Blog di Krugman

La riforma di Obama, l’ideale sconosciuto (dal blog di Krugman, 31 marzo 2014)

 

Mar 31, 3:58 pm

Obamacare, The Unknown Ideal

No, I haven’t lost my mind — or suddenly become an Ayn Rand disciple. It’s not my ideal; in a better world I’d call for single-payer, and a significant role for the government in directly providing care.

But Ross Douthat, in the course of realistically warning his fellow conservatives that Obamacare doesn’t seem to be collapsing, goes on to tell them that they’re going to have to come up with a serious alternative.

 

But Obamacare IS the conservative alternative, and not just because it was originally devised at the Heritage Foundation. It’s what a health-care system that does what even conservatives say they want, like making sure that people with preexisting conditions can get coverage, has to look like if it isn’t single-payer.

 

I don’t really think one more repetition of the logic will convince many people, but here we go again. Suppose you want preexisting conditions covered. Then you have to impose community rating — insurers must offer the same policies to people regardless of medical history. But just doing that causes a death spiral, because people wait until they’re sick to buy insurance. So you also have to have a mandate, requiring healthy people to join the risk pool. And to make buying insurance possible for people with lower incomes, you have to have subsidies.

 

And what you’ve just defined are the essentials of ObamaRomneyCare. It’s a three-legged stool that needs all three legs. If you want to cover preexisting conditions, you must have the mandate; if you want the mandate, you must have subsidies. If you think there’s some magic market-based solution that obviates the stuff conservatives don’t like while preserving the stuff they like, you’re deluding yourself.

What this means in practice is that any notion that Republicans will go beyond trying to sabotage the law and come up with an alternative is fantasy. Again, Obamacare is the conservative alternative, and you can’t move further right without doing no reform at all.

 

La riforma di Obama, l’ideale sconosciuto

 

No, non sono uscito di testa, né sono diventato improvvisamente un discepolo di Ayn Rand [1]. Questo non è il mio ideale: in un mondo migliore sarei a favore di un sistema sanitario con un unico centro di costi, e con un ruolo significativo dello Stato nella fornitura diretta della assistenza.

Ma Ross Douthat, nel mentre  ammoniva realisticamente i suoi colleghi conservatori che la riforma sanitaria di Obama non pare prossima al collasso, è andato oltre e ha detto loro che sono destinati a fare i conti con l’obbligo di una seria alternativa.

Sennonché la riforma di Obama “è” l’alternativa conservatrice, e non solo perché fu originariamente concepita dalla Fondazione Heritage. Essa rappresenta la soluzione a cui un sistema di assistenza sanitaria – che fa quello che anche i conservatori dicono di volere, come rendere sicure le persone con preesistenti patologie di essere protette – deve assomigliare, se non è un sistema con i pagamenti centralizzati [2].

In realtà non penso che ripetere i soliti concetti convincerà molte persone, ma torniamo al solito punto. Supponiamo che voi vogliate assicurare le condizioni sanitarie ‘preesistenti’ [3]. A quel punto dovete imporre un sistema di valutazione ‘comunitario’ [4] – le assicurazioni debbono proporre alle persone le stesse polizze a prescindere dalle loro patologie pregresse. Ma così facendo si instaura una spirale fatale, perché le persone attendono finché non sono ammalate a pagarsi l’assicurazione. Dunque c’è bisogno di un ‘coinvolgimento’ [5], richiedendo alle persone in salute di essere incluse nella previsione dei rischi. E per rendere possibile l’acquisto della assicurazione alle persone con i redditi più bassi, c’è bisogno di avere i sussidi.

E quello che abbiamo appena descritto sono gli elementi essenziali delle riforma della assistenza di Obama e di Romney [6]. Se volete proteggere le patologie preesistenti, dovete avere il coinvolgimento; se volete il coinvolgimento, dovete avere i sussidi. Se pensate che ci sia qualche magica soluzione basata sul mercato che rimedi a quello che non piace ai conservatori, preservando quello che a loro piace, vi state illudendo.

Quello che questo significa in pratica è che ogni idea per la quale i repubblicani andranno oltre, cercando di sabotare la legge e di venir fuori con una alternativa, è fantasia. Di nuovo, la riforma di Obama è l’alternativa conservatrice, e non vi potete spostare ulteriormente a destra senza rinunciare del tutto ad un riforma.



[1] Per la figura della scrittrice e stravagante filosofa russo-americana Ayn Rand, vedi le note sulla traduzione.

[2] “Single-payer” significa un sistema che elimina la mediazione delle assicurazioni private: i contribuenti, i pazienti, e lo stato che paga per i costi della sanità, come spesso accade in Europa.  E’ noto che la sanità americana, anche dopo la riforma di Obama, continua ad essere basata su un ruolo rilevante della assicurazioni private, che ricevono le polizze assicurative degli utenti (talora pagate dai singoli, talora dalle imprese) ed i rimborsi dello Stato alle categorie protette (anziani, poveri ed oggi anche redditi più bassi).

Quello che la riforma ha fondamentalmente cambiato sono altri tre aspetti: 1) ha fatto divieto alle assicurazioni di discriminare gli utenti sulla base delle loro condizioni sanitarie; 2) ha obbligato tutti i cittadini ad avere una assicurazione: 3) ha stabilito forme di sussidio ai cittadini meno abbienti perché possono permettersi i costi della assicurazione (ed i sussidi sono stati compensati da tasse sui ceti più ricchi).

In pratica la riforma di Obama non si è molto differenziata dai suggerimenti che nel passato erano venuti dalla proposta della Fondazione di orientamento conservatore Heritage (e che erano stati alla base di una riforma al livello del singolo Stato del Massachusetts, all’epoca governato dal repubblicano Mitt Romney). Il punto è che, nel frattempo, dagli anni di Bush in poi, i repubblicani si erano spostati su posizioni puramente reazionarie.

[3] Ovvero, le patologie pregresse che la riforma di Obama garantisce, ma che erano discriminate nel sistema precedente con polizze per molti insostenibili.

[4] Ovvero, una stima dei costi assicurativi che non si basa più sul ‘rischio’ sanitario delle singole persone – inevitabilmente discriminatoria verso i più anziani e cagionevoli – ma sul ‘rischio’ sanitario medio di intere comunità.

[5] Nel linguaggio politico americano l’obbligo ad acquistare una assicurazione è stato definito “mandate” – cioè delega – per una complessa ragione giuridica che è spiegata nelle note sulla traduzione.  ‘Coinvolgimento’ è un termine che lo rende anche a noi comprensibile.

[6] Il riferimento a Romney si spiega con quanto chiarito alla nota 2) precedente.

Memorie dell’austerità (dal blog di Krugman, 31 marzo 2014)

marzo 31, 2014

 

Mar 31, 8:15 am

Austerity Memories

Preparing for this morning’s class (pdf), I inevitably found myself thinking back to the austerity debate of 2010-2012, which was simultaneously exhilarating and deeply depressing. On one side, the critique of austerity was a classic example of high-quality, relevant economic research done in real time to respond to important issues – and it has left us with much better evidence on the effects of fiscal policy than we had before. On the other side, the nakedness of the way policymakers seized on research telling them what they wanted to hear made you wonder whether economic research can, in fact, actually make a positive difference in the real world.

 

Before the debate, it was possible to say that we had little evidence for the Keynesian proposition that increases (decreases) changes in government spending and/or deficits lead, other things equal, to short run increases (decreases) in output and employment. The problem was that other things are rarely equal. In fact, the raw correlation goes the other way, because slumps that happen for reasons unrelated to fiscal policy (like housing busts) lead to increased deficits and to some extent increased spending, e.g. on unemployment benefits.

 

The Alesina/Ardagna work, which purported to correct for these cyclical effects and still show that austerity is expansionary, helped provoke a surge of empirical work, much of it involving the search for natural experiments. And austerity in the euro area itself provided a massive natural experiment.

The result is that we now have overwhelming evidence for the Keynesian proposition, and very strong evidence that when monetary policy can’t lean against fiscal policy – when you either have a fixed exchange rate or are in a liquidity trap – the multiplier is greater than one. The efficacy of fiscal policy in the short run is now as well-established a concept, as grounded in empirical evidence, as the efficacy of monetary policy. (Of course, some people still haven’t gotten that memo either.)

But again, the course of policy – and the relationship of policy to research – was something else. It’s still amazing to look at the eagerness with which policymakers abandoned 60 years’ worth of textbook economics in favor of a radical anti-Keynesian claim that was subjected to intense criticism from the very beginning. As I said, the nakedness of it is just astonishing. People who had no idea what the data or the history looked like, who had no idea of what was involved in attempts to tease out the effect of fiscal policy from the noise, jumped on Alesina/Ardagna as refuting everything anyone else had said on the subject. Were they really unaware that they were committing the sin of letting wishful thinking drive their choices? Did they just not care?

 

 

Oh, and of course, nobody except the IMF – which was much closer to being right than other key players – has admitted having been wrong about anything.

 

Memorie dell’austerità

 

Preparando la lezione di questa mattina (disponibile in pdf), mi sono inevitabilmente ritrovato a pensare al dibattito sull’austerità del 2010-2012, che fu assieme esilarante e profondamente deprimente. Da una parte, la critica all’austerità fu un esempio di rilevante ricerca economica di elevata qualità, condotta in tempo reale per rispondere a temi importanti – e ci ha lasciato con molte migliori prove sugli effetti della politica della finanza pubblica di quelle che avevamo in precedenza. Dall’altra parte, la brutalità del modo in cui gli operatori politici colsero al volo le ricerche che dicevano loro quello che volevano sentirsi dire, vi faceva chiedere se la ricerca economica possa, nei fatti, esercitare effettivamente una differenza positiva nel mondo reale.

Prima del dibattito, era possibile affermare che c’erano modeste prove a sostegno della affermazione keynesiana secondo la quale i mutamenti in crescita (o in calo) della spesa pubblica o dei deficit portano, a parità delle altre condizioni, ad una crescita (o ad un calo) della produzione e dell’occupazione nel breve termine. Il problema era che raramente le altre condizioni restano eguali. Di fatto, la rozza correlazione va in senso inverso, perché le crisi che avvengono per ragioni non connesse con la politica della finanza pubblica (come l’esplosione di bolle immobiliari) portano ad accrescere i deficit e in qualche misura ad accrescere la spesa pubblica, ad esempio nei sussidi per la disoccupazione.

Il lavoro di Alesina/Ardagna, che pretendeva di correggere questi effetti ciclici e tuttavia di dimostrare che l’austerità è espansiva, contribuì a provocare una crescita di studi empirici, molti dei quali riguardarono la ricerca di esperimenti naturali. E l’austerità nell’area euro fornì di per sé un massiccio esperimento naturale.

Il risultato è che adesso disponiamo di prove schiaccianti per la concezione keynesiana, e di una testimonianza molto forte che quando la politica monetaria non può contrastare la politica della finanza pubblica – quando si ha un tasso di cambio fisso o si è in una trappola di liquidità – il moltiplicatore [1] è più grande di uno. L’efficacia nel breve periodo della politica della finanza pubblica è ora un concetto ben definito, in quanto fondato su prove empiriche, come l’efficacia della politica monetaria (naturalmente alcune persone non hanno neppure ricevuto la notizia[2]).

Ma l’andamento della politica – e la relazione tra politica e ricerca – fu anche qualcos’altro. E’ ancora sorprendente guardare alla prontezza con la quale gli operatori politici abbandonarono l’apprezzabile economia dei libri di testo degli anni ’60 a favore di una radicale argomentazione antikeynesiana, che fu oggetto di grandi critiche sin dall’inizio. Come ho detto, la brutalità di tutto questo fu semplicemente strabiliante. Persone che non avevano alcuna idea delle risultanze dei dati o dei fatti della storia, che non avevano alcuna idea di quello che era in ballo nei tentativi di districare l’effetto della politica della finanza pubblica dal frastuono circostante, saltarono sulle tesi di Alesina/Ardagna come se potessero confutare tutto quello che chiunque altro aveva detto sul tema. Erano davvero inconsapevoli di star commettendo il peccato di far guidare le loro scelte semplicemente dai loro desideri? O proprio non se ne curavano?

E naturalmente nessuno – ad eccezione del Fondo Monetario Internazionale, che si avvicinò alla ragione molto di più di altri attori principali – ha ammesso di aver avuto torto su nulla.



[1] Per il concetto di ‘multiplier’ vedi le note sulla traduzione.

[2] Il riferimento nel link è ad un post precedente del gennaio del 2014, nel quale in realtà si elogiava il Presidente della Fed di Minneapolis – Narayana Kocherlakota – per aver preso atto degli insegnamenti di questi anni ed aver cambiato opinione, diversamente da vari altri.

Il blackout sulla crescita di registrazioni al sistema della riforma sanitaria (30 marzo 2014)

marzo 30, 2014

 

Mar 30, 12:52 pm

The ACA Surge Blackout

 

Update: And the 4th-ranking Republican in the Senate is already accusing the administration of cooking the books. I really think the possibility that the ACA might actually work never occurred to them.

It’s not in itself that big a deal, but I’m somewhat amazed by what amounts to a de facto blackout by major news media on a developing story that’s really obvious if you read the invaluable Charles Gaba, or even the White House blog: a huge surge in Obamacare enrollments in the final days of the signup period. The print sources I read are still putting out basically downbeat reports about the ACA, with maybe a mention 10 paragraphs in that exchange enrollments passed the 6 million mark last week. I don’t watch cable news, but from what I hear it’s all still Malaysian airways.

 

 

In the end, I guess it won’t matter in a direct sense; the final number for year 1, which looks likely to be very close to the original 7 million projection, will eventually come out. But you wonder why news media that are happy to speculate about the 2016 election aren’t interested in at least putting out a heads-up about the strong possibility of a bombshell number next week.

And where I think this does matter is that it shows a persistent slant in much reporting toward emphasizing the negatives about health reform. The website woes were, and deserved to be, a big story; the quite amazing comeback somehow doesn’t fit the preferred narrative, and is being ignored — and this despite the fact that, as Gaba notes, it offers great visuals too.

 

Il blackout sulla crescita di registrazioni al sistema della riforma sanitaria

 

Aggiornamento: e la quarta carica più importante tra i repubblicani del Senato sta già accusando l’Amministrazione di falsificare i registri. Penso che davvero la possibilità che la Legge per una Assistenza Sostenibile potesse funzionare per loro non è mai esistita.

 

In sé non è una gran faccenda, ma sono in qualche modo sorpreso per quello che in pratica è un oscuramento da parte dei più importanti media dell’informazione su una storia che sta assumendo dimensioni sempre maggiori, davvero abbastanza evidente se leggete l’inestimabile Charles Gaba o anche il blog della Casa Bianca: una grande crescita nelle registrazioni alla riforma sanitaria di Obama nei giorni finali del periodo di iscrizione. Le fonti di stampa che io leggo stanno ancora pubblicando  fondamentalmente resoconti pessimistici sulla Legge sulla Assistenza Sostenibile, forse accennando una solo volta  in dieci paragrafi che le registrazioni alle “borse sanitarie” hanno superato il limite di 6 milioni la scorsa settimana. Non leggo informazioni via cavo, ma da quello che sento dire siamo ancora al livello delle linee aeree della Malesia.

Alla fine, suppongo che non sarà importante in senso diretto; il numero finale del primo anno, che sembra molto vicino alla previsione iniziale dei 7 milioni, alla fine verrà fuori. Ma chiedetevi perché i media che sono felici di speculare sulle elezioni del 2016 non sono interessati neppure a pubblicare un avviso sulla forte possibilità di una notizia bomba sul numero della prossima settimana.

E dove penso che questo sia importante è che mostra una persistente tendenza in molti resoconti ad enfatizzare i dati negativi sulla riforma sanitaria. Le disgrazie del sito web (il sito ufficiale della riforma sanitaria, che agli inizi andò in tilt) erano, e meritavano di essere, una grande storia; l’abbastanza sorprendente recupero non si attaglia alle narrazioni preferite, e viene ignorato – e nonostante questo fatto, come nota Gaba, offre anch’esso grandi spunti.

Lo zombie delle competenze (29 marzo 2014)

marzo 29, 2014

 

The Skills Zombie

One of the most frustrating aspects of economic debate since 2008 has been the preference of influential people for stories about our troubles that sound serious as opposed to those that actually are serious. The reality, all along, has been that our economy is depressed because there isn’t enough spending, and that what we need is something, almost anything, that increases total spending. But policymakers and pundits want to hear about tough decisions and hard choices, and they just recoil from any suggestion that terrible problems might have easy answers.

The most destructive example is, of course, the deficit obsession that almost completely dominated establishment thinking from late 2009 until very recently, and is still hanging on as a source of bad analysis. Yes, many of the deficit scolds were simply using debt panic as an excuse to dismantle social insurance programs. But many fellow-travelers either sincerely believed that we had a fiscal crisis or felt that it was important to sound as if they believed it, because that was the kind of thing people who make tough decisions and hard choices were expected to say.

As an aside, I think the same kind of policy machismo was an important reason so many people who really, really should have known better supported the Iraq war.

The deficit obsession has faded a bit; but we still have others. And this new EPI report is a useful reminder of the extent to which another doctrine that sounds serious retains a grip on discourse — namely, the notion that we have big problems because our work force lacks essential skills.

This is very much a zombie doctrine — that is, a doctrine that should be dead by now, having been repeatedly refuted by evidence, but just keeps on shambling along. EPI presents some very interesting evidence from a survey of manufacturing, but they’re hardly the first to show that the data don’t at all support the skills-shortage hypothesis. And it’s not just labor-associated think tanks or progressives who have rejected the skill shortage story based on the evidence. The Boston Consulting Group did its own study,and the only hints of a skills shortage it found were in unglamorous skilled blue-collar work:

 

 

By BCG’s definition, only five of the nation’s 50 largest manufacturing centers (Baton Rouge, Charlotte, Miami, San Antonio, and Wichita) appear to have significant or severe skills gaps. Occupations in shortest supply are welders, machinists, and industrial-machinery mechanics.

Some readers may recall that when we finally had a really clear-cut example of a skill so much in demand that wages were soaring, the skill was … operating a sewing machine.

And Eddie Lazear, very much a Republican, looked at the evidence and reached the same conclusion (pdf).

Yet the skills story just keeps showing up in supposedly informed discussion. Again, I think that this is because it sounds like the kind of thing serious people should say.

The sad truth is that while disasters brought on by inadequate demand have an easy economic answer — just spend more! — the psychology of policy elites is such that they generally refuse to believe in this answer, and look for tough choices to make instead. And the result is that unless something comes along to jolt them out of that mindset — something like a war — the slump goes on for a very long time.

 

Lo zombi delle competenze

 

Uno degli aspetti più frustranti del dibattito economico dal 2008 è stata la preferenza delle persone influenti per racconti sui nostri guai che sembrano seri, al contrario di quelli che sono seri effettivamente. La realtà è sempre stata che la nostra economia è depressa perché non c’è una spesa sufficiente, e che abbiamo bisogno di qualcosa, di una cosa qualsiasi, che incrementi la spesa totale.  Ma gli operatori politici ed i commentatori vogliono sentir parlare di decisioni forti e di scelte difficili, e proprio aborriscono ogni suggerimento per il quale problemi terribili potrebbero avere risposte semplici.

L’esempio più distruttivo, naturalmente, è l’ossessione del deficit che ha quasi completamente dominato il pensiero ufficiale dalla fine del 2009 al periodo più recente, e che ancora resta al suo posto come una fonte delle peggiori analisi. E’ vero, molte delle Cassandre del deficit hanno usato il panico del debito solo per smantellare i programmi della sicurezza sociale. Ma molti compagni di viaggio credevano sinceramente che ci fosse una crisi della finanza pubblica, o sentivano che era importante far sembrare che ci credessero, perché era quello il genere di cose che ci si aspetta dicano coloro che prendono decisioni dure e che fanno scelte difficili.

Tra l’altro, io penso che un ‘machismo politico’ dello stesso genere  fosse stata una importante ragione per la quale tante persone sostennero la guerra in Iraq, persone che avrebbero dovuto conoscere meglio le cose.

L’ossessione del deficit è un po’ svanita; ma ne abbiamo altre ancora. E questo resoconto dell’ Economic Policy Institute ci rammenta utilmente in quale misura un’altra dottrina che sembra seria mantiene una presa sul dibattito – in particolare, l’idea secondo la quale abbiamo grandi problemi a causa della carenza delle competenze essenziali nella nostra forza di lavoro.

E’ davvero una dottrina zombi – vale a dire una dottrina che dovrebbe ormai essere defunta, essendo stata smentita numerose volte dai fatti, ma continua a camminare come per inerzia. L’EPI presenta alcune prove molto interessanti da un sondaggio sul settore manifatturiero, ma essi non sono i primi a riconoscere che quei dati non supportano affatto l’ipotesi di un a carenza di competenze. E non sono solo i gruppi di ricerca collegati con il mondo del lavoro o i progressisti ad aver respinto le spiegazioni sulla carenza di competenze basandosi sui fatti. Il Boston Consulting Group ha compiuto un proprio studio, ed i soli accenni ad un carenza di competenze ha scoperto che si trovavano nei lavori non entusiasmanti di operai professionalizzati:

“Secondo la definizione del Boston Consulting Group, solo 5 dei 50 più grandi centri manifatturieri del paese (Baton Rouge, Charlotte, Miami, San Antonio e Wichita) sembra abbiano significative o gravi carenze di professionalità. Gli impieghi nelle offerte di più breve durata sono i saldatori, i macchinisti ed i meccanici di macchinari per l’industria.”

Alcuni lettori ricorderanno che quando abbiamo finalmente trovato un esempio lampante di competenze per le quali c’era un domanda tale che i salari salivano molto in alto …. si è trattato di operatori con macchine da cucire.

Ed Eddie Lazear, un repubblicano autentico, ha dato un’occhiata alle testimonianze ed è arrivato alla medesima conclusione (disponibile in pdf).

Tuttavia la storia delle competenze semplicemente continua a dar mostra di sé nei presunti dibattiti tra competenti. Io penso che anche in questo caso dipenda dal fatto che essa assomiglia al genere di cose che le persone serie sentono di dover dire.

La triste verità è che mentre i disastri provocati da una domanda inadeguata hanno una semplice risposta economica – non dovete far altro che spendere di più! – la psicologia della classi dirigenti della politica è tale che esse non vogliono credere a questa risposta, preferiscono cercare  scelte dure. E il risultato è che se non interviene qualcosa che dia una scossa a questa loro mentalità – qualcosa come una guerra – la crisi andrà avanti per un tempo lunghissimo.

Quello che intendo quando parlo del modello IS – LM (per esperti) (28 marzo 2014)

marzo 28, 2014

 

Mar 28, 6:56 pm

What I Mean When I Talk About IS-LM (Wonkish)

Just a brief note: I gather from some comments and emails that there are a few misunderstandings about what’s going on when I talk about the success of the IS-LM model since 2008.

First, what is IS-LM? There’s an explainer in the links at the right; or just click here.

Second, am I unaware that the Fed doesn’t control the money supply, which is largely determined by the behavior of banks? No, I explained all that a while ago. I may sometimes be sloppy and talk about the Fed setting the money supply, but I always mean “monetary base”, and I’m well aware that the simple money multiplier isn’t an adequate story, and breaks down completely at the zero lower bound.

Third, isn’t the “success” of IS-LM just saying that you can use the model to rationalize anything? No, not at all. Those of us who understood IS-LM and took it seriously declared *in advance* — in late 2008 and early 2009 — that big deficits and huge increases in the monetary base would lead neither to soaring interest rates nor to soaring inflation. This was very much not what many influential people were saying: there were widespread forecasts of soaring rates and soaring inflation. Later, there were many people denying that austerity would have negative effects on output. So we’re talking about a genuine predictive success — actually, multiple predictive successes — relative to what many supposed experts were claiming.

I may be wrong. But if you think I’m making elementary analytical errors, or that I didn’t stick my neck out with some seriously contrarian predictions that ended up coming true, you just haven’t been paying attention.

 

Quello che intendo quando parlo del modello IS – LM (per esperti)

 

Solo una breve nota: comprendo da alcuni commenti e mail che ci sono un po’ di incomprensioni su quello che intendo quando parlo del successo del modello IS – LM a partire dal 2008.

Prima di tutto cosa è lo IS – LM? C’è una spiegazione nei link sulla destra [1]; oppure semplicemente cliccate qua.

In secondo luogo, sono io inconsapevole che la Fed non controlla l’offerta di moneta, che è in gran parte determinata dal comportamento della banche? No, spiegai tutto al proposito un po’ di tempo fa [2]. Talvolta posso essere approssimativo e parlare della Fed che stabilisce l’offerta di moneta, ma intendo sempre la “base monetaria”, e sono ben consapevole che il semplice moltiplicatore della moneta non è una spiegazione adeguata, e si smonta completamente quando si arriva al limite inferiore di zero.

In terzo luogo, il “successo” dello IS-LM non significa proprio che si può usare quel modello per razionalizzare ogni cosa? No, niente affatto. Coloro tra noi che compresero il modello IS-LM e lo presero sul serio, dichiararono in anticipo – nel tardo 2008 ed agli inizi del 2009 – che i grandi deficit ed i grandi incrementi nella base monetaria non avrebbero fatto schizzare alle stelle né i tassi di interesse né l’inflazione. Questo era esattamente quello che molte persone influenti all’epoca non dicevano: c’erano previsioni generalizzate di impennate nei tassi di interesse e nell’inflazione. Successivamente, ci furono molte persone che negarono che l’austerità avrebbe avuto effetti negativi sulla produzione. Dunque, stiamo parlando di un vero e proprio successo nelle previsioni – in verità, di un successo multiplo – in relazione a quello che molti presunti esperti sostenevano.

Posso sbagliare. Ma se pensate che stia facendo banali errori analitici, o che non mi sia messo in gioco con qualche previsione controcorrente che ha poi finito col rivelarsi giusta, siete proprio voi che non avete prestato attenzione.



[1] Ovvero, sulla destra nella pagina del blog, dove compaiono alcuni post precedenti sui temi fondamentali, tra i quali un “IS-LMentary” del 2011 che è una spiegazione dedicata esclusivamente a quel tema. Nota: abbiamo ritradotto il post dell’ottobre 2011, che ora compare in testa alla ribrica “saggi etc.” ed a quella “Selezione della settimana.

[2] Il riferimento è ad un post del 23 agosto 2013 dal titolo “La base monetaria, lo IS – LM e tutto il resto”. Ora è anch’esso stato tradotto e compare in calce al post di cui alla nota precedente.

Crescita contro distribuzione: “Hunger games” (28 marzo 2014)

marzo 28, 2014

 

Mar 28, 10:06 am

Growth Versus Distribution: Hunger Games

It’s fairly common for conservative economists to try and shout down any discussion of income distribution by claiming that distribution is a trivial matter compared with the huge gains from economic growth. For example, Robert Lucas:

Of the tendencies that are harmful to sound economics, the most seductive, and in my opinion the most poisonous, is to focus on questions of distribution.

The usual answer to this is to point out that we don’t actually know much about how to produce rapid economic growth — conservatives may think they know (low taxes and all that), but there is no evidence to back up their certainty. And on the other hand, we know how to make a big difference to income distribution, especially how to reduce extreme poverty. So why not work on what we know, as at least part of our economic strategy?

But even this argument may be conceding too much. A new study finds that in poor and lower-middle-income countries, one of the most crucial aspects of well-being, child malnutrition, isn’t helped at all by faster growth:

An increase in GDP per capita resulted in an insignificant decline in stunting. And when the researchers compared the changes in GDP to the changes in the number of wasting and underweight children, there was no correlation at all.

“It wasn’t that [the association] was just weak or small,” Subramanian told Shots. That was the case, he said, especially for stunting. More striking was the fact that the effect overall “was just practically zero.” He says things like unequal income distribution and lack of efficient implementation of public services are possible causes.

Yes, rapid growth is good, but it doesn’t solve all problems even if you know how to make it happen, which you don’t.

 

Crescita contro distribuzione: “Hunger games” [1]

 

E’ abbastanza comune tra gli economisti conservatori cercare di tacitare ogni discussione sulla distribuzione del reddito con l’argomento secondo il quale la distribuzione sarebbe un aspetto banale, a confronto con i grandi guadagni che derivano dalla crescita economica. Per esempio, Robert Lucas:

“Tra le tendenze che sono dannose per una sana teoria economica, la più seducente, e secondo il mio giudizio la più velenosa, è quella che si concentra sui temi della distribuzione.”

A questo di solito si risponde mettendo in evidenza che in verità non sappiamo granché su come produrre crescita economica – i conservatori possono pensare di saperlo (basse tasse e tutto il resto), ma non c’è alcuna prova a sostegno delle loro certezze. E, sull’altro lato, sappiamo come realizzare una importante differenza nella distribuzione del reddito, specialmente come ridurre la povertà estrema. Perché, dunque, non lavorare su quello che conosciamo, almeno come una parte della nostra strategia economica?

Ma può darsi che anche questo argomento conceda troppo. Un nuovo studio scopre che nei paesi poveri e di redditi medio-bassi, uno degli aspetti fondamentali del benessere, la malnutrizione dei bambini, non è affatto aiutato da una crescita più rapida:

Un incremento del PIL pro-capite ha avuto conseguenze sulla crescita [2] insignificanti. E quando i ricercatori hanno confrontato i mutamenti nel PIL con i cambiamenti nel numero dei bambini debilitati e sotto peso, non risultava affatto alcuna correlazione.

“(Quella correlazione) non era soltanto debole o modesta”, ha detto Subramanian a ‘Shots’ [3]. In particolare, questo era il caso per gli aspetti della crescita. Ma è stato più impressionante il fatto che l’effetto complessivo ‘è stato proprio praticamente nullo’.” Egli sostiene che cose come l’ineguale distribuzione del reddito e il mancato potenziamento dei servizi pubblici sono le possibili cause.

Si, la crescita rapida è una buona cosa, ma non risolve tutti i problemi anche se sapete come renderla possibile, cosa che in effetti non sapete.

 



[1] Hunger Games (The Hunger Games) è un romanzo per ragazzi scritto da Suzanne Collins. Il romanzo è ambientato in un Nord America post apocalittico. Protagonista è la sedicenne Katniss Everdeen, che vive nella terra di Panem, divisa in Distretti e governata da un regime totalitario con sede a Capitol City. In seguito ad un passato tentativo di rivolta, ogni anno da ciascun distretto vengono scelti un ragazzo e una ragazza per partecipare agli Hunger Games, un combattimento mortale trasmesso in televisione.

z 67

[2] Dei bambini. “To stunt” significa prevenire od impedire la crescita e lo sviluppo, ma la azione correlata a quel verbo indica l’atto o l’esempio del crescere. Un’altro ‘stunt’ significa ‘acrobazia’.

[3] S.V. Subramanian è un epidemiologo della Università di Harvard che è stato intervistato  dal blog “Shots”.

Realismo economico (per esperti) (28 marzo 2014)

marzo 28, 2014

 

Mar 28, 9:51 am

Economic Realism (Wonkish)

Mark Thoma sends us to Paul Pfleiderer (pdf) on the misuse of economic models. Pfleiderer writes his paper as a condemnation of “chameleons” — of what we might alternatively call three-card-monte economics. Someone markets a theoretical model as something that carries lessons for the real world, but when challenged on the assumptions retreats to claiming that it’s just theory.

It’s a very good paper, but I don’t think it’s mainly about chameleons. What it is, instead, is a more general discussion of where, in the process of modeling, you should start “filtering” by what you know about the world. There’s an extreme position associated with Milton Friedman, which says that you should pay no attention to the realism of assumptions, only to the predictions the model makes (which Friedman was arguing largely in order to dismiss the overwhelming evidence against perfect competition in most markets.) Pfleiderer makes short work of this claim, and argues that you should employ filters all the way, testing the realism of assumptions as well as those of predictions.

He’s right about that. But the hard part is knowing how tight to set the filter. As Pfleiderer acknowledges, any model involves untrue assumptions; how unrealistic are you allowed to be? That’s always a judgment call.

I would add one point that I think Pfleiderer would agree to, but that isn’t explicit: a lot depends on the kind of weight your assumptions are being asked to bear.

Let me give an example from one of my own fields, overlapping a bit with Pfleiderer’s. Here’s the question: is it OK to assume rational expectations in financial markets?

Consider first one of the classic models in international macro, Dornbusch’s overshooting model (pdf) of the exchange rate, which is used to show how exchange rates can be as volatile as they are — basically it’s the combination of fast-moving asset markets where prices react quickly to news and slow-moving goods markets where prices can take years to adjust. To make his model as clean as possible (which is to say, very clean — Rudi was my role model), Dornbusch assumed rational expectations in asset markets, so that the exchange rate immediately reflects news about the money supply and other things. Was this assumption realistic? No — there is in fact a lot of evidence that the specific result that interest differentials are equal to expected future exchange rate changes isn’t right. But that really wasn’t crucial to Dornbusch’s point; he was using rational expectations as a simple way to get fast-moving asset prices, and his story wasn’t too sensitive to the precise correctness of the assumption.

 

 

Now compare this to people who say that because asset markets are efficient, there can’t be bubbles. They’re making the same assumption — but they’re putting much more weight on it, weight that it can’t actually bear.

So the question isn’t “Is this assumption realistic?” It isn’t even “Is it realistic enough?” It’s, “Is it realistic enough for what I’m trying to do?”

 

Realismo economico (per esperti)

 

Mark Thoma ci rinvia a Paul Pfleiderer (disponibile in pdf) a proposito del cattivo uso dei modelli economici. Pfleiderer scrive il suo saggio per condannare i “camaleonti” –  il fenomeno che altrimenti potremmo definire l’economia del ‘gioco delle tre carte’. C’è chi rivende un modello teorico come qualcosa che diffonde lezioni per il mondo reale, ma quando sono sfidati sulle premesse, battono in ritirata sostenendo che è solo teoria.

E’ un saggio molto buono, ma io non penso che si tratti principalmente di camaleonti. Piuttosto, si tratta della più generale disputa di dove, nel processo di modellazione, si dovrebbe iniziare a ‘filtrare’ sulla base di quello che si sa del mondo. C’è una posizione estrema, associata a Milton Friedman, che dice che non dovreste prestare alcuna attenzione al realismo delle premesse, ma soltanto alle previsioni che determina il modello (la qual cosa Friedman sostenne in gran parte allo scopo di liquidare le schiaccianti prove contrarie all’idea della competizione perfetta in gran parte dei mercati). Pfleiderer non si cura granché di questa tesi, e sostiene che i filtri si dovrebbero impiegare sino in fondo, mettendo alla prova il realismo delle premesse come quello delle previsioni.

Su ciò ha ragione. Ma l’aspetto difficile è sapere quanto stringente debba essere il filtro che si adopera. Come Pfleiderer riconosce, ogni modello include premesse non vere; quanto vi è permesso di essere non realistici? Questa è sempre una decisione discrezionale.

Vorrei aggiungere un punto sul quale penso che Pfleiderer sarebbe d’accordo, ma che non è esplicito: in gran parte dipende dalla natura del peso che si chiede alle vostre premesse di sopportare.

Lasciatemi fare un esempio da uno di miei campi, che si sovrappone a quello di Pfleiderer. Ecco la domanda: è giusto assumere aspettative razionali nei mercati finanziari?

Si consideri dapprima uno dei modelli classici della macroeconomia internazionale, il modello dell’eccedenza del tasso di cambio di Dornbusch (disponibile in pdf), che è utilizzato per mostrare come i tassi di cambio possano essere volatili come accade che siano – fondamentalmente è la combinazione di mercati degli asset in rapido movimento, laddove i prezzi reagiscono rapidamente alle novità, e mercati dei beni in lento movimento, laddove ai prezzi possono occorrere anni per correggersi. Per rendere questo modello pulito quanto possibile (il che significa molto pulito – Rudi è stato per me un esempio), Dornbusch supponeva aspettative razionali nei mercati degli asset, in modo tale che il tasso di cambio riflettesse immediatamente le notizie sull’offerta di moneta e su altri aspetti. Era un assunto realistico? No – di fatto c’erano molte prove  secondo le quali il risultato particolare che i differenziali dell’interesse fossero uguali ai tassi di cambio attesi nel futuro non era giusto. Ma ciò non era decisivo per il punto di vista di Dornbusch; egli stava usando le aspettative razionali come un modo semplice per ottenere prezzi degli asset in rapido movimento, ed il suo racconto non era particolarmente sensibile all’esatta correttezza dell’assunto.

Confrontiamo ora questo alle persone che sostengono che, giacché i mercati degli asset sono efficienti, non ci possono essere bolle. Stanno avanzando lo stesso assunto – ma lo stanno caricando di molto maggiore peso, di un peso in effetti insostenibile.

Dunque la domanda non è “Questo assunto è realistico?”. Non è neppure “E’ sufficientemente realistico?”. La domanda è “E’ abbastanza realistico per quello che sto cercando di fare?”.

La riforma di Obama non riesce a fallire (27 marzo 2014)

marzo 27, 2014

 

Mar 27, 2:20 pm

Obamacare Fails to Fail

Update: And exchange-based enrollments pass 6 million. Gaba now projects 6.5 million by 3/31, and with the extensions it will go higher. The original CBO projection of 7 million now looks basically right, despite the website woes.

 

Predictably, Republicans are in an uproar over the latest tweak to the Obamcare signups — an extension of the March 31 deadline for people who say that they tried to apply but encountered technical difficulty. As Jonathan Cohn says, the real objection here seems to be not so much that Obama is overstepping his bounds as that this will make it possible for more people to get insurance.

But I also have the sense that people in the GOP are still working with a completely wrong narrative — namely, that Obamacare is failing, and that these are desperate ploys to save a sinking ship. The reality is quite different: enrollments have clearly surged in the final month. Charles Gaba is now projecting 6.4 million through the exchanges, and many more directly purchased from insurers.

 

True, we don’t yet know how many signups were previously uninsured, and we don’t know the age/health mix of the people signing up. So we don’t know how well year one of the ACA really worked, and won’t for some time. The point, however, is that the system has evidently overcome most of its teething troubles.

 

How will the GOP respond when the numbers come in? If present behavior is any guide, they’ll spend months listening to “unskewers” claiming that nobody is actually going to pay for policies, or that there are untold millions who lost their insurance and can’t replace it, etc, etc.. There really isn’t any room in their worldview for the possibility that this thing might work.

 

La riforma di Obama non riesce a fallire

 

Aggiornamento: e le iscrizioni basata sulle ‘borse sanitarie’ superano i 6 milioni. Gaba ora prevede 6,5 milioni, e con le proroghe saliranno ancora. Ora l’originaria previsione del CBO di 7 milioni sembra fondamentalmente giusta, nonostante i guai del sito web.

 

Prevedibilmente, i repubblicani sono in rivolta per l’ultimo ritocco alle iscrizioni al sistema della riforma sanitaria di Obama – una proroga della scadenza del 31 marzo per le persone che affermano di aver cercato di metterle in atto ma hanno incontrato difficoltà tecniche. Come dice Jonathan Cohn, in questo caso l’obiezione non sembra essere tanto che Obama vada oltre il suoi limiti, quanto che questo renderà possibile ad altre persone di ottenere l’assicurazione.

Ma io ho anche la sensazione che quelli del Partito Repubblicano siano ancora alle prese con un racconto completamente sbagliato – precisamente, che la riforma di Obama stia fallendo, e che questi siano piani disperati  per mettere in salvo una nave che affonda. La realtà è abbastanza diversa: le registrazioni stanno chiaramente crescendo nel mese finale. Charles Gaba sta ora prevedendo un numero di 6,4 milioni che transita dalle ‘borse sanitarie’, e molti di più hanno direttamente acquistato dagli assicuratori (privati).

E’ vero, non sappiamo quante iscrizioni riguardino persone precedentemente non assicurate, e non conosciamo la combinazione di età e di condizione di salute di coloro che si iscrivono. Dunque, non sappiamo quanto funzionerà bene  nel primo anni la Legge sulla Assistenza Sostenibile, e non lo sapremo per un po’. Il punto, tuttavia, è che il sistema ha chiaramente superato gran parte dei suoi problemi di avvio.

Come risponderà il Partito Repubblicano con l’arrivo dei dati? Se il comportamento attuale è un indizio, spenderanno mesi del dar retta a tutti i “bastian contrari” [1] che pretendono che nessuno in realtà stia andando a pagare le polizze, o che ci siano milioni di persone inascoltate che hanno perso la loro assicurazione e non riescono a sostituirla, etc. etc. Davvero non c’è alcuno spazio nella loro visione del mondo per la possibilità che questa faccenda possa funzionare.



[1] Suppongo che si possa tradurre in questo modo. “Skew” è anche “tendenza” (oltre che deviazione) e dunque il senso può essere “contro la tendenza”. “Skewer” in effetti sta per spiedino … ma può essere usato anche in sensi molto figurati, come in “skewer contradictions”: “mettere in fila le contraddizioni di un ragionamento ‘infilzandole’ una ad una”.

Troppa fiducia nei modelli, versione tassazione sui capitali (27 marzo 2014)

marzo 27, 2014

 

Mar 27, 2:05 pm

Too Much Faith In Models, Capital Taxation Edition

Yesterday I offered a rousing defense of the use of simplified models in economics. So maybe it’s appropriate that today I offer a caution: you should use models, but you should always remember that they’re models, and always beware of conclusions that depend too much on the simplifying assumptions. And I have a case in point, which ties into one of my other big concerns: the appropriate taxation of capital income.

Greg Mankiw is upset at my suggestion that the Bush administration was motivated by class interests in its determination to slash taxes on capital income and eliminate estate taxes. He wants us to know that it was all about optimal taxation, as dictated by economic theory.

 

Well, we could have a political discussion: How many people really, truly believe that George W. Bush chose to slash taxes on dividends and phase out the inheritance tax because Greg Mankiw and Glenn Hubbard told him that this was the conclusion from economic theory? Can we have a show of hands?

But let me instead point out that the case for zero or low taxation of capital income rests on very strong, very unrealistic assumptions — basically perfectly rational intertemporally optimizing agents, with dynasties behaving as if they were infinitely lived individuals. Question those assumptions, and the whole case falls apart. Don’t take my word for it — read Peter Diamond and Emmanuel Saez (pdf), who also point out that the intertemporal optimizing model of saving is in fact rejected by lots of evidence.

 

 

And when it comes to bequests, read Irving Fisher (pdf):

The ordinary millionaire capitalist about to leave this world forever cares less about what becomes of the fortune he leaves behind than we have been accustomed to assume. Contrary to a common opinion, he did not lay it up, at least not beyond a certain point, because of any wish to leave it to others. His accumulating motives were rather those of power, of self-expression, of hunting big game.

The point here is that the economic case for not taxing capital rests on a stylized model that we know does a bad job of capturing real behavior; the case for taxing capital rests on considerations of equity and concerns about excessive concentration of wealth that are very much grounded in real-world observation. You don’t have to be a know-nothing to argue that the second case trumps the first.

 

Oh, and you can believe this without renouncing the use of intertemporal optimization as a useful simplifying gadget in some cases. My original liquidity-trap paper involving embedding a minimalist monetary framework in, yes, a model of perfectly rational, infinitely-lived individuals. I did that to clear out the clutter and focus on what I considered the core issue — but I wouldn’t have pursued it if I thought the results depended crucially on the truth of those assumptions.

Using models without believing that they represent The Truth is hard; it’s very easy to fall of that tightrope one way or the other. But it’s what you have to do if you want to do useful economics.

 

Troppa fiducia nei modelli, versione tassazione sui capitali

 

Ieri ho presentato una difesa dei modelli semplificati in economia, allo scopo di stimolarne l’utilizzo. Forse è dunque opportuno che oggi presenti una messa in guardia: dovreste usare modelli, ma dovreste sempre ricordare che di modelli si tratta, ed essere sempre diffidenti da conclusioni che dipendano troppo da assunti semplificatori. E su tale argomento ho un esempio, che si collega ad una delle mie preoccupazioni maggiori: la tassazione appropriata del capitale.

Greg Mankiw va su tutte le furie per la mia indicazione per la quale la Amministrazione Bush era spinta da interessi di classe nella sua determinazione a ridurre le tasse sui redditi da capitale ed a eliminare le tasse di successione. Vuole che si sappia che dipendeva tutto dalla tassazione ottimale, come prescritta dalla teoria economica.

Ebbene, potremmo ben discuterne in termini politici: quante persone credono sul serio, veramente, che George W. Bush scelse di abbattere le tasse sui dividendi e di eliminare gradualmente la tassa di successione perché Greg Mankiw e Glenn Hubbard gli avevano detto che a questo conduceva la teoria economica? Vogliamo fare una votazione per alzata di mano?

Ma lasciatemi piuttosto mettere in evidenza che gli argomenti per una tassazione sui capitali molto bassa, o a zero, si basano su assunti molto arditi, del tutto irrealistici – fondamentalmente gli agenti economici che sono capaci di ottimizzare, perfettamente e razionalmente, gli sviluppi intertemporali [1], con le dinastie che si comportano come individui con sconfinata esperienza. Mettete in discussione questi assunti, e l’intero esempio cade a pezzi. Non dovete credermi sulla parola – leggete Peter Diamond ed Emmanuel Saez (disponibili in pdf), i quali anche indicano come il modello di risparmio della ottimizzazione intertemporale è stato nei fatti destituito di fondamento da una gran quantità di prove.

E quando si passa ai lasciti (della storia della teoria economica), si legga Irving Fisher (disponibile in pdf):

“I normali capitalisti miliardari prossimi a lasciare per sempre questo mondo, si preoccupano meno della fine che fanno le fortune che si lasciano alle spalle di quello che siamo soliti immaginare. Contrariamente all’opinione comune, essi non le hanno messe da parte, almeno non oltre una certa quantità, per un qualche desiderio di lasciarle agli altri. I motivi della accumulazione erano stati piuttosto quelli del potere, della auto affermazione, del partecipare alla ‘grande partita’.”    

In questo caso il punto è che l’argomento economico per non tassare i capitali si basa su un modello semplificato che sappiamo non funziona granché nell’interpretare i comportamenti effettivi; la tesi del tassare i capitali si basa invece su considerazioni di equità e su preoccupazioni sulla eccessiva concentrazione della ricchezza che poggiano molto sull’osservazione del mondo reale. Non c’è bisogno di essere sprovveduti per sostenere che il secondo genere di argomenti surclassa il primo.

Infine, in qualche caso potete convincervi di questo rinunciando alla ottimizzazione intertemporale come utile strumento di semplificazione. Il mio saggio originario sulla trappola di liquidità includeva l’impianto di uno schema monetario minimalista in un modello, proprio così, di individui perfettamente razionali e infinitamente esperti. Feci così per far piazza pulita degli elementi di disordine e per concentrarmi su quello che consideravo il tema centrale – ma non sarei andato avanti se avessi pensato che i risultati dipendevano fondamentalmente dalla verità di quegli assunti.

Utilizzare i modelli senza credere che essi rappresentino ‘La Verità’ è difficile; è molto facile cadere da quella corda da funambolo, in un modo o nell’altro. Ma è quello che si deve fare se si vuol praticare un’economia utile.



[1] Ovvero, le differenze che normalmente intervengono tra una previsione economica e gli esiti della decisione derivante da quella aspettativa.

Dati come slogan. Dati come sostanza. (26 marzo 2014)

marzo 26, 2014

 

Mar 26, 1:00 pm

Data as Slogan, Data as Substance

Noah Smith has the definitive piece on what’s wrong, so far, with the new FiveThirtyEight. For all the big talk about data-driven analysis,what it actually delivers is sloppy and casual opining with a bit of data used, as the old saying goes, the way a drunkard uses a lamppost — for support, not illumination. Smith:

 

In sum, this so-called “data-driven” website is significantly less data-driven (and less sophisticated) than Business Insider or Bloomberg View or The Atlantic. It consists nearly entirely of hedgehoggy posts supporting simplistic theories with sparse data and zero statistical analysis, making no quantitative predictions whatsoever. It has no relationship whatsoever to the sophisticated analysis of rich data sets for which Nate Silver himself has become famous.

The problem with the new FiveThirtyEight is not one of data vs. theory. It is one of “data” the buzzword vs. data the actual thing.

So what would real data-driven reporting look like (beyond what goes on at the sites Noah mentions, and also at the Times)? Well, here’s an example: Charles Gaba’s ACASignups.net. Gaba, a website developer, realized that nobody was systematically keeping track of enrollment data for Obamacare, and has turned himself into one-stop shopping on the law’s progress. And he really fills a need: when you read news reports on Obamacare, you can tell right away which reporters have been reading Gaba and know what’s happening and which reporters are relying solely on official announcements — or, worse, dueling political spin.

 

For the record, Gaba’s take on the program so far is fairly optimistic: he projects 6.3 million signups by March 31, and has very carefully debunked claims that the vast majority of those signing up were previously insured. But the main point is that he’s filling a niche by using a lot more data than the mainstream media. That’s what we thought Nate Silver would be doing, and maybe he eventually will. But for now, Gaba is the model.

 

Dati come slogan. Dati come sostanza.

 

Noah Smith scrive la parola fine su quello che, almeno sinora, è sbagliato nel nuovo blog FiveThirtyEight. Perché tutto il gran parlare sulla analisi guidata dai dati, quello che effettivamente ci consegna è una opinione trasandata e casuale sulla base di un po’ di dati usati. Come dice il vecchio proverbio, il modo in cui un ubriacone utilizza il lampione – per sostegno, non per illuminazione. Smith:

“Insomma, questo cosiddetto sito web “che si ispira ai dati” è in modo significativo molto meno ispirato ai dati (e meno sofisticato) di Business Insider, o di Bloomberg View o di The Atlantic. Consiste quasi per intero di posts a ‘mo’ di porcospino [1]’ che sostengono analisi semplicistiche con qualche numero e nessuna analisi statistica, in nessun modo avanzando previsioni quantitative. Non ha alcuna relazione con le sofisticate analisi, ricche di sofisticate serie di dati per le quali lo stesso Nate Silver è diventato famoso.

Il problema con il nuovo ‘FiveThirtyEight’ non è quello dei dati contro la teoria. E’ quello dei ‘dati’ come parola di moda contro i dati come cosa seria.”

Dunque, a cosa dovrebbe somigliare un giornalismo che si ispira ai dati (oltre a ciò che appare sui siti che Noah menziona, ed anche sul Times)? Ebbene, ecco un esempio: il blog  ACASignups.net di Charles Gaba. Gaba, un programmatore di siti web, ha compreso che nessuno stava sistematicamente seguendo i dati sulle registrazioni al nuovo sistema sanitario previsto dalla riforma di Obama, e si è egli stesso trasformato in una sede interamente dedicata agli sviluppi della legge. Ed ha realmente coperta una esigenza: quando si leggono resoconti giornalistici sulla riforma di Obama, si può dire subito quali giornalisti hanno letto Gaba e conoscono cosa sta accadendo e quali stanno solo basandosi sugli annunci ufficiali – o peggio, sono in contesa con interpretazioni politiche.

Per la cronaca, sinora la posizione di Gaba sul programma (di riforma sanitaria) è discretamente ottimistica: egli prevede 6,3 milioni di iscrizioni per il 31 marzo, ad ha assai scrupolosamente smentito le pretese secondo le quali quelli che si iscrivono erano precedentemente assicurati. Ma il punto principale è che egli sta riempiendo un vuoto, usando molti più dati di quelli dei media delle tendenze principali. Quello che pensavamo che avrebbe fatto Nate Silver, e che forse alla fine farà. Ma per adesso, il modello è Gaba.



[1] Cosa sia lo stile del porcospino (e quello presunto opposto della volpe) lo si legge nei post precedenti  sul tema del nuovo blog di Nate Silver, che per primo aveva usato la similitudine dei due animali per indicare il metodo prescelto nella nuova iniziativa informativa.

Il coraggio di essere Sciocchi (26 marzo 2014)

marzo 26, 2014

 

March 26, 2014, 11:32 am

Dare To Be Silly

The title above was one of the four rules for research I laid out many years ago; it seems worth recalling when reading Lars Syll’s diatribe against IS-LM. I would respectfully submit that Syll doesn’t get what economic modeling is for. And his piece offers an occasion to talk about what it actually is for.

Syll complains that IS-LM is a “brilliantly silly gadget” that “doesn’t adequately reflect the width and depth of Keynes’s insights on the workings of modern market economies.” Well, of course it doesn’t. It’s a model – a simplification of reality designed to provide useful insight into particular questions. And since 2008 it has done that job, yes, brilliantly.

Before I turn to Syll’s critique, let me summarize my understanding of one of the great turning points in the practice of economics – the turn away from institutional economics in the 1940s and 1950s. Until that time, institutional economics – generally taking the form of long, discursive books rich in historical detail – had been a strong presence in U.S. thought. But then came Samuelson and associates, and models took over.

Why did this happen? It wasn’t, as some might imagine, about free-market ideology: Samuelson started with Keynesian macro (or “Keynesian” macro, if you feel the urge to claim that the master meant something different), and in fact faced a fierce campaign by right-wingers to keep his work out of the schools. No, what happened was the Great Depression.

 

Think about it. Here we had an utter catastrophe, and people wanted answers: how could this happen, what can we do? Institutional economics replied, in effect, by saying “Clearly what is happening is a complex process with deep historical roots. We need to address those complexities. It would be foolish to expect easy answers.” Meanwhile, American Keynesians said, “We have inadequate demand. Increase government spending!”

 

And the Keynesians were right, confirming the sense that they had something useful to offer, while the institutional tradition came up short.

So now we come into another great crisis, and again we want answers. What will reduce unemployment, and what will make it worse? What effects can we expect from a huge expansion of the Fed’s balance sheet? What about unprecedented peacetime budget deficits? What about austerity programs?

I read Syll’s paean to Minsky, and I have no idea how he would answer any of these questions. What I suspect, however, is that he would talk about complexity and nuance, and then propose answers without basing them on any model at all – which would in fact mean engaging in implicit theorizing, and probably fairly crude implicit theorizing at that. You see that a lot among people who reject IS-LM as too simple and unsubtle: what they have ended up doing in practice, for the most part, is predicting soaring inflation and interest rates, because whether they know it or not they have effectively reverted to crude quantity-theory and loanable-funds models.

Meanwhile, those of us working with IS-LM, and arguing that we had entered a liquidity trap, predicted little effect from the Fed’s balance sheet expansion, certainly not an explosion of inflation; low interest rates despite government borrowing; severe adverse effects from austerity. And we were right – because in reality, using a “silly” little model is a lot more sophisticated than talking grandly about complexity, and then trying to make diagnoses with no explicit model at all.

 

IS-LM isn’t a model of life, the universe, and everything. It’s a minimalist gadget designed to let you think coherently about the interactions among money, bond markets, and the real economy. And it has performed extremely well in our time of need.

 

Il coraggio di essere Sciocchi [1]

 

Il titolo sopra è una delle quattro regole di ricerca che io stesi molti anni fa: è il caso di ricordarlo allorquando si legge la diatriba di Lars Syll contro il  modello IS-LM (per una comprensione migliore può essere utile la lettura della spiegazione di Krugman del modello IS-LM, che appare in testa alla rubrica sui ‘saggi’ e a quella della ‘selezione della settimana’. NdT) . Vorrei rispettosamente suggerire che Syll non capisce a cosa serve un modello economico. E il suo articolo offre in effetti una occasione per parlare di quello a cui serve.

Syll lamenta che lo IS-LM è un “gingillo stupido seppur brillante” che “non riflette adeguatamente l’ampiezza e la profondità delle intuizioni di Keynes su come funzionano le economie moderne”. Ebbene, ovviamente non lo è. E’ un modello – una semplificazione della realtà rivolta a fornire utili intuizioni su particolari quesiti. E dal 2008 ha svolto la sua funzione, in effetti, brillantemente.

Prima di rivolgermi alla critica di Syll, consentitemi di sintetizzare il mio modo di intendere uno dei grandi passaggi discriminanti nella pratica dell’economia – il modo in cui si distolse lo sguardo dalla economia accademica negli anni ’40 e ’50. Fino a quell’epoca, l’economia accademica – che generalmente aveva la forma di testi lunghi e discorsivi, ricchi di riferimenti storici – era fortemente presente nel pensiero statunitense. Ma poi vennero Samuelson e soci, ed i modelli presero il sopravvento.

Perché accadde? Non dipese, come qualcuno potrebbe immaginare, dalla ideologia del libero mercato: Samuelson prese le mosse da una macroeconomia keynesiana (oppure “keynesiana”  con le virgolette, se avete il bisogno di sostenere che il ‘maestro’ intendeva qualcosa di diverso), e di fatto affrontò una feroce campagna da parte delle destre per mettere al bando il suo lavoro dalle scuole. No, quello che invece accadde fu la Grande Depressione.

Riflettiamoci: avemmo in quel caso una completa catastrofe, e le persone volevano risposte: come è potuto accadere, cosa possiamo fare? L’economia accademica, in sostanza, rispose dicendo: “Chiaramente quello che sta avvenendo è un processo complesso, con profonde radici storiche. Abbiamo bisogno di riflettere su queste complessità. Sarebbe sciocco attendersi risposte semplici.” Nel frattempo, i Keynesiani americani dissero: “Abbiamo una domanda inadeguata. Si incrementi la spesa pubblica!”

Ed i keynesiani avevano ragione, confermando la sensazione che avessero qualcosa di utile da offrire, mentre la tradizione accademica non fu all’altezza.

Adesso dunque siamo entrati in un’altra grande crisi,  ancora vogliamo risposte. Cosa ridurrà la disoccupazione, cosa la renderà peggiore? Quali effetti possiamo aspettarci da una grande espansione degli equilibri patrimoniali della Fed? Che dire di deficit di bilancio senza precedenti in tempi di pace? Cosa dire dei programmi della austerità?

Io leggo l’encomio di Syll a Minsky, e non ho idea di come egli risponderebbe a nessuna di queste domande. Quello che sospetto, tuttavia, è che egli si metterebbe a parlare di complessità e di sottigliezze, e poi proporrebbe risposte senza basarle su alcun modello – il che in sostanza significherebbe impegnarsi in una teorizzazione sottintesa, e per giunta in una teorizzazione sottintesa piuttosto rozza. Guardate molte tra quelle persone che rigettano l’IS-LM come troppo semplice e privo di sottigliezze: quello che in pratica hanno finito col fare, per la maggior parte, è stato prevedere inflazione e tassi di interesse che schizzavano alle stelle, perché, che se ne rendano conto o no, sono tornati in sostanza ad una semplicistica teoria quantitativa ed ai modelli sui fondi mutuabili.

Nel frattempo, quelli tra noi che lavorano con il modello IS-LM e che sostengono che siamo entrati in una trappola di liquidità, hanno previsto piccoli effetti da una espansione degli equilibri patrimoniali della Fed, certamente non una esplosione dell’inflazione; bassi tassi di interesse nonostante l’indebitamento governativo; gravi effetti negativi dall’austerità. Ed abbiamo avuto ragione – perché, in realtà, usare un modellino ‘sciocco’ è molto più sofisticato che parlare pomposamente di complessità e poi fare diagnosi senza alcun modello esplicito.

Lo IS-LM non è un modello di vita, non serve a capire l’universo ed ogni cosa. E’ un oggetto minimalistico che serve a permettervi di pensare con coerenza alle interazioni tra moneta, mercati dei bond ed economia reale. Ed ha funzionato assai bene rispetto ai bisogni di quest’epoca.



[1] Come al solito, Krugman non resiste all’ironia e gioca con le parole, tra modelli “sciocchi” (“silly”) ed in nome dell’interlocutore (Syll).

Quello che ci sarebbe voluto (25 marzo 2014)

marzo 25, 2014

 

Mar 25, 8:40 am

What It Would Have Taken

Brad DeLong is wrong. He thinks we have a disagreement, but he’s misinterpreting what I said when I argued that the Fed’s 2008 inflation phobia wasn’t responsible for the Great Recession and the Lesser Depression that have followed and continue to this day.

What Brad says — and I agree with — is that there is no economic necessity behind our ongoing employment and output disaster. We could and should have moved the resources employed in the housing boom to other uses, and needn’t have paid this immense cost.

But what would it have taken — what would it take now — to have maintained or restored full employment? My argument is that it would have required more radical, aggressive policies than anyone close to the levers of power has been willing to contemplate, at any point along the way. So the fact that the Fed was wrongly obsessed with inflation for most of 2008, the original subject of my post, was just a contributing factor; things would have been a bit better, but nowhere near OK, if the Fed had stayed focused on underlying inflation and ignored the effects of the commodity-price blip.

Think of it this way: what would a really effective set of policies be right now? First of all, we should aggressively reverse the fiscal austerity of the last few years, getting government at all levels spending several points of GDP more to boost demand.

Monetary policy should accommodate that boost; interest rates should not go up even if inflation goes somewhat above 2 percent. In fact, there’s an overwhelming prudential case for raising the inflation target — even if we’re not sure about seculat stagnation, it might be true, and we definitely know that the risk of hitting the zero lower bound is much higher than Fed officials imagined when they settled on 2 percent as the magic number.

I’m not totally wedded to these particular numbers, but let’s say for the sake of argument that the right policy is two years of fiscal expansion amounting to 3 percent of GDP each year, plus a permanent rise in the inflation target to 4 percent. These wouldn’t be radical moves in terms of Econ 101 — they are in fact pretty much what textbook models would suggest make sense given what we have learned about macroeconomic vulnerabilities. But they are completely outside the bounds of respectable discussion.

That’s the sense in which we are “doomed” to long-term stagnation. We have met the enemy, and it’s not the economic fundamentals, it’s us.

 

Quello che ci sarebbe voluto

 

Brad DeLong ha torto. Lui pensa che non siamo d’accordo, ma interpreta in modo sbagliato quello che ho detto quando ho sostenuto che la fobia per l’inflazione della Fed nel 2008 non era responsabile della Grande Recessione e della Depressione Minore [1] che è seguita ed è continuata sino ad oggi.

Quello che Brad dice – ed io concordo con lui – è che non c’è niente di necessario dietro la nostra perdurante disoccupazione ed il nostro disastro in termini di prodotto. Avremmo potuto e dovuto muovere le risorse occupate nel boom immobiliare per altri usi,  e non c’era bisogno che pagassimo questo costo enorme.

Ma cosa ci sarebbe voluto – e ci vorrebbe adesso – per mantenere o recuperare la piena occupazione? La mia tesi è che ci sarebbe stato bisogno di politiche più radicali, più aggressive di quanto nessuno vicino alle leve del potere ha mai voluto concepire, in nessun momento. Dunque, il fatto che la Fed fosse erroneamente ossessionata dall’inflazione per gran parte del 2008, il tema originario del mio post, era solo un fattore aggiuntivo; le cose sarebbero state un po’ migliori, ma in nessun modo vicine ad andar bene, se la Fed fosse rimasta concentrata sulla inflazione sostanziale ed avesse ignorato gli effetti del lieve rialzo dei prezzi delle materie prime.

Si consideri la questione nel modo seguente: quale sarebbe oggi un efficace complesso di politiche? Prima di tutto, dovremmo aggressivamente invertire l’austerità della finanza pubblica degli ultimi anni, mettendo a tutti i livelli dello Stato la spesa pubblica di alcuni punti più in alto del PIL per incoraggiare la domanda.

La politica monetaria avrebbe dovuto soddisfare quella spinta; i tassi di interesse non sarebbero dovuti salire anche se l’inflazione fosse andata in qualche modo sopra il 2 per cento. Di fatto, c’è un argomento assolutamente prudenziale per elevare l’obbiettivo di inflazione: anche se non fossimo sicuri della stagnazione secolare, essa potrebbe essere vera, e noi sappiamo con certezza che il rischio di sbattere contro il limite inferiore dello zero è molto più alto di quello che i dirigenti della Fed si sono immaginati quando hanno deciso il 2 per cento come numero magico.

Io non sono completamente legato a questi numeri, ma lasciatemi dire per ipotesi che la giusta politica sarebbero due anni di espansione della spesa pubblica corrispondente al 3 per cento del PIL all’anno, in aggiunta ad un elevamento dell’obbiettivo di inflazione al 4 per cento. In termini di economia da libri di testo, queste non sarebbero mosse radicali – sarebbero di fatto più o meno quello che i libri di testo suggeriscono aver senso, dato quello che abbiamo imparato sulle vulnerabilità macroeconomiche. Ma sono completamente fuori i confini di una discussione rispettabile.

E’ in questo senso che noi siamo “condannati” ad una stagnazione di lungo termine. Abbiamo scoperto il nemico, e non sono i fondamentali dell’economia, siamo noi stessi.



[1] Con il termine Grande Recessione si indica l’effettivo fenomeno recessivo come è stato delimitato sulla base della normativa degli USA, in riferimento agli anni 2008 – 2009 (mentre negli anni Trenta si ebbe una depressione vera e propria, che venne chiamata Grande Depressione). Con il termine Depressione Minore ci si riferisce nel testo all’andamento della crisi successivo al 2009 – che in termini statistici non fu una depressione effettiva, e forse per questo la si definisce Depressione Minore.

Le cose vanno meglio con I Kochs (25 marzo 2014)

marzo 25, 2014

 

Mar 25, 8:13 am

Things Go Better With Kochs

Hey, I had to use that headline before someone else claimed it.

David Weigel reports that Democrats are finding the Koch brothers an effective fundraising tool — emails that bash the Kochs raise three times as much as emails that don’t.

And you can see why: the Kochs are perfect villains. It’s not just what they are — serious evildoers who use their wealth to push hard-line right-wing, anti-environmental policies that redound very much to their own benefit. It’s also what they aren’t: they’re wealthy heirs, not self-made men, they aren’t identified with innovation (which you can at least argue for Bill Gates), they haven’t made money for other people like Warren Buffett. So focusing on the Kochs is a way to personalize a vision of conservative politics as a defense of people with unearned privilege.

And here’s the thing: that vision is basically right. Very few of the superrich are movie stars, even if the usual suspects love to pretend otherwise. Not many are innovators. A fair number are self-made wheeler-dealers, but a growing number probably were born to great wealth.

In effect, Koch-bashing is a way of making Piketty personal and concrete. It’s the real thing.

 

Le cose vanno meglio con I Kochs

 

Ehi, ho dovuto usare questo titolo perché qualcun altro l’aveva sostenuto.

David Weigel informa che i democratici stanno trovando nei fratelli Koch uno strumento di raccolta di fondi – le mail che li attaccano crescono tre volte di più di quelle che non lo fanno.

E si può capire perché: i Koch sono assolutamente dei banditi. Non si tratta solo di quello che sono – malfattori integrali che usano la loro ricchezza per sostenere la destra più becera e le politiche anti ambientali che producono molti benefici a loro stessi. Si tratta anche di quello che non sono: essi sono eredi di ricchezze, non uomini che si sono fatti da soli, essi non si identificano con l’innovazione (cosa che si può almeno sostenere per Bill Gates), non hanno fatto soldi a beneficio di altri come Warren Buffet. Dunque, mettere nel mirino i Koch è un modo per personalizzare una visione delle politiche conservatrici come una difesa di persone che hanno privilegi che non si meritano.

E lì è il punto: quella visione è sostanzialmente giusta. Tra i super ricchi le stelle del cinema sono molto poche, anche se i soliti noti amano fingere il contrario. Non molti sono innovatori. Un discreto numero sono intrallazzatori che si sono fatti da soli, ma un numero crescente probabilmente possiede grandi ricchezze dalla nascita.

In effetti, attaccare i Koch è un modo per fare delle analisi di Piketty qualcosa di personale e di concreto. Le cose come stanno nella realtà.

Patrimoni americani (24 marzo 2014)

marzo 24, 2014

 

Mar 24, 4:23 pm

American Patrimony

One problem the Piketty work I discuss in today’s column may have — at least in America — is the widespread perception, even among those who take inequality seriously, that it’s all about compensation, that wealth inequality isn’t that big an issue, and that inheritance is also not that big an issue. We think hedge fund managers, not Kochs and Waltons.

But is this perception right? A lot of it seems to be based on the Fed’s Survey of Consumer Finances — but this may have trouble tracking really huge fortunes for the same reasons standard income surveys have trouble tracking really high incomes. And the problem is especially acute because wealth distribution is even more skewed than income distribution.

So it turns out that Emmanuel Saez and Gabriel Zucman have been developing an alternative procedure for estimating top wealth shares — preliminary slides here (pdf) — and it tells a very different story from the common one. According to their estimates, the wealth share of the very wealthy is in fact all the way back to Gilded Age levels:

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Meanwhile, focusing on the upper middle class, which is still fashionable among some pundits, misses the whole thing, because everyone below the 99th percentile has actually been left behind:

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If Saez and Zucman are right, and I have every reason to believe that they are, even those upset by trends in US inequality are living in the past. They still think Gordon Gekko is the problem — but if you look at my first chart, you see that things have moved on a lot since 1987, when Wall Street came out. Back then scrappy self-made predators ruled; now we’re much more likely to be talking about their children and heirs.

Patrimonial capitalism is already here, to a much greater extent than people realize.

 

Patrimoni americani

 

Un problema che può esserci con il lavoro di Piketty che ho esaminato nel mio articolo di oggi [1] – almeno in America – è la percezione diffusa, anche tra quelli che prendono il tema dell’ineguaglianza sul serio, che esso abbia interamente a che fare con le retribuzioni, che l’ineguaglianza derivante dalla ricchezza non sia quel gran problema, ed anche la ricchezza ereditaria non sia tale. Pensiamo ai dirigenti degli hedge fund, non ai Koch ed ai Walton.

Ma è l’impressione giusta? In gran parte essa sembra basarsi sul Sondaggio dei bilanci familiari sui consumi della Fed – ma questo pare abbia difficoltà nel seguire realmente gli andamenti delle grandi fortune per le stesse ragioni per le quali i sondaggi sui redditi ordinari hanno difficoltà a seguire realmente gli andamenti dei redditi elevati. E il problema è particolarmente acuto perché la distribuzione della ricchezza è anche più distorta della distribuzione del reddito.

Si scopre dunque che Emmanuel Saez e Gabriel Zucman hanno sviluppato una procedura alternativa per la stima delle quote di ricchezza più alte – qua in pdf le slides preliminari – ed essa ci racconta una storia molto diversa da quella consueta. Secondo le loro stime, la quota di ricchezza dei molto ricchi di fatto è tornata per intero ai livelli dell’Età dell’Oro [2]:

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Nel frattempo, concentrandoci sulla parte superiore della classe media, la qual cosa va ancora di moda tra qualche commentatore, si perde tutta la sostanza, perché tutti coloro che sono sotto il 99° percentile in effetti sono stati lasciati indietro:

z 58

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se Saez e Zucman hanno ragione, ed ho ogni ragione di credere che ce l’abbiano, anche coloro che sono turbati per le tendenze dell’ineguaglianza negli Stati Uniti sono rimasti al passato. Essi pensano ancora che Gordon Gekko sia il problema – ma se guardate alla mia prima tabella, vi accorgete che le cose sono cambiate molto a partire del 1987, quando saltò fuori Wall Street. A quei tempi comandavano grintosi predoni che si erano fatti da soli; ora è molto più probabile che stiamo parlando dei loro figli ed eredi.

Il capitalismo patrimoniale è già qua, in una misura assai più grande di quello che la gente comprende.



[1] “La ricchezza al di sopra del lavoro”, New York Times 25 marzo 2014.

[2] Ovvero degli anni Venti.

Licenziamenti nel Maine (24 marzo 2014)

marzo 24, 2014

 

Mar 24, 3:40 pm

Layoffs in Maine

I’ve written in the past about the damage being done by sharp cuts in funding for public education, which among other things have led to sharply rising tuition, making college unaffordable for poor and even working-class students. It was inevitable that there would also be a degradation in quality — and some friends have asked me to draw attention to an ugly example at the University of Southern Maine, which is laying off a number of faculty, including tenured professors, and in the process effectively gutting several departments, including economics.

From what I’m hearing, it appears that while declining state funding is a key driver of events, the university administration has exaggerated the financial problem; it seems eager to downsize liberal arts and social sciences for reasons that go beyond money.

I’m not in a position to do investigative reporting here, but this story deserves more attention, both for its own direct educational consequences and for what it says more broadly about the direction of public education.

 

Licenziamenti nel Maine

 

Ho scritto in passato sul danno derivante dai bruschi tagli ai finanziamenti per la pubblica istruzione, che tra le altre cose hanno portato a rette decisamente crescenti, rendendo l’Università insostenibile per gli studenti poveri e persino per quelli della classe lavoratrice. Era inevitabile anche un degrado nella qualità – ed alcuni amici mi hanno chiesto di provocare attenzione su un brutto esempio dell’Università del Maine del Sud, che sta liquidando un certo numero di facoltà, inclusi professori di ruolo, e in quel processo sta svuotando di fatto vari dipartimenti, incluso quello economico.

Da quello che sento, sembra che se il diminuito contributo statale è la chiave che determina tale situazione, l’amministrazione dell’Università abbia esagerato il problema finanziario; essa sembra ansiosa di ridimensionare le facoltà umanistiche e delle scienze sociali per ragioni che vanno al di là dei soldi.

Non sono nella condizione di svolgere una indagine su questo, ma questa storia merita maggiore attenzione, sia per le sue dirette implicazioni educative sia per quello che essa più in generale indica sugli indirizzi dell’istruzione pubblica.

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