Mar 2, 4:11 pm
Mostly a note to myself: short-run fluctuations in the inflation rate are more or less entirely about gasoline prices, which affect headline and even, to some extent, core inflation via their impact on costs. The picture:
Meanwhile, gas prices have no predictive power at all for future inflation. So anyone reacting to short-run movements in headline inflation is making a big mistake.
E’ la benzina
Una nota più che altro per me stesso: le fluttuazioni a breve termine del tasso di inflazione riguardano più o meno i prezzi della benzina, che attraverso i loro impatti sui costi influenzano l’inflazione complessiva ed anche, in qualche misura, quella sostanziale. Il diagramma:
Nel frattempo, i prezzi della benzina non hanno alcun potere previsionale sulla inflazione futura. Dunque, chiunque reagisca ai movimenti di breve periodo della inflazione complessiva sta facendo un grosso errore.
marzo 2, 2014
Mar 2, 10:19 am
In my last post I followed Floyd Norris in criticizing the CBO, which has marked down its estimates of future economic growth without marking down its estimates of future interest rates. I still think that’s a fair criticism. But I also offered a hypothesis: that interest rates fall more than one-for-one with slower growth, so that the crucial difference r-g — interest rate minus growth rate — actually falls, making debt easier, not harder, to handle.
So I’ve taken a quick and dirty look at US history, and it doesn’t seem to bear my hypothesis out. Here’s actual r-g — strictly speaking, interest rates minus the rate of growth of GDP over the previous year — since 1952:
Interest rate minus GDP growth
Postwar US history broadly breaks into two eras: a fast-growth generation after World War II, and generally slower growth thereafter. If my hypothesis had been right, r-g should have been lower in the second era than the first. Well, it looks as if the opposite was generally true, even if you ignore the spikes around big recessions.
Now that I think about it, the case of Japan — although complicated by the zero lower bound — also counts in this direction: interest rates have been low, but GDP growth even lower.
I still think that a fall in g leads to a fall in r (as it did in Japan), so that the budgetary implications are weaker than CBO seems to think. But lower growth does appear to make debt harder, not easier, to carry.
Crescita e tassi di interesse: sembra che abbia torto
Nel mio post precedente, avevo seguito Floyd Norris nel criticare il CBO, che aveva abbassato le sue stime sulla futura crescita economica senza abbassare le stime sui tassi di interesse. Penso ancora che fosse una critica giusta. Ma avevo anche avanzato un’ipotesi: che i tassi di interesse cadessero in un rapporto superiore di 1 ad 1 con una crescita più lenta, cosicché la differenza fondamentale tra r e g – ovvero il tasso di interesse meno il tasso di crescita – effettivamente si ridurrebbe, rendendo la gestione del debito più facile, non più difficile.
Così ho dato un’occhiata superficiale alla storia statunitense, ed essa non sembra che confermi la mia ipotesi. Ecco, a partire dal 1952, l’effettivo r – g (strettamente parlando, i tassi di interesse sottratti dei tassi di crescita del PIL degli anni precedenti):
Tasso di interesse meno tasso di crescita del PIL
La storia post-bellica degli Stati Uniti in generale si scompone in due epoche: la generazione della crescita rapida dopo la II Guerra Mondiale, e la generalmente più lenta crescita successiva. Se la mia ipotesi fosse stata giusta, la differenza tra interessi e crescita avrebbe dovuto essere più lenta nel secondo periodo che non nel primo. Ebbene, sembra che in generale sia stato vero l’opposto, anche ignorando i picchi attorno ai periodi di recessione.
Ora, io penso al caso del Giappone – sebbene complicato dal limite inferiore dello zero – che anch’esso conta in questa direzione: i tassi di interesse sono stati bassi, ma la crescita del PIL è stata persino più bassa.
Penso ancora che una caduta nella crescita comporti una diminuzione nei tassi di interesse (come è accaduto in Giappone), cosicché le implicazioni di bilancio sarebbero inferiori di quelle che il CBO sembra ritenere. Ma la crescita più bassa pare che renda il debito più difficile, e non più facile, da portare.
marzo 1, 2014
Mar 1, 11:47 am
Floyd Norris makes a really good point in criticizing the Congressional Budget Office; he argues that the office’s latest budget projections aren’t consistent. CBO has marked down its expectations for future growth, but it hasn’t marked down its expectations for future interest rates. And that leads to excessive fiscal pessimism.
Indeed. CBO seems to think, for some reason, that this represents the new normal:
but that this does not:
You can make the case that US long-term growth prospects have worsened substantially. But it’s hard to make that case without thinking that we will be at least flirting with secular stagnation, which will mean persistently very low interest rates.
One way to think about why this matters this is in terms of the relationship between “r”, the real interest rate, and “g”, the economy’s long-run growth rate. The extent to which public debt is a problem depends a lot of this relationship. If r is close to or even below g, debt is hardly a burden at all; if revenues pay for non-interest outlays, debt as a share of GDP will steadily erode. Only if r>>g should we worry about debt spirals and all that.
So what CBO has in effect done is mark down its estimate of g but not of r. And that’s surely not right. As Floyd says, we should expect lower g to lower r too. In fact, I think there’s good reason to believe that a fall in g will reduce r more than one for one, so that slow projected growth actually reduces the urgency of doing anything about debt. More about that when I have time to get to it.
Important stuff.
Congressional Budget Office, abbinamenti casuali [1]
Floyd Norris avanza un buon argomento nel criticare il Congressional Budget Office; sostiene che le ultime previsioni di bilancio dell’ufficio non sono coerenti. Il CBO ha ribassato le sue aspettative per la futura crescita, ma non lo ha fatto per i tassi di interesse. E questo comporta un pessimismo eccessivo in materia di finanza pubblica.
E’ così. Il CBO sembra, per qualche ragione, ritenere che questa sia la nuova condizione di normalità:
ma che in questo caso non sia tale [2]:
Si può fare l’ipotesi che le prospettive a lungo termine della crescita statunitense siano peggiorate sostanzialmente. Ma è difficile avanzare quella ipotesi senza pensare che non ci si stia almeno trastullando con la stagnazione secolare, che comporterebbe persistentemente tassi di interesse molto bassi.
Un modo di riflettere su come tutto questo sia importante è pensarlo nei termini di una relazione tra “r”, il tasso di interesse reale, e “g”, il tasso di crescita dell’economia a lungo termine. Quanto il debito pubblico sia un problema, dipende in buona misura da questa relazione. Se “r” è prossimo o persino inferiore a “g”, è difficile in ogni modo che il debito sia un peso; se le entrate ripagano le spese al netto dell’interesse, il debito come percentuale del PIL diminuirà regolarmente. Soltanto se il tasso di interesse è superiore al tasso di crescita dovremmo preoccuparci sulle spirali del debito e tutto il resto.
Dunque, quello che il CBO ha in effetti fatto è ribassare la stima di crescita ma non la stima del tasso di interesse. E quello non è giusto sicuramente. Come dice Floyd, dovremmo aspettarci che una crescita più bassa comporti anche un tasso di interesse più basso. Io credo che ci sia una buona ragione per ritenere che una caduta nella crescita ridurrà il tasso di interesse in un rapporto superiore di 1 ad 1, cosicché la lenta crescita prevista riduce l’urgenza di fare alcunché per il debito. Tornerò su questo tema quando avrò tempo per farlo.
Cose importanti.
[1] “Mix-and-match” sembra sia una espressione usata per indicare una modalità di vendita di prodotti – di solito abbigliamento – che consente di prendere/pescare due oggetti e di abbinarli. Il senso è forse quello di indicare una certa leggerezza nella procedura utilizzata dal CBO, il quale prevedendo un abbassamento della crescita ed un innalzamento dei tassi di interesse si sarebbe comportato come se dovesse a piacimento combinare due capi di abbigliamento.
[2] La prima tabella è una stima della forza lavoro nel 2014, che dopo un chiaro declino a partire dalla recessione, non cala ma neanche si riprende. La seconda tabella è la previsione dei tassi di interesse sui bond decennali, che invece sono dati in chiara ascesa nell’anno 2014.
marzo 1, 2014
Mar 1, 11:20 am
OK, I don’t know why I haven’t done this before.
When you’re trying to track federal fiscal policy, a pretty good first cut is to focus on discretionary spending. For one thing, it is in fact the thing that has been moving a lot in recent years. Also, focusing on discretionary helps take out of the picture both spending rises driven by automatic stabilizers — like the slump-induced rise in unemployment benefits and food stamps — and spending driven by things like demography, as baby boomers hit retirement age.
So here’s federal discretionary spending since the 2007 business cycle peak, compared with spending after the 2000 peak:
Office of Management and Budget
If spending had tracked what happened under Bush II, discretionary spending would be about a third — or more than 2 percent of GDP — higher. Since there is good reason to believe that the multiplier is 1.5 or more, this would mean real GDP 3-plus percent higher, closing much if not most of the output gap, and probably an unemployment rate below 5.5 percent. In short, we would have had a vastly healthier economy but for the de facto victory of disastrous austerity policies.
L’austerità Americana, un nuovo diagramma.
In effetti, non so perché non l’abbia fatto in precedenza.
Quando state cercando di tracciare la politica federale della spesa pubblica, un primo tentativo abbastanza utile è quello di concentrarsi sulla spesa discrezionale. Da una parte, è un fatto che questo aspetto sia molto variato negli anni recenti. Inoltre, concentrarsi sulle spese discrezionali aiuta a tener fuori gli incrementi di spesa provocati dagli stabilizzatori automatici – come la crescita indotta dalla crisi dei sussidi di disoccupazione e degli aiuti alimentari – nonché spese determinate da aspetti come la demografia, come quando i baby-boomers raggiungono l’età della pensione [1].
Ecco dunque la spesa federale discrezionale a partire dal punto più alto del ciclo economico del 2007, confrontata con la spesa dopo il punto più alto dell’anno 2000:
Ufficio della gestione e del Bilancio
Se la spesa avesse seguito quello che accadde sotto Bush figlio, la spesa discrezionale sarebbe stata circa un terzo più alta – ovvero più del 2 per cento del PIL. Dato che ci sono buone ragioni per credere che il moltiplicatore sia 1,5 o più ancora, questo significherebbe un PIL reale 3 punti più alto, in gran parte chiudendo, se non del tutto, il differenziale della produzione, e probabilmente un tasso di disoccupazione al di sotto del 5,5 per cento. In poche parole, avremmo un’economia ampiamente più sana, se non fosse per la vittoria di fatto delle disastrose politiche di austerità.
[1] Il “baby-boom” è il periodo di notevole aumento delle nascite che si determinò all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e che durò per alcuni anni. Quel fenomeno naturalmente ha transitato nel successivo mezzo secolo influendo su ogni statistica.
marzo 1, 2014
Mar 1, 11:07 am
This story about top tech firms agreeing not to compete for workers is really amazing. We’re accustomed to the notion that technology firms that win the race to dominate some segment become temporary monopolists; indeed, that temporary monopoly is the reward for successful innovation (although sometimes it ends up being a reward for just establishing an early market lock, rather than being either first or best with the technology.) What isn’t often mentioned is that the top few tech firms dominate certain specialized labor markets, too; this gives them an incentive to collude to hold down wages, and collude they do or at any rate did.
As a certain Scotsman once said,
People of the same trade seldom meet together, even for merriment and diversion, but the conversation ends in a conspiracy against the public.
But then we all know that Adam Smith was a left-winger — I mean, he also favored paper currency and bank regulation.
Meanwhile, Farhad Manjoo describes the huge success of antitrust in promoting competition and innovation in cell phone service.
Hmm. Maybe we need to get back to worrying seriously about market power?
L’oligopsonio di Silicon Valley [1]
Questa storia delle principali imprese di tecnologia che si mettono d’accordo per non competere sui lavoratori [2] è davvero sorprendente. Ci siamo abituati all’idea che le società che vincono la gara per il dominio di alcuni segmenti della tecnologia diventano provvisoriamente monopoliste; in pratica, il monopolio temporaneo è il premio per l’innovazione di successo (sebbene talvolta finisca con l’essere un premio soltanto per aver determinato una chiusura precoce del mercato, anziché per l’essere il primo o il migliore in una tecnologia). Quello che spesso si dimentica è che le poche più importanti imprese di tecnologie dominano anche certi mercati del lavoro specialistici e che questo le favorisce nel mettersi d’accordo per tenere bassi i salari, cosa che fanno o almeno hanno fatto.
Un tale “scozzese” [3] disse una volta:
“Gli individui dello stesso ramo commerciale raramente si incontrano, persino per feste o per svaghi, eppure le loro conversazioni finiscono con l’essere intese a danno dell’interesse pubblico.”
Ma sappiamo tutti che a quell’epoca Adam Smith era un individuo di sinistra – voglio dire era anche a favore della moneta cartacea e della regolamentazione delle banche.
Nel frattempo, Farhad Manjoo descrive il grande successo dell’antitrust nel promuovere la competizione e l’innovazione nel settore della telefonia cellulare.
Un pensiero. Può darsi che si debba tornare a preoccuparci seriamente del potere del mercato?
[1] L’oligopsonio è una forma di mercato in cui la domanda è concentrata in un ristretto numero di operatori, mentre l’offerta è frammentata in un numero indefinito di operatori. (Wikipedia)
[2] Un articolo del 28 febbraio sul New York Times riporta che l’accordo tra le imprese riguardava l’impegno a non assumere ingegneri altrui. La conseguenza era che gli ingegneri non erano in pratica liberi di stare sul mercato del lavoro e delle competenze. In un periodo dal 2004 al 2009 quella intesa aveva danneggiato 64.000 programmatori con un danno economico che veniva stimato in miliardi di dollari. Secondo l’inchiesta il massimo ispiratore di questo reato era stato lo stesso Steve Jobs.
[3] Adam Smith.
febbraio 28, 2014
February 28, 2014, 3:18 pm
We now know that many key people at the Fed spent 2008, the year of financial doom, obsessing about inflation, which wasn’t a threat at all. This is not good; what’s even not-gooder is that, as David Glasner and others have pointed out, the central bankers who got this so completely wrong remain in positions of great influence, and show no sign of having rethought their views.
But can we say that the Fed’s inflation-phobia caused the panic, and maybe even the Great Recession? I don’t think so.
That’s not to deny that the inflation phobia was a remarkable thing. Inflation in early 2008, like the later blip in 2010-11, was driven by commodity prices, and especially by gasoline prices. And the evidence is just overwhelming that while spikes in gas prices can push inflation up or down in the short run, they have no, zero, zip predictive power over inflation looking forward.
Here are two quick-and-dirty graphs covering the period since 1986. First, annual averages of the rate of change in gasoline prices versus the rate of change of overall CPI:
A fairly strong relationship; in fact, gas prices explain a significant part of inflation variation year to year. But should you look at a gas price spike and worry that it presages a general rise in inflation? No, a thousand times no. Here’s the annual change in gas prices against the inflation rate over the next three years:
Not a hint of sustained impact. So you really have to wonder about people for whom it is always 1979, who always take any bump in gas prices as a reason to worry about runaway inflation.
Incidentally, do these people react to falling gas prices by worrying about deflation or at any rate below-target inflation? My impression is no. We’ll be able to test that once we see the 2009 transcripts, but I’ll bet that the inflation hawks of 2008, so worried about rising prices then, showed no comparable concern over the impacts of plunging commodity prices the next year. In other words, I’m pretty sure that we’re seeing a general proclivity toward finding reasons to tighten, rather than simply a flawed model.
So plenty of blame to be sent the Fed’s way. But was inflation phobia that crucial in the crisis and the slump that followed and continues to this day? I’d say no, for two reasons.
First, preventing the financial crisis would have taken a lot more than cutting the Fed funds rate to zero in September 2008 rather than December. We were in the midst of an epic housing bust, which was in turn causing a collapse in the value of mortgage-backed securities, which in turn was causing a collapse of confidence in financial firms. Cutting rates from very low to extremely low a few months earlier wouldn’t have stopped that collapse.
What was needed to end the run on Wall Street was a bailout — both the actual funds disbursed and the reassurance that the authorities would step in if necessary. And that wasn’t in the cards until, as Rick Mishkin observed in the transcripts, “something hit the fan.”
Second, even avoiding the financial panic almost surely wouldn’t have meant avoiding a prolonged economic slump. How do we know this? Well, what we actually know is that the panic was in fact fairly short-lived, ending in the spring of 2009. It doesn’t really matter which measure of financial stress you use, they all look like this:
Yet the economy didn’t come roaring back, and in fact still hasn’t. Why? Because the housing bust and the overhang of household debt are huge drags on demand, even if there isn’t a panic in the financial market.
So a pox on inflation phobia, and boo for the inflation-phobes who have learned nothing. But they didn’t cause the mess we’re in.
La fobia dell’inflazione ha provocato la Grande recessione?
Ora sappiamo che molte persone influenti alla Fed passarono il 2008, l’anno della rovina finanziaria, nell’ossessione dell’inflazione, che non era affatto una minaccia. Non è una cosa positiva; né è più positivo, come David Glasner ed altri hanno sottolineato, che banchieri centrali che ebbero così completamente torto, restino in posizioni di grande influenza, e non mostrino alcun segno di ripensamento sui loro punti di vista.
Ma possiamo dire che l’ossessione dell’inflazione da parte della FED abbia provocato il panico, e forse persino la Grande Recessione? Io non lo penso.
Questo non significa negare che la fobia dell’inflazione non sia stata una cosa considerevole. L’inflazione all’inizio del 2008, come il successivo piccolo segnale nel 2010-11, fu guidata dai prezzi delle materie prime, e specialmente dai prezzi della benzina. E ci sono prove proprio schiaccianti che mentre i prezzi dei carburanti possono spingere in alto o in basso l’inflazione nel breve periodo, essi non hanno alcun potere previsionale – zero, niente di niente – sull’inflazione a più lunga scadenza.
Ecco due grafici facili facili che coprono un periodo a partire dal 1986. Il primo riguarda le medie annuali del tasso di mutamento dei prezzi della benzina a confronto con il tasso di mutamento dell’indice generale dei prezzi:
Una relazione abbastanza forte; di fatto i prezzi della benzina spiegano anno per anno una parte rilevante della variazione dell’inflazione. Ma dovreste guardare ad una impennata nel prezzo della benzina e preoccuparvi che essa costituisca una presagio di una crescita generale dell’inflazione? No, mille volte no. Ecco il mutamento annuale nei prezzi della benzina a confronto con il tasso di inflazione nei successivi tre anni:
Neanche un cenno di un impatto duraturo. Si deve dunque essere meravigliati di persone per le quali si è sempre dinanzi alla situazione del 1979, che considerano sempre un ritocco nei prezzi della benzina come una ragione per preoccuparsi di una inflazione fuori controllo.
Per inciso, queste persone reagiscono a prezzi in caduta della benzina preoccupandosi della deflazione, o di un qualche tasso di inflazione al di sotto del suo previsto obbiettivo? Non mi pare. Potremo verificarlo una volta che conosceremo i verbali del 2009 [1], ma scommetterei che i falchi dell’inflazione, allora così preoccupati della crescita dei prezzi, non mostrarono alcuna paragonabile preoccupazione sugli impatti dei prezzi in caduta delle materie prime nell’anno successivo. In altre parole, sono abbastanza sicuro che siamo in presenza di una tendenza generale a individuare ragioni a favore di politiche restrittive, piuttosto che semplicemente in presenza di un modello difettoso.
Si deve dunque attribuire molta colpa a questa impostazione della Fed. Ma la fobia per l’inflazione fu così cruciale nella crisi e nella crisi che ne seguì e che continua di questi tempi? Direi di no, per due ragioni.
La prima, per prevenire la crisi finanziaria ci sarebbe voluto molto di più che un taglio sino allo zero del tasso di riferimento della Fed, attuato nel settembre anziché nel dicembre del 2008. Eravamo nel mezzo di uno scoppio di una bolla immobiliare epica, che a sua volta provocò un collasso nel valore dei titoli garantiti da ipoteche, che a sua volta provocò un collasso nella fiducia delle società finanziarie. Tagliare i tassi portandoli da una posizione molto bassa ad una posizione estremamente bassa, pochi mesi prima, non avrebbe fermato quel collasso.
Quello che era necessario per fermare la fuga su Wall Street fu un salvataggio – nel senso sia dei finanziamenti effettivi sborsati che della riassicurazione che le autorità sarebbero intervenute se necessario. E quello non era destino che accadesse finché, come osservò Rick Mishkin nei verbali, “non scoppiò il putiferio” [2].
In secondo luogo, persino evitare il panico finanziario quasi sicuramente non avrebbe significato evitare una prolungata crisi economica. Come lo sappiamo? Ebbene, quello che in verità sappiamo è che il panico finanziario fu di fatto abbastanza di breve durata, terminando con la primavera del 2009. In realtà non è importante quale metro del disordine finanziario si utilizza, appaiono tutti nel modo seguente:
Tuttavia l’economia non tornò a ruggire, e in effetti non l’ha ancora fatto. Perché? Perché la bolla immobiliare e il debito eccessivo delle famiglie sono vaste sottrazioni di domanda, anche se non c’è panico nei mercati finanziari.
Dunque, malediciamo la fobia dell’inflazione, e fischiamo pure gli ‘inflazionofobi’ che non hanno imparato niente. Ma non furono loro la causa del casino in cui siamo finiti.
[1] Si consideri che il riferimento ai verbali della Fed – come nel post del 24 febbraio “Grandi bugie naturali” – è lo spunto di questi ragionamenti di Krugman. La Fed ha infatti la norma e la prassi di pubblicare i verbali delle proprie discussioni interne dopo un certo numero di anni; i verbali che ora sono stati resi noti arrivano al 2008.
[2] Letteralmente “finché qualcosa non colpì il ventilatore”; dove quel “qualcosa” è un modo per esprimere più elegantemente l’effettiva espressione idiomatica. Che sarebbe: “when the filth hit the fan”, o peggio”when the shit hit the fan”; ovvero “quando la sozzura (o la merda) finisce nel ventilatore”.
febbraio 26, 2014
Feb 26, 4:28 pm
Conservatives appear to be really upset that liberals are actually taking on the facts in the anti-Obamacare ads they’ve been running. How dare you question whether the people in these ads are giving an accurate picture — they’re suffering!
OK, we’ve seen this kind of play before. Remember how anyone suggesting that Dick Cheney and whatshisname misled us into invading Iraq was attacking American’s brave fighting men and women?
But there’s a different kind of struggle anyone trying to point out the facts encounters — a barrage of anecdotes. You say that the Obamacare horror stories are fake, but I kind of know this man who is being told that he has to buy a policy he can’t possibly afford / I read this sad story in the Wall Street Journal / I heard this tale on the radio / etc..How do you answer that?
Well, it can’t be done retail. If the Koch brothers are pouring money into ads featuring a person, or the GOP response to the SOTU tells a story, then it’s worth trying to track down the particulars of this case. But to deal with the broader problem of anecdotes, what you need is a framework that tells you which anecdotes are almost surely wrong.
So here’s what you need to understand. The Affordable Care Act isn’t magic — it produces losers as well as winners. But it’s not black magic either, turning everyone into a loser. What the Act does is in effect to increase the burden on fortunate people — the healthy and wealthy — to lift some burdens on the less fortunate: people with chronic illnesses or other preexisting conditions, low-income workers.
Suppose, then, that someone comes to you with an anecdote about a cancer patient, or just an older person in poor health, and tells you that this person is about to lose the care she needs, or face a huge increase in expenses, under Obamacare. Well, it’s almost certainly not true — people like that are overwhelmingly beneficiaries of health reform, thanks to community rating, which means that they can’t be discriminated against because of their condition.
Or suppose that someone tells you about a struggling worker who had adequate coverage but is now being confronted with unaffordable premiums. You should immediately ask, what about the subsidies? Because the Affordable Care Act has subsidies that are there specifically to keep premiums affordable for lower earners.
If someone insists that he knows about someone in these categories who really is being grievously hurt, well, the burden of proof rests with the claimant. Basically, stories like that are going to be very rare.
Obamacare opponents could, of course, go with the real losers — people in the one percent paying higher taxes, healthy young men who are getting by with cheap, minimalist policies. But they want sob stories — the sick middle-aged woman facing tragedy. And so far, every single one of those sob stories has turned out to be false — because the very nature of the reform is such that such things hardly ever happen.
Una teoria generale dei racconti fantastici sulla riforma della assistenza di Obama
I conservatori sembrano essere davvero turbati dal fatto che i democratici stanno effettivamente sfidando gli avvisi pubblicitari ostili alla riforma sanitaria di Obama che essi stanno mettendo in circolazione. “Come osate chiedere se le persone in questi avvisi pubblicitari danno una rappresentazione accurata della realtà : esse stanno soffrendo!”
Va bene, abbiamo visto giochi di questo genere in precedenza. Ricordate come chiunque suggerisse che Dick Cheney e “Comesichiama” [1] ci avevano ingannato a proposito della invasione dell’Iraq, stessero attaccando uomini e donne di coraggio che combattevano per l’America?
Ma c’è una battaglia di diversa natura cui va incontro chiunque cerchi di mettere in evidenza i fatti – uno sbarramento di aneddoti. Voi dite che le storie terribili sono false, ma … io conosco vagamente quest’uomo cui è stato detto che deve acquistare una polizza che probabilmente non può permettersi / io leggo questa storia triste sul Wall Street Journal / io ho sentito questo racconto alla radio / etc. Come si risponde a tutto ciò?
Ebbene, non lo si può fare nel dettaglio. Se i fratelli Koch mettono denaro in avvisi pubblicitari che mostrano una persona, o la risposta del Partito Repubblicano al Discorso sullo Sato dell’Unione racconta una storia, allora è il caso di provare a rintracciare i particolari di questi casi. Ma per misurarsi con il più generale problema degli aneddoti, c’è bisogno di uno schema che vi spieghi quali aneddoti sono quasi sicuramente sbagliati.
Ecco dunque quello che avete bisogno di capire. La Legge sulla Assistenza Sostenibile non è magia – determina sia vincitori che perdenti. Ma non è neanche magia nera, che trasforma tutti in perdenti. Quello che la legge fa è che in effetti aumenta l’onere sulle persone fortunate – quelli che sono in salute e sono ricchi – per alleviare qualche peso dai meno fortunati: persone con malattie croniche o altre preesistenti patologie, lavoratori a basso reddito.
Supponiamo dunque che qualcuno si presenti con un paziente ammalato di cancro, o semplicemente una persona anziana con una salute malandata, e vi racconti che con la riforma di Obama questa persona è vicina a perdere l’assistenza di cui ha bisogno, oppure si trova dinanzi ad una forte crescita delle spese. Ebbene, quasi certamente non è vero – persone come quelle sono in misura schiacciante beneficiarie della riforma sanitaria, grazie alla valutazione comunitaria [2], il che significa che esse non possono essere discriminate a causa delle loro condizioni.
Oppure, supponiamo che qualcuno vi racconti di un lavoratore che ha difficoltà perché ha una copertura assicurativa adeguata, ma ora si misura con premi assicurativi insostenibili. Dovreste subito chiedere, che cosa accade con i sussidi? Perché la Legge sulla Assistenza Sostenibile ha sussidi che servono in modo specifico a mantenere i premi più bassi per coloro che hanno stipendi minori.
Se qualcuno ribadisce di conoscere qualcuno di queste categorie che viene realmente danneggiato in modo serio, ebbene, l’onere della prova ricade su chi lo afferma. Fondamentalmente, storie di quel genere sono destinate ad essere molto rare.
Gli oppositori della legge di riforma di Obama, naturalmente, potrebbero avanzare casi di persone che realmente ci rimettono – individui dell’1 per cento dei più ricchi che pagano tasse più elevate, persone in buona salute che se la stanno cavando con polizze molto economiche e minimaliste. Ma essi vogliono storie delle quali si possa piangere – la donna ammalata di media età che fa i conti con una situazione tragica. E sino a questo punto, ogni singola storia strappalacrime di questo genere si è dimostrata falsa – perché la vera natura della riforma è tale che cose del genere accadono molto raramente.
[1] George Bush, che, se non sbaglio, Krugman definisce “Comesichiama” perché fu tra i primi ad accusarlo di dire il falso all’epoca della invasione dell’Iraq, e per questo si procurò molte critiche di lesa maestà, al punto che prese ogni tanto a definirlo ironicamente in quel modo.
[2] La ‘valutazione di comunità’ significa che il costo della polizza assicurativa non viene più stimato sulla base delle condizioni – di età e di salute – degli individui, ma sulla base delle condizioni medie di intere comunità. Il che comporta che gli individui più anziani ed ammalati non possono vedersi caricare, come in precedenza, i costi più elevati.
febbraio 26, 2014
Feb 26, 8:21 am
Uh-oh. Chinese equivalents of the TED spread and other gauges of financial stress in the US have widened sharply. The widening in the TED spread was one of the key reasons I was already very scared in late 2007. If past is prologue, we should be very worried about China now.
Spread rossi
Oh, oh. Gli equivalenti cinesi del TED spread [1] e di altri segnalatori di stress finanziari negli Stati Uniti stanno bruscamente allargandosi. L’ampliamento dello spread TED fu una delle ragioni per le quali io era già assai spaventato sulla fine del 2007. Se il passato è un precedente corretto, ora dovremmo essere molto preoccupati per la Cina.
[1] Il ‘TED spread’ è il differenziale tra il tasso di interesse sui prestiti interbancari e quello sui Buoni del Tesoro americani. Il termine TED è composta da T, che sta per i Buoni del Tesoro americani a tre mesi (Treasury Bills) ed ED, che sta per i contratti a termine in eurodollari, che in realtà, dopo la crisi del 1987, è rappresentato dal tasso interbancario offerto sul mercato di Londra (LIBOR), sempre a tre mesi. L’andamento di quello spread nel periodo precedente la crisi del 2008 è rappresentato dal diagramma seguente; come si vede il rapporto tra LIBOR (in verde) e buoni del tesorio americani (in blu) cominciò ad alterarsi nell’estate del 2007, segnalato da una crescita del TED spread (in rosso) che esplose nella seconda metà del 2008.
febbraio 26, 2014
Feb 26, 8:10 am
Dan Drezner has an interesting article in Politico that’s framed as a rebuttal to Nick Kristof’s condemnation of irrelevant academics, but is actually much broader. Drezner argues that there are three tribes — money men, political insiders, and academics — each of which has its own strengths and weaknesses, and each of which would be well advised to listen to the others (but doesn’t).
One passage expresses extremely well what anti-austerians were and to some extent still are fighting against:
One of the Beltway tribe’s greatest strengths is also one of its greatest weaknesses: groupthink. As I noted before, a Beltway consensus actually counts for something in the world of international policymaking. That does not mean that this consensus emerges from any solid analysis, however. For example, a hidden cause of the enthusiasm for austerity in Washington that crested in 2010 was the consensus among foreign policy pundits that U.S. debt was spiraling out of control, rendering Washington vulnerable to foreign holders of U.S. Treasuries. This groupthink formed at the same time that the budget deficit as a percentage of output was shrinking at the fastest rate in American history. By the time the consensus had emerged, however, the change in the facts didn’t matter. Since the principal activity of Beltway folk is to talk to each other, the result is a feedback loop of confirmation bias that eventually leads to epistemic closure.
Yes indeed. When you tried to talk about the deficit, and why it didn’t deserve the crisis rhetoric, you ran up not so much against people who disagreed but people who thought that “nobody” shared your relaxed attitude; it was “Paul Krugman against the world.” I mean, surely nobody else was that crazy. Except that the anti-austerians were intellectual moderates, basically applying Econ 101, while the austerians were making up new economic doctrines on the fly to justify their groupthink.
Drezner also mentions that his own most influential publication was one making the obvious point that China’s ownership of a bunch of US bonds doesn’t give it leverage over America; a point people like Dean Baker and yours truly have also made. When you try to make this point to Beltway types, however, you encounter not so much disagreement as incredulity — “everyone” knows that China has immense power over us, “nobody” disagrees. Indeed, if you go to the link you’ll see that Dean was reacting to a news article that stated the Chinese power thing not as a dubious hypothesis but as simple fact.
The thing about this epistemic closure is that it’s highly resistant not just to analysis but to experience. Rarely in the course of human events has “everyone” been so wrong, and “nobody” so right, as in the case of the alleged deficit threat. Yet you will have a hard time finding anyone among the fearmongers acknowledging his wrongness, let alone engaging in some self-examination about why he was wrong. After all, he was only saying what everyone knew was true.
Persone Molto Serie del 2010
Dan Drezner pubblica un articolo interessante su Politico, che viene proposto come una confutazione della denuncia di Nick Kristof sulla irrilevanza degli accademici, ma in effetti è molto più ampio. Drezner sostiene che ci sono tre gruppi – gli uomini dei soldi, gli addetti alla politica e gli accademici – ciascuno dei quali ha i propri punti di forza e di debolezza, ed a ciascuno dei quali si dovrebbe caldamente suggerire di ascoltare gli altri (ma non lo si fa).
Un passaggio esprime particolarmente bene ciò per cui gli oppositori dell’austerità hanno combattuto e in qualche misura stanno ancora combattendo:
“Uno dei più grandi punti di forza del raggruppamento dei politici di Washington è anche uno dei suoi massimi punti di debolezza: il pensiero di gruppo. Come ho notato in precedenza, l’orientamento comune di Washington pesa qualcosa nel mondo della politica internazionale. Questo non significa che questo consenso derivi, tuttavia, da una analisi in qualche modo solida. Per esempio, una causa nascosta dell’entusiasmo per l’austerità a Washington che si determinò nel 2010 fu il consenso tra i commentatori di politica estera secondo il quale il debito degli Stati Uniti stava viaggiando fuori controllo, rendendo il Governo vulnerabile ai proprietari stranieri di buoni del tesoro statunitensi. Questo pensiero di gruppo si formò nello stesso periodo nel quale il deficit di bilancio come percentuale della produzione si stava restringendo al ritmo più veloce nella storia americana. All’epoca di quel consenso, tuttavia, questo cambiamento della situazione di fatto non contò. Dal momento che la principale attività della gente della capitale è il parlare l’uno con l’altro, il risultato è una predilezione circolare per le opinioni già espresse che alla fine porta ad una chiusura epistemica.”
In effetti è così. Quando si cercava di parlare di deficit e del perché esso non meritava tutta quella retorica di crisi, ci si imbatteva non tanto in persone che non erano d’accordo, ma in persone che vi insegnavano che ‘nessuno’ condivideva la vostra attitudine rilassata; la partita era tra Paul Krugman e il resto del mondo. Voglio dire, cioè, nessuno che non fosse pazzo. Sennonché gli oppositori dell’austerità erano intellettuali moderati, che fondamentalmente applicavano testi di economia universitari, mentre i filo austeri venivano improvvisando nuove dottrine economiche per giustificare il loro pensiero di gruppo.
Dresner ricorda anche che la sua propria influente pubblicazione era quella che sosteneva che la proprietà cinese di un mucchio di obbligazioni degli Stati Uniti non dava a quel paese il potere di avere influenza sull’America; argomento che avevamo sostenuto anche Dean Baker ed il sottoscritto. Quando si prova ad avanzare questo argomento nei confronti degli individui di Washington, tuttavia, si incontra non tanto disaccordo quanto incredulità – “ognuno” sa che la Cina ha un potere immenso nei nostri confronti, non c’è “nessuno” che non sia d’accordo. In effetti, se andate alla connessione notate che Dean stava reagendo ad articoli di notizie che affermavano che il potere cinese non era una ipotesi discutibile, ma un semplice fatto.
Il punto, rispetto alla ‘chiusura epistemica’ è che essa è altamente resistente non solo alle analisi ma anche alle prove dei fatti. Raramente nel corso degli eventi umani “ognuno” ha avuto così torto, e “nessuno” così ragione, come nel caso della pretesa minaccia del deficit. Tuttavia avrete molti problemi a trovare qualcuno tra i ‘seminatori di paura’ che riconosca i suoi errori, per non dire qualcuno che si impegni in un esame di coscienza sul perché del suo errore. Dopo tutto, stava solo dicendo quello che tutti sapevano essere vero.
febbraio 25, 2014
Feb 25, 10:25 am
James Surowiecki makes an important point: if you want a society in which everyone has a decent life, you need to construct a society in which everyone has a decent life — not a society in which everyone has a small but equal chance of living the lifestyle of the rich and famous.
Not that we’re anywhere close to the second condition, anyway — the most important factor in whether you can become rich is whether you chose the right parents: Most people are going to end up with socioeconomic status close to where they started. But even if that weren’t true, those moving up the ladder would be matched by an equal number moving down. Since anyone could find himself or herself downwardly mobile, social mobility arguably actually strengthens the case for a strong safety net.
I think you want to read Surowiecki in the context of people like Eric Cantor, who first chose to celebrate Labor Day by congratulating people who start businesses — forgetting about the workers — then, more recently, tried to get his fellow Republicans to understand that most people work for other people, and that employees vote too. The point is that even in the best of worlds, only a few people will live out Horatio Alger stories; the quality of our society depends on what happens to everyone else.
Abbassare la parte alta della scala sociale
James Surowiecki avanza un argomento importante: se si vuole una società nella quale tutti abbiano una vita decente, si deve costruire una società nella quale ognuno abbia una vita decente – non una società nella quale ognuno abbia una possibilità, minuscola ma uguale a quella degli altri, di vivere lo stile di vita delle persone ricche e famose.
Non che noi si sia in qualche modo vicini alla seconda condizione – il più importante fattore della possibilità di diventare ricchi è essersi scelti i genitori giusti: la maggioranza delle persone sono destinate a finire in una condizione socioeconomica vicina a quella da cui sono partite. Ma, se anche fosse vero, coloro che si muovono verso l’alto della scala sarebbero eguagliati da un egual numero che scende verso il basso. Dal momento che ognuno potrebbe, uomo o donna, scoprirsi suscettibile di una discesa verso il basso, è probabile per la verità che la mobilità sociale rafforzi la tesi di forti reti di sicurezza sociale.
Penso che si debba leggere Surowiecki nel contesto di persone come Eric Cantor, che anzitutto scelse di celebrare il Giorno del Lavoro congratulandosi con le persone che avviano una impresa – ovvero scordandosi dei lavoratori – e poi, più di recente, ha cercato di far capire ai suoi colleghi repubblicani che la maggioranza delle persone lavora alle dipendenza di altri, e che anche gli impiegati votano. Il punto è che anche nel migliore dei mondi possibili, soltanto a poche persone capitano racconti come quelli di Horatio Alger [1]: la qualità della nostra società dipende da quello che accade a tutti gli altri.
[1] Uno scrittore americano nato nel 1832, che scrisse molti racconti su persone che da condizioni di povertà passavano a vite di successo.
febbraio 24, 2014
Feb 24, 1:27 pm
I’ve been doing some more Fed transcript readings, and noticing how implausible everyone found it that what did happen, could happen. And I have a small insight as I remember the days of bubble denial. It involves a violation of Godwin’s Law, but in a good cause.
Background: One of the really striking insights I gained from Robert Shiller is his notion that bubbles are natural Ponzi schemes — Ponzi schemes without a Ponzi schemer. What happens is that early buyers make money, drawing in more buyers, who drive prices up and allow people to make even more money, and it just keeps on growing for years. After a while, people insisting that the prices make no sense start to look stupid, and are tuned out — and so it’s a great shock when the bubble runs out of suckers and deflates.
So, my insight: while the process of bubble inflation is a natural Ponzi scheme, a thoroughly inflated bubble is a natural Big Lie — that is, a lie so audacious nobody will believe that anyone would dare to invent it. When you have something like this:
the notion that it’s all a bubble, that market prices could be that far off fundamentals, stretches belief. What? You think home prices in California could fall in half? That’s crazy!
And this cognitive difficulty is reinforced by herd behavior: you don’t want to be the guy shouting that the sky is falling when everyone else who matters is treating it as a minor correction at most.
And so it was very difficult, even once the bubble began popping, for Fed officials (and others) to wrap their minds both around the scale of the housing bust and the financial implications of that bust.
24 febbraio 2014
Grandi bugie naturali
Sto facendo alcune altre letture dei verbali della Fed, e noto come tutti trovassero implausibile che ciò che stava accadendo potesse accadere. E mi viene una piccola intuizione al ricordo dei giorni della negazione della bolla. Essa riguarda una violazione della legge di Godwin [1], ma in senso buono.
Un passo indietro: una delle intuizioni veramente sorprendenti che ho acquisito da Robert Shiller è il concetto che le bolle sono degli ‘schemi Ponzi’ naturali – ovvero degli schemi Ponzi senza che vi sia un responsabile dello schema Ponzi [2]. Quello che succede è che i compratori iniziali producono denaro, attraendo nuovi compratori, che spingono in alto i prezzi e consentono alla gente di produrre altro denaro ancora, e tutto ciò semplicemente continua a crescere per anni. Dopo un certo periodo, la gente stabilisce che il fatto che i prezzi non abbiano alcun senso comincia ad apparire stupido, ed è indotta a perdere l’attenzione – e c’è così una grande impressione quando la bolla sfugge di mano ai gonzi e sgonfia.
Dunque, la mia intuizione: se il processo di una inflazione da bolla è uno schema Ponzi naturale, una bolla scrupolosamente alimentata è una grande bugia naturale – vale a dire, una bugia così audace che nessuno potrà mai credere che ci sia stato qualcuno che abbia osato inventarla. Quando succede qualcosa come nel diagramma seguente:
l’idea che sia tutta una bolla, che i prezzi di mercato potrebbero a tal punto essere lontani dai fondamentali, prolunga la fiducia. “Cosa? Si pensa che i prezzi degli immobili in California potrebbero cadere della metà? Ma è pazzesco.”
E questa difficoltà cognitiva è rafforzata da un comportamento da gregge: non si vuole apparire come quel tizio che urlava che il cielo stava cadendo, nel mentre tutti gli altri che contavano al massimo la consideravano una correzione secondaria.
E così è stato molto difficile, persino una volta che la bolla cominciò a scoppiare, per i dirigenti della Fed (e per altri) capacitarsi sia delle dimensioni del disastro immobiliare che delle conseguenze finanziarie di quel disastro.
[1] La ‘Legge di Godwin’ è una strana risultanza di una analisi statistica, secondo la quale in una discussione sulla rete complessiva globale che include una infinità di server (Usenet), tutte le volte che compare un riferimento ad Hitler o al nazismo, questo comporta che la discussione è sul punto di chiudersi. Introdurre il tema del nazismo equivale di norma a chiudere ogni dibattito.
In riferimento al contenuto di questo post, la violazione di tale legge mi pare consista appunto nel fatto che non sempre un argomento ‘off limits’, o se si vuole in una certa misura paradossale, ‘spenge’ un comportamento … Ci sono paradossi che si impongono per il loro realismo, che dipende soltanto dal fatto che in molti li trovano sempre più realistici.
[2] Charles Ponzi era un signore italo americano – nasce a Lugo di Romagna, trascorre l’adolescenza a Parma, trova lavoro alle Poste, si iscrive alla Sapienza di Roma e poi emigra a Boston – che agli inizi del secolo scorso, negli Stati Uniti, concepì una vasta – come spesso si chiama – ‘catena di S. Antonio’, inducendo molte persone a versare soldi con la promessa di trarne successivamente un vantaggio. In realtà la sua storia è abbastanza complessa – si snoda tra il Canada, gli Usa, varie galere, la Florida, il ritorno in Italia, il Brasile – e per averne un’idea si può leggere la voce su Wikipedia.
febbraio 23, 2014
Feb 23, 11:05 am
Every once in a while I hear people trying to dismiss the overwhelming evidence for large economic damage from fiscal austerity by pointing to Germany: “You say that austerity hurts growth, but the Germans have done a lot of austerity and they’re booming.”
Public service announcement: Never, ever make claims about a country’s economic policies (or actually anything about economics) on the basis of what you think you’ve heard people say. Yes, you often hear people talking about austerity, and the Germans are big on praising and demanding austerity. But have they actually imposed a lot of it on themselves? Not so much. Again, my euro area austerity versus growth plot for 2009-13:
Germany did less austerity than almost anyone else in the euro area.
Il mito dell’austerità tedesca
Ogni tanto sento persone che cercano di sminuire le prove schiaccianti del grande danno che viene dalla austerità delle finanze pubbliche riferendosi alla Germania: “Tu dici che l’austerità danneggia la crescita, ma i tedeschi hanno praticato molta austerità e sono in grande espansione.”
Annunzio di pubblica utilità: mai e poi mai esprimere convincimenti sulle politiche economiche di un paese (o, per la verità, su ogni cosa che riguardi l’economia) sulla base di quello che pensate di aver sentito dire da altri. Sì, spesso si sentono persone parlare di austerità, ed i tedeschi sono imbattibili nell’elogiare e nel chiedere austerità. Ma ne hanno effettivamente imposta così tanta a se stessi? Non così tanta. Ancora, il mio grafico a dispersione sulla austerità a confronto della crescita nell’area euro, dal 2009 al 2013 [1]:
La Germania ha realizzato minore austerità di quasi tutti gli altri, nell’area euro.
[1] Come si vede, nel periodo del quadriennio, la Germania ha avuto il risultato più elevato in termini di crescita del PIL, assieme ad uno dei risultati minori in termini di variazioni degli equilibri strutturali di bilancio, come percentuali del PIL. Come si vede, chi ha avuto più austerità (Italia, Spagna, Portogallo e naturalmente Grecia) ha avuto i risultati negativi maggiori in termini di crescita. La Francia ha avuto una austerità maggiore che la Germania.
febbraio 22, 2014
Feb 22, 4:53 pm
Zachary Goldfarb defends the argument that we’ve been living in an age of austerity against conservative denialists. He’s right, of course — but I think there are more graphic ways to make the point.
One simple measure is the ratio of government spending to potential GDP — the ratio to actual GDP is somewhat inflated by the fact that GDP itself is depressed. And I would argue that you should look at expenditure by all levels of government — state and local as well as federal — partly because state and local austerity measures have in part been a political choice, partly because not providing sufficient federal aid to avert harsh budget cuts is another political choice. (The numbers are similar but less striking if you look only at federal expenditures). What you get is this:
Ratio of government expenditure to potential GDP
There was a temporary rise in this spending ratio, driven in part by the stimulus, in part by automatic stabilizers like unemployment insurance and food stamps. That rise has now been fully reversed — which means that all government support has been withdrawn despite a still-depressed economy, with the Fed unable to cut interest rates because they’re already zero.
You should also bear in mind that there with unchanged policy this ratio would in fact have risen significantly between 2007 and 2014, for several reasons: automatic stabilizers, but also the aging of the population and hence increased Social Security and Medicare rolls, plus some health care cost growth (though not as much as before). So this is indeed a picture of serious austerity.
There’s no real question that without this austerity we would have a significantly lower unemployment rate, indeed might be close to full employment at this point.
Età di austerità
Zachary Goldfarb difende, contro i conservatori che lo negano, la tesi per la quale staremmo vivendo un periodo di austerità. Ha ragione, ovviamente – ma penso che ci siano modi più espliciti per sostenere quella tesi.
Un semplice modo di misurarlo è il rapporto tra la spesa pubblica e il PIL potenziale – il rapporto riferito al PIL effettivo è in qualche modo gonfiato dal fatto che il PIL stesso è depresso. E riterrei che si debba guardare alla spesa a tutti i livello dello stato – cioè a quella degli Stati e delle comunità locali come a quella federale – in parte perché le misure di austerità degli Stati e delle comunità locali sono state in qualche misura una scelta politica, in parte perché non fornire un sufficiente aiuto federale per evitare gravi tagli di bilancio è anch’essa una scelta politica (se si guarda solo alle spese federali, i numeri sono simili ma meno sorprendenti). Si ottiene questo:
Rapporto tra la spesa pubblica complessiva e il PIL potenziale
C’è stata una crescita temporanea in questo tasso di spesa, provocato in parte dallo stimulus e in parte dagli stabilizzatori automatici come la assicurazione di disoccupazione e gli aiuti alimentari. Quella crescita ora è pienamente capovolta – il che significa che l’intero sostegno statale è stato ritirato nonostante un’economia ancora depressa, con la Fed impossibilitata a tagliare tassi di interesse che sono già a zero.
A questo proposito, dovreste anche tenere a mente che con una politica immutata questo rapporto sarebbe significativamente cresciuto tra il 2007 ed il 2014, per varie ragioni: gli stabilizzatori automatici, ma anche l’invecchiamento della popolazione e di conseguenza le accresciute iscrizioni alla Previdenza Sociale ed a Medicare, in aggiunta ad una certa crescita di costi di assistenza sanitaria (per quanto minore che in precedenza). Questa dunque è davvero una rappresentazione di una austerità seria.
Non c’è alcun dubbio che senza questa austerità avremmo avuto un tasso di disoccupazione significativamente più basso, in effetti a questo punto si sarebbe stati prossimi alla piena occupazione.
febbraio 22, 2014
Feb 22, 9:25 am
People are going through the Fed’s 2008 transcripts, and finding that most officials had no idea what was going down. (Incidentally, guys, whatever you want to call 2008, the one thing it definitely wasn’t was a FISCAL crisis. A case of BowlesSimpson on the brain?) I’m a bit surprised, but that’s not the most surprising thing.
What’s really surprising, and a bit dismaying, is the fact that a number of Fed officials were evidently focused on inflation, and some were eager to raise rates. That is, there were a fair number of people at the Fed — very much not, however, including Janet Yellen –who would, if they could, have echoed the ECB’s big mistake.
What’s kind of shocking about this is that official Fed doctrine is to focus on core inflation, not react to short-run fluctuations in commodity prices. And the history of the past decade or so has showed that this is very much the right thing to do — headline inflation has swung widely, while focusing on core inflation has been a much better (though not perfect) guide to appropriate policy:
Were Fed officials just not on board with this doctrine? Or was it part of a general urge to tighten, because central bankerly types just really dislike easy money?
Il bisogno di stringere
Si passa attraverso i verbali della Fed del 2008 e si scopre che gran parte di quei dirigenti non avevano idea di cosa stesse andando storto (tra parentesi, signori, in tutti i modi nei quali vogliate definire il 2008, l’unica cosa che esso assolutamente non era, fu una crisi della finanza pubblica. E’ un caso di infezione al cervello, del tipo Bowles-Simpson?). Sono abbastanza sorpreso, ma non è la cosa più sorprendente.
Quello che è realmente sorprendente, per non dire che sgomenta, è il fatto che un certo numero di dirigenti della Fed erano evidentemente concentrati sull’inflazione, ed alcuni erano impazienti di alzare i tassi. Vale a dire, c’era un discreto numero di persone alla Fed – non molti, inclusa tuttavia Janet Yellen – che avrebbero voluto imitare, se avessero potuto, il grande errore della Banca Centrale Europea.
Quello che è stupefacente, a questo proposito, è che la dottrina ufficiale della Fed si basa sulla inflazione ‘sostanziale’, e non reagisce alle fluttuazioni di breve periodo nei prezzi delle materie prime. E la storia del decennio passato ha mostrato che questa è davvero la cosa giusta da fare – l’inflazione comprensiva di tutti i prezzi ha oscillato ampiamente, mentre attenersi alla inflazione dei prezzi più stabili è stata una guida assai migliore, per quanto imperfetta, ad una politica appropriata:
I dirigenti della Fed non erano al corrente di questa dottrina? O erano presi dal bisogno generale di andare ad una restrizione, giacché i soggetti delle banche centrali proprio non possono fare a meno di avversare la moneta facile?
febbraio 21, 2014
Feb 21, 8:02 am
OK, let’s be clear: I’m in favor of structural reform (as long as it’s the right kind of reform). I’m also in favor of peace, kindness, and good coffee for everyone.
But when I see influential people calling for structural reform as the universal answer to all economic problems, I get angry.
Hence my morning ire at the OECD.
Some background: the OECD is definitely one of the bad guys of this crisis. Back in 2010, it not only enthusiastically endorsed fiscal austerity, it demanded sharply higher interest rates too. When austerity and inadequate monetary stimulus led Europe to an economic performance now in line with that of the 1930s, the OECD warned vociferously against any change in course.
Now, with growth terrible and disinflation-heading-toward-deflation a real threat — largely thanks to the tight fiscal and inadequate monetary policies the OECD cheered on — the OECD warns that things don’t look good. And the answer is … structural reform!
I’m sorry: This may sound serious, but it’s intellectually lazy and cowardly.
Le riforme strutturali sono l’ultimo rifugio dei birbanti
E va bene, cerchiamo di essere chiari: io sono favorevole alla riforme strutturali (nella misura in cui sono il giusto genere di riforme). Allo stesso tempo sono a favore della pace, della cortesia e di un buon caffè per tutti.
Ma quando vedo persone influenti che si pronunciano per riforme strutturali come una risposta universale ai problemi economici, mi arrabbio.
Da qua la mia ira mattutina nei confronti dell’OCSE.
Un passo indietro: l’OCSE è senza alcun dubbio uno tra i pessimi soggetti di questa crisi. Nel passato 2010, essa non solo appoggiò entusiasticamente l’austerità della finanza pubblica, chiese anche che i tassi di interesse si alzassero bruscamente. Quando l’austerità ed un inadeguato stimolo monetario condussero l’Europa ad una prestazione economica oggi in linea con gli anni Trenta, l’OCSE mise in guardia rumorosamente contro ogni cambiamento di indirizzo.
Ora, con una crescita molto negativa ed una minaccia reale di disinflazione-che-volge-alla-deflazione – in gran parte grazie alle politiche monetarie inadeguate e di restrizione della finanza pubblica per le quali l’OCSE aveva fatto il tifo – l’OCSE mette in guardia perché le cose non vanno bene. E la risposta è … riforme strutturali!
Spiacente: può sembrare serio, ma è intellettualmente pigro e vile.