Blog di Krugman

Grafici cruciali sullo stimulus (20 febbraio 2014)

 

Feb 20, 9:59 am

Key Stimulus Graphs

I thought it might be useful to put up a few graphs that are key to how I think about the sad tale of fiscal policy in the Great Recession and afterwards.

First, during the debate over stimulus there was one key issue: what would happen to interest rates. Opponents warned darkly of soaring rates and crowding out; proponents argued that this wouldn’t happen in a depressed economy. Results:

Second, while there have been a number of studies using various approaches to estimate the impact of fiscal policy in a depressed economy, I think the really decisive evidence comes from differential austerity in Europe. Here’s a crude picture, simply comparing the change in IMF estimates of the cyclically adjusted budget balance with growth from 2009 to 2013:

You can try to explain this correlation away — but it’s a steep climb. The prima facie evidence is that austerity is contractionary, with a multiplier more than 1.

So how did US political debate come to be shaped by the idea that the stimulus was a failure? Go back to the original Romer-Bernstein projection (pdf):

The striking thing here isn’t what they thought the Recovery Act would achieve, it’s how optimistic they were about how the economy would perform even without stimulus — that we would be back to 5 percent unemployment after 5 years, i.e., by now. The stimulus was simply supposed to shave off the top of what would in any case be a fairly brief bulge in unemployment.

I have never understood where that optimism came from, but in any case, what happened is that the actual protracted effects of the financial crisis and the debt overhang got interpreted as a failure of stimulus.

 

Grafici cruciali sullo stimulus

 

Ho pensato potesse esser utile caricare pochi grafici che sono cruciali su come io penso al triste racconto della politica della finanza pubblica nella Grande Recessione e nelle sue conseguenze.

In primo luogo, durante il dibattito sullo stimolo ci fu un tema fondamentale: cosa sarebbe successo ai tassi di interesse? Gli oppositori minacciosamente mettevano in guardia sui tassi di interesse e sull’effetto di ‘spiazzamento’ del settore privato; i sostenitori argomentavano che in un’economia depressa, questo non sarebbe accaduto. Risultato:

In secondo luogo, mentre c’è stato un certo numero di studi che hanno utilizzato vari approcci per stimare l’impatto della politica della finanza pubblica in un’economia depressa, io penso che la prova davvero decisiva provenga dal differenziale di austerità in Europa. Questo è un quadro sommario, dal semplice confronto del mutamento nelle stime del FMI degli equilibri di bilancio, corretti sulla base del ciclo economico, con la crescita dal 2009 al 2013:

Si può provare a giustificare questa correlazione – ma è una fatica ardua. Ad una prima impressione, c’è la testimonianza che l’austerità è restrittiva, con un moltiplicatore superiore ad 1 [1].

Dunque, come è potuto accadere che il dibattito politico negli Stati Uniti giungesse ad essere plasmato dall’idea che lo stimulus fosse un fallimento? Si torni all’originale previsione di Romer-Bernstein (disponibile in pdf):

In questo caso, la cosa sorprendente non è quello che essi pensavano che sarebbe stato ottenuto dalla legge dello stimolo, ma quanto erano ottimisti su come l’economia si sarebbe comportata anche senza stimolo – vale a dire che saremmo tornati ad una disoccupazione al 5 per cento dopo cinque anni, ovvero ai nostri giorni. Si pensava che lo stimolo doveva semplicemente limare il punto più alto di quella che in ogni caso sarebbe stata una crescita abbastanza breve della disoccupazione.

Non ho mai capito da dove venisse questo ottimismo, ma in ogni caso quello che è successo è stato che gli effetti prolungati reali della crisi finanziaria e l’eccesso di debito vennero interpretati come un fallimento delle misure di sostegno all’economia.



[1] Per il concetto di ‘moltiplicatore’ vedi le note sulla traduzione. In questo caso ci si riferisce ad un effetto negativo di moltiplicatore, ovvero a quanto una riduzione della spesa pubblica produce di effetto aggiuntivo sulla produzione complessiva. E’ noto che agli inizi anche il FMI aveva ipotizzato un moltiplicatore inferiore alla unità, mentre poi ha giudicato ragionevole constatarlo superiore ad 1. Per inciso, è stata una circostanza che ha molto contribuito a far deragliare tutte le previsioni che la troika aveva fatto sull’effetto dell’austerità sull’economia greca.

Lasciar fallire la Lehman (19 febbraio 2014)

febbraio 19, 2014

 

Feb 19, 10:08 am

Letting Lehman Fail

One of the really good things about teaching a new course is that the work you put into developing your lectures often leads you to stuff you didn’t know about, missed, or had forgotten. Today’s class was a sort of narrative walkthrough of the financial crisis, and in the course of preparing I found myself trying to recall who actually thought letting Lehman fail was a good idea.

The answer is, a lot of people — and there were a fair number of op-eds and editorials congratulating Hank Paulson the next day, before it had become clear that the whole financial system was freezing up. Two notable examples:

Vince Reinhart:

The resources of the U.S. government are vast, but not unlimited. Thus far this year, officials have put federal funds at risk to facilitate the takeover of an investment bank, Bear Stearns, and to provide unconditional support to two government-sponsored enterprises, Fannie Mae and Freddie Mac.

At some point, the government had to say enough. That point came this weekend.

Those judgments can be second-guessed. But one thing is clear: Lehman did not cast a long enough shadow over markets to warrant support. And Treasury Secretary Henry Paulson and his colleagues are to be congratulated for the courage to make that determination.

Ken Rogoff:

No More Creampuffs
The Government Is Willing to Let Wall Street Firms Fail. That’s Good.

This past weekend, the U.S. Treasury and the Federal Reserve finally made it abundantly clear that they won’t bail out every significant financial firm in America. Certainly this came as a rude shock to many financiers. In allowing the nation’s fourth-largest investment bank, Lehman Brothers, to file for bankruptcy, and by forcefully indicating that they are prepared to see even more bankruptcies, our financial regulators showed Wall Street that they are not such creampuffs after all.

By allowing firms that took excessive risks to fail, regulators also reduce the political pressure to overregulate the system in the aftermath of the crisis. Let’s hope they hang tough for at least a little while longer.

Interesting.

 

Lasciar fallire la Lehman

 

Una delle cose davvero positive dell’insegnamento di un nuovo corso è che il lavoro che mettete nello sviluppare le vostre letture spesso vi conduce a cose delle quali non avevate nozione, che avevate perso o dimenticato. La lezione di oggi era una sorta di narrazione passo a passo della crisi finanziaria, e nel corso della preparazione mi è capitato di dover cercare di ricordare chi effettivamente pensò che lasciar fallire la Lehman fosse un buona idea.

La risposta è, un sacco di gente – ed il giorno successivo ci fu un discreto numero di commenti e di editoriali che si congratulavano con Hank Paulson [1], prima che diventasse chiaro che l’intero sistema finanziario si stava bloccando. Due esempi autorevoli:

 

Vince Reinhart:

“Le risorse del Governo degli Stati Uniti sono ampie, ma non illimitate. Perciò, con quest’anno, i dirigenti hanno messo a rischio i finanziamenti federali per facilitare la acquisizione di una banca di investimenti, la Bear Stearns, e per fornire un sostegno senza condizioni a due imprese sostenute dl Governo, la Fannie Mae e la Freddie Mac.

A un certo punto, il Governo ha dovuto dire basta. Quel punto è arrivato questo fine settimana.

….

Questi possono essere giudizi col senno di poi. Ma una cosa è chiara: la Lehman non proiettava un’ombra sufficientemente lunga sui mercati per giustificare un sostegno. E ci si deve congratulare con il  Segretario al Tesoro Henry Paulson e con i suoi colleghi per il coraggio nell’assumere tale determinazione.

 

Ken Rogoff:

“Basta con i regali. Il Governo ha deciso di lasciar fallire le imprese di Wall Street. E’ una buona cosa.

….

In questo fine settimana il Tesoro degli Stati Uniti e la Federal Reserve hanno finalmente reso del tutto chiaro che non andranno in salvataggio di tutte le imprese finanziarie significative d’America. Per molti uomini di finanza sarà certamente un duro colpo. Nel permettere che la quarta banca di investimenti della nazione, la Lehman Brothers, si presenti per la bancarotta, e nell’indicare energicamente di esser pronti a prendere atto anche di nuove bancarotte, i nostri regolatori finanziari hanno dimostrato a Wall Street di non essere in fondo così accomodanti [2].

….

Consentendo alle imprese che hanno preso rischi eccessivi di fallire, i regolatori hanno anche ridotto la pressione politica per una eccessiva regolamentazione del sistema a seguito della crisi. Speriamo che almeno tengano duro per un altro po’.

 

Interessante.



[1] Henry Merritt Paulson (Palm Beach, 28 marzo 1946) è un politico e banchiere statunitense. È stato 74° Segretario al Tesoro degli Stati Uniti sotto la presidenza di George W. Bush.

Precedentemente (19992006) era stato amministratore delegato di Goldman Sachs Group.

[2] Per l’esattezza “creampuff” sono i bignè alla panna. Dunque, il senso è che hanno dimostrato di non essere così ‘buonisti’, o ‘dolcioni’ se si preferisce.

 

 

 

L’anniversario dello ‘stimulus’ (18 febbraio 2014)

febbraio 18, 2014

 

Feb 18, 2:57 pm

The Stimulus Anniversary

Lots of discussion around the fifth anniversary of the Recovery Act. I don’t have time for an extended discussion today, but my quick verdict remains the same as it was right from the beginning: this was a plan that did considerable economic good but considerable political harm.

The economic good was straightforward: everything we have seen since 2009 confirms that expansionary fiscal policy is expansionary, contractionary fiscal policy is contractionary. There is every reason to believe that the Recovery Act boosted GDP and employment while it was in effect relative to what would have happened without it.

The political harm came mainly from the fact that the ARRA was too small and too short-lived to do the job, but partly also from a serious mistake in the way the administration sold it.

There’s a widespread canard against those of us who said that the ARRA was too small — namely, that we were only making excuses after the fact. No, we weren’t — people like Joe Stiglitz and I warned right from the beginning that the thing was way too small, and that there would be serious political economy damage as a result. Me on January 6, 2009:

I see the following scenario: a weak stimulus plan, perhaps even weaker than what we’re talking about now, is crafted to win those extra GOP votes. The plan limits the rise in unemployment, but things are still pretty bad, with the rate peaking at something like 9 percent and coming down only slowly. And then Mitch McConnell says “See, government spending doesn’t work.”

Let’s hope I’ve got this wrong.

Alas, I wasn’t wrong.

You can argue that there was no way the administration could have gotten a bigger plan. Actually, they could have used reconciliation to bypass the 60-vote hurdle; but that was considered too radical. And why was it considered too radical? I’d argue that it was in part because the administration had a wrong theory about the recession, which also wreaked havoc with the selling of the plan.

The notorious Romer-Bernstein forecast of the ARRA’s impact is notorious because it predicted a quick return to full employment, which didn’t happen. But it didn’t say that this quick recovery would happen because of the stimulus — in fact, it predicted a quick recovery even without the stimulus. The ARRA’s role was limited to shaving off the peak in unemployment, then getting out of the way as a natural bounceback took hold.

So underlying this forecast was the view that the economy would come roaring back once the financial crisis had been stabilized.

This was never plausible if you knew history — not just the history of financial crises, but the history of the post-1990 US business cycle. Worse, the administration clearly failed to consider the political economy consequences if the quick-recovery view proved wrong.

All of this is water long under the bridge. But it’s probably worth reminding ourselves why some of us were tearing our hair out in early 2009.

 

L’anniversario dello ‘stimulus’

 

Un gran dibattito attorno al quinto anniversario del Recovery Act. Oggi non ho tempo per una prolungata discussione, ma in mio giudizio in breve resta quello che fu sin dall’inizio: quello è stato un programma che ha portato considerevoli benefici economici ma un considerevole danno politico.

Il beneficio economico fu inequivocabile: tutto ciò che abbiamo visto a partire dal 2009 conferma che le politiche espansive della finanza pubblica sono espansive, quelle restrittive sono restrittive. Ci sono tutte le ragioni per credere che il Recovery Act sostenne il PIL e l’occupazione, finché lo si considera in effetti in relazione con quello che sarebbe successo senza di esso.

Il danno politico venne principalmente dal fatto che la legge sulla ripresa e sui nuovi investimenti fu troppo piccola e di troppo breve durata per assolvere al suo scopo, ma in parte anche per un serio errore del modo in cui la Amministrazione la fece accettare.

C’è una diffusa balla contro quelli tra noi che sostennero che la legge era troppo modesta – precisamente, che noi staremmo solo accampando scuse a cose fatte. Non facemmo questo – persone come Joe Stiglitz e il sottoscritto misero in guardia sin dall’inizio che era una soluzione troppo piccola, e che si sarebbe stato come conseguenza un serio danno politico. Il sottoscritto, il 6 gennaio del 2009:

“Vedo il seguente scenario: un debole programma di sostegno, forse persino più debole di quello di cui si è parlato sino a questo punto, è fatto per convincere quei voti aggiuntivi del Partito Repubblicano. Il programma limita la crescita della disoccupazione, ma le cose restano abbastanza negative, con il tasso che arriva a toccare qualcosa come il 9 per cento e scende solo lentamente. E a quel punto Mitch McConnell dice ‘Vedete, la spesa pubblica non funziona.’

Speriamo che abbia torto.”

Ahimè, non avevo torto.

Si può sostenere che non c’era modo per la amministrazione per far approvare un programma più ampio. In effetti, avrebbe potuto utilizzare l’istituto della ‘riconciliazione’ per aggirare l’ostacolo del 60 per cento dei voti [1]; ma quello fu considerato troppo radicale. E perché era considerato troppo radicale? Suppongo che in parte dipendesse dal fatto che la amministrazione aveva una teoria sbagliata sulla recessione, che peraltro creò un serio danno anche azione di convincimento attorno al programma.

La famigerata previsione Romer-Bernstein sull’impatto della legge è famigerata perché aveva previsto un rapido ritorno alla piena occupazione, che non avvenne. Ma essa non diceva che questa rapida ripresa ci sarebbe stata per effetto dello stimolo – di fatto, prevedeva una rapida ripresa anche senza lo stimolo. Il ruolo della legge sulla ripresa e sul reinvestimento fu limitato a limare il picco della disoccupazione, esso sarebbe poi stato reso inutile dal prender piede di una naturale ripresa.

Implicito in questa previsione c’era dunque il punto di vista secondo il quale l’economia sarebbe tornata a ruggire una volta che la crisi finanziaria si fosse stabilizzata.

Questo non era affatto plausibile se si fosse conosciuta la storia – non solo la storia delle crisi finanziarie, ma quella del ciclo economico statunitense dopo il 1990. Peggio ancora, la Amministrazione chiaramente non seppe valutare le conseguenze sul piano della politica economica, una volta che la rapida ripresa si fosse mostrata sbagliata.

Tutta questa è acqua che da tempo è passata sotto i ponti. Ma probabilmente merita riportare alla memoria che alcuni di noi agli inizi del 2009 si strappavano i capelli.



[1] Si tratta di una regola del Senato americano, in parte successivamente modificata, secondo la quale un ostruzionismo senza limiti di tempo poteva essere superato solo disponendo del 60% dei voti dei senatori, con i quali si poteva imporre la chiusura della discussione (tramite la cosiddetta “cloture”, ovvero la mozione di interruzione del dibattito). Poiché quella non era la condizione della maggioranza democratica ai tempi della prima amministrazione Obama, il pericolo di ostruzionismo era apparentemente insuperabile. In effetti la soluzione avrebbe potuto essere quella di trasferire il tema nella fase finale dei provvedimenti di bilancio controversi, definita fase di “riconciliazione”. A quel punto, per i provvedimenti di natura finanziaria, non valeva più quell’obbligo di una maggioranza del 60 per cento e il programma avrebbe potuto essere approvato, senza ostruzionismo, a maggioranza semplice.

Il guaio dell’essere astrusi (leggermente per esperti) (17 febbraio 2014)

febbraio 17, 2014

 

Feb 17, 8:26 am

The Trouble With Being Abstruse (Slightly Wonkish)

Political scientists who write clearly for a broader audience are upset with Nick Kristof for saying that political scientists no longer write for a broader audience. I’m not going to get into that fight. I do want to register one point, however: In my field there is indeed a problem with abstruseness, with the many academics who never even try to put their thoughts in plain language.

And what is the nature of that problem? It’s not that laypeople don’t understand what the academics are saying. It is, instead, that the academics themselves don’t understand what they’re saying.

Don’t get me wrong: I like mathematical modeling. Mathematical modeling is a friend of mine. Math can be a powerful clarifying tool. So, in some cases, can jargon, which used right can both save time and add clarity to the discussion. If I talk about Dixit-Stiglitz preferences, or for that matter the zero lower bound, technically trained economists immediately know whereof I speak, where plain English would both take longer and leave room for misunderstanding.

But it’s really important to step away from the math and drop the jargon every once in a while, and not just as a public service. Trying to explain what you’re doing intuitively isn’t just for the proles; it’s an important way to check on yourself, to be sure that your story is at least halfway plausible.

Take real business cycle theory – I know it’s a horse I beat a lot, but it’s not dead, and it’s a prime example within economics of what I have in mind. I still want to spend at least some time explaining that theory to my undergrads, so I’ve been looking for a simple, intuitive explanation by an RBC theorist of what’s going on. And I haven’t been able to find one!

I mean, I could do it myself. Strip the story down to basics – make it a steady-state model, not a growth model, and drop the capital accumulation; what you’re left with is fluctuations in the marginal productivity of labor, which have a magnified impact on output because workers choose to work less when the technology is bad and more when the technology is good. As I’ve written before someplace, it’s the story of a farmer who stays inside when it’s raining and puts in extra hours when the sun is shining.

But the RBC theorists never seem to go there; it’s right into calibration and statistical moments, with never a break for intuition. And because they never do the simple version, they don’t realize (or at any rate don’t admit to themselves) how fundamentally silly the whole thing sounds, how much it’s at odds with lived experience.

I once talked to a theorist (not RBC, micro) who said that his criterion for serious economics was stuff that you can’t explain to your mother. I would say that if you can’t explain it to your mother, or at least to your non-economist friends, there’s a good chance that you yourself don’t really know what you’re doing.

Math is good. Sometimes jargon is good, too. But plain language and simple intuition are important to keep you grounded.

 

Il guaio dell’essere astrusi (leggermente per esperti)

 

Gli scienziati della politica che scrivono per un ampio pubblico sono turbati perché Nick Kristof dice che gli scienziati della politica non scrivono più per un ampio pubblico. Non prenderò parte a quella contesa. Tuttavia, voglio davvero segnalare un aspetto: nel mio settore in effetti un problema di astruseria c’è, per via di molti accademici che neppure provano a mettere il loro pensieri in un linguaggio semplice.

E qual è la natura del problema? Non è che i non esperti non capiscono quello che gli accademici dicono. Piuttosto è che gli accademici stessi non capiscono cosa stanno dicendo.

Non consideratemi in modo sbagliato: a me piacciono i modelli matematici; fare modelli matematici è una mia passione. La matematica può essere un potente strumento di chiarificazione. Dunque, in vari casi, un linguaggio gergale usato correttamente può sia far risparmiare tempo che aggiungere chiarezza al dibattito. Se io parlo delle preferenze ‘Dixit-Stiglitz’ [1], o per la stessa ragione del limite inferiore di zero, economisti esperti dal punto di vista tecnico riconoscono immediatamente quello di cui sto parlando, laddove la semplice lingua inglese avrebbe richiesto più tempo ad anche lasciato spazio ad incomprensioni.

Ma ogni tanto è davvero importante venir fuori dalla matematica e lasciar cadere il linguaggio tecnico, e non solo per pubblico servizio. Cercar di spiegare intuitivamente cosa si sta facendo non vale solo per il popolo; è un modo importante per fare una verifica su se stessi, per essere certi che il vostro racconto sia almeno mediamente plausibile.

Si prenda la teoria del ciclo economico reale – so che mi accanisco contro di essa, ma è sempre in piedi, ed è un esempio eccellente, dall’interno dell’economia, di quello che ho in mente. Voglio ancora spendere almeno un po’ di tempo nello spiegare quella teoria ai miei studenti, cosicché mi sono messo a cercare una spiegazione semplice ed intuitiva, da parte di un teorico della teoria in questione, di ciò che sta succedendo. E non sono stato capace di trovarne una!

Voglio dire, potrei farlo io stesso. Riducete la storia agli aspetti fondamentali – ponete un modello di una condizione stabile, non un modello di crescita, e fate cadere la accumulazione di capitale; siete alle prese con le fluttuazioni nella produttività marginale del lavoro, che hanno un impatto amplificato sul prodotto perché i lavoratori scelgono di lavorare di meno quando la tecnologia è cattiva e di più quando la tecnologia è buona. Come ho scritto da qualche parte nel passato, questo è il racconto di un agricoltore che se ne sta in casa quando piove e fa lavoro straordinario quando il sole è splendente.

Ma i teorici della Real Business Theory non sembrano mai arrivare a quel punto: si riduce tutto alla calibrazione ed a episodi statistici, senza mai una pausa per l’intuizione. E poiché non danno mai la stessa versione, neppure comprendono (o comunque non lo ammettono a se stessi) come l’intera faccenda appaia fondamentalmente sciocca, quanto si collochi all’opposto della vita vissuta.

Una volta parlavo con un teorico (non un RBC, un microeconomista) che diceva che il suo criterio per una economia seria era roba che non si può spiegare a vostra madre. Io direi che se non potete spiegarla a vostra madre, o almeno ai vostri amici non-economisti, c’è una buona possibilità che voi stessi non sappiate realmente cosa state facendo.

La matematica va bene, talvolta va bene anche il linguaggio gergale. Ma un linguaggio semplice ed una comune intuizione sono importanti per tenervi con i piedi a terra.



[1] Modelli e formule con i quali i due Autori.  nei decenni passati, hanno chiarito il funzionamento del potere di monopolio nella realizzazione dei profitti di impresa.

Gli Iron Men di Wall Street (16 febbraio 2014)

febbraio 16, 2014

 

Feb 16, 10:59 am

Iron Men of Wall Street

Greg Mankiw has written another defense of the 0.1 percent — and this one is kind of amazing.

Before I get to the amazing part, however, can I say enough with the movie stars. Yes, a handful of media stars make a lot of money. But they are a trivial part of the story (pdf):

The upper tiers of the income distribution are overwhelmingly occupied by executives of one kind or another — corporate, finance, real estate, and lawyers who are surely more corporate than Perry Mason. And even the biggest names in media aren’t real players. Remember, the 40 top-paid hedge fund managers and traders made an average of more than $400 million each in 2012.

Which brings me to the amazing part of the column. Mankiw invokes the strong role of financial fortunes in U.S. inequality to argue that the incomes are deserved:

A similar case is the finance industry, where many hefty compensation packages can be found. There is no doubt that this sector plays a crucial economic role. Those who work in banking, venture capital and other financial firms are in charge of allocating the economy’s investment resources. They decide, in a decentralized and competitive way, which companies and industries will shrink and which will grow. It makes sense that a nation would allocate many of its most talented and thus highly compensated individuals to the task.

Has Greg been living in a cave since 2006? We’re now in the seventh year of a slump brought on by Wall Street excess; the wizardly job of “allocating the economy’s investment resouces” consisted, we now know, largely of funneling money into a real estate bubble, using fancy financial engineering to create the illusion of sound, safe investment. We also know that there is a real question whether hedge funds, in particular, actually destroy value for their investors.

One more thing: Mankiw argues that our tax system is fair because the top 0.1 percent pays a higher share of income in federal taxes than the middle class. This neglects the partial offset of this progressivity by regressive state and local taxes. But surely the main point is that to the extent that taxes on the 0.1 percent are high (they aren’t really, in historical context) that’s largely because Mitt Romney lost the 2012 election, so that Obama’s partial rollback of the Bush tax cuts and the high-income surcharges that partially finance health reform remained in place and the Ryan budget didn’t happen. It’s kind of funny to claim that our system is fair thanks to policies that you and your friends tried desperately to kill.

Anyway, the wolves of Wall Street are more Gordon Gekko than Iron Man; if they’re the best argument you have for the justice of extreme inequality, you’re not doing too well.

 

Gli Iron Men di Wall Street

 

Greg Mankiw è nuovamente intervenuto a difesa dello 0,1 per cento dei più ricchi – e stavolta è davvero incredibile.

Prima di arrivare alla parte incredibile, tuttavia, devo un po’ spiegare da dove la storia comincia. E’ vero, una manciata di personaggi famosi dei media fanno un sacco di soldi. Ma sono una parte del tutto secondaria dell’intera faccenda [1] (si veda la connessione, disponibile in pdf):

I settori più in alto della distribuzione del reddito sono in termini quasi assoluti occupati da dirigenti di un tipo o dell’altro – imprese, finanza, settore immobiliare ed avvocati che somigliano a dirigenti di azienda certamente di più che non Perry Mason. E persino i nomi più noti nel mondo dei media non sono i veri protagonisti. Si ricordi, i dirigenti e gli operatori finanziari con paghe più alte degli hedge fund realizzano una media di più di 400 milioni di dollari per ciascuno nel 2012.

La qual cosa mi porta alla parte strabiliante dell’articolo. Mankiw invoca il forte ruolo delle fortune finanziarie negli Stati Uniti per sostenere che i redditi sono meritati:

“Un caso simile è il settore della finanza, dove si possono trovare molti cospicui blocchi di compensi. Non c’è dubbio che questo settore giochi un ruolo economico cruciale. Coloro che lavorano nel settore bancario, nel capitale di rischio ed in altre società hanno il compito di allocare le risorse di investimento dell’economia. Essi decidono, in modi decentrati e competitivi, quali imprese ed industrie subiranno restrizioni e quali cresceranno. Ha un senso che una nazione collochi in quella posizione molti dei suoi migliori talenti, e di conseguenza li compensi generosamente.”

A partire dal 2006, Greg è forse vissuto in una grotta? Siamo oggi al settimo anno di una crisi provocata dagli eccessi di Wall Street; il lavoro geniale dell’ “allocare le risorse di investimento dell’economia” è in gran parte consistito, sappiamo ora, nell’incanalare denaro dentro la bolla immobiliare, utilizzando fantasiose ingegnerie finanziarie per creare l’illusione di investimenti sani e sicuri. Sappiamo anche che è fondato il dubbio che, in particolare gli hedge fund abbiano effettivamente distrutto valore per i loro investitori.

Una cosa ancora: Mankiw sostiene che il nostro sistema fiscale è giusto perché lo 0,1 per cento dei più ricchi paga in tasse federali una quota maggiore di reddito della classe media. In questo modo trascura il parziale bilanciamento di questa progressività da parte della tassazione regressiva al livello degli Stati e delle comunità locali. Ma sicuramente il punto principale è che, nella misura in cui le tasse sullo 0,1 per cento sono alte (in realtà non lo sono, nel contesto storico), ciò in gran parte è dovuto al fatto che Mitt Romney perse le elezioni del 2012, di modo che il parziale ritorno ai livelli precedenti da parte di Obama rispetto agli sgravi fiscali di Bush ed il sovraccarico sugli alti redditi che in parte finanzia la riforma sanitaria, sono rimasti in campo ed il bilancio proposta da Ryan non si è avverato. E’ una cosa curiosa che uno sostenga che il nostro sistema è giusto grazie alle politiche che lui ed i suoi amici avevano cercato di liquidare.

In ogni modo, i lupi di Wall Street sono più Gordon Gekko che Iron Man; se sono il migliore argomento di cui si dispone per sostenere la giustezza di una ineguaglianza estrema, non si è messi bene.



[1] Se si amplia l’immagine, si trova che i personaggi dello spettacolo e dello sport si appropriano dello 0,27 per cento del reddito nazionale, a fronte di un 7,34 di tutto il mondo dello 0,1 per cento dei più ricchi.

La stupidità nel dibattito economico (14 febbraio 2014)

febbraio 14, 2014

 

February 14, 2014, 7:39 am

Stupidity in Economic Discourse

Jonathan Gruber is mad as hell, and he’s not going to take it anymore. The eminent health care economist and health reform architect is annoyed at Casey Mulligan’s latest, which misrepresents Gruber’s views; mine too.

Gruber is right to be mad: that was a disgraceful, deceptive column. But I think you also want to put it into a larger picture: the enduring myth of the stupid progressive economist.

So about Mulligan: As Gruber documents, he pulls multiple fast ones, asserting things that he says are conclusions of the CBO report when they aren’t — they’re his own views, pulled out of, um, thin air, or maybe someplace else, which he is projecting onto the budget office to make them seem authoritative.

Beyond that, Mulligan tells his readers that both Gruber and I are too dumb or craven to admit that the disincentives to work created by some aspects of the Affordable Care Act impose economic costs. One suspects that Mulligan didn’t actually read either of the pieces he links to. If he had, he would have found this from Gruber:

But the likelihood of voluntary reductions in work is not the only issue. The CBO also projects work reduction by individuals who cut back on hours or avoid moving up the job ladder because they don’t want to lose Medicaid eligibility, or because they don’t want to make so much in wages that they would lose tax credits to help pay insurance premiums. Unlike voluntary job leaving, this second kind of work reduction would entail real economic distortions and be a cost, not a benefit.

And this from me:

Just to be clear, the predicted long-run fall in working hours isn’t entirely a good thing. Workers who choose to spend more time with their families will gain, but they’ll also impose some burden on the rest of society, for example, by paying less in payroll and income taxes. So there is some cost to Obamacare over and above the insurance subsidies. Any attempt to do the math, however, suggests that we’re talking about fairly minor costs, not the “devastating effects” Mr. Cantor asserted in his next post on Twitter.

So both of us acknowledge that there are incentive effects and that they have a cost; but both of us argue on quantitative grounds that the cost isn’t large. Hardly the doctrinaire liberalism Mulligan thinks he sees.

Oh, and bonus misrepresentation: Mulligan:

Paul Krugman goes even further and calls it “misrepresentations” to interpret the marginal tax rate provisions of the Affordable Care Act as destructive.

No, I didn’t — I called talk about “2 million jobs destroyed” a misrepresentation, because it is. Who says so? The CBO itself.

On to the broader point. What one sees in this particular Mulligan piece is something I encounter all the time, in many contexts: the myth of the stupid progressive economist.

It works like this: Conservatives in general, and conservative economists in particular, often have a very narrow vision of what economics is all about — namely supply, demand, and incentives. Anything that interferes with the sacred functioning of markets or reduces the incentive to produce must be a bad thing; any time a progressive economist supports policies that don’t fit neatly into this orthodoxy, it must be because he doesn’t understand Econ 101. And conservative economists are so sure of this that they can’t be bothered to actually read what the progressives write — at the first hint of deviation from laissez-faire, they stop paying attention and begin debating with the stupid progressive in their mind, not the real economist out there.

As a result, many conservatives seem utterly unable to take on board the notion that people like Jon Gruber or yours truly might understand Econ 101, but also believe with good reason that you need to go beyond that point.

On the health care issue: yes, there are incentive effects — as there are with all insurance, by the way. But there’s also good reason to believe that there’s a major market imperfection in the form of job lock, and that even aside from this, there are important benefits to expanding health insurance that must be weighed against any costs. All of that is, in brief, in both of the pieces Mulligan denounces, and there at much greater length in our other writings; but as so often happens, conservatives develop problems of reading comprehension whenever such issues come up.

I’ve encountered similar responses on many other issues. You say that deficit spending is helpful in a depressed economy? You must be saying that deficits and bigger government are always good, which is stupid hahaha. You say that increasing unemployment benefits in a demand-constrained economy can create jobs? But you also said once upon a time that unemployment insurance can raise the natural rate of unemployment, so you’re stupid hahaha.

Well, somebody’s being stupid, anyway.

I can’t resist going back to the 2009 debate over stimulus, when one after another, prominent conservative economists dismissed calls for a temporary increase in spending as being clearly stupid and/or corrupt, because accounting identities, or maybe the effect of expected future taxes, clearly showed that stimulus made no sense. Along the way these notables reinvented classic conceptual errors from 80 years ago and added a few new howlers too; yet their faith in the proposition that progressive economists must be idiots never wavered.

But then John Stuart Mill knew all about this.

 

La stupidità nel dibattito economico

 

Jonathan Gruber è fuori di sé dalla rabbia, e non ha intenzione di subire più oltre. L’eminente economista di assistenza sanitaria nonché architetto della riforma sanitaria è irritato per l’ultimissima presa di posizione di Casey Mulligan, che deforma le opinioni di Gruber, e quelle del sottoscritto.

Gruber ha ragione ad essere furioso: si tratta di un articolo vergognoso e ingannevole. Ma penso che si debba anche collocarlo in un quadro più ampio: l’eterno mito dell’economista progressista stupido.

Dunque, a proposito di Mulligan: come Gruber documenta, egli accosta rapidamente un insieme di cose, presentandole come conclusioni del rapporto del CBO, mentre non lo sono – sono sue opinioni personali, dedotte in genere dal nulla, o magari da qualche altra sede, che egli intitola all’Ufficio del bilancio per renderle più autorevoli.

Oltre a ciò, Mulligan racconta ai suoi lettori che Gruber ed io siamo troppo sciocchi o vili per ammettere che i disincentivi a lavorare creati da alcuni aspetti della Legge sulla Assistenza Sostenibile comportino costi economici. In verità, viene il dubbio che Mulligan non abbia letto alcun articolo al quale si riferisce. Se l’avesse fatto, da parte di Gruber avrebbe trovato queste parole:

“Ma la probabilità di riduzioni volontarie del lavoro non sono l’unico tema. Il CBO prevede anche una riduzione del lavoro da parte di persone che tagliano i loro orari o rifiutano di far carriera sulla scala dei posti di lavoro perché non vogliono perdere le condizioni per aver diritto a Medicaid, o perché non vogliono realizzare compensi che gli farebbero perdere i crediti di imposta che contribuiscono a pagare i premi assicurativi. Diversamente dall’abbandono volontario del posto di lavoro, questo secondo genere di riduzione del lavoro comporterebbe distorsioni economiche vere e proprie e sarebbe un costo, non un beneficio.”

Nonché queste mie parole:

“Solo per chiarezza, la prevista diminuzione a lungo termine in ore lavorate non è interamente una cosa positiva. I lavoratori che hanno scelto di spendere più tempo con le loro famiglie avranno un vantaggio, ma imporranno anche un qualche peso al resto della società, ad esempio pagando meno tasse sugli stipendi e sui redditi. Dunque c’è un qualche costo della riforma della assistenza di Obama che va oltre e si aggiunge ai sussidi per l’assicurazione. Ogni tentativo di fare due conti, tuttavia, indica che stiamo parlando onestamente di costi minori, non degli ‘effetti devastanti’ che il signor Cantor asserisce nel suo successivo post su Twitter.”

Tutti e due, dunque, riconosciamo che ci sono effetti di incentivazione e che hanno un costo; ma entrambi sosteniamo che in termini quantitativi il costo non è ampio. Tutt’altro che il progressismo dottrinario che Mulligan crede di vedere.

Inoltre, e come mistificazione aggiuntiva, scrive Mulligan:

“Paul Krugman va persino oltre e definisce ‘mistificazioni’ l’interpretare come distruttive le aliquote fiscali marginali della Legge sulla Assistenza Sostenibile.”

No, non l’ho detto – io ho chiamato ‘mistificazione’ il parlare di ‘due milioni di posti di lavoro distrutti’, perché è tale. Come lo so? Lo dice il CBO medesimo.

Sul punto più generale: quello che si constata in questo particolare articolo di Mulligan è qualcosa che io incontro di continuo, in molti contesti: il mito dell’economista progressista stupido.

Funziona così: i conservatori in generale, e gli economisti conservatori in particolare,  spesso hanno una concezione molto ristretta degli ambiti dell’economia – in particolare, offerta, domanda e incentivi. Ogni cosa che interferisca con il sacro funzionamento dei mercati o riduca l’incentivo a produrre deve essere una cosa negativa; ogni volta che un economista progressista sostiene politiche che non si attagliano accuratamente a questa ortodossia, deve dipendere dal fatto che non capisce l’economia dei corsi universitari. E gli economisti conservatori sono talmente sicuri di questo che possono in effetti non preoccuparsi di leggere quello che i progressisti scrivono – al primo cenno di deviazione dal ‘laissez faire’, essi smettono di prestare attenzione e cominciano nella loro mente a discutere con il progressista stupido, non con il reale economista che hanno dinanzi.

Di conseguenza, molti conservatori sembrano del tutto incapaci di realizzare che individui come John Gruber ed il sottoscritto possono comprendere l’economia di un libro di testo universitario, e credono anche con buona ragione di doverlo considerare un punto acquisito.

Sul tema della assistenza sanitaria: è vero, ci sono gli effetti di incentivazione – come, per inciso, ci sono con ogni assicurazione. Ma c’è anche una buona ragione per credere che sussista un imperfezione rilevante del mercato nella forma di una costrizione dentro modalità obbligate di lavoro, e, anche a parte questo, che ci siano benefici importanti nella espansione della assicurazione sanitaria che devono essere stimate in rapporto ai costi. Tutto questo, in breve, è in entrambi gli articoli che Mulligan denuncia, e in modo molto più ampio in altri nostri scritti; ma come accade spesso, i conservatori sviluppano problemi di comprensione di quello che leggono ogni volta che emergono questioni del genere.

Ho incontrato risposte di questo genere su molte altre tematiche. Si dice che la spesa pubblica in deficit è di aiuto in una economia depressa? Vuol dire che si sta dicendo che i deficit e governi con maggiori compiti sono sempre una cosa positiva, il che è stupido (risate fragorose!). Si dice che aumentare i sussidi di disoccupazione in una economia limitata dalla domanda può creare posti di lavoro? Ma in un’altra occasione si disse anche che la assicurazione di disoccupazione può far crescere il tasso naturale di disoccupazione, dunque si è stupidi (altre risate fragorose!).

Ebbene, in ogni caso qualche stupido c’è.

Non posso resistere a tornare al dibattito sulle misure di sostegno del 2009, quando, uno dopo l’altro, eminenti economisti conservatori liquidavano gli appelli per una incremento temporaneo della spesa pubblica come qualcosa di stupido e/o disonesto, perché le identità contabili [1] o, forse, l’effetto delle tasse future attese, chiaramente mostravano che lo stimolo non avrebbe avuto effetto. Per quella strada questi notabili reinventarono errori concettuali classici da 80 anni ed aggiunsero anche nuove castronerie; tuttavia la loro fede nel concetto per il quale gli economisti progressisti devono essere scemi non ebbe esitazioni di sorta.

Ma d’altro canto, John Stuart Mill di cose di questo genere era espertissimo.



[1] Nella contabilità, nella finanza e nell’economia una identità contabile, come traduco letteralmente,  è una eguaglianza che deve essere vera a prescindere dal valore delle sue variabili.

Falsificazioni (13 febbraio 2014)

febbraio 13, 2014

 

Feb 13, 6:33 pm

Faking It

Three somehow related stories of the day:

1. Brent Bozell’s Media Research Center is an important part of the machinery that has, for the most part, successfully intimidated the news media into adopting a right-wing slant. (I’ve faced mass mailings, concerted attacks on my university email, and so on.) But Jim Romenesko finds something interesting: Bozell doesn’t write his own columns or books, forcing a staffer to do it.

2. The Koch brothers have been running ads in Louisiana with distressed citizens facing ruination from Obamacare. But the people in the ads are all paid actors.

3. Best of all is the news from The Can Kicks Back, which is a Bowles-Simpson-run outfit that was supposed to be the youth arm of Fix the Debt. It has always been an astroturf operation, and a clumsy one at that, doing things like hiring dancers to stage fake flash mobs and placing identical ghostwritten articles in college newspapers. Now, The Can Kicks Back’s campaign against debt is running into trouble, because it’s, um, running out of money.

What these stories have in common is that they show how much of what passes for genuine expression of public concern is really just a bought and paid-for (or, in the case of The Can, not sufficiently paid-for) front for plutocratic priorities.

 

Falsificazioni

 

 

Tre storie del giorno in qualche modo collegate:

1 . Il Media Research Center di Brent Bozell è un pezzo importante del meccanismo che ha, per la maggior parte con successo, intimidito i media dei notiziari ad adottare una tendenza di destra (io devo fare i conti con  invii massicci di mail, con attacchi combinati sulla mia email universitaria, e così via). Ma Jim Romanesko scopre qualcosa di interessante: Bozell non scrive i suoi articoli ed i suoi libri per conto suo, costringe un collaboratore a farlo.

2 . I Fratelli Koch hanno mantenuto attività di propaganda in Louisiana su cittadini  sconvolti che si trovano di fronte alla rovina a seguito della riforma della assistenza di Obama. Ma i personaggi sugli spot pubblicitari  sono tutti attori pagati.

3 . La notizia più bella viene da The Can Kicks Back [1], che è un gruppo della serie di Bowles-Simpson [2] che si pensava rappresentasse il braccio armato giovanile di Fix the Debt [3]. Si è sempre trattato di una operazione artificiale [4], ed anche di quelle maldestre, che fa cose come assumere ballerini per inscenare masse improvvisate di individui e piazzare articoli scritti a pagamento e tutti uguali sui giornali universitari. Ora, la campagna contro il debito di The Can Kicks Back  è nei guai, guarda un po’, perché hanno esaurito i soldi.

Quello che queste storie hanno in comune è che mostrano come una buona parte di quello che passa per genuina espressione della preoccupazione dell’opinione pubblica è solo una facciata, acquistata e foraggiata a favore delle priorità dei plutocrati (nel caso di The Can, non pagata abbastanza).



[1] L‘espressione “kick the can down the road” – letteralmente ‘calciare il barattolo per la strada’ – ha il senso di ‘perder tempo, dilazionare, tirarla alle lunghe’. In questo caso, letteralmente sarebbe un barattolo che torna indietro. Ma “kick back” può anche significare prenderla facile, rilassarsi, nel qual caso sarebbe un barattolo che si rilassa. Probabilmente il senso è una ironia nei confronti del Governo che si suppone non faccia niente per il debito, neanche dar calci ad un barattolo.

[2] I due copresidenti di una commissione sul debito, a suo tempo voluta da Obama – il primo democratico ed il secondo repubblicano – che si erano caratterizzati per una valutazione del tutto allarmistica della situazione finanziaria, poi smentita dai fatti abbastanza nettamente.

[3] Associazione e gruppo di pressione in tema di deficit e di austerità, composto da opinionisti, economisti e politici.

[4] Strana l’origine del termine ‘astroturf’  – “campo erboso come quello dell’Astro’, dove ‘Astro’ è un campo di baseball in Texas, che fu il primo nel quale si utilizzò un sostituto in plastica dell’erba. Ma lo “astroturfing”, con un evidente procedimento di astrazione è diventato un termine coniato negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ottanta del XX secolo: nell’ambito del marketing, esso definisce la creazione a tavolino del consenso proveniente dal basso, della memoria o della storia pregressa di un’idea, un prodotto o comunque qualsiasi bene oggetto di propaganda (bene di consumo, candidato alle elezioni, etc.). La tecnica di astroturfing si affida spesso a persone retribuite affinché esse producano artificialmente un’aura positiva intorno al bene da promuovere.’  (Wikipedia)  I Fratelli Koch – magnati che si dedicano al finanziamento di varie attività della destra americana – tra l’altro sono specializzati in “astroturfing”. Ad esempio, è ‘astroturfing’ il gruppo ‘American for prosperity’, peraltro generoso nel finanziamento del Tea Party.

Vox anti-populi (13 febbraio 2014)

febbraio 13, 2014

 

Feb 13, 11:58 am 13

Vox Anti-Populi

Right now the online current-policy economics journal VoxEU — edited by my old student Richard Baldwin — has two fantastic pieces on inequality.

First up, Andrew Oswald and Nattavudh Powdthavee test the effect of wealth on political attitudes by looking at people who got richer, not through their efforts or inheritance, but by winning the lottery. Sure enough, lottery winners become more right-wing. Maybe that’s not surprising, but in case you had any doubts about whether to be a cynic, this should dispel them.

Even more interesting is the effect on political attitudes: lottery winners also became more likely to praise the current, unequal distribution of income:

zzzz 49

 

 

 

 

 

(This is just the top line of the table; a number of other variables are included as controls).

Think about that for a minute. You might imagine that a self-made man, reasoning from his own experience, might come to the conclusion that people get what they deserve. But here are people who demonstrably, by design, got rich(er) through pure chance, having nothing to do with their talents or efforts. Yet their increased wealth nonetheless convinces them that society is fair. Presumably a big enough lottery win would turn them into Tom Perkins.

In the second piece, Davide Furceri and Prakash Loungani use an event-study framework — looking at what happens on average after clear changes in policy — to assess the effects of “neoliberal” policy changes (although they don’t put it that way) on inequality. Sure enough, they find that both fiscal austerity and liberalization of international capital movements are followed by noticeable rises in income inequality.

So, if you were a ranting leftist, you might say that political attitudes are shaped by class, and that ideological justifications for high inequality are just a veil for class interest. You might also say that “sound” economic policies are really just policies that redistribute income upwards. And it turns out that the econometric evidence more or less supports your rant.

 

Vox anti-populi [1]

 

In questo momento la rivista online di attualità politica e di economia VoxEU – edita dal mio vecchio studente Robert Baldwin – mostra due splendidi articoli sull’ineguaglianza.

Nel primo, Andrew Oswald e Nattavudh Powdthavee stimano l’effetto della ricchezza sugli orientamenti politici mettendo sotto osservazione le persone che sono diventate ricche, non attraverso i loro sforzi o in seguito ad eredità, ma in quanto vincitori ad una lotteria. E’ abbastanza evidente che i vincitori della lotteria diventano più di destra. Forse non è sorprendente, ma nel caso aveste avuto qualche dubbio sulla opportunità di essere cinici, questo dovrebbe dissiparli.

Anche più evidente è l’effetto sugli orientamenti politici: diventa anche più probabile che i vincitori della lotteria elogino la attuale ineguale distribuzione del reddito:

zzzz 49

 

 

 

 

 

(questa è solo la morale della favola della tabella; un certo numero di altre variabili sono incluse come verifiche).

Si pensi un attimo a questi risultati. Ci si potrebbe immaginare che un uomo che si è fatto con le proprie forze, ragionando sulla sua propria esperienza, possa arrivare alla conclusione che le persone ottengono quello che meritano. Ma in questo caso si tratta di persone che inconfutabilmente, per l’ipotesi di progetto, diventano più ricche per puro caso, senza che questo abbia niente a che fare con i loro talenti e con il loro impegno. Eppure la loro accresciuta ricchezza li persuade che la società sia giusta. Presumibilmente, se avessero vinto ad una lotteria abbastanza importante, questo li avrebbe trasformati in Tom Perkins.

Nel secondo articolo, Davide Furceri e Prakash Loungani usano una schema di analisi fattuale – osservando quello che in media accade dopo cambiamenti evidenti nella politica –   per stabilire gli effetti sull’ineguaglianza di mutamenti ‘liberisti’ nelle politiche (sebbene essi non si esprimano in questi termini). Come previsto, essi scoprono che sia l’austerità delle finanze pubbliche che la liberalizzazione dei movimenti dei capitali sono seguiti da considerevoli incrementi nelle diseguaglianze di reddito.

Dunque, se foste estremisti di sinistra che sbraitano, potreste concludere che le inclinazioni politiche sono modellate dalle classi, e che le giustificazioni ideologiche per una forte ineguaglianza sono appena un velo degli interessi di classe. Potreste anche dire che le politiche economiche “sane” sono in sostanza solo politiche che redistribuiscono il reddito verso l’alto. E si scopre che le prove econometriche più o meno sarebbero di supporto alle vostre invettive.



[1] VoxEU” è il nome del blog che ha pubblicato i due articoli. “Anti-populi” è una imitazione di “vox populi”, ma è rimasto il genitivo indeclinato.

A proposito del non abboccare alle falsificazioni sulla riforma della sanità di Obama (12 febbraio 2014)

febbraio 12, 2014

 

Feb 12, 5:56 pm

Unskewing Obamacare

If you’ve been tracking the news on signups under the Affordable Care Act – which is easy thanks to Charles Gaba’s invaluable site – you already knew that the program was making a pretty good recovery from the botched start. Now, however, it’s official: as of the end of January signups were only about a million behind their projected track as of last spring, which means that as of March 31 the total is likely to be 6-point-something million rather than the projected 7 million. In other words, basically OK.

But here’s the thing: every online article I’ve seen about the latest numbers is followed by a huge number of vitriolic comments insisting that it isn’t true, that Obamacare is a total disaster. Some commenters declare that all the numbers are lies; others, getting their take from right-wing bloggers, say that all of those who have signed up but not yet paid their first premium – ahem, 47 percent of the total – will never pay and are fake enrollees. And so on.

You can’t help but notice the resemblance to the “unskewing” fever of the final weeks of the 2012 election, when everyone on the right knew, just knew, that the polls showing a clear Obama edge were biased and wrong, and that if you reworked the numbers somehow they pointed to a Romney triumph.

Now, you might ask, how do I know that the Obamacare unskewers are wrong? Actually, I don’t know that for sure – but it’s very unlikely that they’re right. For one thing, they are more or less the same as the poll unskewers – people who know nothing about the subject, but know what they want to believe. For another, CBO – which has a reputation to defend – thinks it’s going to be OK. Finally, the insurers, who have real money on the line, seem fairly calm, which wouldn’t be the case if they saw really terrible enrollment.

Two things are interesting about all of this. First, the right has evidently learned nothing from the unskewing debacle. And second, right-wingers are totally vested in the idea of an Obamacare collapse. They have no plan B, and their only answer to growing evidence that it’s not going to happen is furious denial.

 

A proposito del non abboccare alle falsificazioni sulla riforma della sanità di Obama [1]

 

Se stavate seguendo le notizie sulle iscrizioni alla Legge sull’Assistenza Sostenibile – la qualcosa è facile grazie all’inestimabile sito di Charles Gaba – sapevate già che il programma stava realizzando un recupero piuttosto buono rispetto alla pasticciata partenza. Ora, tuttavia, è ufficiale: alla fine di gennaio le registrazioni erano soltanto un milione sotto il loro previsto andamento nella primavera passata, il che significa che al 31 marzo è probabile che esse siano sei milioni virgola qualche cosa, invece dei previsti sette milioni. In altre parole, fondamentalmente sta andando bene.

Ma qua è il punto: ogni articolo online che ho visto sugli ultimi dati è seguito da un gran numero di commenti al vetriolo che insistono sul fatto che questo non è vero e che la riforma della assistenza di Obama è un disastro totale. Alcuni commentatori dichiarano che tutti i dati sono menzogne; altri, derivando il loro giudizio dai bloggers della destra, dicono che tutti quelli che si sono iscritti  ma non hanno ancora pagato la loro prima polizza – guarda caso, il 47 per cento del totale [2] – non pagheranno mai e sono registrazioni false. E così via.

Può non esservi d’aiuto, ma notate la somiglianza con la febbre del “non fidarsi delle falsificazioni ” delle settimane finali delle elezioni del 2012, quando tutti a destra sapevano, sapevano con certezza, che i sondaggi che mostravano un chiaro margine a favore di Obama erano tendenziosi e sbagliati, e che se rielaboravate i numeri essi in qualche modo indicavano un trionfo di Romney.

Ora, potete chiedervi, come faccio a sapere che i sostenitori  della tesi del ‘non abboccare’ alle falsificazioni sulla riforma di Obama stiano sbagliando? Per la verità, non lo so con certezza – ma è molto improbabile che abbiano ragione. Per un aspetto, essi sono più o meno gli stessi che non volevano dar retta ai sondaggi – gente che sulla materia specifica non sa niente, ma sa cosa vuole credere. Per un altro aspetto, il Congressional Budget Office – che ha una reputazione da difendere – pensa che la vicenda sia destinata a finir bene. Infine, gli assicuratori, che mettono in ballo soldi veri, sembrano abbastanza calmi, e non sarebbe così se vedessero per davvero un dato sulle registrazioni terribile.

In tutto questo ci sono due cose interessanti. La prima, la destra non ha evidentemente imparato niente dalla debacle sui presunti imbrogli. E la seconda, la destra è totalmente presa dall’idea di un crollo della riforma della assistenza di Obama. Non hanno un Piano B, e l’unica risposta alle prove crescenti di quello che non sta accadendo è un negazionismo furioso.



[1] [1] “to skew” significa “distorcere”, dunque “unskewing” dovrebbe significare il contrario. E il contrario dovrebbe indicare non tanto l’impossibilità di distorcere, quanto la volontà di non farsi confondere dagli imbrogli, o dai brogli.

[2] Suppongo per combinazione, il 47 per cento era anche il famigerato numero con il quale Mitt Romney aveva ‘stimato’ la percentuale di americani che vivono alle spalle della assistenza pubblica.

Vincitori e perdenti in macroeconomia (implicitamente per esperti) (10 febbraio 2014)

febbraio 10, 2014

 

Feb 10, 11:11 am

Macroeconomic Winners and Losers (Implicitly Wonkish)

John Quiggin looks at a recent book that purports to explain the big ideas in macroeconomics, but doesn’t contain any, well, macroeconomics. His meditation on how that can happen involves a useful take on what happened to the profession in the decades that preceded the 2008 crisis, and a very interesting take on the current state of affairs (DSGE is “dynamic stochastic general equilibrium” — basically, the particular form of modeling that is more or less the only thing one can publish in journals these days):

Broadly speaking, as far as academic macroeconomics is concerned, DSGE has won the day, not so much by force of argument as by maintaining control of the criteria for publication of journal articles in the field: it’s OK to assume full employment, and ignore inflation, but not to omit rigorous microfoundations for your model. On the other hand, with the collapse of the intellectual case for austerity (though not its political dominance), the terms of public debate are set almost entirely by New Old Keynesians like Krugman and DeLong (that’s true, even if you don’t believe, as I do, that the outcome of that debate has been a knockout win for the Keynesian side).

It’s a pretty strange situation; and it implies, I think, that somebody is going to end up in the dustbin of history. I wonder who?

 

Vincitori e perdenti in macroeconomia (implicitamente per esperti)

 

John Quiggin si riferisce ad un libro recente che si propone di spiegare le grandi idee in macroeconomia, ma che non contiene di fatto niente di macroeconomia. La sua meditazione su come ciò possa accadere riguarda una utile presa di posizione su cosa è successo nella disciplina nei decenni che hanno preceduto la crisi del 2008 ed una affermazione molto interessante sull’attuale stato dell’arte (DSGE sta per “equilibrio dinamico stocastico generale” – fondamentalmente, la particolare forma di utilizzo di modelli che è più o meno l’unica cosa che si può pubblicare sulle riviste di questi tempi):

“Parlando in generale, per quanto riguarda la macroeconomia accademica, il DSGE ha avuto completo successo, non tanto per la forza dell’argomentazione quanto per aver mantenuto il controllo dei criteri nel settore per la pubblicazione degli articoli sulle riviste: è corretto supporre la piena occupazione, e ignorare l’inflazione, ma non omettere rigorosi fondamenti microeconomici per il vostro modello. D’altra parte, con il collasso della argomentazione intellettuale a favore dell’austerità (sebbene non del suo dominio politico), i termini del dibattito pubblico sono fissati quasi per intero dai nuovi paleo keynesiani come Krugman e DeLong (quello è un fatto, anche se non credete, come me, che il risultato di quel dibattito sia stata una vittoria per KO dello schieramento keynesiano).”

E’ una situazione abbastanza strana: ed implica, io penso, che qualcuno sia destinato a finire nel cestino dei rifiuti della storia. Chi sarà, mi chiedo?

Perché preoccuparsi di quanto lavorano gli altri? (10 febbraio 2014)

febbraio 10, 2014

 

February 10, 2014, 11:00 am

Why Do You Care How Much Other People Work?

The brouhaha over the CBO report – I don’t want to call it a debate, because that would suggest that people on both sides are making sense, or even listening – continues. But there is a massive lack of clarity. This is, no doubt, in large part because incoherence serves the interests of some parties. But I think there’s also some genuine intellectual confusion that might, for a few players at least, actually be reduced by careful analysis.

So let me try this, by asking: why should anyone be upset if some workers take advantage of Obamacare to reduce their working hours, or even drop out of the labor force? That’s a real question, by the way, not a rhetorical one. There are, it turns out, some reasons to be concerned, although they’re much weaker than the rhetoric would lead you to believe.

It helps, I’d argue, if you think of the American population as comprising two groups: those who receive subsidies toward their health insurance and those who don’t – the subsidized and the subsidizers. In reality these categories are arguably a bit more complex than a mere matter of monetary transfers, since Obamacare also in effect subsidizes those in poor health by charging them the same premiums as the healthy. But I don’t think this changes the point.

So, we know that Obamacare has costs to the subsidizers, in the form of the subsidies that must be paid – about 0.9 percent of GDP — and that eventually must be reflected in higher taxes or lower spending than would otherwise take place. These subsidies correspondingly represent benefits to the subsidized; yes, Virginia, it’s redistribution, although many people who end up subsidizing rather than subsidized were at risk of being on the other side, and will therefore gain from the insurance aspect.

The question, however, is how those costs and benefits are affected if a significant number of the subsidized take advantage of their new freedom from health insurance fear to reduce hours or leave the work force.

For those who choose to work less, this is a clear gain – otherwise they wouldn’t do it! It’s likely to be especially beneficial because our pre-Obamacare system created so much “job lock”, trapping people in full-time employment because health insurance was an all-or-nothing affair.

What about the subsidizers? Don’t say that it’s obvious that they are hurt – remember, we’re talking about additional costs over and above the cost of the subsidies.

You might say that by withdrawing their labor, subsidized workers reduce the overall size of the economic pie, which is true. However, they also take a smaller share of the economic pie, because they earn less in wages and salaries. And if you believe to a first approximation in the marginal productivity theory of income distribution (as free-market advocates should), this means that the reduction in GDP from reduced labor input should be approximately equal to the reduced wages of those working less. In other words, the amount left over for everyone else should be unchanged. Why do you care how much other people work?

OK, what’s wrong with this story? The answer is that it’s a story about pre-tax wages. When someone chooses to work less, he or she imposes a hidden cost on everyone else, because he or she ends up paying less in taxes – or in some cases gets to collect more in means-tested benefits.

How big is this effect? I argued in an earlier post that if we believe the CBO estimate, labor withdrawal should reduce GDP by slightly over 0.5 percent. If we assume a marginal tax rate of 40 percent for the relevant workers (which seems in the ballpark for ordinary workers in the 15 percent bracket, paying 15 percent payroll tax, and some state and local taxes on top), this is a bit over 0.2 percent of GDP.

So yes, reduced labor supply adds modestly to the true cost of health reform, although it also adds to the benefits. But the key word is “modestly”.

Why, then, are the usual suspects so incensed? Partly because they don’t understand any of this. Beyond that, there’s a moralistic streak: people should be forced to work, for their own good, you see (are there no poorhouses?). And of course, there’s the underlying rage that a disproportionate share of the beneficiaries (though by no means a preponderance) will be Those People.

But when you take paternalism and prejudice out of the picture, what you’re left with is some pretty prosaic economics. Should you care how much other people work? Yes, a little – but not so much that it should change anyone’s views about health reform.

 

Perché preoccuparsi di quanto lavorano gli altri?

 

Il chiacchiericcio sul rapporto del CBO – non lo voglio chiamare un dibattito, che indicherebbe persone che da entrambi gli schieramenti dicono cose sensate, o anche ascoltano – continua. Ma c’è una enorme mancanza di trasparenza. In larga parte, non c’è dubbio, perché l’incoerenza fa il gioco di alcune fazioni. Ma penso che ci sia anche una qualche genuina confusione intellettuale, che potrebbe, almeno da parte di alcuni protagonisti, essere ridotta con una analisi scrupolosa.

Lasciatemi dunque fare una prova, chiedendo: perché ci dovrebbe essere chi resta turbato dal fatto che ci sono alcuni lavoratori che si avvantaggiano della riforma della assistenza di Obama per ridurre il loro orario di lavoro, o persino per uscire dalla forza di lavoro? Tra l’altro, è una domanda vera, non è retorica. Viene fuori che ci sono alcune ragioni per essere preoccupati, sebbene sono assai più fragili di quello che la propaganda vi indurrebbe a credere.

Penso che sia d’aiuto pensare alla popolazione americana come se si dividesse due gruppi: coloro che ricevono sussidi a favore della loro assicurazione sanitaria e coloro che non li ricevono – i sussidiati ed i sussidianti. In realtà queste categorie sono verosimilmente un po’ più complesse che una mera questione di trasferimenti monetari, dato che la riforma di Obama in effetti aiuta chi ha una salute malferma, dato che impone loro gli stessi premi assicurativi di coloro che sono in buona salute. Ma non penso che questo cambi la sostanza.

Dunque, noi sappiamo che la riforma dell’assistenza di Obama ha costi per i sussidianti, nella forma di  sussidi che devono essere pagati – circa lo 0,9 per cento del PIL – e che alla fine saranno riflessi in tasse più alte oppure in minore spesa pubblica che altrimenti ci sarebbe stata. Questi sussidi di conseguenza rappresentano i benefici dei sussidiati; sì, Virginia, si tratta di redistribuzione, sebbene alcune persone che finiscono col sussidiare anziché coll’essere sussidiate rischiavano di finire dall’altra parte, e di conseguenza ci guadagneranno, per l’aspetto della assicurazione [1].

La domanda, tuttavia, è come questi costi e questi vantaggi sono influenzati da un significativo numero di sussidiati che si avvantaggiano per l’essersi liberati dalla paura della assicurazione sanitaria al punto di ridurre le ore di lavoro o di lasciare le forze di lavoro.

Per coloro che scelgono di lavorare meno, questo è chiaramente un vantaggio – altrimenti non lo farebbero! E’ probabile che sia particolarmente vantaggioso perché il nostro sistema precedente alla riforma della assistenza di Obama aveva costretto molti a restare prigionieri di un posto di lavoro, intrappolati in una occupazione a tempo pieno perché l’assicurazione sanitaria era un meccanismo del genere ‘o-tutto-o-niente’.

Che dire dei sussidianti? Non si dica che è naturale che essi siano danneggiati – si ricordi, stiamo parlando di costi addizionali in aggiunta al costo dei sussidi.

Si potrebbe dire che ritirando il loro lavoro, i lavoratori sussidiati riducono la quota complessiva della torta economica, il che è vero. Tuttavia, essi si appropriano anche di una quota minore della torta economica, perché guadagnano meno in stipendi e salari. E se in prima approssimazione credete nella teoria della produttività marginale della distribuzione del reddito (come dovreste, in quanto sostenitori del libero mercato) questo significa che la riduzione del PIL derivante dall’input del lavoro ridotto dovrebbe essere approssimativamente eguale ai compensi ridotti di coloro che lavorano di meno. In altre parole, la quantità che rimane su tutti gli altri dovrebbe essere immutata. Perché preoccuparvi tanto del lavoro degli altri?

Dunque, cosa c’è di sbagliato in questa storia? La risposta è che il racconto riguarda i compensi prima delle tasse. Quando qualcuno sceglie di lavorare di meno, costui, uomo o donna che sia,  impone un costo nascosto su qualcun altro, perché finisce col pagare di meno in tasse – o in certi casi col poter ricevere di più in sussidi che dipendono dagli accertamenti dei redditi più bassi.

Quanto è grande questo effetto? Ho sostenuto in un post precedente che se crediamo alle stime del CBO, la rinuncia a quote di lavoro dovrebbe ridurre il PIL leggermente di più dello 0,5 per cento. Se assumiamo una aliquota fiscale marginale del 40 per cento per i lavoratori interessati (che sembra appropriata per i normali lavoratori nello scaglione del 15 per cento, che pagano un 15 per cento di tasse sugli stipendi e al massimo qualche tassa statale e locale), il risultato è un po’ sopra lo 0,2 per cento del PIL.

Dunque, sì, una ridotta offerta di lavoro aumenta modestamente il costo effettivo della riforma sanitaria, per quanto esso si aggiunga anche ai sussidi. Ma la parola chiave è “modestamente”.

Perché dunque i soliti noti sono così furibondi? In parte perché non riescono a capire niente di tutto questo. Oltre a ciò, c’è una vena di moralismo: sapete, le persone dovrebbero essere costrette a lavorare, per il loro bene (non ci sono gli ospizi per i poveri?). E, naturalmente, c’è la rabbia implicita secondo la quale una quota più che proporzionale di beneficiari (sebbene in nessun modo una quota preponderante) sarebbe composta da “Quella Gente [2]”.

Ma quando si toglie il paternalismo ed il pregiudizio dal quadro, quello che resta è un po’ di economia davvero modesta. Dovreste preoccuparvi di quanto lavorano gli altri? Un pochino – ma non così tanto da cambiare il punto di vista sulla riforma sanitaria.



[1] Non trovo una soluzione. Virginia è lo Stato, nel quale è accaduto qualcosa di significativo sotto questo profilo? E’ il nome di una commentatrice? E’ un modo di dire per riferirsi  ad un interlocutore con speciali attitudini o inattitudini? Neanche ho chiaro in che senso molti di coloro che ‘sussidiano’ ci avrebbero guadagnato. Sussidiare, in questo caso, dovrebbe significare essere tra quelli che pagano il costo sociale di un certa rinuncia a lavorare (per le minori entrate fiscali che ne derivano). A meno che non significhi che rischiavano di restare semplicemente non assicurati.

[2] “Quella Gente”, per i conservatori, significa i soliti assistiti, e più precisamente le persone di colore.

L’esclusione di tutto quello che non è sofisticato (per esperti) (blog di Krugman, 9 febbraio 2014)

febbraio 9, 2014

 

February 9, 2014, 7:57 pm

The Excluded Middlebrow (Wonkish)

Simon Wren-Lewis protests against the division some of us (me included) have suggested between New Keynesians, or maybe New New Keynesians trying to revise their models to keep up with the financial crisis, and New Old Keynesians who are skeptical about the microfoundations imperative. He insists that the important divide is between Keynesians and anti-Keynesians, who aren’t expressing so much a theory as an ideology.

I see his point, and agree that this is by far the most important division both within the profession and among policymakers. But I think there’s more to this.

First, there are a lot more anti-Keynesians than Wren-Lewis seems willing to acknowledge. Real business cycle types may seemingly share a common language with New Keynesians — but when push came to shove, just about all of them ended up arguing not just that fiscal stimulus was a bad idea but that it couldn’t work in principle. New Keynesians, it turned out, were deluding themselves into believing that they were part of a discussion, when in fact their efforts to win some respect from the new classicals and avoid their giggles and whispers had accomplished nothing.

Or to put it differently, using some of the same equations doesn’t mean that you share anything in terms of underlying economic philosophy, or that any actual communication is taking place.

Second, there is a real cost to the dominance of micro-founded models; I don’t think Wren-Lewis would disagree, but I probably think that it’s a bigger cost than he does. I’d put it this way: the effect of the insistence that everything involve intertemporal optimization has been to drive out middlebrow economic modeling.

It used to be that someone who wanted to make sense of real-world phenomena could sketch out a rough, ad hoc model derived from plausible behavioral assumptions, and use that model to shape the interpretation of empirical results. These days, however, you’re not allowed to publish stuff like that. You can publish the empirical work, maybe. But there are only two ways you’re allowed to interpret it: either you restrict yourself to a more or less vague verbal exposition, which avoids getting you in trouble, or you have to lay out the full intertemporal Monty, which often ends up detracting from the point.

A couple of examples: there’s quite strong empirical evidence that multipliers at the zero bound are more than one — and it’s possible to get that result in an NK model, but only at the cost of making it pretty unwieldy. Or think about secular stagnation: have there been any NK models of that idea yet? I think I see some ways to do it (hey, I’m pretty good at this when I need to be), but it will be a pain, and people will fixate on the implausible details. Meanwhile, the discussion so far is almost entirely in terms of informal exposition, because the IS-LM-ish middlebrow models that are natural in this context are no longer considered respectable.

So my argument would be that in important ways the New Keynesian style, with its insistence on (a particular form of) rigor has actually lowered the level of discourse, by making it non-respectable to use middlebrow models even in contexts where they are probably the best way to go.

That view, I think, defines what I mean by Neopaleo Keynesianism. I want my ad hockery back — not as an exclusive approach, but as a permissible one. And that’s not a small thing, given the almost total exclusion of middlebrow modeling from academic macro for the past three decades.

 

L’esclusione di tutto quello che non è sofisticato [1](per esperti)

 

 

Simon Wren-Lewis protesta contro la divisione che alcuni di noi (me compreso) hanno suggerito tra neo keynesiani, o forse neo-neo keynesiani che cercano di rivedere i loro modelli per tenersi al passo con la crisi finanziaria, e neo paleo keynesiani che sono scettici sull’imperativo dei fondamenti micro dell’economia. Egli ribadisce che la divisione importante è quella tra keynesiani ed anti-keynesiani, i quali ultimi non esprimono tanto una teoria quanto una ideologia.

Capisco il suo punto di vista, e concordo che quella sia di gran lunga la divisione più importante, sia all’interno della disciplina che tra gli operatori politici. Ma penso che ci sia più di questo.

In primo luogo, ci sono molti più antikeynesiani di quelli che Wren-Lewis sembra voler riconoscere. Gli individui della teoria del ciclo economico reale può sembrare che condividano con i neo keynesiani un linguaggio comune – ma quando si viene al punto, proprio quasi tutti loro finiscono col sostenere che non solo le misure di sostegno della spesa pubblica sono una cattiva idea, ma che non possono funzionare in via di principio. I neokeynesiani, si scopre, si erano illusi essi stessi nel credere di far parte della discussione, quando di fatto i loro sforzi per ottenere un qualche rispetto da parte dei neoclassici ed evitare i loro risolini e sussurri [2] non avevano portato a niente.

Oppure, per dirla diversamente, utilizzare un po’ delle stesse equazioni non significa avere qualcosa in comune in termini di filosofia economica ispiratrice, o che si sia determinata una qualche effettiva forma di comunicazione.

In secondo luogo, c’è un prezzo reale nel dominio dei modelli con fondamenti microeconomici: non penso che Wren-Lewis sarebbe in disaccordo, ma io probabilmente penso che quel prezzo sia maggiore di quanto non pensi lui. Direi così: l’effetto dell’insistenza per la quale ogni cosa comporta una ottimizzazione intertemporale è stato quello di scacciare tutte le forme di modellazione economica non troppo sofisticate.

Accadeva nel passato che qualcuno che voleva dare un senso ai fenomeni del mondo reale poteva abbozzare un sommario modello ad hoc derivato da assunti di comportamento plausibili, ed usare quel modello per dare una forma di interpretazione ai risultati empirici. Di questi tempi, tuttavia, non è consentito pubblicare roba di questo genere. Forse, potete pubblicare lavori empirici. Ma ci sono solo due modi nei quali vi è permesso di interpretarli: o vi limitate ad una esposizione verbale più o meno vaga, con il che evitate di finire nei guai, oppure dovete stendere in tutti i modi una modellazione intertemporale [3], che spesso finisce col distogliervi dal punto che vi interessava.

Un paio di esempi: c’è una prova empirica abbastanza forte che i moltiplicatori nella condizione dei tassi di interesse al limite dello zero valgono più di uno [4] – ed è possibile ottenere quel risultato in un modello neokeynesiano, ma solo al prezzo di renderlo abbastanza ingombrante. Oppure si pensi alla stagnazione secolare: c’è ancora stato alcun modello neokeynesiano corrispondente a quell’idea? Penso di potere individuare alcuni modi per farlo (ehi, quand’è necessario sono abbastanza bravo in queste cose), ma sarebbe una sofferenza, e la gente finirebbe per intestardirsi su dettagli poco rilevanti. Nel frattempo, la discussione sino a questo punto è quasi interamente nei termini di una esposizione informale, perché i modelli non sofisticati del genere di IS-LM, che sono naturali in questo contesto, non son più considerati rispettabili.

Dunque, il mio argomento sarebbe che, in modi importanti, lo stile neokeynesiano, con la sua insistenza su (una particolare forma di) rigore ha effettivamente abbassato il livello del confronto, rendendo non rispettabile l’utilizzo di modelli di media cultura anche in contesti nei quali essi erano probabilmente il modo migliore per procedere.

Quel punto di vista, penso, definisce quello che intendo con neo paleo keynesismo. Rivoglio le mie ricerche ad hoc – non come un approccio esclusivo, ma almeno ammissibile. E questa non è una cosa da poco, considerata la quasi totale esclusione dei modelli non sofisticati dalla macroeconomia accademica dei trent’anni passati.



[1] “Middlebrow” significa “di media cultura” o anche “conformista”; ma in questo caso si intende qualcosa che cerca di utilizzare metodologie semplici ma utili, non inutilmente sofisticate.

[2] L’espressione sui “risolini e bisbigli” risale a Robert Lucas, che aveva in passato decretato che quella era ormai la accoglienza che negli ambienti accademici veniva riservata alle teorie keynesiane.

[3] Credo che K. scriva “full Monty” con la “m” maiuscola, per un ironico riferimento al famoso film di Uberto Pasolini del 1997, che in italiano venne tradotto con “Squattrinati organizzati” (ma per fortuna venne anche lasciata l’espressione inglese originaria). Il termine ha origini controverse, ed il significato che ha assunto lo potremmo tradurre con “Tutto quello che ci vuole”. Il film utilizzava quella espressione per rappresentare la storia di due proletari britannici che si risolvono a fare gli spogliarellisti per rimediare al loro collasso economico, peraltro con notevole successo. Probabilmente, in questo caso K. utilizza la maiuscola in riferimento a quel film, ed alla necessità – nel paragone con gli economisti ‘empirici’ di cui sta parlando – di fare proprio di tutto per essere accolti dalla cultura accademica.

xxxx 40

 

[4] Il tema del valore del moltiplicatore nella situazione di crisi in corso, ha nel recente passato assunto un significato anche politico di prima grandezza, quando il FMI ha riconosciuto che misurare gli effetti dell’austerità utilizzando una stima del moltiplicatore inferiore alla unità poteva aver indotto a notevoli abbagli nella previsione degli effetti negativi della diminuzione della spesa pubblica sulle economie. Questo, ad esempio, fu il caso delle previsioni sull’andamento dell’economia greca, dove si sottovalutarono fortemente tali effetti, che pure erano stati posti alla base dei ‘diktat’ della cosiddetta Troika.

La storia del Nord Carolina (7 febbraio 2014)

febbraio 7, 2014

 

Feb 7, 10:15 am

The North Carolina Story

I’ve just praised Dave Weigel for his take on CBOghazi, the media debacle over health reform and employment. Let me now give an example of how even someone as good and skeptical as Weigel can be (slightly) taken in by right-wing spin. In another fine piece on the health-employment link, Weigel mentions states with falling unemployment, including North Carolina — and appropriately is skeptical about claims for NC’s success. But not skeptical enough! In his footnote he writes:

The unemployment insurance disaster in that state is a related story—part of the rise in employment numbers is due to people accepting lower-paying jobs than they otherwise would have, because state-feds disagreement has throttled UI.

Not quite — because employment in North Carolina hasn’t actually shown any upward bump. Here’s employment in NC and the nation as a whole:

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Nothing distinctive here. What is distinctive is what has happened to the NC labor force:

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There has been a sharp drop in the NC labor force, probably in large part because workers who could no longer get unemployment benefits — which require that you search actively for work — gave up on what they knew was a hopeless quest.

The point is that to the extent that there has been a distinctive drop in North Carolina’s measured unemployment rate, it has to do with reduced job search rather than increased employment.

 

La storia del Nord Carolina

 

Ho appena elogiato David Weigel per la sua posizione sulla ‘Bengasi del CBO’ [1], la debacle dei media sulla riforma sanitaria e l’occupazione. Lasciatemi ora fornire un esempio di come anche uno così bravo e non semplicistico come Weigel possa essere (leggermente) preso dalla manipolazione della destra. In un altro bell’articolo collegato con il tema della sanità e dell’occupazione, Weigel cita gli Stati nei quali la disoccupazione sta scendendo, includendo il Nord Carolina – ed egli è appropriatamente scettico sulle pretese di successo di quello Stato. Ma non è scettico abbastanza! In una nota a fondo di pagina, scrive:

“Il disastro della assicurazione di disoccupazione in quello Stato è una storia connessa – parte della crescita dei dati sull’occupazione è dovuta alle persone che accettano posti di lavoro con paghe più basse di quelle che potrebbero avere, perché i mancati accordi tra lo Stato e il governo federale hanno ristretto l’indennità di disoccupazione.”

Non proprio – perché l’occupazione nel Nord Carolina non ha per la verità mostrato alcuno strappo verso l’alto. Ecco il dato sull’occupazione nel Nord Carolina e nella nazione nel suo complesso:

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Non appare alcuna particolare differenza. L’aspetto distintivo è quello che è successo alla forza lavoro del Nord Carolina:

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C’è stata una brusca caduta [2] nella forza lavoro del Nord Carolina, probabilmente in gran parte a causa del fatto che i lavoratori che non potevano più ottenere i sussidi di disoccupazione – la qualcosa richiede che si vada attivamente in cerca di lavoro – hanno rinunciato a quella che sapevano essere una ricerca senza speranza.

Il punto è che nella misura in cui c’è stata una caduta rilevante nel tasso di disoccupazione accertato nel Nord Carolina, essa è dipesa di una ridotta ricerca di lavoro piuttosto che da una occupazione accresciuta.



[1] Vedi nota 1 sul penultimo post.

[2] Il dato del Nord Carolina è quello blu, mentre il rosso è il dato complessivo nazionale.

Situazioni vischiose (7 febbraio 2014)

febbraio 7, 2014

 

Feb 7, 9:54 am

Sticky Situations

David Glasner has a thoughtful post about wage stickiness, a favorite topic of mine. And he is partially right in suggesting that there has been a bit of a role reversal regarding the role of sticky wages in recessions: Keynes asserted that wage flexibility would not help, but Keynes’s self-proclaimed heirs ended up putting downward nominal wage rigidity at the core of their analysis. By the way, this didn’t start with the New Keynesians; way back in the 1940s Franco Modigliani had already taught us to think that everything depended on M/w, the ratio of the money supply to the wage rate.

That said, wage stickiness plays a bigger role in The General Theory — and in modern discussions that are consistent with what Keynes said — than Glasner indicates.

For one thing, even Keynes said that there were circumstances in which monetary policy could do the job of stabilizing the economy, and that the reason this could work was the stickiness of wages:

During the nineteenth century, the growth of population and of invention, the opening-up of new lands, the state of confidence and the frequency of war over the average of (say) each decade seem to have been sufficient, taken in conjunction with the propensity to consume, to establish a schedule of the marginal efficiency of capital which allowed a reasonably satisfactory average level of employment to be compatible with a rate of interest high enough to be psychologically acceptable to wealth-owners. There is evidence that for a period of almost one hundred and fifty years the long-run typical rate of interest in the leading financial centres was about 5 per cent, and the gilt-edged rate between 3 and 3½ per cent; and that these rates of interest were modest enough to encourage a rate of investment consistent with an average of employment which was not intolerably low. Sometimes the wage-unit, but more often the monetary standard or the monetary system (in particular through the development of bank-money), would be adjusted so as to ensure that the quantity of money in terms of wage-units was sufficient to satisfy normal liquidity-preference at rates of interest which were seldom much below the standard rates indicated above.

That’s not the clearest passage in the world, but Keynes was clearly saying that in the past money mattered because of sticky w. He believed that by his own era the world had entered secular stagnation and a persistent liquidity trap, but that’s a different matter.

But there’s another point: even if you don’t think wage flexibility would help in our current situation (and like Keynes, I think it wouldn’t), Keynesians still need a sticky-wage story to make the facts consistent with involuntary unemployment. For if wages were flexible, an excess supply of labor should be reflected in ever-falling wages. If you want to say that we have lots of willing workers unable to find jobs — as opposed to moochers not really seeking work because they’re cradled in Paul Ryan’s hammock — you have to have a story about why wages aren’t falling.

So sticky wages are an important part of both old and new Keynesian analysis, not because wage cuts would help us, but simply to make sense of what we see.

 

Situazioni vischiose

 

David Glasner pubblica un post riflettuto sulla vischiosità dei salari, uno dei miei temi favoriti. Ed ha in parte ragione nel dire che c’è stato un po’ un rovesciamento di ruolo a proposito della funzione dei salari rigidi nelle recessioni: Keynes pensava che la flessibilità dei salari non avrebbe aiutato, ma i sedicenti eredi di Keynes hanno finito col collocare la rigidità dei salari nominali verso il basso al centro della loro analisi. Per inciso, questo non è cominciato con i neo keynesiani; nei passati anni ’40 Franco Modigliani ci aveva già insegnato a pensare che ogni cosa dipendeva da M/w, il rapporto dell’offerta di moneta con il saggio salariale.

Ciò detto, la vischiosità gioca un ruolo più grande nella Teoria Generale – e nei dibattiti contemporanei che sono coerenti con quello che Keynes disse – rispetto a quello che Glasner indica.

Per un aspetto, persino Keynes sostenne che c’erano circostanze nelle quali la politica monetaria poteva svolgere la funzione di stabilizzare l’economia, e che la ragione per la quale questo poteva funzionare era la rigidità dei salari:

“Durante il diciannovesimo secolo, la crescita della popolazione e delle scoperte, l’aprirsi di nuovi territori, la condizione della fiducia e la frequenza delle guerre, nella media si può dire di ogni decennio, sembra siano state sufficienti, considerate assieme alla propensione al consumo, a stabilire un modello di efficienza marginale del capitale che ha permesso ad un livello medio ragionevolmente soddisfacente di occupazione di essere compatibile con un tasso di interesse sufficiente per essere accettato dai possessori di ricchezza. C’è la prova che per quasi un periodo di centocinquanta anni il tipico tasso di interesse a lungo termine nei centri finanziari di riferimento sia stato attorno al 5 per cento, ed il tasso dei tagli aurei [1]tra il 3 ed il 3,5 per cento; e che questi tassi di interesse siano stati abbastanza modesti da incoraggiare un tasso di investimento coerente con una occupazione media che non è stata intollerabilmente bassa. Talvolta l’unità di salario, ma più spesso lo standard monetario o il sistema monetario (in particolare attraverso lo sviluppo della moneta bancaria), sarebbero state adeguate in modo da assicurare che la quantità di denaro in termini di unità salariali fosse sufficiente a soddisfare la normale preferenza per la liquidità a tassi di interesse che raramente finivano al di sotto dei tassi standard indicati sopra.”

Non sono espressioni tra le più chiare, ma Keynes stava chiaramente dicendo che nel passato la moneta era importante a causa di salari vischiosi. Egli credeva che nell’epoca sua il mondo era entrato in una stagnazione secolare e in una persistente trappola di liquidità, ma questa è una faccenda diversa.

Ma c’è un altro punto: se anche non pensate che la flessibilità dei salari nella attuale situazione sarebbe di aiuto (e come Keynes, io penso che non lo sarebbe), i keynesiani hanno ancora bisogno di una spiegazione del genere di quella della vischiosità dei salari per fare in modo che i fatti siano coerenti con la disoccupazione involontaria. Perché se i salari fossero flessibili , una offerta in eccesso di lavoro dovrebbe riflettersi in salari in continua caduta. Se volete sostenere che abbiamo una quantità di lavoratori che hanno la volontà ma  non riescono a trovare lavoro – all’opposto dei parassiti che realmente non cercano lavoro perché si cullano sull’amaca di Paul Ryan [2] – dovete avere una spiegazione della ragione per la quale i salari non stanno scendendo.

Dunque, i salari vischiosi sono una parte importante sia della vecchia che della nuova analisi keynesiana, non perché i tagli salariali ci sarebbero utili, ma semplicemente per restituire significato a quello che constatiamo.



[1] Si indicano con questa espressione alcuni bond delle nazioni di lingua inglese (Regno Unito ed ex Commonwealth, come India e Sudafrica), e il termine deriva dalla denominazione  di “gilt” a particolari titoli su debito britannici, caratterizzati dal loro grado elevato di sicurezza, di minor rischio, e dunque anche di minore rendimento.

[2] Il riferimento è ad una famigerata espressione del repubblicano Ryan, secondo la quale la disoccupazione sarebbe sostanzialmente volontaria, perché il sistema assistenziale funzionerebbe come una “amaca” che ‘culla’ i lavoratori nello stato assistenziale.

In sintesi, dunque, il pensiero è questo: i keynesiani hanno bisogno di una spiegazione che risalga alla rigidità/vischiosità dei salari, perché altrimenti la loro tesi – di una disoccupazione involontaria – non spiegherebbe perché a fronte di una disoccupazione realmente non evitabile, i salari non scendano.  E’ chiaro che per ‘salari vischiosi’ si intende salari che tendono a non scendere, a restare ai loro livelli nominali, anche se la situazione di depressione dell’economia suggerirebbe il contrario. E, appunto, questa tendenza alla rigidità dei salari nominali fu uno dei motivi della riflessione keynesiana, sin dalle prime pagine della Teoria Generale. Quella rigidità mostrava che la ripresa non poteva facilmente avvenire attraverso la stimolazione di salari più bassi, semplicemente perché rinunciare a quote di salario nominale non era affatto una prassi per i lavoratori o per i sindacati, e in fondo non era e non è neanche una prassi così semplice per i datori di lavoro.

Giornalismo di second’ordine (7 febbraio 2014)

febbraio 7, 2014

 

Feb 7, 9:25 am

Second-Order Journalism

Dave Weigel looks at the disastrous initial media handling of the CBO report — CBOghazi, hah! — and addresses one of my pet peeves: reporting that skips right past the actual policy issues to speculation about how they will play politically. I think of this as “second-order” reporting, and it’s almost always a bad thing.

I wrote about this during the 2004 campaign, when I actually did some painful research, wading through two months of TV news transcripts. What I found:

Mr. Kerry proposes spending $650 billion extending health insurance to lower- and middle-income families. Whether you approve or not, you can’t say he hasn’t addressed the issue. Why hasn’t this voter heard about it?

Well, I’ve been reading 60 days’ worth of transcripts from the places four out of five Americans cite as where they usually get their news: the major cable and broadcast TV networks. Never mind the details – I couldn’t even find a clear statement that Mr. Kerry wants to roll back recent high-income tax cuts and use the money to cover most of the uninsured. When reports mentioned the Kerry plan at all, it was usually horse race analysis – how it’s playing, not what’s in it.

Now, it pains me to admit it, but by and large reporting on policy issues actually has gotten better since then. But you still see the old, lazy style pop up now and then. In this case, I suspect that one main reason reporters slid back was to cover their own embarrassment at initially getting the substance wrong. But it’s still worth saying that this is the wrong way to go.

Weigel actually makes a point beyond the one I made back in 2004. Not only does second-order reporting deny readers/viewers the information they should be getting; the truth is that nobody knows how any particular news item will play politically.What the political scientists tell us, in fact, is that most of what gets reported on in political journalism matters not at all: elections are primarily determined by economic developments and occasionally war, not by gaffes and all that. So reporting on the journalist’s view of how the perceptions of a budget document will affect the next election is a purely destructive action: not only does it divert scarce time and resources from reporting on the actual policy issue, it has zero value even in its ostensible goal of predicting future political developments.

I’m not against all political reporting: it has to be done, and colorful anecdotes are part of what motivates people to read newspapers. But substance should always come first. And if reporters don’t understand the substance well enough — if they don’t know enough about the economics of health reform to tell the difference between job loss and reduced labor supply — they should defer to or consult with someone who does before writing.

 

Giornalismo di second’ordine

 

Dave Weigel osserva la disastrosa gestione iniziale da parte dei media del rapporto del CBO – proprio una specie di Bengasi del CBO! [1]  – e si rivolge ad uno dei miei argomenti favoriti: un giornalismo che salta proprio a piè pari i temi di sostanza della politica, per speculare su come essi giocheranno  nella partita politicista [2]. Penso che si tratti di un giornalismo di second’ordine, ed è quasi sempre una cosa negativa.

Scrissi su questo durante la campagna presidenziale del 2004, quando feci effettivamente una faticosa ricerca, passando in mezzo a due mesi di trascrizioni di notiziari televisivi. Ecco cosa trovai:

“Il signor Kerry propone di spendere 650 miliardi di dollari per estendere l’assicurazione sanitaria alle famiglie con i redditi medi e più bassi. Che siate o meno d’accordo, non potete dire che non abbia affrontato le questione. Perché questo elettore non ne aveva sentito parlare?

Ebbene, mi sono letto l’equivalente di trascrizioni da quattro emittenti su cinque che gli americani citano come le trasmissioni dalle quali normalmente ricevono le loro notizie; le reti importanti delle televisioni via cavo e via etere. I dettagli non sono importanti – non ho potuto trovare nemmeno una chiara dichiarazione secondo la quale Kerry vuole ridurre i recenti sgravi fiscali sui redditi alti ed usare quel denaro per dare copertura a gran parte dei non assicurati. Quando i resoconti menzionavano in qualche modo il programma di Kerry, si trattava normalmente di una analisi come alle corse di cavalli – che effetto stanno facendo, non cosa sono in se stessi.”

Ora, mi addolora ammetterlo, ma i resoconti sui temi politici sono in verità diventati migliori da allora. Ma si può ancora constatare il vecchio, pigro stile saltar fuori qua e là. Suppongo che la principale ragione per la quale i giornalisti sono scivolati indietro sia stata per coprire il loro imbarazzo nell’avere inizialmente inteso la sostanza in modo sbagliato. Eppure è il caso di dire che non è questo il modo di procedere.

Effettivamente, Weigel pone una questione che va oltre quello che io scrissi nel 2004. Non solo un giornalismo di second’ordine in sostanza nega ai lettori/osservatori l’informazione che dovrebbero ottenere; la verità è che nessuno sa come un qualsiasi articolo di notizie giocherà sul piano politico. Quello che gli scienziati della politica ci dicono, è che gran parte delle cose di ciò che viene riportato dal giornalismo politico non ha alcuna importanza: le elezioni sono principalmente determinate dagli sviluppi economici e in certi casi dalle guerre, non dalle gaffe o da cose del genere. Dunque un resoconto sulla base del punto di vista del giornalista su come le percezioni di un documento di bilancio influenzeranno le prossime elezioni è una iniziativa puramente distruttiva: non solo essa distrae tempo e risorse limitate dall’informare sui temi politici effettivi, ha anche un valore nullo nel suo apparente obbiettivo di prevedere sviluppi politici futuri.

Io non sono contrario a tutti i servizi giornalistici sulla politica; ci devono essere, e aneddoti coloriti sono in parte quello che motiva la gente a leggere i giornali. Ma la sostanza dovrebbe sempre venire per prima. E se i cronisti non afferrano la sostanza in modo adeguato – se non conoscono abbastanza l’economia della riforma sanitaria per raccontare la differenza tra il perdere posti di lavoro e ridurre l’offerta di lavoro – dovrebbero differire o consultare qualcuno che conosce le cose prima di scrivere.



[1] Espressione che K. di recente declina in vari modi e che prende spunto dalla polemica repubblicana dopo i fatti di Bengasi e l’assalto alla sede diplomatica americana. Ovvero, una vicenda che si è giocata sulla iniziale convinzione che il rapporto del CBO fosse il ‘de profundis’ della riforma di Obama; salvo che quella convinzione sta un po’ alla volta scemando. Tutti gli argomenti che sembrano alla destra formidabili e poi si sfarinano sono casi di “bengasizzazione”.

[2] “Policy” è soprattutto la politica dei programmi, delle linee politiche e delle scelte sostanziali; ‘politics’ è soprattutto la politica della relazioni, dei rapporti tra i partiti e le persone. Nel primo caso lo stesso sostantivo ‘policy’ si usa in forma aggettivale (“policy maker”); nel secondo caso l’aggettivo è “political” e l’avverbio “politically”. Noi tendiamo ad usare il termine ‘politica’ per entrambe le sottolineature; se proprio ci siamo costretti parliamo nel secondo caso di ‘politicismo’.

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