Mar 14, 7:56 am
Atif Mian and Amir Sufi, our leading experts on the macroeconomic effects of private debt, have a new blog — and it has instantly become must reading. Their latest post is about China, which is looking a whole lot like an overleveraged economy at great risk of a Minsky moment. The key figure is this one:
In the middle years of the last decade, China was able to sustain growth despite weak consumer spending thanks to massive and growing trade surpluses. But as the surplus eroded, it turned to sustaining extremely high and probably low-return investment via credit expansion — and now debt levels are looking scary.
We used to worry about America experiencing a China syndrome; but maybe we now need to worry about China experiencing an America syndrome.
Preoccupazioni sul debito cinese
Atif Mian e Amir Sufi, i nostri principali esperti degli effetti macroeconomici dei debiti privati, hanno un nuovo blog, ed è diventato all’istante una lettura obbligata. Il loro ultimo post è sulla Cina, che assomiglia parecchio ad una economia sovra indebitata a gran rischio di un ‘momento Minsky’ [1]. La tabella fondamentale è la seguente [2]:
Alle metà del decennio passato, la Cina era capace di sostenere la crescita nonostante una debole spesa per consumi grazie a massicci e crescenti surplus commerciali. Ma come i surplus si sono erosi, essa si è spostata verso un sostegno assai elevato e probabilmente caratterizzato da bassi rendimenti degli investimenti attraverso la espansione del credito – e adesso i livelli del debito appaiono allarmanti.
Eravamo soliti preoccuparci della possibilità che l’America sperimentasse una sindrome cinese; ma forse ora dobbiamo preoccuparci che la Cina sperimenti una sindrome americana.
[1] Hyman Minsky è stato un famoso economista americano (seppure non sufficientemente famoso), interprete di Keynes ed analista delle crisi finanziarie del capitalismo moderno. Per “momento Minsky” si intende esattamente la tendenza ad una accrescimento del rapporto di indebitamento (“Leverage”) sino allo scoppio delle bolle finanziarie.
[2] La linea continua si riferisce al credito nazionale verso il settore privato; la linea tratteggiata al rapporto tra conto corrente e PIL.
marzo 14, 2014
March 14, 2014, 7:47 am
I’m working on a long-form review (for the New York Review of Books) of Thomas Piketty’s epic Capital in the 21st Century; I don’t want to steal my own thunder, so a broader reaction will have to wait. But for my own edification I wanted to write up a clarification of a couple of technical points.
Piketty’s big idea is that we are in the early stages of returning to a society dominated by great dynastic fortunes, by inherited wealth. And he has an analytic argument to back up that idea. I wonder, however, how many readers will fully appreciate either the strengths of the weaknesses of that argument.
To get at what is going on in his book, I think it’s useful to do it in the reverse order from his own presentation, first laying out a necessary condition for dynastic dominance, then asking what macroeconomic forces determine whether this condition is met.
So: Imagine a wealthy family that has managed, somehow or other, to guarantee that a large fraction of its income is used to accumulate more wealth. Can this family thereby acquire a dominant position in society?
The answer depends on the relationship between r, the rate of return on assets, and g, the overall rate of economic growth. If r is less than g, dynasties are doomed to erode: even if all income from a very large fortune is devoted to accumulation, the family’s wealth will grow more slowly than the economy, and it will slowly slide into obscurity. But if r is greater than g, dynastic wealth can indeed grow to gigantic size.
So what determines r-g? Piketty stresses the effects of changes in economic growth. I find this easiest to see in terms of a standard Solow model. In the figure below, we assume that s is the aggregate rate of saving; that technological change is labor-augmenting, so that it can be thought of as increasing the number of effective workers faster than the number of actual workers; and that there is an aggregate production function Q/L = f(K/L) where Q/L is output per effective worker and K/L is capital per effective worker. The familiar diagram then looks like this:
Over time, the economy converges to steady-state growth at the rate n, which is the sum of labor force growth and technological progress, and the capital-output ratio converges to s/n.
As the figure shows, a decline in n will lead to a rise in the capital-output ratio and a fall in both r and g. Which falls more? Well, it depends on what happens to the capital share in output, which in turn depends on the elasticity of substitution between capital and labor.
I find this easiest to think of in terms of a numerical example. Let’s assume that s = .09 and initially n = .03. Then the capital-output ratio is 3; if the capital share is .3, r=.10. Now let n and hence steady-state g fall to .015. K/Q rises to 6. If the capital share doesn’t change, r falls to .05 – that is, it falls in proportion to growth. If the elasticity of substitution is less than 1, the higher ratio of capital to effective labor means a fall in the capital share, so the return on capital falls more than the growth rate. However, Piketty asserts that the elasticity of substitution is more than 1, so that the capital share rises, and r falls less than g.
And then Piketty tells us something remarkable: historically, r has almost always exceeded g – but there was an exceptional period in the 20th century, a period of rapid labor force growth and technological progress, when r was less than g. And he asserts that the kind of society we consider normal, in which high incomes reflect personal achievement rather than inherited wealth, is in fact an aberration driven by this exceptional period.
It’s a remarkable, sweeping vision. A couple of questions:
1. How much of the decline in r relative to g in the 20th century reflected fast growth, and how much reflected policies that either taxed or in effect confiscated inherited wealth? In other words, how much was destiny, how much wars and political upheaval? Piketty stresses both factors, but never gives us a relative quantitative assessment.
2. How relevant is this story to what has happened so far? In the United States, as Piketty himself stresses, soaring inequality has to date been largely been driven by labor income – by “supermanagers” (I prefer superexecutives.)
Much more when I deliver the whole thing.
Note su Piketty (per esperti)
Sto lavorando ad una estesa recensione (per la New York Review of Books) del formidabile “Capitale nel 21° Secolo” di Thomas Piketty; non voglio rubarmi la scena, dunque per un commento più ampio occorrerà attendere. Ma per mia soddisfazione personale volevo annotare una chiarimento di un paio di aspetti tecnici.
La grande idea di Picketty è che noi siamo ai primi stadi di un ritorno ad una società dominata dalle grandi fortune dinastiche, dai ricchi eredi. E per sostenere questa idea, avanza un argomento analitico. Mi chiedo, tuttavia, se molti lettori comprenderanno sia i punti di forza che di debolezza di quell’argomento.
Per arrivare allo sviluppo di quella tesi nel libro, penso sia utile farlo in ordine inverso rispetto alla sua presentazione, anzitutto stabilendo una condizione necessaria per il dominio dinastico, per poi chiedersi cosa decidono gli agenti macroeconomici se questa condizione si realizza.
Dunque: immaginiamo una famiglia ricca che abbia operato, in un modo o nell’altro, per garantirsi che una larga parte del suo reddito fosse utilizzata per accumulare ulteriore ricchezza. Può questa famiglia, in conseguenza di ciò, acquisire una posizione dominante nella società?
La risposta dipende dalla relazione tra “r”, il tasso di rendimento degli asset, e “g”, il tasso generale di crescita dell’economia. Se “r” è minore di “g”, le dinastie sono destinate all’erosione: anche se tutto il reddito derivante da una fortuna molto vasta viene destinato alla accumulazione, la ricchezza della famiglia crescerà più lentamente dell’economia, e lentamente scivolerà nell’oscurità. Ma se “r” è più grande di “g”, la ricchezza dinastica può crescere effettivamente sino a dimensioni gigantesche.
Cosa determina dunque il rapporto tra “r” e “g”? Piketty interroga gli effetti dei cambiamenti nella crescita economica. Io trovo che sia più facile osservare questo nei termini di un modello standard di Solow. Nella figura sotto, assumiamo che “s” sia il tasso aggregato di risparmio; che il mutamento tecnologico vada nel senso di aumentare la forza lavoro, in modo che si possa pensare che il numero dei lavoratori all’opera cresca più velocemente del numero dei lavoratori effettivi; e che ci sia una funzione aggregata di produzione Q/L = f(K/L), dove Q/L sta per il prodotto per lavoratore in funzione e K/L sta per il capitale per ogni lavoratore in funzione. Il diagramma consueto, allora, si sviluppa nel modo seguente:
Con il tempo, l’economia converge verso una crescita da stato stazionario ad un tasso “n”, che è la somma della crescita della forza lavoro e del progresso tecnologico, ed il rapporto tra capitale e prodotto converge verso “s/n”.
Come mostra la figura, un declino di “n” porterà ad un crescita nel rapporto capitale/prodotto e ad una caduta sia di “r” che di “g”. Cosa diminuisce maggiormente? Ebbene, dipende da cosa accade alla quota del capitale nel prodotto, che a sua volta dipende dalla elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro.
Trovo che questo sia più facile da pensare nei termini di un esempio numerico. Consideriamo che “s” sia uguale a .09 e inizialmente “r” sia uguale a .03. In quel caso il rapporto capitale-prodotto è 3; se la quota di capitale è .3, “r” è uguale a .10. Ora facciamo che “n” e di conseguenza lo stato stazionario diminuisca a .015. K/Q sale a 6. Se la quota di capitale non cambia, “r” cade a .05 – vale a dire, cade in proporzione alla crescita. Se l’elasticità di sostituzione è inferiore a 1, il più elevato rapporto tra i capitale ed il lavoro in funzione comporta una caduta nella quota del capitale, cosicché il rendimento del capitale diminuisce maggiormente del tasso di crescita. Tuttavia, Piketty asserisce che l’elasticità di sostituzione è maggiore di uno, cosicché la quota del capitale cresce, ed “r” cade meno di “g”.
E a quel punto Picketty ci dice una cosa importante: storicamente “r” ha quasi sempre ecceduto “g”, ma c’è stato un periodo eccezionale nel 20° secolo, una periodo di rapida crescita della forza lavoro e di progresso tecnologico, nel quale “r” era inferiore di “g”. Ed egli sostiene che quel genere di società che noi consideriamo normale, nella quale gli alti redditi riflettono conquiste personali piuttosto che ricchezze ereditate, di fatto è una aberrazione prodotta da un periodo eccezionale di quella natura.
E’ una visione rilevante, di vasta portata. Un paio di domande:
1 Quanto del declino di “r” in relazione a “g” è dipeso dalla rapida crescita e quanto è dipeso da politiche, sia nella forma della tassazione che in sostanza della confisca delle ricchezze ereditate? In altre parole, quanto è dipeso dalla sorte, quanto dalle guerre e dagli sconvolgimenti politici? Piketty interroga entrambi i fattori, ma non ci fornisce mai un relativo giudizio quantitativo.
2 Quanto è importante questa ricostruzione agli effetti di quello che è accaduto sin qua? Negli Stati Uniti, come lo stesso Piketty esamina, l’ineguaglianza fortemente crescente deve essere sino ad oggi stata guidata in gran parte da redditi di lavoro – da parte dei “supermanager” (io preferisco “superdirigenti”).
Molto di più al momento in cui consegnerò l’intero lavoro.
marzo 12, 2014
Mar 12, 7:38 am
Conventional wisdom can be a terrible thing. In 2009-10 all the serious people started telling each other that public debt was the number one threat facing advanced economies, and that austerity policies were needed immediately. We know how that turned out. Well, over the past few months I’ve been watching a new conventional wisdom take hold – among a narrower and more technical set of people, but still. According to this view, economic slack is vanishing fast; even though we still have huge unemployment, we’re actually running out of employable workers, and a dangerous acceleration in the pace of wage increases is already underway. Time to raise interest rates!
The trouble is that this emerging consensus is all wrong. In fact, it’s wrongheaded in at least four ways.
First, the widespread impression, after the latest job report, that we’re seeing a surge in wages is probably a snow job. Literally. The team at Goldman Sachs (no link) points out that average hourly wages normally spike after a spell of cold weather. Why? It’s a compositional effect: the workers idled by bad weather tend to be hourly workers, who are paid less than salaried workers. So the average worker in a snow-ridden month is better-educated and better-paid than in a normal month, because the lower-paid workers aren’t working. The blip in measured wages is a statistical artifact, not a sign of tight labor markets.
Second, almost all the talk about rising wages is driven by just one labor market indicator, the average wage of nonsupervisory workers. Other wage indicators, like the average of all employees and the Employment Cost Index, are telling a different story. Here are three measures; you do get an impression of rising wages:
But take out the nonsupervisory workers, and that impression mostly though not entirely vanishes:
Goldman Sachs has a composite indicator, which is the first principal component of several measures; it shows at best a slight hint of acceleration:
Third, what’s so bad about rising wages? Wage increases are running far below their pre-crisis levels, and everything we’ve learned in this crisis – basically about the dangers of the two zeroes – says that pre-crisis wage increases, and inflation in general, was too low. And to get wage gains up to where they should be, we need a period of overfull employment.
Salari di paura (un po’ per esperti)
La saggezza convenzionale può essere una cosa tremenda. Nel 2009 – 2010 tutte le persone serie cominciarono a raccontarsi l’una con l’altra che il debito pubblico era per le economie avanzate il pericolo numero uno, e che avevamo bisogno immediatamente di politiche di austerità. Sappiamo come è andata a finire. Ebbene, nei mesi passati ho constatato il diffondersi di una nuova forma di saggezza convenzionale – su un complesso di individui più ristretto e più tecnico, ma tant’è. Secondo questo punto di vista, la fiacchezza dell’economia sta rapidamente svanendo; anche se abbiamo ancora molta disoccupazione, staremmo effettivamente esaurendo i lavoratori occupabili, ed una pericolosa accelerazione nel ritmo degli incrementi salariali sarebbe già in corso.
Il problema è che questo emergente consenso è del tutto sbagliato. Di fatto, è fuorviante in almeno quattro sensi [1].
Il primo, l’impressione generale, dopo l’ultimo rapporto sul lavoro, che siamo in presenza di una crescita dei salari è probabilmente ingannevole. Letteralmente. Il gruppo di Goldman Sachs (non c’è connessione) mostra che i salari medi orari normalmente si rialzano dopo un po’ di stagione fredda. Perché? E’ un effetto di composizione: i lavoratori inattivi per il tempo rigido tendono ad essere lavoratori su base oraria, che sono pagati meno dei lavoratori salariati. Dunque il lavoratore medio in un mese tormentato dalla neve è un lavoratore più istruito e meglio pagato di quello di un mese normale, perché i lavoratori con paghe più basse non stanno lavorando. Il lieve ritocco nei salari accertati è un artificio statistico, non il segno di mercati del lavoro con pochi margini.
In secondo luogo, praticamente l’intera discussione sui salari in crescita è determinata soltanto da un indicatore del mercato del lavoro, il salario medio dei lavoratori che non hanno funzioni di direzione e controllo. Altri indicatori salariali, come la media di tutti gli addetti e l’Indice dei Costi dell’Occupazione, ci raccontano una storia diversa. Ecco tre dati dai quali si trae una impressione di salari crescenti:
Ma si tengano fuori i lavoratori senza funzioni di direzione e di controllo, e quella impressione, in gran parte se non interamente, svanisce:
Goldman Sachs ha un indicatore composto, che è la prima principale componente di una serie di misurazioni; esso mostra al massimo un lieve cenno di accelerazione:
In terzo luogo, che cosa c’è di così negativo in una crescita dei salari? Gli incrementi salariali stanno procedendo a livelli assai inferiori ai loro livelli precedenti alla crisi, e tutto quello che abbiamo imparato in questa crisi – fondamentalmente a riguardo dei pericoli dei ‘due zeri’ [2] – dice che gli incrementi precedenti alla crisi, e più in generale l’inflazione, erano troppo bassi. E per ottenere che gli incrementi salariali salgano al livello in cui dovrebbero essere, abbiamo bisogno di un periodo di occupazione davvero satura.
[1] Penso che il ‘quattro’ stia per ‘tre’, nel senso che gli esempi successivi sono in realtà tre.
[2] Vedi il post di Krugman del 5 marzo 2014. Il riferimento è allo ‘zero’ del limite inferiore dei tassi di interesse ed allo ‘zero’ della quota prevalente di retribuzioni ferme, senza alcun incremento o decremento.
marzo 10, 2014
Mar 10, 2:18 pm
The big headline on the front page of today’s FT — at least in the U.S. edition — goes to this report about the Bank for International Settlements. According to the article, the BIS is warning that “forward guidance” — the attempt to drive long-term interest rates down by promising to keep short-term rates low for a long time — “could endanger the international financial system.” So I thought, typical BIS — the gnomes of Basel have been consistently against anything that might restore full employment, have been into punishment all the way. And I got ready to write a BIS-bashing post.
But first I thought I should check the actual BIS report — and it’s not very much like the description in the FT. Yes, it mentions possible risks to financial stability, but it also talks about the reasons for forward guidance and the need for some kind of unconventional stimulus; if it seems somewhat down on the policy, it’s more about doubtful effectiveness than about looming doom. In other words, the fear factor here is more the FT projecting its own prejudices onto the BIS than the BIS itself.
And that, I think, is an indicator. The urge to hike rates — the rationale keeps changing, but the demand stays the same — is widespread in the financial press. Why? The ever-changing reasons for a never-changing policy suggest that we aren’t really talking about policy analysis. Instead we’re talking about some mix of class interest (rentiers want their rents) and desire to see economics as a morality play (easy money feels good, therefore it must be bad).
Anyway, quite amazing. And I worry that the incessant drumbeat of demands for rate hikes will eventually wear the central bankers down.
La guida all’economia degli innalzatori dei tassi
Il titolo principale sulla prima pagina del Financial Times di oggi – almeno nell’edizione statunitense – va a questo resoconto sulla Banca dei Regolamenti Internazionali. Secondo l’articolo, la BIS sta mettendo in guardia che un “indirizzo anticipato” [1] – il tentativo di abbassare i tassi di interesse a lungo termine promettendo di mantenere quelli a breve termine bassi per un lungo periodo – “potrebbe danneggiare l’intero sistema finanziario”. Dunque, ho pensato, la solita BIS – gli gnomi di Basilea sono stati coerentemente contro ogni cosa potesse ripristinare la piena occupazione, appassionati in tutti i modi ad una soluzione punitiva. Ed ero pronto a scrivere un post di critica feroce alla BIS.
Ma ho pensato che prima avrei dovuto verificare l’effettivo rapporto della BIS – ed esso non è affatto come descritto dal FT. Sì, si parla dei possibili rischi per la stabilità finanziaria, ma si parla anche delle ragioni per un ‘indirizzo anticipato’ e del bisogno di un qualche genere di stimolo non convenzionale; se esso sembra in qualche modo criticare la politica, è più a proposito della sua dubbia efficacia che non di una incombente sventura. In altre parole, il fattore della paura è più nella proiezione da parte del Financial Times dei propri pregiudizi sulla BIS che non nella BIS stessa.
E questo, penso, sia un indicatore. Il bisogno di alzare i tassi – la motivazione cambia in continuazione, ma la richiesta resta la stessa – è generale nella stampa finanziaria. Perché? Le ragioni in continuo cambiamento di una politica che non cambia mai, indicano che propriamente non stiamo parlando di analisi dei contenuti politici. Piuttosto stiamo parlando di una qualche combinazione di interessi di classe (i redditieri vogliono le loro rendite) e del desiderio di riconoscere l’economia come una rappresentazione morale (la moneta facile si percepisce come cosa buona, dunque deve essere cattiva).
In ogni modo è abbastanza sorprendente. E sono preoccupato che l’incessante grancassa delle richieste di innalzamento dei tassi alla fine sfinirà i banchieri centrali.
[1] La “forward guidance” è l’indicazione, da parte di una banca centrale, di come saranno modificati i tassi di interesse in futuro. La Banca centrale europea l’ha introdotta per la prima volta il 4 luglio 2013: con questa svolta, che finora affidava le indicazioni a una sorta di linguaggio in codice per addetti ai lavori, ha reso la comunicazione esplicita, sul modello di quanto fa abitualmente la Federal Reserve. Analoga svolta è arrivata dalla Bank of England di Mark Carney. (Il Sole 24 Ore)
Mi pare che “indirizzo anticipato” sia dunque una traduzione letterale e corretta, e direi anche semplice.
marzo 9, 2014
Mar 9, 10:15 am
I promised that I would share some nagging concerns about the Ostry et al paper on redistribution and growth (pdf); I think I can usefull phrase my concerns in terms of my favorite comparison on these matters, which is between the United States and France.
Why this pair? Because we’re talking about two advanced countries that clearly have similar levels of technological competence but have made very different social choices; in particular, France not only does much more redistribution, it has expanded its redistribution over time, limiting the rise in overall inequality, while the United States has not (see Table 4 here (pdf)).
So how have the countries’ destinies compared during the New Gilded Age? French growth actually has been somewhat slower, although hardly the catastrophe the country’s incessant bad press might lead you to expect:
Even more strikingly, however, the level as opposed to the growth rate of French GDP per capita is substantially lower than that of the US.
This is my main concern about Ostry et al. Suppose we think that strong redistributionist policies reduce the level of output — but that it’s a one-time shift, not a permanent depression of growth. Then you could accept their result of a lack of impact on growth while still believing in serious output effects.
Now, the IMF researchers arguably have answered this objection by also including the current level of GDP per capita in their regressions; their regressions indicate that a country with lower GDP per capita than the US should be growing faster than the US, other things equal. So any level-depressing effect of redistribution should show up as a failure of this faster growth to materialize, i.e., as a negative coefficient on redistribution. But I’m uneasy about whether this is good enough.
Interestingly, French underperformance is a matter of low labor input rather than low productivity:
Once you delve into this low labor input, it starts to look like the result of some very specific policies rather than redistribution in general: a pension system that encourages early retirement, regulations that give the French shorter hours and much more vacation time than we get.
Overall, I am still mostly persuaded by the Ostry et al work, but I think we need to acknowledge that it’s not quite as slam-dunky as liberals might like.
Il confronto francese
Avevo promesso che avrei messo in comune qualche assillante preoccupazione sul saggio di Ostry ed altri sulla redistribuzione e la crescita (disponibile in pdf); penso di poter utilmente formulare le mie preoccupazioni nei termini del mio confronto preferito su questa materia, che è quello tra gli Stati Uniti e la Francia.
Perché questo accoppiamento? Perché stiamo parlando di due paesi avanzati che hanno chiaramente livelli simili di competenza tecnologica e che hanno fatto scelte sociali molto diverse; in particolare, la Francia non ha soltanto una redistribuzione dei redditi molto maggiore, essa ha ampliato la sua redistribuzione nel corso del tempo, mentre gli Stati Uniti non l’hanno fatto (vedi in questa connessione, disponibile i pdf, alla Tabella 4).
Dunque, come si sono confrontati i destini di questi paesi durante la Nuova Età dell’Oro? La crescita francese effettivamente è stata in una certa misura più lenta, sebbene non si tratti affatto della catastrofe che la incessante pessima stampa su quel paese poteva indurvi ad immaginare:
Ancora più considerevolmente, tuttavia, il livello del PIL francese procapite, in alternativa al tasso di crescita, è stato sostanzialmente più lento che negli Stati Uniti.
Questa è la mia principale preoccupazione a proposito di Ostry ed altri. Supponiamo che forti politiche redistribuzioniste riducano il livello della produzione – ma che questa sia una variazione occasionale e non una depressione permanente della crescita. In quel caso si potrebbe accettare il loro risultato di una assenza di impatto sulla crescita pur credendo ancora in seri effetti sulla produzione.
Ora, probabilmente i ricercatori del FMI hanno risposto a questa obiezione anche con l’inclusione degli attuali livelli del PIL procapite nelle loro regressioni [1]; le loro regressioni indicano che un paese con un PIL procapite più basso degli Stati Uniti dovrebbe crescere più velocemente degli Stati Uniti, a parità delle altre condizioni. Dunque, ogni effetto di livello depressivo della redistribuzione dovrebbe mostrarsi nella forma di una mancata materializzazione di una crescita più veloce, ovvero come un coefficiente negativo sulla redistribuzione.
In modo interessante, la prestazione inferiore della Francia è più una questione di basso input del lavoro che di bassa produttività:
Una volta che andate a vagliare questo basso input del lavoro, esso comincia ad apparire come la conseguenza di alcune politiche molto specifiche, piuttosto che della redistribuzione in generale: un sistema pensionistico che incoraggia i pensionamenti precoci, regolamenti che danno ai francesi orari più corti e periodi di vacanza molto maggiori di quelli che noi abbiamo.
In generale, sono ancora in gran parte persuaso dallo studio di Ostry ed altri, ma penso che si debba riconoscere che esso non è esattamente quel colpo definitivo [2] che potrebbe far piacere ai progressisti.
[1] L’analisi della regressione è una tecnica usata per analizzare una serie di dati che consistono in una variabile dipendente e una o più variabili indipendenti. La variabile dipendente nella equazione di regressione è modellata come una funzione delle variabili indipendenti più un termine d’errore. (Wikipedia)
[2] “Slam-dunk” in termini sportivi è una “schiacciata”.
marzo 9, 2014
Mar 9, 9:44 am
A followup on my last post, on redistribution and its role or lack thereof in the economic crisis. One thing we can do instead of looking at measures of redistribution — which is, in a way, the output of the welfare state — is look at social expenditures, which are in effect the input. And this gives us data on a few more countries. If we look at the relationship between social expenditures in 2007, on the eve of the crisis, and performance in the next five years, we get this:
The countries that rode out the crisis best had relatively large welfare states by European standards, while those that did worst had somewhat smaller than average social expenditures.
I don’t think this is causal; what happened instead was that during the years of europhoria, money flowed from Europe’s wealthy core, with its well-established welfare states, to less developed economies on the periphery, which then went bust. The size of the welfare state probably had nothing to do with it either way. But then that’s the point: the right-wing theory of the crisis gets no support from the facts.
Gli stati assistenziali nella crisi dell’euro
Un seguito al mio post precedente sulla redistribuzione e sul suo ruolo nelle crisi economica, o meglio sulla assenza di effetto. Una cosa che possiamo fare invece di guardare alle misurazioni della redistribuzione – che è, in un certo senso, il prodotto degli stati assistenziali – è guardare alle spese sociali, che in effetti sono il dato di ingresso. E questo ci offre dati su pochi altri paesi. Se guardiamo alla relazione tra le spese sociali nel 2007, all’epoca della crisi, e la prestazione nei cinque anni successivi, otteniamo questo:
I paesi che hanno superato nel modo migliore la crisi avevano stati assistenziali relativamente ampi per gli standard europei, mentre quelli che hanno fatto peggio avevano in qualche modo spese sociali minori della media.
Non penso che questo sia un rapporto di causa; quello che invece è successo è che negli anni dell’ ‘euroforia’ i capitali si sono riversati dal centro ricco dell’Europa, con i suoi ben attrezzati stati sociali, alle economie meno sviluppate della periferia, che poi sono collassate. La dimensione degli stati assistenziali probabilmente non ha a che fare con questo in nessun senso. D’altro canto il punto è quello: la teoria delle crisi della destra non ha alcun sostegno dai fatti.
marzo 8, 2014
Mar 8, 4:10 pm
I’ve finally gotten around to a careful read of the new IMF paper on redistribution and growth (pdf) — which concludes that there is no negative effect of redistributionist policies, at least within the range we normally see, and quite possibly a positive effect from the reduction in inequality. I like this conclusion, politically — which is a good reason to kick the tires, and I’ll present some cautions in a later post. For now, however, a quick-and-dirty piece of data analysis inspired by the paper’s method.
Ostry et al measure redistribution by the difference between the Gini coefficient (a measure of inequality) before and after taxes and transfers. The LIS project, with which I will soon be associated, has done this for a number of countries (pdf), so we can all do such exercises.
So what I found myself thinking about was the common trope on the right that the economic crisis is the result of overlarge welfare states. This is generally stated not as a hypothesis but as a fact. But what do the data say?
First, look at a sample of advanced countries, and compare the LIS measure of redistribution with their economic performance in the first five years of the ongoing economic crisis:
There is a suggestion of a slight negative correlation, and if you fit a regression line it is indeed downward-sloping, although the slope isn’t significant. But you can see right away that this result is driven by the relatively good performance of Anglo-Saxon countries that arguably gain from not being on the euro.
Suppose we restrict the sample to countries on or pegged to the euro (Denmark). It looks like this:
There is, it turns out, a fair bit of variation among euro area countries in the amount of redistribution — and there is actually a positive correlation between redistribution and growth over the post-crisis period, significant at the 10 percent level.
Overall, the data offer no reason to believe that the economic crisis has something to do with the welfare state — an empirical observation that will have no impact whatsoever on the right’s convictions.
La redistribuzione e la Depressione Minore
Ho finalmente trovato il tempo di leggere con attenzione il nuovo studio del FMI su redistribuzione e crescita (disponibile in pdf) [1] – che stabilisce che non ci sono effetti negativi delle politiche di redistribuzione, almeno negli ambiti che normalmente osserviamo, e che è abbastanza possibile un effetto positivo della riduzione dell’ineguaglianza. In termini politici mi fa piacere questa conclusione – e questa è una buona ragione per farne una ispezione superficiale, e presentare qualche avvertenza in un post successivo. Per il momento, tuttavia, un pezzo sbrigativo di analisi dei dati ispirato dal metodo dello studio.
Ostry e gli altri stimano la redistribuzione attraverso la differenza tra il coefficiente Gini [2] (una misura dell’ineguaglianza) prima e dopo le tasse ed i trasferimenti. Il progetto del LIS [3] , di cui sarò presto socio, ha fatto lo stesso per un certo numero di paesi (disponibile in pdf), cosicché possiamo tutti fare tali esercizi.
Così, quello che mi sono ritrovato a pensare è stato il luogo comune della destra secondo il quale la crisi economica sarebbe il risultato di stati assistenziali troppo ampi. Questa in generale non viene affermata come una ipotesi, ma come un dato di fatto. Ma cosa dicono le statistiche?
In primo luogo si guardi all’esempio dei paesi avanzati, e si confronti la stima della misurazione della redistribuzione da parte della LIS con la loro prestazione economica nei primi cinque anni della perdurante crisi economica:
C’è una suggestione di una correlazione leggermente negativa, e se disponete una regressione lineare in effetti risulta una inclinazione verso il basso, sebbene la tendenza non sia significativa. Ma potete subito notare che questo risultato è guidato dalla prestazione relativamente buona (in termini di crescita, ndt) dei paesi anglosassoni, che probabilmente guadagnano dal non far parte dell’euro.
Supponiamo di restringere l’esempio ai paesi che fanno parte o che sono ancorati all’euro (Danimarca). Appare in questo modo:
Si scopre che c’è una discreta variazione all’interno dei paesi dell’area euro nelle dimensioni della redistribuzione – e c’è effettivamente una correlazione positiva tra redistribuzione e crescita nel periodo successivo alla crisi, significativa al livello del 10 per cento.
Complessivamente, i dati non offrono alcuna ragione per credere che la crisi economica abbia qualcosa a che fare con lo stato assistenziale – una osservazione empirica che non avrà effetti di alcun genere sulle convinzioni della destra.
[1] Lo studio è a cura di Jonathan D. Ostry, Andrew Berg e Charalambos G. Tsangarides.
[2] Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini[1], è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo. Si può incontrare la notazione con indice di Gini espresso in percentuale (0% – 100%), ovvero anche tra 0 e 100.(Wikipedia)
Nella tabelle in questione, se capisco, la linea orizzontale indicherebbe la differenza tra l’indice Gini calcolato semplicemente sui redditi e quello calcolato sui redditi successivi alla tassazione ed ai trasferimenti in gran parte dovuti alle politiche di protezione sociale. Suppongo che sia naturale che l’indice diminuisca “dopo” le misure fiscali ed i trasferimenti, dunque che si avvicini allo zero e si allontani dall’unità. Come si può notare alla tabella 1 i paesi dell’area del Nord Europa hanno la differenza maggiore (che dovrebbe significare che l’indice diminuisce maggiormente a seguito degli interventi statali, ovvero che c’è minore ineguaglianza); nei paesi anglosassoni esso avrebbe una differenza minore; Italia e Francia si collocherebbero nel mezzo. Quanto alle differenze di crescita esse appaiono effettivamente derivare da altri fattori, in particolare se si osserva la tabella 2.
[3] Il “Luxembourg Income Study” è un centro di elaborazioni statistiche transnazionali per il quale Krugman ha annunciato la sua prossima collaborazione (vedi l’ultimo articolo sul New York Times).
marzo 7, 2014
Mar 7, 9:24 am
A term we really need: Center-Right In Name Only.
John Sides at The Monkey Cage — a political science blog you should be reading — takes on the often-repeated claim that America is a center-right nation, which is mainly based on polls showing many more people identifying themselves as conservatives than as liberals. He points out that if you ask people about their position on issues, as opposed to how they label themselves, the picture is reversed:
Looked at this way, almost 30 percent of Americans are “consistent liberals” — people who call themselves liberals and have liberal politics. Only 15 percent are “consistent conservatives” — people who call themselves conservative and have conservative politics. Nearly 30 percent are people who identify as conservative but actually express liberal views. The United States appears to be a center-right nation in name only.
Sides surmises that when people call themselves conservative, they’re talking about lifestyle choices — and we’re talking about their personal lifestyles, not necessarily their desire to impose their choices on others. Americans who go to church, and/or are faithful to their spouses, and/or are devoted to their children, say that they are conservative — but more often than not also favor a higher minimum wage and stronger social safety net programs.
Basically, economic conservatism has very little popular constituency. If it has often dominated policy nonetheless, that has to do with the power of organized money and the popularity of conservative ideas among the political elite.
Una nazione di CRINOs.
Un termine che ci farebbe davvero molto comodo: Centro-Destra-Solo-a-Parole.
John Sides su The Monkey Cage – un blog di politologia che dovreste leggere [1] – considera la spesso ribadita pretesa secondo la quale l’America sarebbe una nazione di centro-destra, che principalmente è basata su sondaggi che mostrano che molte persone in più si identificano con i conservatori che non con i liberals. Egli mette in evidenza che se le gente viene interrogata sulle proprie posizioni sui temi effettivi, contrariamente a come essi si classificano, il quadro si inverte:
“Considerate le cose in questo modo: quasi il 30 per cento degli americani sono “progressisti coerenti” – persone che si definiscono ‘liberals’ e sono per programmi progressisti. Solamente il 15 per cento sono “conservatori coerenti” – persone che si definiscono conservatrici e sono per programmi di conservazione. Quasi il 30 per cento sono individui che si definiscono conservatori ma esprimono effettivamente punti di vista progressisti. Gli Stati Uniti sembrano essere una nazione di centro destra solo a parole.”
Sides ipotizza che quando le persone si definiscono di orientamento conservatore, parlano di scelte sugli stili di vita – e si sta parlando dei loro personali stili di vita, non necessariamente del loro desiderio di imporre le loro scelte agli altri. Gli americani che vanno in chiesa, o che sono fedeli alle loro consorti, e che si dedicano ai loro figli, dicono di essere conservatori – ma nella maggioranza dei casi sono a favore di un salario minimo più alto e di programmi sulla rete della sicurezza sociale più forti.
Fondamentalmente, il conservatorismo economico ha una base di consensi popolari molto piccola. Se ciononostante esso ha spesso dominato la politica, ciò dipende dal potere e dalla organizzazione del capitale e dalla popolarità delle idee conservatrici tra le classi dirigenti della politica.
[1] “La gabbia della scimmia”, e questa è la pagina del blog:
marzo 6, 2014
Mar 6, 4:24 pm
And then wait some more — a lot more.
There’s a growing meme in discussions of monetary policy to the effect that we’re actually getting close to full employment, because the long-term unemployed don’t actually count in wage determination. Soon, this story goes, wages will start to rise, and so it’s time to get ready for monetary tightening.
This is a terrible idea.
For one thing, we can speculate all we like about the true state of labor markets, but we won’t really know until we start seeing solid wage increases. So why not wait until that happens?
Now, you might say that it’s important to get ahead of the curve, lest inflation rear its ugly head. But this is in fact a case where you really want to be behind the curve.
Look at what has happened to wage growth since the crisis began. The various series are noisy; I’ve followed Goldman Sachs in using principal components to take a weighted average of nonsupervisory wages, total compensation, and the employment cost index. Still a bit jumpy, but the picture seems fairly clear:
So far, no clear sign that wage growth is accelerating. Even more important, however, wages are growing much more slowly now than they were before the crisis. There is no argument I can think of for not wanting wage growth to get at least back to pre-crisis levels before tightening. In fact, given that we’ve now seen just how dangerous the “lowflation” trap is, we should be aiming for a significantly higher underlying rate of growth in wages and prices than we previously thought appropriate.
So even if we believe that full employment is now 6.5 percent unemployment or something like that — and I’m not at all convinced — we need a period of overfull employment to get inflation back up to where it should be.
There is absolutely no case for monetary tightening for a long time to come.
Aspettate che i salari comincino a ripartire
E poi aspettate altro ancora – molto altro ancora.
C’è un pensiero che si diffonde nei dibattiti di politica monetaria, nel senso che staremmo effettivamente arrivando vicini alla piena occupazione, perché i disoccupati a lungo termine in realtà non incidono nella determinazione dei salari. Presto, il racconto è questo, i salari cominceranno a salire, e dunque è tempo di essere pronti ad una restrizione monetaria.
Si tratta di una idea terribile.
Da una parte, possiamo speculare tutto quello che vogliamo sulla condizione reale dei mercati del lavoro, ma non la conosceremo realmente finché non cominciamo a vedere solidi incrementi salariali. Dunque, perché non attendere finché non succede?
Ora, si potrebbe dire che quello che è importante è arrivare davanti alla curva, nel timore che l’inflazione faccia la sua sgradevole comparsa. Ma è proprio questo il caso nel quale si deve davvero essere oltre la curva.
Si guardi a quello che è accaduto alla crescita dei salari dal momento in cui è iniziata la crisi. Le varie serie sono assai disturbate; noi abbiamo seguito quella di Goldman Sachs nell’utilizzare le principali componenti per assumere una media ponderata dei salari dei lavoratori che non hanno funzioni di controllo, dei compensi totali e dell’indice del costo di occupazione. Anche in questo caso molti salti, ma il quadro sembra abbastanza chiaro:
Sino a questo punto, nessun segno chiaro che la crescita dei salari stia accelerando. Ancora più importante, tuttavia, è il fatto che i salari stiano crescendo molto più lentamente di prima della crisi. Non c’è alcuna ragione che posso immaginare per la quale non volere che la crescita dei salari non torni almeno ai livelli precedenti la crisi, prima della riduzione. Di fatto, dato che oggi stiamo constatando quanto sia pericolosa la trappola della “lowflation” [1] , dovremmo mirare ad un tasso di fondo della crescita dei salari e dei prezzi significativamente più elevato di quello che si giudicava appropriato in precedenza.
Dunque, se anche crediamo che la piena occupazione comporti oggi un 6,5 per cento di disoccupazione o qualcosa di simile – ed io non ne sono affatto convinto – abbiamo bisogno di un periodo di occupazione molto elevata per riportare l’inflazione al punto in cui dovrebbe essere.
Per un lungo periodo non ci sarà assolutamente alcun motivo perché abbia luogo una restrizione monetaria.
[1] Vedi il post di Krugman del 5 marzo a proposito del neologismo “lowflation”, ed anche lo studio del FMI del 4 marzo.
marzo 6, 2014
Mar 6, 4:12 pm
We’re getting reports about Paul Ryan’s performance at CPAC, the big conservative gathering — and they’re actually kind of awesome, in the worst way.
I mean, the caricature of Ryan and people like him is that they treat the hardships of poverty as if they were merely psychological, that they talk big about dignity while ignoring the difficulty of getting essentials like food and health care. Well, it’s not a caricature: Ryan says never mind having enough to eat, it’s about spirituality:
“The left is making a big mistake,” Ryan predicted. “What they’re offering people is a full stomach and an empty soul. People don’t just want a life of comfort. They want a life of dignity, they want a life of self determination.”
Um, yes, but how dignified can you be on an empty stomach? How much self-determination do you have?
And who is supposed to value dignity over having enough to eat? Children. Ryan tells an anecdote about one sad child:
“He told Eloise he didn’t want a free lunch. He wanted his own lunch, one in a brown-paper bag just like the other kids,” he continued. “He wanted one, he said, because he knew a kid with a brown-paper bag had someone who cared for him. This is what the left does not understand.”
And if the child’s mother can’t provide that lunch in a brown paper bag, then what?
The total failure to accept that the poor face real physical hardship, that affluent politicians have no business lecturing people having trouble buying food or having trouble paying for health care about dignity, is just stunning.
Fategli mangiare la dignità
Arrivano resoconti sulla performance di Paul Ryan alla “Conferenza di iniziativa politica dei conservatori”, il grande raduno conservatore – e sono per davvero qualcosa di fantastico, nel senso peggiore possibile.
Voglio dire, la caricatura offerta da Ryan e da quelli come lui consiste nel trattare le difficoltà della povertà come se fossero meramente psicologiche, nel parlare tanto di dignità nel mentre si ignora la difficoltà ad ottenere cose essenziali come il cibo e la assistenza sanitaria. Ebbene, non è una caricatura: Ryan dice che non è mai importante se si ha abbastanza da mangiare, la questione attiene alla spiritualità:
“La sinistra sta facendo un grande errore” , ha pronosticato Ryan. “Quello che stanno offrendo alla gente è un stomaco pieno con un’anima vuota. La gente non vuole soltanto una vita di agi. Vuole una vita di dignità, vuole una vita di autodeterminazione.”
Hm, e quanto si può essere dignitosi a stomaco vuoto? Di quanta autodeterminazione si può disporre?
E chi si pensa che valuti la dignità, oltre l’avere da mangiare a sufficienza? I bambini. Ryan ci racconta un aneddoto su un bambino triste:
“Egli raccontò ad Eloisa che non voleva un pranzo gratuito. Voleva il suo pranzo, quello nel sacchetto di carta marrone proprio come gli altri ragazzi” ha proseguito. “Voleva quello, disse, perché sapeva che un ragazzo con un sacchetto di carta marrone aveva chi si prendeva cura di lui. Questo è quello che la sinistra non capisce.”
E se la mamma del bambino non può fornirgli quel pasto in un sacchetto di carta marrone, allora che succede?
E’ del tutto stupefacente la totale incapacità ad accettare il fatto che i poveri si misurino con reali difficoltà materiali, che i politici benestanti farebbero meglio a non fare prediche sulla dignità alle gente che ha problemi a comprarsi cibo o che ha problemi a pagarsi la assistenza sanitaria.
marzo 5, 2014
March 5, 2014, 8:19 am
Via the always invaluable Mark Thoma, the IMF blog — yes, the IMF has in effect become an econblogger — has a terrific piece on the problem with low inflation in Europe. It’s the perfect antidote to the do-nothing voices insisting that there’s no problem, because we don’t see actual deflation yet.
Part of the IMF analysis concerns debt dynamics. They don’t put it quite this way, but I’d say that to have debt deflation — in which falling prices due to a weak economy increase the real burden of debt, which depresses the economy further, and so on — you don’t need to have literal deflation. The process begins as soon as you have lower inflation than expected when interest rates were set. It’s also noteworthy that inflation rates in the highly indebted countries are all well below the eurozone average (pdf), with actual deflation in Greece and near-deflation in the rest. So the debt deflation spiral is in fact well underway.
Beyond that, the trouble with low inflation is that it exacerbates the problem posed by the two zeroes — the impossibility of cutting interest rates below zero and the great difficulty of cutting nominal wages.
Is ECB policy constrained by the zero lower bound? You could argue that it isn’t, since it could cut a bit further than it has but hasn’t. I’d argue, however, that if nominal interest rates were much higher — say, 4 percent — but the overall euro macro situation were what it is, with inflation clearly below target and unemployment very high, the ECB wouldn’t (and certainly shouldn’t) hesitate at all about cutting rates substantially. It’s only the fact that zero is already so close that makes cutting rates seem like a big deal, an admission that things are looking dangerous (which they are).
Meanwhile, the zero on wages is hugely important now. The fundamental issue here is that Spain (and other debtors) needs to reduce its wages relative to Germany, reversing the runup in relative wages during the bubble years. The argument some of us have been making for a long time is that it’s vastly easier if this adjustment takes place via rising German wages rather than falling Spanish wages — partly because of the debt dynamics, but also and crucially because it’s very hard to cut nominal wages.
What would you look for if downward nominal wage rigidity were a seriously binding constraint? A spike in the distribution of actual wage changes at zero. And sure enough:
International Monetary Fund
To be technical about it: Yowza. This is prima facie evidence that excessively low European inflation is already a huge problem.
The point is that there is no red line at zero inflation; excessively low inflation is still a very severe problem, especially given the European situation, even if the number is positive.
So when people warn about Europe’s potential Japanification, they’re way behind the curve. Europe is already experiencing all the woes one associates with deflation, even though it’s only low inflation so far; and the human and social costs are, of course, far worse than Japan ever experienced.
This need not lead to a breakup of the euro: Pessimists on that front, me very much included, misjudged the strength of European elites’ commitment to the project. But the euro might yet survive — and be a continuing disaster.
La bassa inflazione ed i due zeri
Tramite l’inestimabile Mark Thoma, apprendiamo che il blog del FMI – sì, il FMI è diventato in effetti un ‘econblogger’ – ha un pezzo formidabile sul problema della bassa inflazione in Europa. E’ il perfetto antidoto alle voci del non-far-niente che insistono sul fatto che non ci sarebbe problema, perché non si vede ancora alcuna effettiva deflazione.
Parte della analisi del FMI riguarda le dinamiche del debito. Essi non si esprimono in questo modo, ma io direi che per avere deflazione da debito [1] – nella quale la caduta dei prezzi derivante da una economia debole accresce il peso reale del debito, che deprime ulteriormente l’economia, e così di seguito – non c’è bisogno di avere una deflazione letterale. Il processo ha inizio appena si ha una inflazione più bassa di quello che ci si aspettava al momento in cui erano stati definiti i tassi di interesse. Merita anche di essere osservato che i tassi di inflazione nei paesi altamente indebitati sono ben al di sotto della media dell’eurozona (disponibili in pdf nella connessione), con una deflazione effettiva in Grecia ed una quasi deflazione negli altri. Dunque, la spirale della deflazione da debito è di fatto chiaramente iniziata.
Otre a ciò, il guaio con la bassa inflazione è che essa esacerba il problema costituito dai due zeri – l’impossibilità di tagliare i tassi di interesse al di sotto dello zero e la grande difficoltà a tagliare i salari reali.
La politica della BCE è limitata dal limite inferiore dello zero? Si potrebbe sostenere che non lo sia, dato che potrebbe tagliare un po’ di più ma non lo fa. Riterrei, tuttavia, che se i tassi nominali di interesse fossero molto più alti – diciamo, al 4 per cento – ma la situazione macroeconomica generale dell’euro fosse quella che è, con l’inflazione chiaramente al di sotto dell’obbiettivo ed una disoccupazione molto elevata, la BCE certamente non dovrebbe affatto esitare, e non esiterebbe, a tagliare sostanzialmente i tassi di interesse. E’ solo il fatto che lo zero sia già così vicino che fa sembrare il taglio dei tassi una grande questione, una ammissione che le cose cominciano ad apparire pericolose (come sono).
Nel frattempo, a questo punto lo zero sui salari è molto importante. In questo caso il tema fondamentale è che la Spagna (e gli altri debitori) ha bisogno di tagliare i salari rispetto alla Germania, invertendo la rapida crescita dei salari relativi durante gli anni della bolla. L’argomento che molti di noi avevano avanzato da lungo tempo era che questa correzione avrebbe potuto aver luogo molto più facilmente attraverso un aumento dei salari tedeschi piuttosto che una caduta di quelli spagnoli – in parte per le dinamiche del debito, ma anche e fondamentalmente perché è molto difficile tagliare i salari nominali.
A cosa prestereste attenzione se la rigidità nominale dei salari verso il basso fosse un serio limite condizionante? Ad una impennata nei cambiamenti della distribuzione dei salari effettivi vicina allo zero. Ed infatti [2]:
Fondo Monetario Internazionale
Per dirla tecnicamente: “per la miseria!” [3] A prima vista questa è la prova che l’inflazione europea eccessivamente lenta è già un grande problema.
Il punto è che non c’è alcuna linea rossa alla inflazione zero; anche una inflazione eccessivamente bassa è un problema grave, specialmente data la situazione europea, anche se il dato resta positivo.
Dunque, quando le persone ammoniscono sulla potenziale somiglianza dell’Europa ai casi del Giappone, sono già in ritardo sugli eventi. L’Europa sta già facendo esperienza di tutti i guai che si associano alla deflazione, anche se per adesso ha solo una bassa inflazione; ed i costi umani e sociali sono, ovviamente, assai peggiori di quelli che il Giappone ha mai conosciuto.
Non c’è bisogno che questo porti ad una rottura dell’euro: su quel fronte, i pessimisti, incluso in buona misura il sottoscritto, hanno male interpretato la forza dell’impegno delle classi dirigenti europee su quel progetto. Ma l’euro potrebbe ancora sopravvivere – e continuare ad essere un disastro.
[1] La ‘teoria’ della deflazione da debito si deve principalmente all’economista americano Irving Fisher, che nel 1933 spiegò come recessioni e depressioni potevano essere conseguenze di restrizioni del debito (deflazioni) e che il quel modo il ciclo del credito poteva essere causa del ciclo economico più generale. Nella formulazione di Fisher allo scoppio di una bolla del debito conseguono i seguenti fenomeni:
(a) la liquidazione del debito porta ad un crisi delle vendite ed a una contrazione dei depositi valutari, al momento in cui i prestiti vengono ripagati, nonché ad una diminuzione della velocità di circolazione del denaro;
(b) la contrazione dei depositi e della velocità di circolazione porta ad un abbassamento del livello dei prezzi. Se questa caduta dei prezzi non è contrastata con una reflazione si ha …
(c) una caduta ancora più forte dei valori netti delle attività economiche che precipitano in bancarotte e …
(d) una probabile caduta dei profitti che porta a preoccupazioni di perdite economiche, che a loro volta determinano …
(e) una riduzione nel prodotto, nei commerci e nell’occupazione. Tutto questo – perdite, bancarotte e disoccupazione – porta …
(f) ad un pessimismo ed ad una perdita di fiducia, che a sua volta comporta la accumulazione di capitale e l’ulteriore diminuzione della sua velocità di circolazione. Tutto questo conduce a …
(g) disturbi complessi nei tassi di interesse, e in particolare ad una caduta di quelli nominali e ad una crescita di quelli reali.
La teoria fisheriana della deflazione da debito era di pochi anni precedente alla Teoria Generale di Keynes ed a lui nota, anche se la ritenne difettosa e non la incluse nella sua teoria della “preferenza della liquidità”. Negli anni ’80 essa è stata rivalutata, tra gli altri da parte dell’economista post keynesiano Hyman Minsky.
L’economista americano Irving Fisher:
[2] La tabella fornisce il quadro delle variazioni sui salari nominali in Spagna in termini di distribuzione percentuale in due periodi: nel 2007-2008 (in blu) e nel 2011-2012 (in rosso). Suppongo che i cambiamenti siano registrati nei vari settori economici, e le varie asticelle indicano il peso percentuale corrispondente alle varie possibilità di mutamento, dal -20 per cento al + 20 per cento. Come si vede, relativamente al periodo 2011-12, in oltre il 25 per cento dei casi non c’è stato alcun mutamento, ma in oltre l’80 per cento dei casi in cambiamento è stato minimo, sia in calo che in crescita. Appariva assai diversa la situazione negli anni 2008-2009, quando la grande maggioranza dei cambiamenti di distribuiva tra il +3 ed il + 13 per cento di incrementi.
[3] E’ chiaro che Yowza non è un acronimo; è una espressione che deriva, se ho ben capito, da un serie televisiva e che sta ad indicare estrema sorpresa e disappunto.
marzo 4, 2014
Mar 4, 3:15 pm
Earlier I noted that the new Ryan poverty report makes some big claims about the poverty trap, and cites a lot of research — but the research doesn’t actually support the claims. It occurs to me, however, that the whole Ryan approach is false in a deeper sense as well.
How so? Well, Ryan et al — conservatives in general — claim to care deeply about opportunity, about giving those not born into affluence the ability to rise. And they claim that their hostility to welfare-state programs reflects their assessment that these programs actually reduce opportunity, creating a poverty trap. As Ryan once put it,
we don’t want to turn the safety net into a hammock that lulls able-bodied people to lives of dependency and complacency, that drains them of their will and their incentive to make the most of their lives.
OK, do you notice the assumption here? It is that reduced incentives to work mean reduced social mobility. Is there any reason to believe this as a general proposition?
Now, as it happens the best available research suggests that the programs Ryan most wants to slash — Medicaid and food stamps — don’t even have large negative effects on work effort. There is, however, some international evidence that generous welfare states have an incentive effect: America has by far the weakest safety net in the advanced world, and sure enough, the American poor work much more than their counterparts abroad:
Great! So poor Americans aren’t condemned to lives of complacency that drain their wills — or at least not nearly as much as the poor in other countries. So we must have much more upward social mobility than they do, as our poor make the most of their lives, right?
Um, no.:
In fact, the evidence suggests that welfare-state programs enhance social mobility, thanks to little things like children of the poor having adequate nutrition and medical care. And conversely,of course, when such programs are absent or inadequate, the poor find themselves in a trap they often can’t escape, not because they lack the incentive, but because they lack the resources.
I mean, think about it: Do you really believe that making conditions harsh enough that poor women must work while pregnant or while they still have young children actually makes it more likely that those children will succeed in life?
So the whole poverty trap line is a falsehood wrapped in a fallacy; the alleged facts about incentive effects are mostly wrong, and in any case the entire premise that work effort = social mobility is wrong.
La vera trappola della povertà
In precedenza ho notato che la nuova relazione sulla povertà di Ryan avanza alcuni grandi argomenti sulla trappola della povertà, e cita una quantità di ricerche – ma le ricerche in effetti non sono coerenti con quegli argomenti. Mi pare, tuttavia, che l’intera relazione di Ryan sia falsa anche in un senso più profondo.
In che senso? Ebbene Ryan ed altri – i conservatori in generale – sostengono di avere a cuore le opportunità, il dare a coloro che non sono nati nell’opulenza la possibilità di crescere. E sostengono che la loro ostilità ai programmi dello stato assistenziale riflette il loro giudizio, secondo il quale questi programmi effettivamente riducono le opportunità, creando una trappola di povertà. Come si espresse in una occasione Ryan:
“Noi non vogliamo trasformare le reti di sicurezza in una amaca che trastulla persone di buona prestanza verso esistenze di dipendenza e di autocommiserazione, che le priva della loro volontà e dell’incentivo a fare delle loro vite il meglio di quello che possono.”
Dunque: vi siete accorti di quale sia il presupposto, in questo caso? E’ che ridotti incentivi a lavorare significano ridotta mobilità sociale. C’è qualche ragione di credere a questo, come proposizione generale?
Ora, si dà il caso che la migliore ricerca disponibile indichi che i programmi su cui Ryan soprattutto vuole fare tagli – Medicaid e sugli aiuti alimentari – addirittura non abbiano ampi effetti sugli sforzi a lavorare: l’America possiede le reti di sicurezza sociale più deboli del mondo avanzato, ma è abbastanza chiaro che i poveri americani lavorano molto di più dei loro omologhi all’estero [1]:
Ma guarda! Dunque i poveri americani non sono condannati a vite di autocommiserazione che li privano della loro volontà – o almeno neanche lontanamente quanto i poveri di altri paesi. Dunque, noi abbiamo molta maggiore mobilità sociale verso l’alto di loro, dato che i nostri poveri fanno delle loro vite il meglio che possono, non è così?
No, non è così [2]:
Di fatto, le prove indicano che programmi degli stati assistenziali accrescono la mobilità sociale, grazie a piccole cose come la possibilità dei figli dei poveri di ricevere adeguato nutrimento ed assistenza sanitaria. Al contrario, naturalmente, quando tali programmi sono assenti o inadeguati, i poveri si ritrovano in una trappola dalla quale spesso non possono fuggire, non perché gli manchino gli incentivi, ma perché gli mancano le risorse.
Intendo dire, riflettiamoci: ma si può davvero credere che rendere le condizioni di vita dure, a un punto tale che le donne povere debbano lavorare quando sono incinte o mentre hanno ancora i figli piccoli, renda effettivamente più probabile che i loro figli abbiano successo nella vita?
Dunque, tutta la storia della trappola delle povertà è un inganno per di più confezionato con una falsità: le pretese prove sugli effetti di incentivazione sono del tutto sbagliate, e in ogni caso l’intero presupposto secondo il quale lo sforzo del lavoro favorisce la mobilità sociale è fuori luogo.
[1] La tabella indica il totale delle ore lavorate dal capofamiglia e dal coniuge all’interno delle famiglie classificate povere e non composte da anziani.
[2] La tabella mostra la relazione tra l’ineguaglianza (asse orizzontale, andando a destra l’ineguaglianza dei redditi è crescente) e la mobilità sociale (asse verticale, andando verso l’alto la mobilità diminuisce). Come si vede Italia, Regno Unito hanno la minore mobilità sociale e la maggiore ineguaglianza di redditi. La Francia ha una mobilità sociale un po’ migliore (meno bassa) ed una diseguaglianza di redditi anch’essa un po’ migliore (ovvero, minore). La Germania ha un diseguaglianza di redditi sensibilmente migliore (minore) e corrispondentemente una mobilità sociale più elevata. La situazione migliore in assoluto è quella dei paesi del Nord Europa, con le minori disuguaglianza di redditi e le maggiori mobilità sociali. Si consideri, infine, che la mobilità sociale viene misurata sulla base del parametro della elasticità dei guadagni delle generazioni; vale a dire di quanto i figli di famiglie povere o in condizioni modeste possono elevare i loro guadagni, a prescindere dalle loro condizioni economiche di origine.
marzo 4, 2014
Mar 4, 9:32 am
I took Paul Ryan’s measure almost four years ago, back when everyone in Washington was determined to see him as the Serious, Honest Conservative they knew had to exist somewhere. Everything we’ve seen of him since then has confirmed that initial judgment. When you see a big report from Ryan, you shouldn’t ask “Is this a con job?” but instead skip right to “Where’s the con?”
And so it is with the new poverty report.
Give Ryan some points for originality. In his various budgets, he relied mainly on magic asterisks — unspecified savings and revenue sources to be determined later; he was able to convince many pundits that he had a grand fiscal plan when the reality was that he was just assuming his conclusions, and that the assumptions were fundamentally ridiculous. But this time he uses a quite different technique.
What he offers is a report making some strong assertions, and citing an impressive array of research papers. What you aren’t supposed to notice is that the research papers don’t actually support the assertions.
In some cases we’re talking about artful misrepresentation of what the papers say, drawing angry protests from the authors. In other cases the misdirection is more subtle.
Take the treatment of Medicaid and work incentives. I’m going to teach the best available survey on these issues tonight, which looks at the research and finds little evidence of significant disincentive effects from Medicaid (or food stamps). That’s not at all the impression you get from the Ryan report. So I looked at the Medicaid section, and found that it contains a more or less unstructured listing of lots of papers; if you read that list carefully, you find that there really isn’t anything in there making a strong case for large incentive effects.
In other words, the research citations are just there to make the report sound well-informed; they aren’t actually used to derive the conclusions, which more or less come out of thin air.
Oh, and there are the usual Medicaid zombies too.
The thing is, we could be having a serious discussion about welfare and incentives; there are some real issues. But there isn’t anyone to have that discussion with.
La prossima generazione di fandonie
Presi le misure a Paul Ryan quattro anni orsono [1], quando tutti a Washington si erano persuasi di vedere in lui il Serio ed Onesto Conservatore, che sapevano da qualche parte dovesse pur esistere. Ogni cosa abbiamo osservato in lui da quel momento in poi ha confermato il giudizio iniziale. Quando leggete una importante relazione di Ryan, non dovreste chiedervi “E’ un imbroglio?”, invece saltate subito a “Dov’è l’imbroglio?”.
Così è anche per il nuovo rapporto sulla povertà.
Concediamo a Ryan una qualche originalità. Nelle sue varie proposte di bilancio egli si basava principalmente sui magici asterischi – risparmi non specificati e fonti di reddito da determinare in un secondo tempo; egli era capace di convincere molti opinionisti di possedere un superbo programma di finanza pubblica quando la realtà era che stava soltanto presupponendo quelle che erano le sue conclusioni, e che quei presupposti erano fondamentalmente ridicoli. Ma questa volta usa una tecnica piuttosto diversa.
Quello che egli offre è un rapporto che stabilisce alcuni giudizi forti, e cita una varietà impressionante di ricerche. Quello che si suppone è che voi non notiate che le ricerche per la verità non sostengono quei giudizi.
In alcuni casi stiamo parlando di mistificazioni artefatte di quello che dicono quegli studi, che stanno provocando irate proteste da parte degli autori. In altri casi la mistificazione è più sottile.
Si consideri il modo in cui vengono trattati Medicaid e gli incentivi sul lavoro. Questa sera terrò una lezione sul miglior saggio disponibile su questi temi, che analizza le ricerche e trova poche prove di significativi effetti disincentivanti da parte di Medicaid (e degli aiuti alimentari). Non è affatto quella l’impressione che ricevete dal rapporto di Ryan. Dunque ho guardato al paragrafo su Medicaid, ed ho scoperto che esso contiene una lista più o meno confusa di una quantità di articoli; se leggete con attenzione quella lista, troverete che in realtà non c’è niente in essa che giustifichi una forte affermazione su ampi effetti di quegli incentivi.
In altre parole, le citazioni dalle ricerche sono inserite a bella posta per far apparire bene informato il rapporto; esse non sono in effetti utilizzate per derivarne le conclusioni, che più o meno sono campate in aria.
Per non dire che compaiono le solite idee zombi su Medicaid.
La questione, se potessimo avere una serio dibattito sullo stato assistenziale e sugli incentivi, è la seguente: ci sono alcuni temi reali. Ma non c’è nessuno con cui discuterne.
[1] Si veda in particolare l’articolo sul New York Times del 5 agosto 2010 (qua tradotto nella serie di traduzioni dal 20 giugno al 30 dicembre 2010), dal titolo “The flimflam man”.
Dunque Paul Ryan, il soprannominato “uomo delle fandonie”, è un noto conservatore: contrario ai matrimoni gay ma anche all’aborto, lotta per l’abolizione delle tasse come ad esempio quelle sul guadagno in conto capitale o l’imposta sul reddito delle società ed è favorevole alla privatizzazione di Medicare.
marzo 3, 2014
Mar 3, 2:27 pm
Suddenly, or so it seems, inequality has surged into public consciousness — and neither the one percent nor its reliable defenders seems to know how to cope.
Some of the reactions are crazy — it’s Kristallnacht, they’re coming to kill us — with the craziness quite widespread; notice how many billionaires, plus of course the Wall Street Journal, rallied around Tom Perkins. But even the saner-sounding voices evidently have a hard time wrapping their minds around the notion that anyone might find 21st-century finance capitalism a bit, well, unfair.
A case in point: this article by Arthur Brooks, the president of the American Enterprise Institute. Brooks is deeply worried about changing popular attitudes toward wealth:
According to Pew, the percentage of Americans who feel that “most people who want to get ahead” can do so through hard work has dropped by 14 points since about 2000. As recently as 2007, Gallup found that 70 percent were satisfied with their opportunities to get ahead by working hard; only 29 percent were dissatisfied. Today, that gap has shrunk to 54 percent satisfied, and 45 percent dissatisfied. In just a few years, we have gone from seeing our economy as a real meritocracy to viewing it as something closer to a coin flip.
And how does he see this sea-change in attitudes? Why, it must be about growing envy of the rich, which is a terrible thing.
But the polling data don’t say anything about envy: when people say that they have lost their belief that hard work will be rewarded, they aren’t saying that they are envious of the rich; they’re saying that they have lost their belief that hard work will be rewarded. To the extent that people have negative feelings about the one percent, the emotion involved isn’t envy — it’s anger, which isn’t at all the same thing. Envy is when you have negative feelings about rich because of what they have; anger is when you have negative feelings about the rich because of what they do.
Think about it: Did the Occupy protests focus on how the one percent lives? Does muckraking journalism obsess over lifestyles?Yes, everyone knows about Mitt Romney’s car elevator, but it was the dorkiness rather than the luxury that made it a story. Actually, considering just how much the lives of the superelite have diverged from those of ordinary Americans, it’s kind of amazing how few articles there have been salaciously describing parties in the Hamptons and all that.
No, what’s really driving most of the ire is the sense that many of the rich didn’t actually earn that position, that they grew rich at the rest of America’s expense.
And what has happened since 2007 that might justify such a belief? Um, how about all those .01 percenters who were boasting about what a great job they were doing, but turned out to be leading us into a catastrophic financial crisis? What about the much-admired leaders who assured us that Wall Street was doing great stuff, and turned out to be totally clueless?
Or what about the remarkable fact that since the crisis, profits have soared, while workers’ incomes have stagnated?
People aren’t envious, they’re angry — and with good reason.
Rabbia, non invidia
All’improvviso, o almeno così sembra, l’ineguaglianza si è elevata all’interno della coscienza dell’opinione pubblica – e né l’1 per cento dei più ricchi, né i loro fidati difensori sanno come reagire.
Alcune delle reazioni sono folli – “è la Notte dei Cristalli”, “stanno venendo ad ammazzarci” – di una follia abbastanza generalizzata; si noti come molti miliardari, in aggiunta naturalmente al Wall Street Journal, si stringono attorno a Tom Perkins [1]. Ma anche le voci più assennate fanno fatica a capacitarsi dell’idea che qualcuno potrebbe trovare il capitalismo della finanza del 21° Secolo, diciamo così, un po’ ingiusto.
Un esempio a proposito: l’articolo (in connessione) di Arthur Brooks, il Presidente dell’ American Enterprise Institute. Brooks è profondamente preoccupato del mutamento delle attitudini popolari verso i ricchi:
“Second il Pew [2], la percentuale degli americani che ritengono che ‘la maggioranza delle persone che vogliono andare avanti’ possono farlo attraverso il lavoro duro, è scesa di 14 punti a partire dal 2000. Ancora di recente nel 2007, l’Istituto Gallup rendeva noto che il 70 per cento erano soddisfatti delle loro opportunità di andare avanti lavorando duramente; solo il 29 per cento era insoddisfatto. Oggi, questa differenza si è ristretta ad un 54 per cento di soddisfatti e ad un 45 per cento di insoddisfatti. Solo in pochi anni, siamo passati dal giudicare la nostra economia come una vera meritocrazia a considerarla come qualcosa di più vicino ad una fortuita scommessa.”
E come giudica questa profonda trasformazione delle attitudini? La giudica come qualcosa che deve dipendere da una crescita dell’invidia verso i ricchi, che è una cosa terribile.
Ma i dati dei sondaggi non dicono niente a proposito dell’invidia; quando le persone affermano di aver perso la loro fiducia nel fatto che il lavoro duro verrà ricompensato, non stanno dicendo di essere invidiose dei ricchi; stanno dicendo di non aver più fiducia sul fatto che il lavoro duro sarà ricompensato. Nella misura in cui le persone hanno sensazioni negative nei confronti dell’1 per cento dei più ricchi, il sentimento che viene coinvolto non è l’invidia – è la rabbia, che non è affatto la stessa cosa. L’invidia è la sensazione negativa che si percepisce verso i ricchi per quello che possiedono; la rabbia è quando si hanno sensazioni negative verso i ricchi per quello che fanno.
Si pensi a questo: le proteste di “Occupy” si sono concentrate su come vive l’1 per cento? Il giornalismo scandalistico è ossessionato dai loro stili di vita? E’ vero, tutti sanno dell’ascensore per automobili di Mitt Romney [3], ma è diventato una notizia più per la pacchianeria che non per l’esibizione di lusso. Per la verità, proprio considerando quanto la vita della super élite sia diventata diversa da quella degli americani comuni, è abbastanza sorprendente quanti pochi articoli che descrivessero in modo salace le feste nelle ville di Hamptons e tutto il resto, ci siano stati.
No, quello che realmente provoca gran parte dell’ira è la sensazione che i ricchi non si guadagnino effettivamente quella posizione, ma diventino ricchi a spese del resto dell’America.
E che cose è accaduto, a partire dal 2007, che possa giustificare tale convincimento? Pensiamoci. Che ne direste di tutti quei ricchi all’apice delle graduatorie che si vantavano del gran lavoro che stavano svolgendo, e che si è scoperto ci stavano portando in una crisi finanziaria catastrofica? Oppure, di tutti quei dirigenti circondati da ammirazione che ci assicuravano che Wall Street stava facendo grandi cose, e che si è scoperto erano completamente senza una bussola?
Oppure, del fatto considerevole che dal momento della crisi i profitti sono saliti alle stelle, mentre i salari dei lavoratori sono rimasti stagnanti?
La gente non è invidiosa – è arrabbiata, e a buona ragione.
[1] Impresario e capitalista americano nato nel 1932.
[2] Società di statistiche e sondaggi.
[3] Pare che in una delle sue case, Romney tenga quattro automobili con un ascensore, evidentemente per sollevarle ai piani superiori. Ovvero, per entrare direttamente in macchina dal salotto, come, mi pare, nei film di Batman. E questo è lo strumento in funzione, dal costo di 55.000 dollari:
marzo 3, 2014
Mar 3, 8:14 am
Philip Longman has a very good article in the Washington Monthly debunking the hype about the Texas economy. Things I didn’t know include the fact that net inward migration by native-born Americans is actually quite small.
But I wanted to follow up on one particular point: the role of oil and gas in recent years. Longman concedes that these industries directly account for a fairly small share of the economy even in Texas, but argues that their rapid growth, combined with multiplier effects, makes them a much bigger story when it comes to Texas growth. Indeed. Let me put some numbers to this, using the BEA data on real GDP by state.
What you learn from these data right away is that Texas is indeed king of the extractive expansion. Nationwide, mining output, measured in 2005 dollars, expanded $29 billion between 2007 and 2012; Texas accounted for $22.7 billion of that expansion. Nationally, the expansion of mining was 0.2 percent of 2007 GDP; in Texas, it was 10 times that, 2 percent.
This mining expansion must also have had a multiplier effect, as mining operations and workers spent money in the local economy, raising incomes, and generating further increases in demand. The state of the art estimates of regional multipliers come from Nakamura and Steinsson (pdf), who use fluctuations in defense spending as natural experiments; they conclude that the multiplier is around 1.5. So that 2 percent of GDP Texas extractive boom should have raised the state’s GDP by 3 percent, or 2.7 percent relative to the nation as a whole.
Meanwhile, overall Texas GDP rose 13 percent from 2007 to 2012, while national GDP rose only 2.5 percent. What this calculation suggests is that the oil and gas boom accounts for more than a quarter of that growth difference.That’s a lot, although it’s not the whole story.
What about the rest? Partly we’re seeing the continuation of the long-term movement of U.S. population and jobs to the Sunbelt; Ed Glaeser likes to point out that the single best predictor of state growth is the number of winter degree days. On top of that, Texas does do one very important thing right: it has relaxed zoning, which keeps housing abundant and cheap.
And what about the more general miracle of free-market capitalism? It exists only in the eyes of the beholder.
Petrolio, gas naturale [1] e Rick Perry [2]
Philip Longan ha un articolo molto buono sulla Washington Monthly che ridicolizza il battage pubblicitario sull’economia del Texas. Cose che non conoscevo, incluso in fatto che la migrazione interna da parte di americani natii è effettivamente abbastanza modesta.
Ma avevo intenzione di riprendere un punto particolare: il ruolo del petrolio e del gas naturale negli anni recenti. Longan ammette che queste industrie pesano effettivamente per una quota abbastanza modesta dell’economia persino in Texas, ma sostiene che la loro rapida crescita, combinata con gli effetti di moltiplicatore, le rende molto più importanti quando si passa alla crescita del Texas. Consentitemi di avanzare qualche dato al proposito, utilizzando le statistiche BEA [3] sui PIL reali al livello degli Stati.
Quello che si apprende immediatamente da questi dati è che il Texas è in effetti il re della espansione estrattiva. Nell’intera nazione, la produzione mineraria, misurata in dollari 2005, si è ampliata di 29 miliardi di dollari dal 2007 al 2012. Il Texas ha pesato per 22,7 miliardi di quella espansione. Nazionalmente, l’espansione nel settore estrattivo è stata lo 0,2 per cento del PIL del 2007; nel Texas è stata dieci volte tanto, il 2 per cento.
Questa espansione mineraria ha anche avuto un effetto di moltiplicatore, dato le operazioni minerarie ed i lavoratori che hanno speso i soldi nell’economia locale, elevando i redditi e generando ulteriori incrementi nella domanda. Lo stato dell’arte sulle stime sui moltiplicatori regionali derivano da Nakamura e Steinsson (disponibili in pdf), che usano le fluttuazioni nella spesa per la difesa come una sorta di esperimenti naturali; essi concludono che il moltiplicatore è attorno all’1,5. Cosicché il 2 per cento del PIL del boom estrattivo del Texas avrebbe elevato il PIL dello Stato per il 3 per cento, oppure per il 2,7 per cento in relazione alla nazione nel suo complesso.
Nel frattempo, il PIL del Texas è cresciuto del 13 per cento dal 2007 al 2012, mentre il PIL nazionale è cresciuto soltanto del 2,5 per cento. Quello che questo calcolo indica è che l’espansione del petrolio e del gas incidono per più di un quarto in quella differenza di crescita. Questo è molto, sebbene non sia ancora tutta la storia.
Cosa dire del resto? In parte stiamo osservando una prosecuzione degli spostamenti a lungo termine della popolazione degli Stati Uniti e dei posti di lavoro nel Sunbelt[4] . A Ed Gleaser piace sottolineare che l’unico ottimo fattore di previsione della crescita degli Stati è quello delle giornate con temperature invernali. In cima a quel dato, il Texas ha una importante caratteristica adatta: ha una pianificazione urbanistica disinvolta [5], che mantiene gli alloggi in condizioni di abbondanza e di economicità.
E cosa dire più in generale del miracolo del capitalismo del libero mercato? Che esiste soltanto agli occhi di chi ci crede.
[1] In americano “gas” sta talora per “benzina” solo per effetto di una abbreviazione di “gasoline”. E’ chiaro che in questo articolo si parla di gas naturale.
[2] James Richard “Rick” Perry è un politico statunitense, membro del Partito Repubblicano e dal 21 dicembre 2000 quarantasettesimo Governatore del Texas.
[3] Bureau of Economic Analysis
[4] Il “Sunbelt” è la grande area degli Stati Uniti che include gli Stati del Sud e del Sudest. Climi caldi in estate e moderati in inverno, all’interno del Sunbelt si trovano condizioni diverse, tipiche di aree desertiche, mediterranee (California) o subtropicali. (Wikipedia)
[5] Se l’effetto è quello di rendere economici i prezzi delle abitazioni, suppongo che “relaxed” stia per “disinvolto” e non per “rilassato”.