumento della popolazione nelle “zone di recente insediamento” (fondamentalmente, i luoghi nei quali gli europei si spostavano, rimuovendo o scacciando le popolazioni locali). Negli Stati Uniti la popolazione crebbe di un 2 per cento all’anno dal 1880 al 1910, sostenendo un’alta domanda di investimenti. Ed anche le zone di recente insediamento offrirono uno sbocco per ampi flussi di capitali dall’Europa. In altre parole, la situazione globale favoriva un alto tasso di interesse reale, rendendo una leggera deflazione assai più sostenibile che nel mondo di oggi.

Probabilmente avrò occasione di ritornare sulla deflazione nell’Età dell’Oro. Ma per il momento mi vorrei occupare della faccenda degli equilibri patrimoniali. Il signor Caruana indica una distinzione tra il punto di vista per il quale staremmo soffrendo di una inadeguata domanda aggregata, e quello che definisce un punto di vista opposto, secondo il quale il problema è l’eccessivo debito; e sostiene che l’approccio dell’“eccesso di debito/equilibri patrimoniali” implica che una politica monetaria espansiva non aiuta ed è controproducente.

Ed io mi chiedo di cosa diamine stia parlando.

E’ vero che le considerazioni sugli equilibri patrimoniali furono sottovalutate in macroeconomia sino al periodo recente. Ma non è così difficile inserirle in un modello più o meno neokeynesiano – si veda in particolare (spiacente per l’autocitazione) Eggertsson e Krugman (disponibile in pdf). E quello che questa analisi vi dice è che la politica monetaria espansiva è non meno, bensì più utile di quello che suggerirebbe un modello senza gli effetti degli equilibri patrimoniali, perché alti redditi e prezzi riducono il peso del debito.

E, di converso, la deflazione è molto peggiore in un mondo carico, anziché libero da debiti, ancora per il suo effetto sull’onere reale. Non credete a me – leggetevi Irving Fisher nel 1933!

Dunque, in che modo il racconto sugli equilibri patrimoniali si trasformano in un argomento per un alto costo del denaro? Non ne ho idea, e di certo non c’è una chiara spiegazione nel discorso di Caruana.

In tutti i modi, parliamo pure degli effetti degli equilibri patrimoniali. Ma è troppo chiedere un modello, o almeno un meccanismo espresso con un po’ di scrupolo? A questo punto sembra che la BRI sostenga che gli equilibri patrimoniali siano un argomento per una restrizione monetaria, perché a Basilea ogni cosa è un argomento per una restrizione monetaria.

 

 

[1] Per “equilibrio patrimoniale” si intende la descrizione, in un determinato momento, della situazione di una impresa derivante dalla lettura dei suoi attivi o assets e delle sue passività, alle quali vanno aggiunti i capitali propri degli azionisti. Il termine dunque, in questo caso, si riferisce in generale agli equilibri delle imprese globalmente intesi. Ma si può parlare, ad esempio, di equilibri patrimoniali anche in riferimento alle Banche Centrali, le quali con politiche monetarie espansive (è il caso delle “facilitazioni quantitative”, vedi alle note sulla Traduzione) ‘modificano’ i propri equilibri patrimoniali (li modificano e non li rendono negativi, perché esse hanno la facoltà di creare moneta).

Alla ricerca disperata di ciò che non conta (12 maggio 2014)

maggio 12, 2014

 

May 12, 7:06 am

Desperately Seeking Irrelevance

Simon Wren-Lewis says most of what needs to be said in response to Tony Yates. But I think it’s important to highlight the self-destructiveness of the attitude on display.

Consider the state of the debate over economic policy in 2009-2010. On one side you had economists who understood and took seriously simple macro models – extended versions of IS-LM with endogenous money, and various New Keynesian models designed mainly to show how IS-LMish results can be consistent with constrained maximization. On the other you had people who did macroeconomics not by models but via slogans and gut feelings.

The lay side of this debate looked at budget deficits and “money printing” (the expansion of the central bank balance sheet) and issued dire warnings about soaring interest rates and inflation. The other side said no, we’re at the zero lower bound, so none of this will happen. And these predictions – which the non-economists considered completely implausible and absurd – proved correct.

If economics were an ordinary field of scholarly inquiry, this outcome would have been celebrated as proof that we really do know something useful. (I personally was deeply gratified at the demonstration that I have not been fooling myself all these years.)

But no. Faced with a triumph of simple models, which made strong, counterintuitive predictions that panned out, a significant number of economists refuse to take yes for an answer; they seek out reasons to insist that things are more complicated than that, even though in practice they weren’t complicated at all, and to declare that the field isn’t ready to offer useful advice. Time for more research!

But surely the question here is why society should support such research. If your view is that after three generations of macroeconomics, the field had nothing helpful to say in the face of a huge economic crisis, why should anyone believe that your research program will ever produce anything useful?

And again: what we see here is a determination to declare that we as a profession have nothing useful to offer in the teeth of overwhelming evidence that we actually do know something.

I’m not sure what this is about. Maybe in part it’s academic distaste for the very notion of emerging from the ivory tower to engage with real concerns. But let me remind my colleagues that nobody has to take economists seriously. If we as a profession are going to squirt out clouds of ink and scuttle for safety whenever anyone suggests a real-world use for our work, what good are we?

 

Alla ricerca disperata di ciò che non conta

 

Simon Wren-Lewis dice molto di quello che andava detto in risposta a Tony Yates. Ma penso che sia importante mettere l’accento sulla auto distruttività della attitudine che viene ora in mostra.

Si consideri lo stato del dibattito sulla politica economica negli anni 2009-2010. Da una parte c’erano economisti che capivano e prendevano sul serio modelli economici semplici – versioni ampliate dell’ IS-LM con moneta endogena, e vari modelli neokeynesiani rivolti principalmente a dimostrare come risultati più o meno simili allo IS-LM potevano essere coerenti con una limitata massimizzazione. D’altra parte c’erano persone che facevano macroeconomia non con i modelli ma con sensazioni viscerali.

La componente profana di questo dibattito guardava ai deficit di bilancio ed allo “stampar moneta” (l’espansione degli equilibri patrimoniali della banca centrale) e avanzava ammonimenti terribili sui tassi di interesse e sull’inflazione che sarebbero saliti alle stelle. L’altra parte diceva il contrario, che non sarebbe successo niente del genere. E queste ultime previsioni – che i non-economisti consideravano completamente infondate ed assurde – si sono mostrate corrette.

Se l’economia fosse un campo ordinario di indagine per studiosi, un tale risultato sarebbe stato celebrato come la prova che effettivamente conosciamo nozioni utili (personalmente, sono rimasto molto gratificato dalla dimostrazione che non mi ero preso in giro in tutti gli anni passati).

Invece no. Dinanzi al trionfo dei semplici modelli, che avanzarono previsioni impegnative e contrarie al senso comune che ebbero successo, un significativo numero di economisti si rifiutarono di rispondere con una semplice ammissione; cercarono ragioni per insistere sul concetto che le cose erano più complicate, anche se in pratica esse non erano affatto complicate, e per dichiarare che la disciplina non era pronta ad offrire consigli utili. Era tempo di ulteriori ricerche!

Ma in questo caso la domanda evidentemente è perché la società dovrebbe sostenere tali ricerche. Se la vostra opinione è che dopo tre generazioni di teoria macroeconomica, la disciplina non ha niente di utile da dire a fronte di una vasta crisi economica, perché si dovrebbe credere che il vostro programma di ricerca produrrà mai qualcosa di utile?

Ed ancora: quello a cui assistiamo, in questo caso, è l’ostinazione a dichiarare che noi stessi, come soggetti di tale disciplina, non abbiamo niente di utile da dire, in barba alla prova evidente che in verità qualcosa sappiamo.

Non sono certo di come interpretare tutto questo. Forse, in parte, è una avversione professorale nei confronti della semplice idea di venir fuori dalla torre di avorio per impegnarsi sulle preoccupazioni vere. Ma lasciatemi ricordare ai miei colleghi che nessuno è tenuto a prendere sul serio gli economisti. Se siamo una professione destinata a schizzare nuvole di inchiostro e a darsi a fughe precipitose ogni qual volta qualcuno suggerisce di usare il nostro lavoro al servizio del mondo reale, quale è mai la nostra utilità?

Già nella trappola della bassa inflazione (10 maggio 2014)

maggio 10, 2014

 

May 10, 12:54 pm

Already in the Lowflation Trap

Dean Baker, reacting to Neil Irwin, feels that he needs to make the perennial point that zero inflation is not some kind of economic Rubicon. Below-target inflation is already a problem, and a very serious problem if you don’t have an easy way to provide economic stimulus.

Think about it. Suppose that you have a 2 percent inflation target, but you’ve cut interest rates close to zero and the inflation rate is 1 percent and falling. Then you’re already experiencing a cumulative process that will pull you deeper into the trap unless you get lucky.

How so? Actually, a couple of mechanisms. As inflation falls, real interest rates will rise, tending to depress the economy further. Also, debtors will find their debt growing because inflation isn’t as high as they expected, so that you have a debt-deflation cycle even if you don’t yet have deflation.

So Europe’s low and falling inflation isn’t a problem because it might turn into deflation — it’s a problem because of what it’s doing right now.

Oh, and a word on Sweden, where the central bank is indeed on the edge of deflation but say never mind because output is currently growing. Um, does the bank have an inflation target or doesn’t it? Yes, the economy can expand some of the time even if inflation is below target — but because the inflation rate is low, there isn’t as much room to respond to adverse shocks. So missing the target is a policy failure whatever the current output indicators.

Anyway, back to Europe: it’s not that something could go wrong, but the fact that it already has gone wrong.

And remember, above all, that the risks aren’t symmetric. Controlling inflation may be painful, but we do know how to do it. Exiting deflation or lowflation is really, really hard, which is why you never want to go there.

 

Già nella trappola della bassa inflazione

 

Dean Baker, in reazione a Neil Irwin, sente di aver bisogno di avanzare l’argomento sempre possibile che una inflazione a zero non è una specie di Rubicone economico. L’inflazione al di sotto dell’obbiettivo è già un problema, ed è un problema molto serio se non c’è un modo semplice per fornire misure di sostegno economiche.

Ci si rifletta. Supponiamo che si abbia un obbiettivo di inflazione al 2 per cento, ma che i tassi di interesse si siano ridotti a zero e il tasso di inflazione sia all’uno per cento, e stia calando. Si sta già facendo esperienza di un processo cumulativo che vi spingerà più in basso, in una trappola di liquidità, se non siete fortunati.

In che modo? In pratica con un meccanismo duplice. Come l’inflazione scende, il tasso reale di interesse salirà, tendendo a deprimere l’economia ulteriormente. Inoltre, i debitori scopriranno che il loro debito cresce perché l’inflazione non è così alta come si aspettavano, cosicché si ha un ciclo debito-deflazione anche se non si ha ancora deflazione.

Dunque, una inflazione bassa ed in calo in Europa non è un problema perché potrebbe mutarsi in deflazione – è un problema per quello che sta già provocando.

Ed anche una parola sulla Svezia, dove la Banca Centrale è in pratica sul limite della deflazione ma sostiene di non preoccuparsi perché la produzione attualmente sta crescendo. Mah. La Banca ha un obbiettivo di inflazione o non ce l’ha? Sì, l’economia può crescere per un po’ anche se l’inflazione è al di sotto dell’obbiettivo – ma dato che il tasso di inflazione è basso, non c’è molto spazio per rispondere a shock negativi. Dunque, rinunciare all’obbiettivo è un segno di impotenza politica, con qualunque indicatore della produzione attuale.

In ogni caso, tornando all’Europa: il punto non è che qualcosa potrebbe andare storto, ma che sta già andando storto.

E, soprattutto, si rammenti che i rischi non sono simmetrici. Controllare l’inflazione può essere doloroso, ma sappiamo come fare. Uscire dalla deflazione, o dalla lenta inflazione, è davvero molto difficile, e quello è il motivo per il quale è meglio non arrivarci.

Abusare della relatività (10 maggio 2014)

maggio 10, 2014

 

May 10, 12:34 pm

Abusing Relativity

Jonathan Chait has an extended discussion and takedown of the Fox News All-Star Panel reaction to the National Climate Assessment, which I won’t try to summarize. But I do want to delve a bit more into one point. Chait quotes Charles Krauthammer dismissing the scientific consensus because

99 percent of physicists were convinced that space and time were fixed until Einstein working in a patent office wrote a paper in which he showed that they are not.

As Chait notes, this logic would lead you to dismiss all science — hey, maybe tomorrow someone will write a paper showing that the germ theory of disease is all wrong, so why bother with sterilized instruments in the hospital? But there’s something else wrong here — the complete misunderstanding of what Einstein did.

Yes, Einstein showed that space and time were relative concepts. But did he show that everything physicists had been doing up to that point was all wrong? Of course not — classical physics was an incredibly useful and successful field, and almost none of what it said had to change in light of relativity. True, Einstein showed that it was a special case — but one that applied almost perfectly at the speeds and accelerations we encounter in normal conditions.

So if we had an Einstein equivalent in climate science, he or she would find that existing models were right in 99.9% of what they assert, even though under extreme conditions they might be misleading.

Or maybe the simpler way to put it is, Dr. Krauthammer, you’re no Einstein.

 

Abusare della relatività

 

Jonathan Chait discute e smonta pezzo a pezzo la reazione della giuria di All-Star di Fox News al rapporto nazionale sul clima, che io non cercherò di sintetizzare. Ma voglio scavare un po’ di più su un punto. Chait cita Charles Krauthammer che liquida l’unanimità nel mondo scientifico, perché:

“il 99 per cento dei fisici erano convinti che lo spazio ed il tempo fossero immutabili, finché Einstein lavorando in un ufficio brevetti scrisse un saggio nel quale mostrava che non lo erano.”

Come nota Chait, questa logica porterebbe ad ignorare tutta la scienza – perché no, può darsi che domani qualcuno scriva un articolo sulla base del quale la teoria delle malattie provocate dai microbi risulti tutta sbagliata, dunque perché perder tempo con gli strumenti sterilizzati negli ospedali? Ma c’è qualcos’altro di sbagliato qua – l’incomprensione completa di quello che Einstein fece.

Sì, Einstein mostrò che lo spazio ed il tempo erano concetti relativi. Ma dimostrò che ogni cosa che i fisici avevano fatto sino a quel punto era del tutto sbagliata? Ovviamente no – la fisica classica fu una disciplina incredibilmente utile e di successo. E quasi niente di quello che essa aveva affermato dovette essere cambiato alla luce della relatività. E’ vero, Einstein mostrò che essa era un caso speciale – eppure era un caso che aderiva quasi perfettamente alle velocità ed alle accelerazioni che incontriamo in condizioni normali.

Se dunque avessimo un equivalente di Einstein nella scienza del clima, costui (o colei) scoprirebbero che i modelli esistenti erano giusti nel 99,9% dei casi dei quali si ragione, anche se in condizioni estreme essi potrebbero essere fuorvianti.

O forse il modo più semplice è metterla così: Dr. Krauthammer, lei non è Einstein.

Leggende della finanza pubblica dell’Eurozona (dal blog di Krugman, 9 maggio 2014)

maggio 9, 2014

 

May 9, 9:39 am

Eurozone Fiscal Myths

Matthew Yglesias has a generally very good piece on the euro story so far; a combination of whatever-it-takes financial intervention and political commitment has stabilized the financial situation, but the real economy and the unemployed have suffered terribly.

But even Yglesias is somewhat taken in by the intense propaganda that portrays the crisis as mainly fiscal. Namely, he says that the coming of the euro, and the resulting low borrowing costs, led to “irresponsible budgeting” in Italy.

Sorry, but no (and when it comes to almost any fiscal issue, you always, always want to check the numbers yourself, not rely on what all the reporting seems to say.) Italy’s high debt is a legacy of policies long ago:

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The country’s debt position actually improved during the euro boom years, and only worsened again recently thanks to the economic crisis.

In reality, here is the full list of countries for whom a fiscal irresponsibility story of the euro crisis makes any sense at all:

Greece

The truth is that Spain and Ireland were models of fiscal responsibility from 2000 to 2007, or so it seemed, and Italy wasn’t too bad. If you imagine otherwise, if you think you’ve heard that fiscal irresponsibility was more widespread than that, blame bad reporting.

 

Leggende della finanza pubblica dell’Eurozona

 

 

Metthew Yglesias scrive un articolo, ottimo in generale, sulla storia dell’euro sino a questo punto; una valutazione congiunta dell’intervento finanziario del “qualsiasi cosa serva” [1] e delll’impegno politico che ha stabilizzato la situazione, a parte il fatto che  l’economia reale e i disoccupati che abbiano sofferto in modo terribile.

Ma anche Yglesias in qualche modo è preso dalla spasmodica propaganda che ritrae la crisi principalmente derivante dalla finanza pubblica. In particolare, egli dice che l’arrivo dell’euro, ed i conseguenti bassi costi di indebitamento, portarono a ‘politiche di bilancio irresponsabili’ in Italia.

Spiacente, ma non è così (e quando si arriva ad un qualche tema di finanza pubblica, sempre, dico sempre, si debbono controllare i numeri per proprio conto, non fidarsi su quello che resoconti sembra che dicano). L’alto debito dell’Italia è un’eredità di politiche di molto tempo fa:

z 100

 

 

 

 

 

 

 

La posizione debitoria del paese in effetti migliorò durante gli anni di espansione dell’euro, ed è peggiorata solo di recente grazie alla crisi economica.

In realtà, ecco l’intero elenco di paesi per i quali ha davvero senso un racconto della crisi dell’euro in termini di irresponsabilità fiscale:

la Grecia.

La verità è che la Spagna e l’Irlanda furono modelli di responsabilità della finanza pubblica dal 2000 al 2007, o così sembrava, e anche l’Italia non si comportava male. Se vi immaginate cose diverse, se avete sentito dire che l’irresponsabilità fiscale fu più generalizzata, date la colpa ad un cattivo giornalismo.

 

 

[1] La famosa espressione del Governatore della BCE con la quale si annunciarono le possibili misure monetarie che interruppero la ‘china’ degli spread.

Assicurazione e libertà (9 maggio 2014)

maggio 9, 2014

 

May 9, 8:59 am

Insurance and Freedom

These are tough times for opponents of health care reform. They bet everything on a debacle, but Obamacare has failed to fail — and their efforts to deny the increasingly obvious success of the law are beginning to look ridiculous.

Oh, and they can’t come up with a conservative alternative; Obamacare IS the conservative alternative, a way to achieve sorta-kinda universal coverage without single payer, and all of its main elements are essential parts of the package.

So what’s left? Claims that guaranteed health insurance is an assault on America’s freedom.

Bill Gardner at The Incidental Economist offers a rather decorous, mild reply to the people making this argument. I’d put it more forcefully: the pre-ACA system drastically restricted many people’s freedom, because given the extreme dysfunctionality of the individual insurance market, they didn’t dare leave jobs (or in some cases marriages) that came with health insurance. Now that affordable insurance is available even if you don’t have a good job at a big company, many Americans will feel liberated — and this hugely outweighs the minor infringement on freedom caused by the requirement that people buy insurance. (Also, if you don’t like the mandate, why not support single payer?)

But no discussion of this latest argument should fail to mention the original insurance-is-slavery campaign — Operation Coffeecup, in which the AMA recruited doctors’ wives to gather their friends and listen to a recording of Ronald Reagan declaring that Medicare would destroy American liberty.

Strange to say, that didn’t happen. And Obamacare won’t turn into a form of slavery, either. On the contrary, as I said, it will be a liberating force for many Americans.

 

Assicurazione e libertà

 

Sono tempi duri per gli oppositori della riforma sanitaria. Scommettono tutto su una debacle, ma la riforma di Obama ha evitato il collasso – e i loro sforzi per negare il sempre più evidente successo della legge stanno cominciando ad apparire ridicoli.

Il punto è che non possono venirsene fuori con una alternativa conservatrice; la riforma di Obama “è” l’alternativa conservatrice, un modo per ottenere una specie di copertura universalistica senza un unico centro di pagamento, e tutte le sue componenti sono parti essenziali del pacchetto.

Dunque, cosa ci siamo persi? La pretesa che la assistenza sanitaria garantita sia un assalto alla libertà dell’America.

Bill Gardner su The Incidental Economist offre una replica alle persone che avanzano quell’argomento, bonaria ed abbastanza decorosa. Io lo direi in modo più energico: il sistema precedente alla riforma restringeva in modo drastico molte libertà delle persone, perché dato il pessimo funzionamento del mercato assicurativo individuale, esse non osavano lasciare posti di lavoro (o in qualche caso matrimoni), come sarebbe successo a seguito dell’assicurazione sanitaria [1]. Ora che è a disposizione una assicurazione disponibile anche se non si ha un buon posto di lavoro in una grande impresa, molti americani si sentiranno liberati – e questo supera ampiamente la modesta violazione alla libertà costituita dall’obbligo per le persone di acquistare l’assicurazione (per altro, se non piace quell’obbligo nella forma di una delega alle persone singole, perché non si sostiene un centro di pagamenti unico?).

Ma nessun dibattito su quest’ultimo aspetto dovrebbe far dimenticare l’originaria campagna su “l’assicurazione è una schiavitù” – l’ “Operazione Coffeecup”, nella quale la associazione dei medici americani reclutò le mogli dei dottori per mettere insieme le loro amiche ed ascoltare una registrazione di Ronald Reagan che affermava che Medicare avrebbe distrutto la libertà americana [2].

Strano a dirsi, non accadde. E la riforma sanitaria di Obama, a sua volta, non diventerà una forma di schiavitù. Al contrario, come ho detto, sarà un fattore di liberazione per molti americani.

 

 

 

 

1] Mi pare che questa affermazione si spieghi in questo modo, come si conferma nella frase successiva: che le assicurazioni individuali sono soprattutto quelle cui sono costretti i lavoratori delle imprese minori, che non si fanno carico del pagamento della assistenza sanitaria come invece avviene soprattutto nelle imprese maggiori. Dunque, nel passato, avere una assicurazione dignitosa comportava spesso rischiare il posto di lavoro per cercarne un altro migliore. Il matrimonio poteva andare in fumo di conseguenza.

[2] Quella campagna dell’AMA (American Medical Association) ebbe luogo durante gli anni ’50 ed i primi anni ’60. La registrazione dell’appello dell’allora attore Ronald Reagan fu nell’anno 1961; in esso Reagan attaccava violentemente la “medicina socializzata” che era a suo dire implicita nella proposta dei Democratici di istituire un programma di assistenza garantita alle persone anziane, che prese il nome di Medicare. A dire il vero, al giorno d’oggi i repubblicani non osano più attaccare Medicare, che è un programma federale molto amato. L’operazione “tazza di caffè” prese il nome dal fatto che le signore si raccoglievano nei loro salotti per ascoltare il disco di Reagan, assieme a qualche caffè e forsanche merendina.

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Economie di scala (8 maggio 2014)

maggio 8, 2014

 

May 8, 1:37 pm

Economies of Scales

Brad Plumer tells an important, little-known tale. It begins with things going badly:

Back in the 1980s and ’90s, many fisheries in the US were in serious trouble. Fish populations were dropping sharply. Some of New England’s best-known groundfish stocks — including flounder, cod, and haddock — had collapsed, costing the region’s coastal communities hundreds of millions of dollars.

So the government got involved. But we know that government is always the problem, never the solution; so you know what came next.

Or maybe you don’t. In fact, government intervention has been a big success. Many fisheries have rebounded, to the benefit of the fishermen as well as consumers.

Fighting climate change isn’t really all that different from saving fisheries; if we ever get around to doing the obvious, it will be easier and more successful than anyone now expects.

 

Economie di scala

 

Brad Plummer ci racconta una storia importante e poco nota. Essa comincia con alcune cose che volgono al peggio:

“Nei passati anni ‘80 e ’90 molti mercati del pesce negli Stati Uniti erano in seri guai. La popolazione ittica era in brusco calo. Alcune delle più conosciute riserve di pesci di fondale del New England – incluse le platesse, i merluzzi e gli asinelli [1] – erano in crisi, con un costo per le comunità delle regioni costiere di centinaia di milioni di dollari.”

Cosicché venne coinvolto il Governo. Ma noi sappiamo che il Governo è sempre il problema, mai la soluzione; dunque sapete cosa accadde.

O forse non lo sapete. Di fatto l’intervento del Governo ha avuto grande successo. Molti mercati del pesce hanno ripreso alla grande, a beneficio dei pescatori come dei consumatori.

Combattere il cambiamento climatico, in realtà, non è una cosa cos’ diversa dal salvare i mercati del pesce; semmai ci metteremo a fare quello che è ovvio, sarà più facile e più di successo di quello che oggi tutti si aspettano.

 

 

 

[1] Anche chiamato eglefino, pesce d’acqua salata diffuso nell’Atlantico Settentrionale.

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Previsioni e pregiudizi (dal blog di Krugman, 8 maggio 2014)

maggio 8, 2014

 

May 8, 1:15 pm

Predictions and Prejudice

The 2008 crisis and its aftermath have been a testing time for economists — and the tests have been moral as well as intellectual. After all, economists made very different predictions about the effects of the various policy responses to the crisis; inevitably, some of those predictions would prove deeply wrong. So how would those who were wrong react?

The results have not been encouraging.

Brad DeLong reads Allan Meltzer in the Wall Street Journal, issuing dire warnings about the inflation to come. Newcomers to this debate may not be fully aware of the history here, so let’s recap. Meltzer began banging the inflation drum five full years ago, predicting that the Fed’s expansion of its balance sheet would cause runaway price increases; meanwhile, some of us pointed both to the theory of the liquidity trap and Japan’s experience to say that this was not going to happen. The actual track record to date:

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Tests in economics don’t get more decisive; this is where you’re supposed to say, “OK, I was wrong, and here’s why”.

Not a chance. And the thing is, Meltzer isn’t alone. Can you think of any prominent figure on that side of the debate who has been willing to modify his beliefs in the face of overwhelming evidence?

Now, you may say that it’s always like this — but it isn’t. Consider the somewhat similar debate in the 1970s over the “accelerationist” hypothesis on inflation — the claim by Friedman and Phelps that any sustained increase in inflation would cause the unemployment-inflation relationship to worsen, so that there was no long-run tradeoff. The emergence of stagflation appeared to vindicate that hypothesis — and the great majority of Keynesians accepted that conclusion, modifying their models accordingly.

So this time is different — and these people are different. And I think we need to try to understand why. Were the freshwater guys always just pretending to do something like science, when it was always politics? Is there simply too much money and too much vested interest behind their point of view?

 

Previsioni e pregiudizi.

 

La crisi del 2008 e le sue conseguenze sono stati un periodo di prove per gli economisti – ed i test sono stati sia morali che intellettuali. Dopo tutto, gli economisti facevano previsioni molto diverse sugli effetti delle varie risposte politiche alla crisi; inevitabilmente, alcune di quelle previsioni si sono dimostrate profondamente sbagliate. Dunque, come hanno reagito coloro che avevano sbagliato?

I risultati non sono stati incoraggianti.

Brad DeLong riporta una lettura di Allan Meltzer sul Wall Street Journal, che avanza ammonimenti terribili sull’inflazione in arrivo. I nuovi arrivati a questo dibattito, in questo caso, possono non essere pienamente consapevoli della storia, dunque la ricapitolo. Meltzer cominciò a battere sul tamburo dell’inflazione cinque interi anni orsono, prevedendo che l’ampliamento del bilancio patrimoniale della Fed avrebbe provocato incrementi dei prezzi fuori controllo; nel frattempo, alcuni di noi indicavano sia la teoria della trappola di liquidità che l’esperienza del Giappone, per sostenere che ciò non era destinato ad accadere. Gli effettivi precedenti sino a questo punto [1] sono i seguenti:

z 98

 

 

 

 

 

 

 

 

Non si hanno in economia test più definitivi di questo; si sarebbe supposto che si fosse detto: “Va bene, mi ero sbagliato ed ecco qua le ragioni.”

Neanche per sogno. E il punto è che Meltzer non è solo. Vi viene in mente una qualche rilevante figura schierata da quel lato del dibattito che abbia avuto voglia di modificare i suoi convincimenti a fronte di una evidenza così schiacciante?

Ora, potreste dire che le cose vanno sempre in questo modo – ma non è così. Si consideri il dibattito in qualche modo simile del 1970 a proposito dell’ipotesi “accelerazionista” sull’inflazione – la tesi di Friedman e Phelps secondo la quale un qualche sostenuto incremento nell’inflazione avrebbe provocato un peggioramento del rapporto tra disoccupazione e inflazione, dato che nel lungo periodo non c’era alcun riequilibrio. L’emergere della stagflazione parve confermare quella ipotesi – e la grande maggioranza dei keynesiani accettò quella conclusione, modificando di conseguenza i propri modelli.

Dunque, i tempi sono cambiati e queste persone sono diverse. Ed io penso che dobbiamo cercare di capire il perché. Forse che gli individui dell’economia dell’ “acqua dolce” [2] fingevano soltanto di fare scienza, mentre si è sempre trattato di politica? Dietro i loro punti di vista, ci sono semplicemente troppi soldi e troppi interessi costituiti?

 

 

[1] In blu l’andamento in forte crescita della base monetaria, a seguito della politica espansiva ‘non convenzionale’ da parte della Fed (le cosiddette ‘facilitazioni quantitative’; vedi le note sulla Traduzione a ‘quantitative easing’).

[2] Per una spiegazione sulle due scuole economiche americane, dell’ “acqua dolce” e dell’ “acqua salata”, vedi a “freshwater and saltwater economists” sulle note della Traduzione.

Tre grafici sulla stagnazione secolare (dal blog di Krugman, 7 maggio 2014)

maggio 7, 2014

 

May 7, 4:25 am

Three Charts on Secular Stagnation

Apologies for blog silence — stuff happened. Right now I’m in Oxford, preparing for a talk tonight on secular stagnation and all that; and I thought I’d share three charts I find helpful in thinking about where we are.

Secular stagnation is the proposition that periods like the last five-plus years, when even zero policy interest rates aren’t enough to restore full employment, are going to be much more common in the future than in the past — that the liquidity trap is becoming the new normal. Why might we think that?

One answer is simply that this episode has gone on for a long time. Even if the Fed raises rates next year, which is far from certain, at that point we will have spent 7 years — roughly a quarter of the time since we entered a low-inflation era in the 1980s — at the zero lower bound. That’s vastly more than the 5 percent or less probability Fed economists used to consider reasonable for such events.

Beyond that, it does look as if it was getting steadily harder to get monetary traction even before the 2008 crisis. Here’s the Fed funds rate minus core inflation, averaged over business cycles (peak to peak; I treat the double-dip recession of the early 80s as one cycle):

z 86

 

 

 

 

 

 

 

 

And this was true even though there was clearly unsustainable debt growth, especially during the Bush-era cycle:

z 87

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

The point is that even if deleveraging comes to an end, even stabilizing household debt relative to GDP would involve spending almost 4 percent of GDP less than during the 2001-7 business cycle.

Finally, the growth of potential output is very likely to be much slower in the future than in the past, if only because of demography:

z 88

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Suppose that potential growth is one percentage point slower, and that the capital-output ratio is 3. In that case, slowing potential growth would, other things being equal, reduce investment demand by 3 percent of GDP.

So if you take the end of the credit boom and the slowing of potential growth together, we have something like a 7 percent of GDP anti-stimulus relative to the 2001-7 business cycle — a business cycle already characterized by low real rates and a close brush with the liquidity trap.

Predictions are hard, especially about the future — but as I see it, these charts offer very good reasons to worry that secular stagnation is indeed quite likely.

 

Tre grafici sulla stagnazione secolare

 

Mi scuso per il silenzio sul blog – sono accadute varie cose. In questo momento mi trovo ad Oxford, preparandomi per un dibattito sulla stagnazione secolare e tutto il resto, che ci sarà questa sera [1], ed ho pensato di condividere tre tabelle che mi sembrano utili per pensare il punto in cui siamo.

La stagnazione secolare è l’idea secondo la quale periodi come gli ultimi cinque anni, quando persino tassi di interesse di riferimento a zero non sono sufficienti a ripristinare la piena occupazione, sono destinati ad essere più frequenti nel futuro di quanto non lo siano stati nel passato – che la trappola di liquidità sta diventando la nuova norma. Perché dovremmo pensare in tal modo?

Una risposta è semplicemente che questo episodio sta andando avanti da un bel po’. Anche se la Fed eleverà i tassi il prossimo anno, cosa che è tutt’altro che sicura, a quel punto avremo speso 7 anni – all’incirca un quarto del tempo dal momento in cui entrammo in un periodo di bassa inflazione negli anni ‘80 – presso il limite inferiore dello zero. Questo è largamente superiore alla probabilità del 5 per cento, o anche inferiore, che gli economisti della Fed sono soliti considerare ragionevole per eventi del genere.

Oltre a ciò, sembra che stesse diventando stabilmente più difficile provocare un effetto di spinta con l’iniziativa monetaria anche prima della crisi del 2008. Ecco i tassi di interesse dei finanziamenti della Fed al netto dell’inflazione ‘sostanziale’ [2], calcolati in media sui cicli economici (da picco a picco; io considero la recessione duplice [3] agli inizi degli anni ’80 come un unico ciclo) [4]:

z 86

 

 

 

 

 

 

 

 

E questo fu vero pur in presenza di una chiaramente insostenibile crescita del debito, particolarmente durante il ciclo dell’era Bush:

z 87

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il punto è che se anche la riduzione del rapporto di indebitamento giungesse a termine, persino lo stabilizzare il debito delle famiglie rispetto al PIL comporterebbe una spesa, rispetto al ciclo economico 2001-2007, inferiore di quasi quattro punti percentuali rispetto al PIL.

Infine, la crescita della produzione potenziale è molto probabile che sia più lenta nel futuro che nel passato, se non altro a causa della demografia [5]:

z 88

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Supponiamo che la crescita potenziale sia di un punto percentuale più lenta, e che il rapporto capitale – prodotto sia pari a tre. In quel caso il rallentamento della crescita potenziale, a parità degli altri fattori, ridurrebbe la domanda per investimenti di circa il 3 per cento del PIL.

Se considerate assieme la fine del boom del credito ed i rallentamento della crescita potenziale, abbiamo qualcosa come un 7 per cento del PIL che produce un effetto opposto alle misure di sostegno, rispetto al ciclo 2001-2007 – un ciclo economico già caratterizzato da bassi tassi di interesse, vicino a sfiorare la trappola di liquidità.

Le previsioni sono difficili, specialmente sul futuro – ma per come la vedo io, queste tre tabelle offrono ottime ragioni per temere che la stagnazione secolare sia in effetti abbastanza probabile.

 

 

[1] Dal link si apprende che il dibattito sarà con Adair Turner e con Robert Skidelsky.

[2] Per i concetti di “headline inflation” e “core inflation” vedi le note sulla traduzione.

[3] “Double-dip recession” è una seconda recessione che fa seguito alla prima, sostituendo l’effetto consueto della ‘ripresa’.

[4] Vale a dire che stima dal 1980 ad oggi tre cicli economici, e i dati medi sui tassi di interesse sono rappresentati dai tre segmenti neri.

[5] La tabella indica le percentuali di cambiamento medie delle popolazione nei quattro decenni considerati, gli ultimi due dei quali sono proiezioni.

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