Mar 24, 4:23 pm
One problem the Piketty work I discuss in today’s column may have — at least in America — is the widespread perception, even among those who take inequality seriously, that it’s all about compensation, that wealth inequality isn’t that big an issue, and that inheritance is also not that big an issue. We think hedge fund managers, not Kochs and Waltons.
But is this perception right? A lot of it seems to be based on the Fed’s Survey of Consumer Finances — but this may have trouble tracking really huge fortunes for the same reasons standard income surveys have trouble tracking really high incomes. And the problem is especially acute because wealth distribution is even more skewed than income distribution.
So it turns out that Emmanuel Saez and Gabriel Zucman have been developing an alternative procedure for estimating top wealth shares — preliminary slides here (pdf) — and it tells a very different story from the common one. According to their estimates, the wealth share of the very wealthy is in fact all the way back to Gilded Age levels:
Meanwhile, focusing on the upper middle class, which is still fashionable among some pundits, misses the whole thing, because everyone below the 99th percentile has actually been left behind:
If Saez and Zucman are right, and I have every reason to believe that they are, even those upset by trends in US inequality are living in the past. They still think Gordon Gekko is the problem — but if you look at my first chart, you see that things have moved on a lot since 1987, when Wall Street came out. Back then scrappy self-made predators ruled; now we’re much more likely to be talking about their children and heirs.
Patrimonial capitalism is already here, to a much greater extent than people realize.
Patrimoni americani
Un problema che può esserci con il lavoro di Piketty che ho esaminato nel mio articolo di oggi [1] – almeno in America – è la percezione diffusa, anche tra quelli che prendono il tema dell’ineguaglianza sul serio, che esso abbia interamente a che fare con le retribuzioni, che l’ineguaglianza derivante dalla ricchezza non sia quel gran problema, ed anche la ricchezza ereditaria non sia tale. Pensiamo ai dirigenti degli hedge fund, non ai Koch ed ai Walton.
Ma è l’impressione giusta? In gran parte essa sembra basarsi sul Sondaggio dei bilanci familiari sui consumi della Fed – ma questo pare abbia difficoltà nel seguire realmente gli andamenti delle grandi fortune per le stesse ragioni per le quali i sondaggi sui redditi ordinari hanno difficoltà a seguire realmente gli andamenti dei redditi elevati. E il problema è particolarmente acuto perché la distribuzione della ricchezza è anche più distorta della distribuzione del reddito.
Si scopre dunque che Emmanuel Saez e Gabriel Zucman hanno sviluppato una procedura alternativa per la stima delle quote di ricchezza più alte – qua in pdf le slides preliminari – ed essa ci racconta una storia molto diversa da quella consueta. Secondo le loro stime, la quota di ricchezza dei molto ricchi di fatto è tornata per intero ai livelli dell’Età dell’Oro [2]:
Nel frattempo, concentrandoci sulla parte superiore della classe media, la qual cosa va ancora di moda tra qualche commentatore, si perde tutta la sostanza, perché tutti coloro che sono sotto il 99° percentile in effetti sono stati lasciati indietro:
Se Saez e Zucman hanno ragione, ed ho ogni ragione di credere che ce l’abbiano, anche coloro che sono turbati per le tendenze dell’ineguaglianza negli Stati Uniti sono rimasti al passato. Essi pensano ancora che Gordon Gekko sia il problema – ma se guardate alla mia prima tabella, vi accorgete che le cose sono cambiate molto a partire del 1987, quando saltò fuori Wall Street. A quei tempi comandavano grintosi predoni che si erano fatti da soli; ora è molto più probabile che stiamo parlando dei loro figli ed eredi.
Il capitalismo patrimoniale è già qua, in una misura assai più grande di quello che la gente comprende.
[1] “La ricchezza al di sopra del lavoro”, New York Times 25 marzo 2014.
[2] Ovvero degli anni Venti.
marzo 24, 2014
Mar 24, 3:40 pm
I’ve written in the past about the damage being done by sharp cuts in funding for public education, which among other things have led to sharply rising tuition, making college unaffordable for poor and even working-class students. It was inevitable that there would also be a degradation in quality — and some friends have asked me to draw attention to an ugly example at the University of Southern Maine, which is laying off a number of faculty, including tenured professors, and in the process effectively gutting several departments, including economics.
From what I’m hearing, it appears that while declining state funding is a key driver of events, the university administration has exaggerated the financial problem; it seems eager to downsize liberal arts and social sciences for reasons that go beyond money.
I’m not in a position to do investigative reporting here, but this story deserves more attention, both for its own direct educational consequences and for what it says more broadly about the direction of public education.
Licenziamenti nel Maine
Ho scritto in passato sul danno derivante dai bruschi tagli ai finanziamenti per la pubblica istruzione, che tra le altre cose hanno portato a rette decisamente crescenti, rendendo l’Università insostenibile per gli studenti poveri e persino per quelli della classe lavoratrice. Era inevitabile anche un degrado nella qualità – ed alcuni amici mi hanno chiesto di provocare attenzione su un brutto esempio dell’Università del Maine del Sud, che sta liquidando un certo numero di facoltà, inclusi professori di ruolo, e in quel processo sta svuotando di fatto vari dipartimenti, incluso quello economico.
Da quello che sento, sembra che se il diminuito contributo statale è la chiave che determina tale situazione, l’amministrazione dell’Università abbia esagerato il problema finanziario; essa sembra ansiosa di ridimensionare le facoltà umanistiche e delle scienze sociali per ragioni che vanno al di là dei soldi.
Non sono nella condizione di svolgere una indagine su questo, ma questa storia merita maggiore attenzione, sia per le sue dirette implicazioni educative sia per quello che essa più in generale indica sugli indirizzi dell’istruzione pubblica.
marzo 24, 2014
Mar 24, 10:42 am
In yesterday’s Times, Steven Rattner grudgingly admits that expansionary monetary policy in Europe may be a good thing, but bemoans the lack of adjustment, and gives us this chart:
So France, like Italy though not quite to the same extent, has a problem of unsustainable growth in labor costs. Right?
No, no, no.
The way Rattner presents this, you’d think that falling unit labor costs are always a good thing. But that’s not at all true. In general, we want a small amount of inflation in modern economies, both to ease adjustment and to help avoid the zero lower bound; the Fed’s target is 2 percent, the ECB’s target is “close to but below” 2, and there’s a strong case that both targets should be higher. And if overall prices are rising 2 or 3 percent a year, unit labor costs should be rising at roughly the same rate. We certainly don’t want falling labor costs as the norm.
So how do major European economies stack up against what should be happening? Like this:
European Commission
So, has the euro area as a whole had excessive labor cost growth? No — inflation has if anything been too low. Has France had excessive labor cost growth? No — it has grown only at the overall euro rate.
Yes, Italian costs have risen too much, mainly because of terrible productivity performance. But the other country that’s way out of line isn’t France — it’s Germany, whose costs have risen much too little.
French labor costs are not a problem; German labor costs are. And it’s depressing, in at least two senses, that so many people don’t get that.
I salari francesi non sono il problema
Sul Times di ieri, Steven Rattner ammette a denti stretti che la politica monetaria espansiva in Europa può essere una buona cosa, ma si lamenta di una mancanza di correzioni, e ci fornisce questa tabella:
Dunque la Francia, come l’Italia sebbene non proprio nella stessa misura, ha un problema di insostenibile crescita nei costi del lavoro. Giusto?
No, no e poi no.
Nel modo in cui Rattner presenta la cosa, pensereste che la caduta dei costi unitari del lavoro sia sempre una buona cosa. Ma questo non è affatto vero. In generale, noi vogliamo per le economie moderne una piccola quantità di inflazione, sia per facilitare la correzione che per contribuire ad evitare il limite inferiore dello zero; l’obbiettivo di inflazione della Fed è il 2 per cento, quello della BCE è “vicino ma sotto”, ed esiste un forte argomento perché i due obbiettivi siano più elevati. E se i prezzi in generale stanno crescendo del 2 o 3 per cento all’anno, il costo unitario del lavoro dovrebbe crescere grosso modo allo stesso tasso. Certamente non vogliamo che la regola sia una caduta dei costi del lavoro.
Dunque come le maggiori economie europee si regolano contro quello che starebbe accadendo? In questo modo:
Dunque, l’area euro nel suo complesso ha avuto una crescita eccessiva del costo del lavoro? No – semmai l’inflazione è stata troppo bassa. Ha avuto un costo eccessivo la Francia? No – essa è cresciuta soltanto al tasso generale dell’area euro.
Si, i costi italiani sono cresciuti troppo, principalmente per un terribile andamento della produttività. Ma l’altro paese che è fuori della norma non è la Francia – è la Germania, i cui costi sono cresciuti troppo poco.
I costi del lavoro della Francia non sono un problema; quelli della Germania lo sono. Ed è deprimente, in almeno due sensi, che tanta gente non lo capisca.
marzo 23, 2014
Mar 23, 6:32 pm
Update: According to Sutch, the term liquidity trap comes from a 1940 book by Dennis Robertson, and it was popularized by Alvin Hansen in the 1950s. What with secular stagnation and all that, Hansen seems to be having a comeback!
OK, this doesn’t matter for anything real, but as an aging academic I have a right to be petty sometimes.
So, Mian and Sufi, in an otherwise good post, for some reason give me credit for the term “liquidity trap”. No way – it was decades old when I invoked it, although I’m not sure who was really responsible for it.
What I did invent was the notion that a liquidity trap is essentially a credibility problem – that the proposition that an increase in the money supply will necessarily lead over time to an equal proportional rise in prices only applies if people believe that the money expansion will be permanent. And here’s the funny thing: although people tend to give me credit for the term liquidity trap, which I don’t deserve, they often don’t give me credit for the insight about credibility, which I do; instead you have people imagining that I got the idea from Mike Woodford, when it was actually the other way around (Mike himself has always been clear on this point.)
Anyway, picky picky. But I do feel that my 1998 paper on this was one of the best things I’ve done, so it’s kind of annoying.
Non sono stato io
Aggiornamento: Secondo Sutch, il termine ‘trappola di liquidità’ deriva da un libro del 1940 di Dennis Robertson, e fu reso popolare da Alvin Hansen negli anni ’50. Da ciò, con la stagnazione secolare e tutto il resto, sembra che Hansen stia tornando in auge!
E’ vero, tutto questo non è importante dal punto divista delle cose reali, ma come professore che invecchia ho diritto ad essere futile, ogni tanto.
E così, Mian e Sufi, in un post per altri aspetti interessante, per qualche ragione mi accreditano l’espressione “trappola di liquidità”. E’ fuori discussione – era vecchia di decenni quando la evocai, sebbene non fossi sicuro chi fosse effettivamente il suo autore.
Quello che io davvero inventai fu il concetto per il quale una trappola di liquidità è essenzialmente un problema di credibilità – che il fatto che un incremento nell’offerta di moneta porterà necessariamente col tempo ad una eguale crescita in proporzione dei prezzi è una proposizione che si applica se le persone credono che l’espansione monetaria sarà permanente. E qua è la cosa curiosa: sebbene le persone tendano ad attribuirmi il merito per il termine trappola di liquidità, cosa che non merito, spesso non mi danno il merito della intuizione sulla credibilità, che invece ho; piuttosto c’è gente che immagina che io ebbi l’idea da Mike Woodford, quando fu effettivamente il contrario (Mike stesso ha spesso messo in chiaro questo punto).
Forse sono troppo puntiglioso. Ma ritengo che il mio saggio del 1998 su queste cose sia stato una delle cose migliori che ho fatto, per questo mi infastidisce.
marzo 23, 2014
Mar 23, 11:01 am
The most important paper at the Brookings Panel was probably Krueger et al on the long-term unemployed, which basically confirmed what we’re learning from a number of sources: it’s really hard to get employers to look at people who have been out of work for an extended period, so any sustained increase in long-term unemployment tends to become permanent.
The best way to avoid this outcome, then, is to avoid prolonged periods of high unemployment.
So let me make the obvious point, just in case anyone missed it: the “pivot” of 2010 — when all the Very Serious People decided that the danger from debt trumped any and all concern for job creation — was an utter disaster, economic and human. It was even a disaster in fiscal terms, because a permanently depressed economy will cost far more in revenue than was saved by slashing the deficit by a few percent of GDP in the short term.
Now, you might think that this post should be titled The Mistake of 2010 — but that would only be appropriate if it were truly an honest error. It wasn’t. Some of the austerians were self-consciously exploiting deficit panic to promote a conservative agenda; some were slipping into deficit-scolding rather than dealing with our actual problems because it felt comfortable; some were just going along for the ride, saying what everyone else was saying. Hardly anyone in the deficit-scold camp engaged in hard thinking and careful assessment of the evidence.
And millions of people will still be paying the price for that casual irresponsibility for many years to come.
Il crimine del 2010
La più importante relazione al Brookings Panel è stata probabilmente quella di Krueger ed altri sui disoccupati a lungo termine, che fondamentalmente conferma quello che sapevamo da varie fonti: è davvero difficile ottenere che i datori di lavoro guardino alle persone che sono rimaste fuori dal lavoro per un periodo prolungato, dunque un incremento duraturo della disoccupazione a lungo termine tende a diventare permanente.
Il modo migliore per evitare questo risultato, dunque, è evitare lunghi periodi di elevata disoccupazione.
Fatemi dunque dire la cosa più evidente, solo nel caso in cui qualcuno l’avesse dimenticata: il cambio di direzione del 2010 – quando tutte le Persone Molto Serie decisero che il pericolo derivante dal debito surclassava qualsiasi preoccupazione sulla creazione di posti di lavoro – fu un completo disastro, economico ed umano. Fu anche un disastro in termini di finanza pubblica, perché un’economia permanentemente depressa costerà nel breve termine molto di più in minori entrate di quello che verrà risparmiato con l’abbattimento del deficit per una piccola percentuale del PIL.
Ora si potrebbe pensare che questo post dovrebbe avere come titolo “L’errore del 2010” – ma quello sarebbe appropriato solo se fosse stato un errore onesto. Non è stato così. Alcuni tra i patiti dell’austerità stavano coscientemente sfruttando il panico per promuovere un programma conservatore; alcuni di loro sono scivolati tra le Cassandre del deficit piuttosto che misurarsi con i nostri problemi veri perché l’hanno sentito comodo; alcuni semplicemente si atteggiavano, dicendo quello che tutti gli altri stavano dicendo. Quasi nessuno, nel campo delle Cassandre del deficit, si impegnò in difficili pensieri ed in uno scrupoloso giudizio dei fatti.
E milioni di persone continueranno a pagare per molti anni a venire il prezzo di questa fortuita irresponsabilità.
marzo 23, 2014
Mar 23, 10:48 am
Timothy Egan joins the chorus of those dismayed by Nate Silver’s new FiveThirtyEight. I’m sorry, but I have to agree: so far it looks like something between a disappointment and a disaster.
But I’d argue that many of the critics are getting the problem wrong. It’s not the reliance on data; numbers can be good, and can even be revelatory. But data never tell a story on their own. They need to be viewed through the lens of some kind of model, and it’s very important to do your best to get a good model. And that usually means turning to experts in whatever field you’re addressing.
Unfortunately, Silver seems to have taken the wrong lesson from his election-forecasting success. In that case, he pitted his statistical approach against campaign-narrative pundits, who turned out to know approximately nothing. What he seems to have concluded is that there are no experts anywhere, that a smart data analyst can and should ignore all that.
But not all fields are like that — in fact, even political analysis isn’t like that, if you talk to political scientists instead of political reporters. So, for example, before glancing at some correlation and asserting causation, you really should talk to the researchers.
Similarly, climate science has been developed by many careful researchers who are every bit as good at data analysis as Silver, and know the physics too, so ignoring them and hiring a known irresponsible skeptic to cover the field is a very good way to discredit your enterprise. Economists work hard on the data; on the whole you’re going to do better by tracking their research than by trying to roll your own, and you should be very wary if your analysis runs counter to what a lot of professionals say.
Basically, it looks as if Silver is working from the premise that the supposed experts in every field are just like the political analysts at Politico, and that there is no real expertise he needs to take on board. If he doesn’t change that premise, his enterprise is going to run aground very fast.
Argento sporco [1]
Timothy Egan si aggiunge al coro di coloro che sono smarriti dinanzi al nuovo FiveThirtyEight di Nate Silver. Sono spiacente, ma devo convenire: sinora assomiglia ad una via di mezzo tra una delusione ed un disastro.
Ma direi che molti critici stanno ponendo il problema nel modo sbagliato. Non si tratta di basarsi troppo su dati; i numeri possono essere una buona cosa e possono persino essere rivelatori. Ma i dati non ci raccontano mai una storia da soli. Hanno bisogno di essere scrutati attraverso le lenti di un modello di qualche genere, ed è molto importante fare del proprio meglio per scegliere un buon modello. E questo normalmente significa rivolgersi ad esperti, in qualsiasi campo vi stiate impegnando.
Sfortunatamente, Silver sembra aver capito in modo sbagliato la lezione derivante dal suo successo nelle previsioni elettorali [2]. In quel caso, egli lanciò il suo approccio statistico contro la storia della campagna elettorale raccontata dai commentatori, che si scoprì non ne sapevano più o meno niente. Egli sembra averne dedotto che non ci sono esperti da nessuna parte, che un intelligente analista di statistiche possa e debba ignorarli tutti.
Ma non tutte le discipline sono come quella – di fatto neanche l’analisi politica è come quella, se si parla con scienziati della politiche anziché con cronisti politici. Così, per esempio, prima di dare un’occhiata a qualche correlazione e di asserire una causa, sarebbe davvero meglio parlarne con dei ricercatori.
In modo simile, la scienza climatica è stata sviluppata da molti scrupolosi ricercatori e sono altrettanto bravi nell’analisi dei dati di Silver, e conoscono anche la fisica, dunque ignorarli ed assumere un noto scettico irresponsabile per coprire quel settore è un ottimo modo per screditare l’impresa.
Gli economisti lavorano duramente sui dati; nel complesso siete destinati a far meglio seguendo le loro ricerche piuttosto che cercando di muovervi per vostro conto, e dovreste essere molto cauti se la vostra analisi va contro quello che dicono molti professionisti.
Fondamentalmente, sembra che Silver stia lavorando sulla premessa che i presunti esperti in ogni disciplina siano esattamente come gli analisti politici di Politico [3], e che non ci sia alcuna vera esperienza della quale ha bisogno nella sua impresa. Se non cambia quella premessa, quell’impresa è destinata ad arenarsi in breve tempo.
[1] Il post torna sul tema della delusione provocata dalla prima uscita del tanto atteso nuovo blog di Nate Silver (vedi i post precedenti del 18 marzo). Ovviamente, il titolo è un gioco di parole, perché il cognome del giovane blogger significa Argento.
[2] Nell’autunno del 2012, Nate Silver ebbe molto apprezzamento da parte di Krugman, quando lavorava al New York Times e si occupava di previsioni elettorali nella campagna presidenziale. Silver aveva correttamente previsto il notevole vantaggio che i sondaggi indicavano a favore di Obama, e questo l’aveva posto al centro di una campagna assai aggressiva da parte della destra. Krugman in quell’epoca scrisse frequentemente sul tema, sia per sostenere la logicità delle previsioni di Silver, sia per esaminare il significato più profondo dell’atteggiamento “negazionista” dei Repubblicani che non potevano credere ala sconfitta imminente di Mitt Romney.
[3] Un blog anch’esso caratterizzato da una certa faciloneria.
marzo 22, 2014
Mar 22, 4:22 pm
In my last post I tried to document the extent to which modern Republican rhetoric has already adopted the values of “patrimonial capitalism”, even though America’s top one percent still owes its high incomes largely to compensation rather than wealth. On reflection, I thought I should also document the extent to which the GOP has put its money — or, actually, taxpayers’ money — where its mouth is, with concrete policies that favor wealth over work.
Consider, as Exhibit A, the Bush tax cuts. Bush did cut the top tax rate on earned income from 39.6 to 35 percent, a 12 percent reduction. But he cut the rate on capital gains from 21 to 15, a 28 percent reduction; he cut the rate on dividends from 39.6 (because dividends were previously taxed as ordinary income) to 15, a reduction of more than 60 percent. And he put the estate tax on a path toward zero — a 100 percent reduction.
The estate tax made a partial comeback thanks to the awkward fact that a Democrat was in the White House, and there have been some tax hikes on capital income. The point, however, was that Bush tried to give people living off wealth, inherited wealth in particular, much bigger tax cuts than he gave high earners.
And the efforts go on. I know that Paul Ryan likes to lecture the poor about the dignity of work; but his famous initial “roadmap” called for the complete elimination of taxes on interest, capital gains, and dividends, plus elimination of the estate tax. In other words, he proposed eliminating all taxes on income derived from wealth.
Now, Ryan casts this as policy that favors saving. But the truth is that it would mainly favor people born on third base or beyond. Even now, 6 of the 10 wealthiest Americans are heirs rather than self-made entrepreneurs — the Koch brothers plus a bunch of Waltons. There’s every reason to believe that the role of inheritance will only grow over time.
And if it does, half our political system will be cheering it on and offering the ever-more-empowered heirs as much assistance as possible.
Preferire la ricchezza al lavoro
Nel mio post precedente ho cercato di documentare come la retorica contemporanea dei repubblicani abbia già adottato i valori del “capitalismo patrimoniale”, anche se l’uno per cento degli americani più ricchi deriva ancora largamente i suoi redditi elevati dai compensi piuttosto che dai patrimoni. Riflettendoci meglio, ho pensato che dovrei anche documentare in quale misura il Partito Repubblicano abbia fatto seguire i fatti – o meglio, i soldi dei contribuenti – alle parole, con concrete politiche che favoriscono la ricchezza sul lavoro.
Si considerino, come prima prova, i tagli fiscali di Bush. Bush tagliò l’aliquota fiscale più elevata sui redditi dalla attività lavorativa dal 39,6 al 35 per cento, una riduzione del 12 per cento. Ma egli tagliò l’aliquota dei redditi da capitale dal 21 al 15 per cento, una riduzione del 28 per cento; tagliò l’aliquota sui dividendi dal 39,6 (perché in precedenza i dividendi erano tassati come redditi ordinari) al 15 per cento, una riduzione di più del 60 per cento. E pose la tassa di successione nella prospettiva di un azzeramento – una riduzione del 100 per cento.
La tassa di successione ebbe un parziale ritorno grazie alla spiacevole circostanza che un democratico era alla Casa Bianca, e c’è stato un qualche aumento della tassa sui redditi da capitale. Il punto, tuttavia, è che Bush cercò di far vivere la gente della propria ricchezza, in particolare della ricchezza ereditata, molto di più di quanto non consentì sgravi fiscali agli elevati guadagni da attività lavorativa.
E gli sforzi continuano. So che a Paul Ryan piace fare prediche ai poveri sulla dignità del lavoro; ma la sua famosa iniziale “road map” si pronunciava per la completa eliminazione delle tasse sugli interessi, sui profitti da capitale, sui dividendi, in aggiunta alla eliminazione della tassa di successione. In altre parole, egli propose di eliminare tutte le tasse sui redditi che provenissero dalla ricchezza.
Ora, Ryan presenta questa come una politica a favore del risparmio. Ma la verità è che essa favorisce soprattutto le persone che sono nate in ‘terza base’ [1] o oltre. Anche oggi, sei dei dieci americani più ricchi sono eredi, non imprenditori che si sono fatti da soli – i fratelli Koch più un mazzo di Walton [2]. Ci sono tutte le ragioni per credere che il ruolo dell’eredità non farà altro che crescere col tempo.
E se succede, metà del nostro sistema politico sarà di sostegno ed offrirà ai sempre più potenti eredi tutta l’assistenza possibile.
marzo 22, 2014
Mar 22, 9:36 am
I’ve just finished a draft of a long review of Thomas Piketty’s Capital in the 21st Century, which argues that we’re on the road back to “patrimonial capitalism”, dominated by inherited wealth. It’s an amazing book; among other things, it does an awesome job of integrating economic growth, the factor distribution of income (between capital and labor), and the individual distribution of income into a common framework. (It’s all about r-g). One slight weakness of the book, however, is that Piketty’s grand framework doesn’t do too good a job of explaining the explosion of income inequality in the United States, which so far has been driven mainly by wage income rather than capital. Piketty does take this on; but it’s kind of a side journey from the central story.
No matter; it’s still a masterwork. But I’ve been thinking about this quite a bit, and one thing that strikes me is the remarkable extent to which American conservatism in 2014 seems to be about defending and promoting patrimonial capitalism even though we aren’t there yet.
Think back to the Bush administration, whose main economic theme was the “ownership society“: in effect, the message was that you’re not really a full-fledged American, no matter how hard you work, unless you have a lot of assets. Think of Eric Cantor’s famous Labor Day tweet in which he used the occasion to celebrate business owners. More recently, Mike Konczal has pointed out that despite claims that the Tea Party somehow represents a rebellion against business domination of the GOP, the Tea Party agenda corresponds almost perfectly with Wall Street’s goals.
Oh, and let’s not forget the long crusade against the estate tax.
In short, the GOP is more and more a party that consistently, indeed reflexively, supports the interests of capital over those of labor. But why?
Well, one thing you might imagine would be that the party was responding to a change in society — aren’t more and more Americans asset owners, for example through their retirement accounts?
And the answer is no. In fact, the concentration of income from capital in a few hands has risen sharply. Tucked deep inside the CBO report on trends in the US distribution of income are data on the concentration of various types of income; here’s the one percent’s share of capital income:
So what we’re seeing is that half the political spectrum now instinctively accords much more respect to capital than to labor, at a time when capital income is growing ever more concentrated in a few hands — and is surely on its way to being concentrated largely in the hands of people who inherited their wealth.
Curious, isn’t it?
Lavorare per i proprietari
Ho appena finite la stesura di una lunga recensione de Il capitale nel 21° Secolo di Thomas Piketty, dove si sostiene che siamo sulla strada di un ritorno al “capitalismo patrimoniale”, dominato dalla ricchezza ereditaria. E’ un libro formidabile; tra le altre cose, compie un lavoro fantastico nell’integrare la crescita economica, il fattore della distribuzione del reddito (tra capitale e lavoro) e la distribuzione individuale del reddito secondo uno schema comune (riguarda tutto il rapporto tra tasso di rendimento [1] degli asset e tasso di crescita). Una lieve debolezza del libro, tuttavia, consiste nel fatto che l’imponente inquadramento di Piketty non compie una ricognizione adeguata sull’esplosione della disuguaglianza di reddito negli Stati Uniti, che sino a qua è stata guidata principalmente dal reddito derivante dagli stipendi piuttosto che dal capitale. Piketty considera questo aspetto; ma è una sorta di digressione laterale rispetto al racconto fondamentale.
Non è importante: si tratta pur sempre di un capolavoro. Ma ho riflettuto un bel po’ su questo aspetto e una cosa che mi colpisce è il fatto che il conservatorismo americano di questi giorni sembra riguardare in considerevole misura la difesa e la promozione del capitalismo patrimoniale, sebbene non siamo ancora a quel punto.
Si torni a riflettere sulla Amministrazione Bush, il cui tema economico principale era la “società dei proprietari”: in effetti, il messaggio era che non si è pienamente americani, a prescindere da quanto si lavori duramente, se non si possiedono un bel po’ di asset. Si pensi al famigerato tweet di Eric Cantor nel quale approfittava dell’occasione del Giorno del Lavoro per celebrare i proprietari di impresa. Più di recente, Mike Konczal ha sottolineato come nonostante le pretese secondo le quali il Tea Party rappresenterebbe una ribellione contro il dominio degli affari all’interno del Partito Repubblicano, l’agenda del Tea Party corrisponda quasi perfettamente agli obbiettivi di Wall Street.
Senza dimenticare, infine, la lunga crociata contro la tassazione dei passaggi ereditari.
In poche parole, il Partito Repubblicano è sempre di più un partito che con costanza, in pratica con una specie di automatismo, sostiene gli interessi del capitale su quelli del lavoro. Ma perchè?
Ebbene, una cosa che si può ipotizzare è che il Partito abbia risposto ad un mutamento nella società – non sono sempre di più gli americani che possiedono asset, ad esempio attraverso fondi pensione?
E la risposta è no. Di fatto, la concentrazione del capitale in poche mani è cresciuta bruscamente. Rimpiattati in fondo al rapporto del Congressional Budget Office sulle tendenze della distribuzione del reddito negli Stati Uniti, ci sono i dati sulla concentrazione dei vari tipi di reddito; ecco qua la quota del reddito da capitale dell’uno per cento dei più ricchi [2]:
Dunque, quello che stiamo osservando è che in questo momento metà dello schieramento politico è più in armonia col capitale che col lavoro, in un momento nel quale il reddito da capitale sta crescendo, sempre più concentrandosi in poche mani – ed è sicuramente in procinto di essere ampiamente concentrato nelle mani delle persone che hanno ereditato la loro ricchezza.
Curioso, non è vero?
[1] Che si tratti di tasso di rendimento degli asset si comprende sulla base del precedente post del 14 marzo 2014 (“Note su Piketty”).
[2] La Tabella mostra come i tre tipi di reddito attribuibili all’1 per cento dei più ricchi ( redditi di impresa, dividendi, guadagni da capitale) si sono evoluti come percentuale del reddito totale.
marzo 21, 2014
Mar 21, 1:39 pm
I referred to this briefly in today’s column, but here’s more.
I just left the Brookings Panel meeting (yes, I’m finally back in the US), which included a paper on Abenomics; the two discussants were me and some guy named Ben Bernanke. Part of my discussion involved an issue I’ve worried about for a long time, which I think I’ve been able to formulate a bit better. Here goes:
If you look at the extensive theoretical literature on the zero lower bound since my 1998 paper, you find that just about all of it treats liquidity-trap conditions as the result of a temporary shock. Something – most obviously, a burst bubble and/or deleveraging after a credit boom – leads to a period of very low demand, so low that even zero interest rates aren’t enough to restore full employment. Eventually, however, the shock will end. So the way out is to convince the public that there has been a regime change, that the central bank will maintain expansionary monetary policy even after the economy recovers, so as to generate high demand and some inflation.
But if we’re talking about Japan, when exactly do we imagine that this period of high demand, when the ZLB is no longer binding, is going to happen? Even in the US, we’re talking seriously about secular stagnation, which means that it could be a very long time before “normal” monetary policy resumes.
Now, even in this case you can get traction if you can credibly promise higher inflation, which reduces real interest rates. But what does it take to credibly promise inflation? Well, it has to involve a strong element of self-fulfilling prophecy: people have to believe in higher inflation, which produces an economic boom, which yields the promised inflation.
But a necessary (not sufficient) condition for this to work is that the promised inflation be high enough that it will indeed produce an economic boom if people believe the promise will be kept. If it isn’t, then the actual rate of inflation will fall short of the promise even if people believe in the promise – which means that they will stop believing after a while, and the whole effort will fail.
Here’s the picture I put up this morning:
On one side we have a hypothetical but I think realistic Phillips curve, in which the rate of inflation depends on output and the relationship gets steep at high levels of utilization. On the other we have an aggregate demand curve that depends positively on expected inflation, because this reduces real interest rates at the zero lower bound. I’ve drawn the picture so that if the central bank announces a 2 percent inflation target, the actual rate of inflation will fall short of 2 percent, even if everyone believes the bank’s promise – which they won’t do for very long.
So you see my problem. Suppose that the economy really needs a 4 percent inflation target, but the central bank says, “That seems kind of radical, so let’s be more cautious and only do 2 percent.” This sounds prudent – but may actually guarantee failure.
Analisi timida (per esperti)
Mi sono brevemente riferito a questo nell’articolo di oggi [1], ma qua presento la versione più ampia.
Ho appena lasciato l’incontro del Brookings Panel [2](sì, sono finalmente di ritorno negli Stati Uniti), che includeva una relazione sulla politica economica di Shinzo Abe; i due che la discutevano ero io e un tizio che risponde al nome di Ben Bernanke. Parte del mio intervento riguardava un tema che mi ha occupato a lungo, e che penso di essere stato capace di formulare un po’ meglio. Ecco di cosa si tratta:
Se guardate alla ampia letteratura teorica sul limite inferiore dello zero [3] a partire dal mio saggio del 1998 [4], trovate che essa riguarda quasi per intero le condizioni della trappola di liquidità come conseguenze di uno shock temporaneo. Qualcosa – nei casi più evidenti, lo scoppio di una bolla e/o la riduzione del rapporto di indebitamento dopo un boom creditizio – conduce ad un periodo di domanda molto bassa, così bassa che persino i tassi di interesse a zero non sono sufficienti a ripristinare la piena occupazione. Alla fine, tuttavia, lo shock avrà un termine. Dunque, la via d’uscita è convincere l’opinione pubblica che c’è stato un cambio di regime, che la banca centrale manterrà una politica monetaria espansiva anche dopo che l’economia si sarà ripresa, così da generare elevata domanda ed un po’ di inflazione.
Ma se parliamo del Giappone, dove esattamente possiamo immaginare di collocare questo periodo di elevata domanda, quando il limite inferiore dello zero non più vincolante? Persino negli Stati Uniti, stiamo seriamente parlando di stagnazione secolare [5], il che significa che ci potrebbe essere un periodo molto lungo prima che riprenda una ‘normale’ politica monetaria.
Ora, anche in quel caso si può avere una capacità di trazione dell’economia alla condizione di poter credibilmente promettere una inflazione più elevata, che riduce i tassi di interesse reali. Ma cosa rende credibile questa promessa di inflazione? Ebbene, essa deve riguardare una forte caratteristica di ‘profezia che si autoavvera’: le persone devono credere in una inflazione più elevata, che produca una espansione economica che a sua volta generi quella inflazione promessa.
Ma una condizione necessaria (non sufficiente) perché questo funzioni è che l’inflazione promessa sia abbastanza alta da produrre effettivamente una espansione economica, se le persone credono che essa sarà mantenuta. Se non è così, allora l’effettivo tasso di inflazione non sarà all’altezza della promessa anche se le persone credono in essa – il che significa che dopo un po’ smetteranno di crederci, e tutto lo sforzo sarà stato inutile.
Ecco il diagramma che ho messo su stamattina:
Da una parte abbiamo una ipotetica, ma io credo realistica, curva di Phillips [6], nella quale il tasso di inflazione dipende dal prodotto e la relazione si impenna a livelli elevati di utilizzazione. Dall’altra abbiamo una curva della domanda aggregata che dipende positivamente dalla inflazione attesa, perché questa riduce i tassi di interesse reali al limite inferiore dello zero. Ho tracciato il diagramma in modo tale che se la banca centrale annuncia un obiettivo di inflazione al 2 per cento, il tasso effettivo di inflazione risulterà minore del 2 per cento, anche se tutti credono alla promessa della banca – cosa che non faranno molto a lungo.
Capite il mio problema. Supponiamo che l’economia abbia davvero bisogno di un obbiettivo di inflazione al 4 per cento, ma che la banca centrale dica: “Questo sembra piuttosto radicale, siamo quindi più cauti e fissiamolo soltanto al 2 per cento”. Sembra prudente – ma in verità può essere una garanzia di fallimento.
[1] Vedi l’articolo “La trappola della timidezza” (New York Times, 20 marzo 2014) qua tradotto.
[2] La Fondazione ‘Brookings’ è una importante istituzione americana che opera nel settore delle ricerche sociali, economiche, delle politiche metropolitane, della politica internazionale, dell’economia e dello sviluppo globale. Ha sede a Washington ed è una istituzione indipendente, forse di orientamento ‘centrista-progressista’, ma influente in tutti i settori politici.
[3] Dei tassi di interesse. Vedi le note sulla traduzione.
[4] Si tratta dello stesso saggio di Krugman del 1998 citato nel post precedente.
[5] Vedi la relazione di Larry Summers al Convegno di New York del FMI (tradotta nella sezione ‘Saggi, articoli su riviste etc.’) ed il post di Paul Krugman del 16 novembre 2013 dal titolo “Stagnazione secolare, miniere di carbone, bolle e Larry Summers”).
[6] Economista neozelandese deceduto nel 1975. Per una spiegazione della “curva di Phillips” vedi le note sulla traduzione.
marzo 19, 2014
Mar 19, 5:09 pm
Brad DeLong and Josh Bivens send us to a House hearing on monetary policy, in which three conservatives explain why it was totally forgivable for everyone on their side to predict runaway inflation from the Fed’s expansion of the monetary base, and why the failure of that inflation to appear says nothing at all about possible flaws in their approach.
It’s actually kind of amazing. In the exchange Brad highlights, Marvin Goodfriend says, how could you expect anyone to predict that reserves would just pile up and not be lent out — nothing like that had happened since the 1930s. And Larry White then adds that it was all sterilized because the Fed paid a whopping 0.25 percent interest rate on reserves.
Gosh. We had just had the worst financial crisis since, um, the 1930s. Why would anyone possibly think that 30s experience was relevant? I’m thinking, I’m thinking.
And you know, that experience — and specifically the collapse of the money multiplier when you hit the zero lower bound — had been extensively discussed in this 1998 paper (pdf). The author even included a figure showing what happened:
Furthermore, it just wasn’t true that nothing like that had happened since the 1930s. Exactly the same thing had happened in Japan, and the big expansion of the Japanese monetary base in the early 2000s had exactly the same effect:
Meanwhile, if you really believe that 25 basis points of interest on reserves is enough to sterilize $3 trillion of monetary base, you shouldn’t be worried at all about the inflationary effects of Fed policy, should you? After all, this makes them look very easy to contain.
But of course it wasn’t the interest on reserves, as both the 30s case and Japan show.
What gets me here is the complete unwillingness to accept the reality test. Here you have monetary economists who made a totally wrong prediction, at a time when other people were not only getting it right, but explaining carefully both the theoretical and the empirical basis for their prediction. Yet the reaction of those who wrongly predicted runaway inflation is to assert that (a) nobody could have predicted (even though some us did) and (b) it’s just special circumstances. The possibility of conceding that their model was wrong never seems to cross their minds.
Nessuno l’avrebbe potuto prevedere, versione monetaria
Brad DeLong e Josh Bivens ci indirizzano ad una audizione della Camera sulla politica monetaria, nella quale tre conservatori spiegano perché fu del tutto comprensibile che alcuni della loro parte avessero previsto una inflazione fuori controllo a seguito della espansione da parte della Fed della base monetaria, e perché il non avverarsi di tale inflazione non ci dica proprio niente sulle pecche nel loro approccio.
Sono in effetti cose sorprendenti. Nello scambio che Brad mette in evidenza, Marvin Goodfriend si chiede come ci si sarebbe potuti aspettare che qualcuno prevedesse che le riserve fossero solo accumulate e non date in prestito – niente del genere era successo dagli anni ’30. E Larry White poi aggiunge che tutto era stato sterilizzato perché la Fed pagava una tasso di interesse bestiale dello 0,25 per cento sulle riserve.
Perbacco! Abbiamo appena avuto la peggiore crisi finanziaria, diciamo, dagli anni Trenta. Perché qualcuno avrebbe dovuto pensare che quella esperienza degli anni ’30 fosse stata rilevante? Ci sto pensando, ci sto pensando …
E sapete, quella esperienza – e precisamente il collasso del moltiplicatore monetario quando si tocca il limite inferiore dello zero [1] – è stato ampiamente discusso in questo studio del 1998 (disponibile in pdf) [2]. L’autore incluse persino un diagramma che mostrava quello che era accaduto [3]:
Inoltre, non era proprio vero che niente del genere fosse successo dagli anni Trenta. Era successa esattamente la stessa cosa in Giappone, e la grande espansione della base monetaria agli inizi del 2000 aveva avuto esattamente lo stesso effetto:
Per non dire che se davvero credete che 25 punti base di interesse sulle riserve siano sufficienti a sterilizzare 3 mila miliardi di dollari di base monetaria, non dovreste affatto essere preoccupati degli effetti inflazionistici della politica della Fed, non è così? Dopotutto, questo li fa apparire molto facili da contenere.
Ma naturalmente non si trattava degli interessi sulle riserve, come sia il caso degli anni ’30 che quello del Giappone dimostrano.
Quello che qua mi colpisce è la completa mancanza di volontà di accettare il test di verità. Abbiamo in questo caso economisti monetari che fecero una previsione completamente sbagliata, in un periodo nel quale altre persone non solo non la consideravano giusta, ma spiegavano scrupolosamente le basi sia teoriche che empiriche per le loro previsioni. Tuttavia la reazione di coloro che avevano fatto previsioni sbagliate su una inflazione fuori controllo è asserire che: a) nessuno l’avrebbe potuto prevedere (anche se alcuni di noi lo fecero) e (b) si trattò solo di circostanze particolari. La possibilità di ammettere che il loro modello fosse sbagliato non sembra mai essere transitata dalle loro teste.
[1] Sui tassi di interesse, vedi Note sulla Traduzione.
[2] Il riferimento è ad uno studio di Krugman dal titolo: “Sta ritornando! La crisi del Giappone e il ritorno della trappola di liquidità”.
[3] Il confronto mostra come anche negli anni Trenta non vi fosse stata alcuna corrispondenza tra l’andamento della base monetaria (linea continua)– che indica, oltre alla moneta legale (banconote e monete metalliche che debbono essere accettate per legge come pagamenti, e le attività finanziarie convertibili in moneta legale rapidamente e senza costi, costituite da passività della banca centrale verso le banche (e, in certi paesi, anche verso altri soggetti) – e l’aggregato finanziario definito M2 (linea tratteggiata), che indica, oltre alla cosiddetta liquidità primaria (banconote e monete in circolazione ed i depositi di conti correnti trasferibili a vista tramite assegni, ma non le banconote e le monete depositate e dunque non in circolazione); anche la liquidità secondaria, ovvero anche tutte le altre attività finanziarie con elevata liquidità e certezza futura di valore (depositi bancari e di altro tipo). In pratica, la prima è la base monetaria virtualmente esistente, la seconda la base monetaria effettivamente utilizzata.
marzo 18, 2014
March 18, 2014, 4:15 pm
A few more thoughts on Nate Silver and his attempt to be a fox among hedgehogs.
First, a personal note: As an economist, I’m actually much more a fox than a hedgehog. In my home field of international economics, the great majority of researchers are either “real trade” people — using microeconomic models to understand international specialization and trade — or “international finance” types — using macroeconomic models to understand currency movements and the balance of payments. Only a relative handful of people straddle that divide; as someone who right from the beginning of my career was writing both about increasing returns and about currency crises, about economic geography and exchange rate regimes, I was pretty unusual. When I branched out into straight macro with my work on the liquidity trap, that was another foxlike move. And turning to income inequality as an issue was yet more of that.
Have I, in all of this, allowed the data to move my views? Very much so. I was initially very critical of the idea of self-fulfilling currency crises, but changed my mind after watching the Asian crisis unfold. I didn’t believe in the liquidity trap, in the possibility of a sustained shortfall in demand that couldn’t easily be solved with monetary policy, until Japan forced me to reexamine my model. I used to worry much more than I do now about the possibility of fiscal crisis induced by loss of confidence, even in countries that borrow in their own currency, but was persuaded by experience to rethink that view and reconsider my model.
It’s true that I haven’t changed my views on macroeconomics very much in the face of experience since 2008 — although I did mark down my views about the risks of outright deflation. But the reason I’ve pretty much stayed with the macro framework I already had in 2008 was the fact that the framework, you know, has worked — I made predictions about interest rates and inflation that were very much at odds with what a lot of people were saying, and I was right.
And right there you have an important lesson about what it means to take data into account. It very much does not mean changing your views all the time — if you have a model of how the world works, and the model is working, stability in what you say reflects respect for the data, not inflexibility. If I have spent the past 5+ years insisting, over and over again, that in a liquidity trap budget deficits don’t crowd out private spending and expanding the Fed’s balance sheet doesn’t cause inflation, that’s because they don’t. And if I return to those points many times, it’s because too much of the world still doesn’t get it.
Now, about FiveThirtyEight: I hope that Nate Silver understands what it actually means to be a fox. The fox, according to Archilocus, knows many things. But he does know these things — he doesn’t approach each topic as a blank slate, or imagine that there are general-purpose data-analysis tools that absolve him from any need to understand the particular subject he’s tackling. Even the most basic question — where are the data I need? — often takes a fair bit of expertise; I know my way around macro data and some (but not all) trade data, but I turn to real experts for guidance on health data, labor market data, and more.
What would be really bad is if this turns into a Freakonomics-type exercise, all contrarianism without any appreciation for the importance of actual expertise. And Michael Mann reminds me that Nate’s book already had some disturbing tendencies in that direction.
Ulteriori pensieri su ricci e volpi [1]
Qualche altro pensiero su Nate Silver e sul suo tentativo di essere una volpe in mezzo ai ricci.
Prima un nota personale: come economista, io sono effettivamente più una volpe che un riccio. Nel mio campo dell’economia internazionale, la grande maggioranza dei ricercatori sono o del genere del “commercio reale” – che utilizzano modelli microeconomici per capire la specializzazione ed il commercio internazionale – o del genere della “finanza internazionale” – che usano modelli macroeconomici per capire i movimenti valutari e la bilancia del pagamenti. Solo una manciata di persone stanno a cavallo di quella linea divisoria; da individuo che proprio agli inizi della propria carriera scriveva sia sui rendimenti crescenti che sulle crisi valutarie, sulla geografia economica e sui regimi dei tassi di cambio, ero abbastanza inconsueto. Quando mi allargai alla macroeconomia vera e propria con il mio lavoro sulla trappola di liquidità, quello era un’altra mossa da volpe. E spostandomi alla ineguaglianza dei redditi, come tematica era ancora ulteriormente diversa.
In tutto questo, ho consentito che i dati modificassero i miei punti di vista? Molto. Inizialmente ero molto critico con l’idea di crisi valutarie che si auto-avverano, ma cambiai la mia opinione dopo aver visto lo svolgimento della crisi asiatica. Non credevo nella trappola di liquidità, nella possibilità di una prolungata caduta nella domanda che non potesse essere facilmente risolta con la politica monetaria, finché il Giappone non mi costrinse a rivedere il mio modello. Ero di solito molto più preoccupato di ora sulla possibilità di crisi finanziarie indotte dalla perdita di fiducia, anche in paesi che si indebitano nella propria valuta, ma sono stato persuaso dall’esperienza a ripensare quel punto di vista ed a riconsiderare il mio modello.
E’ vero che, a fronte dell’esperienza, a partire dal 2008 non ho modificato di molto i miei punti di vista – sebbene abbia molto attenuato le mie valutazioni sui rischi di una aperta deflazione. Ma la ragione per la quale non mi sono mosso granché dal modello macroeconomico che avevo già nel 2008, come sapete, è che quello schema ha funzionato – feci previsioni sui tassi di interesse e sull’inflazione che erano del tutto opposte a quello che molte persone venivano dicendo, ed avevo ragione io.
E proprio lì c’è una importante lezione su quello che significhi mettere in conto le statistiche. Non significa affatto cambiare i propri punti di vista ogni volta – se si ha un modello di come il mondo funziona, restare stabili in quello che si dice è una manifestazione del rispetto delle statistiche, non della mancanza di flessibilità. Se ho speso i cinque anni passati e più nel sostenere, in continuazione, che in una trappola di liquidità i deficit di bilancio non ‘spiazzano’ la spesa privata e l’espansione degli equilibri patrimoniali della Fed non provoca inflazione, dipende dal fatto che è così. E se ritorno su quei concetti molte volte, è perché una parte troppo grande del mondo ancora non li afferra.
A questo punto, a proposito di FiveThirtyEight: io spero che Silver capisca quello che effettivamente significhi essere una volpe. La volpe, secondo Archiloco [2], conosce molte cose. Ma conosce per davvero tali cose – non affronta ciascun tema come una pagina ancora da scrivere, o non immagina che ci siano strumenti di analisi dei dati buoni per tutti gli usi che esimano dal comprendere l’oggetto particolare con il quale ci si sta misurando. Anche la questione più fondamentale – dove sono i dati di cui ho bisogno? – spesso richiede una discreta dose di esperienza; io mi oriento sui dati della macroeconomia e su una parte (ma non su tutti) i dati del commercio, ma mi rivolgo ad esperti veri per essere indirizzato sulle statistiche sanitarie, su quelle sul mercato del lavoro e su altre.
Quello che sarebbe davvero negativo è se questo si trasformasse in un esercizio del genere di una economia da individui stravaganti, una ostinata controtendenza su tutto, senza alcun apprezzamento sulla importanza di una esperienza effettiva. E Michael Mann mi rammenta che il libro di Nate già aveva fastidiose tendenze in quella direzione.
[1] Si riprende il tema del post del 18 marzo, h. 7,55. Essere una volpe anziché un riccio era un concetto espresso da Nate Silver, per esprimere lo stile cui voleva improntare il nuovo blog FiveThirtyEight, attorno al quale c’era molta attesa. Mi pare che intendesse che la volpe è un animale eclettico, che si occupa di tante cose, mentre il riccio è un soggetto che si specializza in poche cose, un po’ pedante. Non saprei dire se sia una differenza accertata in zoologia, anche se è vero che i ricci sono un po’ lenti.
[2] Tra gli scarsi frammenti di questo poeta lirico greco (nato nel 680 a.C) è rimasta una favola sulla volpe.
marzo 18, 2014
Mar 18, 7:55 am
The new FiveThirtyEight is up, and Tyler Cowen is not impressed. I’m sorry to say that I had the same reaction. Here’s hoping that Nate Silver and company up their game, soon.
What worries me, based on what we’ve seen so far — which isn’t much, but shouldn’t the site have debuted with a bang? — is that it looks as if the Silverites have misunderstood their mission.
Nate’s manifesto proclaims his intention to be a fox, who knows many things, rather than a hedgehog, who knows just one big thing; i.e., a pundit who repeats the same assertions in every column. I’m fine with that.
But you can’t be an effective fox just by letting the data speak for itself — because it never does. You use data to inform your analysis, you let it tell you that your pet hypothesis is wrong, but data are never a substitute for hard thinking. If you think the data are speaking for themselves, what you’re really doing is implicit theorizing, which is a really bad idea (because you can’t test your assumptions if you don’t even know what you’re assuming.)
I feel bad about picking on a young staffer, but I think this piece on corporate cash hoards — which is the site’s inaugural economic analysis — is a good example. The post tells us that the much-cited $2 trillion corporate cash hoard has been revised down by half a trillion dollars. That’s kind of interesting, I guess, although it’s striking that the post offers neither a link to the data nor a summary table of pre- and post-revision numbers; I’m supposed to know my way around these numbers, and I can’t figure out exactly which series they’re referring to. (Use FRED!)
More to the point, however, what does this downward revision tell us? We’re told that the “whole narrative” is gone; which narrative? Is the notion that profits are high, but investment remains low, no longer borne out by the data? (I’m pretty sure it’s still true.) What is the model that has been refuted?
“Neener neener, people have been citing a number that was wrong” is just not helpful. Tell me something meaningful! Tell me why the data matter!
Il Sergente Friday [1] non è stato una volpe
E’ uscito il nuovo FiveThirtyEight [2], e Tyler Cowen non ne è rimasto colpito. Mi dispiace dirlo, ma neppure io. Di qua la speranza che Nate Silver e i suoi colleghi migliorino alla svelta le loro prestazioni.
Quello che mi preoccupa, basandomi su quello che ho visto sino a questo punto – che non è molto, ma il sito non avrebbe dovuto debuttare con un gran colpo? – è che sembra come se i “Silveriti” [3] abbiano frainteso la loro missione.
Il manifesto di Nate afferma la sua intenzione di essere una volpe, uno che sa molte cose, piuttosto che essere un riccio, ovvero uno che sa solo una cosa importante; ad esempio, un commentatore che ripete gli stessi giudizi in ogni articolo. Questo lo condivido.
Ma non si può essere una volpe efficiente solo lasciando che i dati parlino per se stessi – perché non succede mai. Si usano i dati per improntare la propria analisi, si fa in modo che essi vi dicano se la vostra ipotesi prediletta sia sbagliata, ma i dati non sostituiscono mai il pensiero profondo. Se pensate che i dati parlino da soli, quello che state davvero facendo è una teorizzazione implicita, e quella è proprio un pessima idea (perché non potete verificare i vostri assunti, se non sapete nemmeno cosa state assumendo).
Mi dispiace prendermela con un giovane redattore, ma penso che questo articolo sulle riserve di contante delle grandi imprese – che è l’analisi economica inaugurale del sito – sia un buon esempio. Il post ci racconta che la molto citata riserva delle imprese per 2.000 miliardi di dollari è stata diminuita di mezzo miliardo di dollari. E’ un genere di notizia interessante, suppongo, sebbene sia sorprendente che il post non offra né una connessione per quel dato, né una tabella sintetica dei numeri prima e dopo la revisione; si pensa che io sappia come muovermi tra questi numeri, eppure non posso immaginare esattamente a cosa si stanno riferendo (usate i dati della Federal Reserve Economic Data !)
Tuttavia, venendo al punto, che cosa ci dice questa revisione verso il basso? Ci viene detto che l’ ‘intero racconto’ è diventato inutilizzabile; quale racconto? Si tratta dell’idea che i profitti siano alti, ma gli investimenti restino bassi, che non sarebbe più confermata dai dati (io sono abbastanza certo che sia ancora vera)? Qual è il modello che sarebbe stato confutato?
Dire: “E’ tutto da ridere, le persone stanno utilizzando un dato sbagliato!”, non aiuta. Raccontami qualcosa di comprensibile! Dimmi perché i dati sono importanti!
[1] Il Sergente Friday era un personaggio di una serie radiofonica e televisiva degli anni ’50 e ’60. Una sua espressione famosa era “Il mio nome è Friday e porto il distintivo”. Non saprei dire il nesso tra il sergente e l’iniziativa di un nuovo blog della quale si parla nel post. A meno che non sia una ironia sullo strano titolo del nuovo blog (538), che potrebbe avere una analogia con il fatto che anche il distintivo di Friday aveva un numero caratteristico (ma il suo distintivo era il numero 714).
[2] E’ il nome di un nuovo blog.
Nate Silver è americano e ha 36 anni. Lunedì 17 marzo ha riaperto ufficialmente il suo sito di notizie: si chiama FiveThirtyEight, all’inizio era il suo blog personale, poi fu comprato e ospitato per tre anni dal sito del New York Times, adesso è stato rilanciato e molto allargato da ESPN. FiveThirtyEight si occupa di notizie di vario tipo, ma affrontate sempre attraverso analisi di dati e previsioni statistiche: ed era probabilmente il più atteso e discusso tra i nuovi siti di news internazionali che stanno nascendo e nasceranno nei prossimi mesi. (da “Il Post”)
[3] In questo caso “Silveriti” dovrebbero essere i collaboratori di Silver, ovviamente. Ma erano Silveriti (diciamo, ‘seguaci della moneta d’argento’) anche i componenti di un movimento politico che negli Stati Uniti della fine del diciannovesimo secolo sostenevano che l’argento (“silver”) doveva costituire base monetaria come l’oro. Volevano che si coniasse liberamente l’argento, pensando che abbassare il ‘gold standard’ ad un ‘silver standard’ – o almeno ad una combinazione – avrebbe aumentato l’offerta di denaro e contrastato le deflazione che era in atto e penalizzava soprattutto le attività agricole. C’erano ‘silveriti’ in molti gruppi e partiti (il ‘Silver Party’, il ‘Populist Party’, il Partito Democratico e quello Repubblicano). Il principale candidato ‘silverita’ alle elezioni presidenziali fu William Jennings Bryan, che però le perse. Restò comunque famoso per la famosa accusa, rivolta ai suoi rivali, di voler ‘impiccare il popolo americano ad una croce d’oro’.
marzo 16, 2014
March 16, 2014, 11:37 am
Canon to right of me, canon to left of me — actually, scratch that, it’s all canon to right of me.
Noah Smith writes about what he calls the “finance macro canon.” It’s mainly the view that money-printing and deficits lead inexorably to runaway inflation, plus assorted other arguments about why easy money is a terrible thing even in a depressed economy.
And Noah is right — it’s still a view that is dominant on much of Wall Street. I’ve had several recent conversations with finance-industry people — including traders — who talk with some wonderment about the failure of high inflation and a plunging dollar to materialize, because “all the experts” told them to expect that outcome. When I found myself on CNBC with Joe Kernan, he described me as a “unicorn” — he couldn’t believe that there was anyone out there who didn’t believe that deficits and QE were going to lead to rapid doom.
Now, it’s interesting to note that the really smart Wall Street money doesn’t buy into this canon. Jan Hatzius and the rest of the economics group at Goldman have an underlying macroeconomic framework pretty much indistinguishable from mine, and have consistently talked down the risks from easy money and deficits. But the great Armani-suited unwashed apparently don’t know that; they think that “everyone” shares their springtime-for-Weimar vision.
What makes this even more peculiar is the way the canon continues to dominate despite having failed the reality test in the most dramatic way possible. Here’s the budget deficit as a percent of GDP (red line) and the rate of growth of the monetary base (currency plus bank reserves; blue line) in recent years:
Both exploded to unprecedented levels — yet inflation went nowhere, and is in fact running below the Fed’s target.
So how can this disastrous a failure of the canon’s predictions have failed to make a debt in its dominance — especially when us unicorns were predicting exactly this result?
Actually, an aside on prediction failures: there are failures, and then there are failures. Some people seem to think that something like Spain’s slight recovery this year — the best estimates now are that it may grow 1.5 percent — are as big a failure for the critics of austerity as the kind of thing I show above is a failure of the finance canon. But lots of stuff can cause the economy to grow a percentage point or two more or less than your forecast. On the other hand, if you believe that prices should move in proportion to the monetary base, there’s simply no way to rationalize triple-digit money growth associated with 2 percent or less inflation.
Anyway, what lies behind the canon’s continuing hold?
Class interest arguably explains the policy demands: tight money is what rentiers always want. But most of the consumers of this bad analysis are trying to make money, not influence policy, so what’s in it for them?
Noah suggests that it’s the need for the illusion of knowledge; but this in itself doesn’t explain why goldbug cranks should dominate so completely. Why haven’t the kind of people who listened to Peter Hyperinflation-by-2010 Schiff switched to, say, Warren Mosler?
It has to be in some sense political; the canon appeals to certain kinds of prejudices, in particular the prejudices of angry old white men with money to invest. But it remains amazing how little those prejudices have been dented by their failure to meet the most decisive real-world test you could imagine.
La carica della Brigata della destra
Regole alla mia destra, regole alla mia sinistra – in verità, gratta gratta, è tutta una regola alla mia destra.
Noah Smith scrive su quella che definisce “la regola macro della finanza”. Si tratta principalmente del punto di vista secondo il quale lo stampare moneta ed i deficit portano inesorabilmente all’inflazione, con l’aggiunta di altri argomenti assortiti sul perché la moneta facile sia una cosa terribile anche in una economia depressa.
E Noah ha ragione – esso è ancora un punto di vista dominante in gran parte di Wall Street. Ho avuto alcune recenti conversazioni con alcune persone del settore finanziario – inclusi operatori – che parlano con qualche meraviglia del fatto che non si siano materializzate una elevata inflazione ed un crollo del dollaro, perché “tutti gli esperti” avevano detto loro di aspettarsi un esito del genere. Quando mi ritrovai alla CNBC con Joe Kernan, egli mi descrisse come un “unicorno” – egli non poteva ammettere che ci fosse qualcuno in circolazione che non aveva creduto che i deficit e la “Facilitazione Quantitativa” non stessero portando ad un rapido disastro.
Ora, è interessante notare che gli uomini potenti veramente intelligenti di Wall Street non abboccano a questa regola. Jan Hatzius e gli altri della squadra di economisti della Goldman hanno uno schema macroeconomico di base in gran parte indistinguibile dal mio, ed hanno continuamente trattato con sufficienza i rischi della moneta facile e dei deficit. Ma a quanto pare la folla di tutti coloro che vestono Armani non lo sa; essi pensano che “tutti” condividano la loro visione sull’avvento di una situazione come quella di Weimar.
Quello che rende tutto questo anche più peculiare è il modo in cui la regola continua a imperversare, nonostante che sia venuta meno alla prova dei fatti nel modo più spettacolare possibile. Ecco il deficit di bilancio come percentuale del PIL (linea rossa) ed il tasso di crescita della base monetaria (contante più riserve bancarie; linea blu) negli anni recenti:
Sono entrambi esplosi a livelli senza precedenti . tuttavia l’inflazione non è andata da nessuna parte, e di fatto sta procedendo al di sotto dell’obbiettivo della Fed.
Dunque, come può un tale disastroso fallimento delle previsioni canoniche non essere riuscito a mettere il debito sotto la sua influenza – specialmente quando noi unicorni avevamo previsto esattamente questo risultato?
Occorre effettivamente una digressione sui fallimenti: c’è fallimento e fallimento. Alcune persone sembrano pensare che qualcosa come la leggera ripresa della Spagna di quest’anno – le stime migliori ora dicono che essa potrebbe crescere dell’1,5 per cento – sia un fallimento per i critici dell’austerità altrettanto grande del genere di situazione, relativa al disastro della regola della finanza, che ho sopra mostrato. Ma un sacco di cose possono spingere l’economia a crescere di un punto percentuale o due in più o in meno delle vostre previsioni. D’altra parte, se credete che i prezzi debbano muoversi in proporzione alla base monetaria, semplicemente non c’è alcun modo di concepire una crescita della moneta a tre cifre associata con una inflazione al due per cento o meno ancora.
In ogni caso, cosa sta dietro la perdurante capacità di reggere delle regole?
Interessi di classe probabilmente spiegano le richieste politiche: una restrizione monetaria è quello che i redditieri vogliono sempre. Ma la maggioranza di coloro che si abbeverano a questa pessima analisi stanno cercando di far soldi, non di guadagnare influenza politica, dunque cosa c’è in ballo per loro?
Noah suggerisce che si tratti del bisogno di una illusione di conoscenza; ma in se stesso questo non spiega perché gli stravaganti fanatici dell’oro dovrebbero avere un dominio così completo. Perché il genere di persone che ascoltavano la storia della “iperinflazione-entro-il-2010” di Peter Schiff non sono passati, diciamo, ad ascoltare Warren Mosler? [1]
In qualche senso la spiegazione deve essere politica: la “regola” fa appello ad un certo genere di pregiudizi di anziani uomini bianchi con soldi da investire. Ma resta sorprendente quanto poco questi pregiudizi siano stati scalfiti dalla loro incapacità a fare i conti con il più decisivo test del mondo reale che si possa immaginare.
[1] Schiff e Mosler sono qua indicati come due rilevanti figure del capitalismo americano – ma in un certo senso anche due commentatori economici di una certa autorevolezza – con caratteristiche opposte.
Il primo – che oltre ad essere un commentatore finanziario è anche un operatore finanziario potente – è l’antesignano repubblicano di una lettura economica conservatrice, ed aveva completamente aderito ad una concezione per la quale le politiche monetarie e della finanza pubblica contro la crisi avrebbero portato ad una “iperinflazione”.
Il secondo – Presidente della società automobilistica Mosler, ma anche autore di spicco della Teoria Monetaria Moderna, e dunque sostenitore di una concezione opposta sul ruolo della politica monetaria, nonché ispiratore di una vasta attività di promozione delle ricerca economica a livello universitario – può essere considerato come espressione del punto di vista opposto. Peraltro, egli ha pubblicato i libro “Le sette innocenti frodi capitali della politica economica”, con una prefazione di James Kenneth Galbraith.
marzo 16, 2014
Mar 16, 10:41 am
I was pleased to see this article by Annie Lowrey documenting the growing disparity in life expectancy between the haves and the have-nots. It’s kind of frustrating, however, that this is apparently coming as news not just to many readers but to many policymakers and pundits. Many of us have been trying for years to get this point across — to point out that when people call for raising the Social Security and Medicare ages, they’re basically saying that janitors must keep working because corporate lawyers are living longer. Yet it never seems to sink in.
Maybe this article will change that. But my guess is that in a week or two we will once again hear a supposed wise man saying that we need to raise the retirement age to 67 because of higher life expectancy, unaware that (a) life expectancy hasn’t risen much for half of workers (b) we’ve already raised the retirement age to 67.
Non prosperare e morire precocemente
Mi ha fatto piacere di leggere questo articolo a cura di Annie Lowrey che documenta le disparità nell’aspettativa di vita tra gli abbienti e i non abbienti. E’ una sorta di frustrazione tuttavia, che queste siano in apparenza novità non solo per molti lettori, ma anche per molti uomini politici e commentatori. Molti di noi hanno provato per anni a sostenere questo argomento – per mostrare come, quando le persone si pronunciano per un elevamento dell’età per la Sicurezza Sociale e per Medicare, fondamentalmente è come se dicessero che i portieri devono continuare a lavorare perché i legali delle imprese stanno vivendo più a lungo. Pare tuttavia che non si sia mai compresi.
Forse con quest’articolo le cose cambieranno. Ma la mia impressione è che tra una settimana o due ancora una volta sentiremo un uomo saggio affermare che abbiamo bisogno di elevare a 67 anni l’età di pensionamento a causa di una aspettativa di vita più elevata, senza sapere che: a) l’aspettativa di vita non è cresciuta molto per la metà dei lavoratori; b) abbiamo già aumentato l’età di pensionamento a 67 anni.
marzo 16, 2014
Mar 16, 10:30 am
For reference: Here are changes in hourly real wages of men, 1973-2012, at different percentiles of the wage distribution, calculated from Census data by the Economic Policy Institute. As you can see, wages have fallen for 60 percent of men.
Economic Policy Institute
I was curious to see how the House Budget Committee report on poverty deals with this fact, which surely plays some role in the persistence of poverty despite government efforts. The answer is, it never so much as mentions falling real wages.
I salari degli uomini
Per memoria: ci sono cambiamenti nei salari reali degli uomini, tra il 1973 ed il 2012, ai diversi percentili della distribuzione dei salari, secondo i dati del Censimento a cura dell’Economic Policy Institute. Come potete vedere, i salari sono scesi per il 60 per cento degli uomini:
Economic Policy Institute
Sono curioso di vedere come il rapporto sulla povertà della Commissione Bilancio della Camera fa i conti con questo fatto, che sicuramente gioca un qualche ruolo nella persistenza della povertà a dispetto degli sforzi del Governo. La risposta è: neanche al punto di ricordare la caduta dei salari reali.