Blog di Krugman

Memorie dell’austerità (6 febbraio 2014)

 

Feb 6, 9:40 am

Austerity Memories

Ryan Cooper writes about possibilities for a deal that actually does something to boost the economy. He suggests that with the deficit obsession fading, Democrats can go back to the old formula of spending increases in return for tax cuts — the formula that gave us, for example, the Children’s Health Insurance Program in the late 1990s.

 

I don’t buy it, basically because I believe you need to play the political economy long game. Starve the beast is still out there as a strategy; conservatives still push tax cuts in part because they expect, probably rightly, that this will tilt the balance toward cuts in the safety net the next time the deficit becomes a big issue. Don’t you think federal spending would be significantly higher now if the Bush tax cuts had never been passed?

 

But Cooper in passing reminds me of something I wrote during the depths of oh-my-God-90-percent-debt enthusiasm. As Cooper suggests, way back then I made all the key anti-debt-panic arguments that would be vindicated in 2013 — which is not so much a comment on my own perspicacity as it is a comment on how easy it was to see the flaws in the debt-panic argument right from the beginning, never mind the spreadsheet.

 

And following the link from my post to the article that inspired it, I see a reminder of what was really going on before the debt scolds tried to rewrite history. These days, they always insist that they weren’t arguing for short-run fiscal austerity. Oh yes they were: in the linked article, Ken Rogoff explicitly attacks those who wanted to maintain fiscal stimulus, and ridicules those suggesting that pursuing fiscal consolidation “risks throwing already weak economies into double-dip recessions, or even a sustained depression.”

Um, Europe?

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The point is that it was or should have been obvious way back in 2010 both that debt panic was unjustified and that it was helping to rationalize policies that would be very destructive.

 

Memorie dell’austerità

 

Ryan Cooper scrive sulle possibilità di una intesa che effettivamente faccia qualcosa per incoraggiare l’economia. Suggerisce che con lo svanire della ossessione sul deficit, i Democratici possano tornare alla vecchia formula degli incrementi di spesa pubblica in cambio di sgravi fiscali – la formula che ci diede, ad esempio, il Programma per la Assicurazione Sanitaria dei Bambini negli ultimi anno ’90.

Siccome fondamentalmente credo che si debba giocare la lunga partita della linea di politica economica, non mi convince. ‘Affamare la bestia’ [1] , fuori di qua, è ancora una strategia; i conservatori premono ancora per tagli alle tasse perché si aspettano, probabilmente a ragione, che questo farà pendere l’equilibrio verso tagli alle reti della sicurezza sociale, la prossima volta che i deficit diventeranno un tema fondamentale. Non pensate che la spesa pubblica federale sarebbe più alta oggi, se gli sgravi fiscali di Bush non fossero mai stati approvati?

Ma Cooper di passaggio mi ricorda che io scrissi qualcosa nei momenti peggiori dell’entusiasmo per le teorie sulla “terribile soglia del 90 per cento del debito” [2]. Come Cooper indica, molto tempo fa io avanzai tutti i fondamentali argomenti contro il panico da debito che sarebbero stati confermati nel 2013 – il che non è tanto un commento sulla perspicacia del sottoscritto, quanto un commento su quanto fosse facile vedere sin dagli inizi i difetti nella argomentazione del panico da debito, a prescindere dagli errori sui fogli elettronici [3].

E seguendo la connessione dal mio post con l’articolo che lo ispirava, ho visto un ricordo di quanto stava realmente accadendo prima che le Cassandre del debito cercassero di riscrivere la storia. In questi giorni, costoro ribadiscono di continuo che non si stavano esprimendo per una austerità della finanza pubblica a breve termine. Eccome se lo facevano: nell’articolo collegato, Ken Rogoff esplicitamente attaccava coloro che volevano mantenere lo stimolo della spesa pubblica, e metteva in ridicolo coloro che suggerivano che perseguire il consolidamento delle finanze pubbliche “(rischiava) di gettare economie già deboli in un recessione ripetuta, o persino in una prolungata depressione.”

Si intendeva qualcosa come l’Europa [4]?

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Il punto è che era o dovrebbe essere stato evidente sin dal 2010 sia che il panico del debito era ingiustificato, sia che esso stava aiutando  a razionalizzare politiche che sarebbero state distruttive.



[1] “Affamare la bestia” è la definizione cruda che è stata data della strategia di riduzione delle tasse dei conservatori. Ridurre le tasse e le entrate sarebbe la strada per mettere in crisi lo Stato sociale e costringere ad una soppressione o revisione sostanziale dei suoi programmi. La “bestia”, dunque, sarebbe lo stato assistenziale.

[2] Il riferimento è ad un post su questo blog del 21 luglio 2010 (“Note su Rogoff”), con il quale Krugman avviava la sua polemica contro la nota tesi di Reinhart-Rogoff sulla soglia ‘fatale’ del debito al 90 per cento del PIL. Rileggere quel post è interessante, perché in sostanza esso prendeva le mosse da un forte apprezzamento per alcuni lavori fondamentali di Rogoff, mentre criticava nettamente l’adesione più recente di quell’economista alle ossessioni per il debito troppo elevato; peraltro fissato ad un livello – il 90% – che era stato abbastanza frequente nella storia ed era significativamente vicino alla prestazione statunitense (cosicché, in pratica, se quella soglia era terribile, una politica in qualche modo di austerità era a quel punto l’unica possibile). Quando poi scoppiò la vicenda degli “errori” commessi da Reinhart e Rogoff nel saggio nel quale si esplicitavano queste posizioni, la polemica divenne anche più aspra.

Scorrendo gli archivi di “Fataturchina” si ritrovano tutti quegli interventi successivi, sul blog e sul New York Times.

[3] Ovvero, a prescindere dalla vicenda degli errori materiali e logici che vennero successivamente accertati sullo studio di Rogoff.

[4] La tabella è relativa all’andamento della disoccupazione. Dunque, in  questo caso le “due punte” della recessione (“double dip recession”) si leggono nei due picchi verso l’alto, del 2008-2009 e del 2011 e seguenti.

Offerta di lavoro e il significato della vita (6 febbraio 2014)

febbraio 6, 2014

 

Feb 6, 9:19 am

Labor Supply and the Meaning of Life

I had some fun (for weird econonerd values of “fun”) yesterday thinking through the interesting possibility that our pre-Obamacare health system created a “reverse notch” that induced some people to work too much. But I think I should step back and talk about the broader issue here.

So the CBO estimates that the incentive effects of the ACA will lead to a voluntary reduction in labor supply of around 1 1/2 percent, the equivalent of 2 million full-time jobs. Labor compensation would fall less, around 1 percent, because the reduction in hours would be skewed toward the less well paid. Although they don’t say this, we would expect potential GDP to fall by roughly the same amount (assuming wages more or less reflect marginal productivity); since compensation is about 55 percent of GDP, this would mean reducing potential GDP by a bit over 0.5 percent.

That’s not a very big number — nothing like the claims you hear on the right that Obamacare is bringing economic doom. Even so, however, it’s a clear overstatement of the true economic costs of the program.

Why? Because when workers voluntarily withdraw 1 percent of their hours, it’s very different from what happens when 1 percent of workers lose their jobs and become involuntarily unemployed.

When workers lose their jobs, it’s almost always a terrible experience: not only does it cause financial hardship, it eats away at the soul. Every study I’ve seen says that the effects of unemployment on perceived welfare are vastly greater than you can explain simply as a result of the loss of income. So the true cost of 2 million workers laid off is huge, much more than the GDP loss.

When workers choose to work less, by contrast, they presumably do so because they gain something that is, to them, worth more than the foregone income: more time with their children, an earlier retirement, etc.. Now, in making these choices they won’t take into account the spillovers to the rest of society that come from their paying less in taxes or receiving more in benefits; so you probably don’t want to think of the reduction in labor supply as a net economic good. But it’s surely a smaller cost than the headline effect on GDP.

A somewhat educated guess (I’m thinking of the de facto marginal tax rate on lower-income workers, which for the wonks out there is the only source of first-order welfare effects from a small change in labor supply) is that the net economic losses from the kind of labor supply effect CBO analyzes are on the order of 0.3 percent of GDP.

Oh, and that’s in the long run. In the next few years, with the economy still depressed, it’s all positive: reduced work by some will open up job opportunities for others, and higher incomes for beneficiaries will mean higher overall employment.

But back to the long run: Even if CBO is completely right about labor supply, we’re really talking about a very small economic cost here for a huge social benefit — giving Americans the assurance that they’ll be able to afford essential health care.

 

Offerta di lavoro e il significato della vita

 

Ieri mi sono un po’ divertito (nel bizzarro significato che i fanatici dell’economia danno al termine “divertimento”) a ragionare sulla interessante possibilità che il sistema sanitario precedente alla riforma della assistenza di Obama avesse creato una “soglia inversa”, che induceva alcune persone a lavorare troppo. Ma penso che in questo caso dovrei fare un passo indietro e parlare della questione più in generale.

Dunque, il CBO stima che gli effetti di incentivazione della legge di riforma porteranno ad una volontaria riduzione nell’offerta di lavoro di circa l’1,5 per cento, equivalente a due milioni di posti di lavoro a tempo pieno. I compensi al lavoro scenderebbero di meno, di circa l’1 per cento, perché la riduzione in ore verrà indirizzata verso coloro che sono pagati peggio. Sebbene essi non lo dicano, si aspettano che il PIL potenziale cada di circa la stessa entità (assumendo che i salari riflettano più o meno la produttività marginale); dal momento che i compensi sono circa il 55 per cento del PIL, questo significherebbe una riduzione del PIL potenziale di un po’ più dello 0,5 per cento.

Non è davvero una cifra rilevante – niente a che fare con le affermazioni che si sono sentite a destra secondo le quali la riforma di Obama sta comportando una rovina economica. Anche così, tuttavia, si tratta di una chiara sopravvalutazione degli effettivi costi economici del programma.

Perché? Perché quando i lavoratori riducono l’1 per cento delle loro ore di lavoro, è molto diverso da quello che accade quando l’1 per cento dei lavoratori perde i propri posti di lavoro e diventa involontariamente disoccupato.

Quando i lavoratori perdono il loro posto, è quasi sempre una esperienza terribile: non solo essa provoca difficoltà economiche, incide sull’animo delle persone. Ogni studio che ho visto dice che gli effetti della disoccupazione sul benessere percepito sono assai più grandi di quello che si può spiegare semplicemente come perdita di reddito. Dunque il costo effettivo di due milioni di licenziati è vasto, molto più vasto della perdita in termini di PIL.

Quando i lavoratori scelgono di lavorare di meno, all’opposto, presumibilmente lo fanno perché guadagnano qualcosa che, secondo loro, vale di più del reddito sacrificato: più tempo con i loro figli, un pensionamento anticipato, etc. Ora, nel fare queste scelte essi non metteranno nel conto le ricadute sul resto della società in tasse o nel ricevere maggiori sussidi che deriveranno dall’essere pagati di meno; cosicché è probabile che non si debba pensare che la riduzione nell’offerta di lavoro sia un bene, in termini economici netti. Ma è sicuramente un costo più piccolo dell’effetto di intestazione sul PIL [1].

Una stima in qualche modo ragionata (sto pensando alla aliquota marginale di fatto sui lavoratori con redditi più bassi, che per gli esperti in circolazione è l’unica fonte degli effetti principali sul welfare di un piccolo cambiamento dell’offerta di lavoro) è che le perdite economiche nette del genere dell’effetto sull’offerta di lavoro che il CBO analizza siano nell’ordine dello 0,3 per cento del PIL.

Inoltre, questo riguarda il lungo periodo. Nei prossimi anni, con un’economia ancora depressa, gli effetti saranno del tutto positivi: una riduzione del lavoro da parte di alcuni aprirà occasioni di lavoro per altri, ed i redditi superiori dei beneficiari comporteranno una occupazione complessiva più elevata.

Ma torniamo al lungo periodo: anche se il CBO avesse completamente ragione sull’offerta di lavoro, in questo caso stiamo parlando realmente di un costo economico molto piccolo in cambio di un beneficio sociale ampio – dare agli americani la sicurezza di essere nelle condizioni di sostenere l’assistenza sanitaria di base.



[1] Non saprei se in questo caso “headline” debba essere inteso nel significato più usuale (“titolo, intestazione”), o nel suo significato più implicito, che in fondo allude ad un operazione di sintesi, ad un sommario. Ma in fondo il significato sarebbe lo stesso.

Per il CBO la riforma sanitaria è OK (5 febbraio 2014)

febbraio 5, 2014

 

Feb 5, 3:31 pm

CBO: ACA OK

What with the fuss over the CBO estimates of employment effects of health reform — Appendix C — everyone seems to have overlooked Appendix B, on the reform’s effects in doing what it was supposed to do: cover the uninsured. How has the disastrous initial rollout affected CBO’s projections about reform’s near future?

Here’s the answer:

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Oh noes! The exchanges will cover 6 million people, not the 7 million we expected! The number of uninsured will fall 13 million, not 14 million!

In short, CBO thinks that reform has been only mildly set back by the healthcare.gov mess, that at this point it’s going pretty well. And by the way, these are predictions we’ll be able to test in real time, unlike the labor force estimates, which will get lost in statistical noise.

 

Per il CBO la riforma sanitaria è OK

 

Quello che sembra sfuggito a tutti, con l’agitazione sulle stime del CBO [1] sugli effetti sull’occupazione delle riforma sanitaria (Appendice C),  è l’Appendice B, sugli effetti della riforma nel fare quello che si suppone faccia: dare una copertura ai non assicurati. Come l’avvio disastroso ha influenzato le previsioni del CBO sul futuro prossimo della riforma?

Ecco la risposta:

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Che disastro! [2] Le ‘borse’ daranno copertura a sei milioni di persone, non ai sette che ci si aspettava! Il numero dei non assicurati cadrà di 13 milioni, non di 14!

In poche parole, il CBO pensa che la riforma sia stata ostacolata solo leggermente dal disastro del sistema informatico governativo, che a questo punto sta andando abbastanza bene. E, per inciso queste sono previsioni che potremo accertare in tempo reale, diversamente dalle stime sulla forza lavoro, che si perderanno nel frastuono statistico.



[1] Congressional Budget Office. Vedi anche le note sulla Traduzione.

[2] “Oh noes” è la massima espressione di sconcerto,  e ‘noes’ e il plurale di ‘no’.

Scrivere sul blog sulla ‘soglia’ inversa (estremamente per esperti) (5 febbraio 2014)

febbraio 5, 2014

 

February 5, 2014, 10:55 am

Reverse Notch Blogging (Extremely Wonkish)

OK, this discussion of the CBO report on labor supply effects of health reform has given me a professional itch I need to scratch — I won’t rest easy until I’ve done some funny diagrams showing how pre-reform work hours could have been too high, so that a reduction of labor supply is actually a move in the right direction.

Also, it’s fun to do this kind of thing once in a while. And I suspect that my background in old-fashioned trade theory — the analysis here has a lot in common with general-equilibrium analysis of tariffs — gives me a, well, comparative advantage here.

So, assume we have an economy in which labor is the only input, and all workers are identical. (I know, why would you have a welfare state? But bear with me.) In that case competitive equilibrium will look like this:

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Competitive equilibrium.

Here TT is the tradeoff between consumption and leisure for a representative worker, reflecting productivity, and the blue arc is an indifference curve representing tastes. In equilibrium everything is efficient; the worker is on the highest feasible indifference curve. (Again, not realistic, but just a baseline.)

The traditional view of tax-and-transfer programs is that they provide a benefit while reducing the after-tax real wage. So individual workers see themselves as facing budget lines that are steeper than the true economic tradeoff between consumption and leisure — they see less payoff to an additional hour of work than the true payoff to the economy as a whole. This distorts their choices; in equilibrium, however, the economy still ends up on TT. So it looks like this:

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Tax-and-transfer: the traditional view.

 

The tax and transfer program leads to lower work effort, and in this simplified world where everyone is the same, reduces welfare.

But health reform isn’t stepping into a world that had no government intervention; even on health care, we had a large subsidy via the tax code for employment-based insurance. This subsidy was, however, in general only available to full-time workers — that is, workers putting in a certain minimum number of hours. What would a system like that look like? Like this:

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Subsidies for full-time employees only.

Here FT is the full-time employment level of work effort; workers get a tax-free lump of health insurance if and only if they work at least that many hours. This puts a notch in their budget line right at FT, with a discrete shift to the right as soon as leisure falls to that point. And this in turn could lead to the result shown, an equilibrium in which everyone works MORE than in the efficient equilibrium in order to get that tax break.

 

In this situation, policy changes that subsidize insurance for those not getting it through their employers could lead to lower work hours, not by introducing distortions of incentives, but by reducing the distortion created by the notch; the result could be an economy with less labor input, lower GDP, and higher welfare.

How plausible is this? I do know a fair number of people who feel compelled to hold down full-time jobs, not for the pay, but for the insurance. There’s also the related issue of job lock. On the other hand, we have to bear in mind that we have taxes for lots of things, not just health subsidies, and that reducing work effort reduces revenue, creating another distortion.

And then, of course, there’s the point that people aren’t identical; and there’s also the point that giving people insurance isn’t the same as giving them cash, because you’re also correcting the market failures of unsubsidized and unregulated private insurance.

 

So it’s complicated. But the argument that work effort actually should fall, for some people, isn’t crazy, and offers the occasion for a nifty (I think) little modeling exercise.

 

Scrivere sul blog sulla ‘soglia’ inversa (estremamente per esperti)

 

 

E’ così, questa discussione del rapporto del CBO sugli effetti della riforma sanitaria sulla offerta di lavoro’ mi ha provocato un prurito professionale che ho bisogno di grattare – non sarò a posto finché non avrò prodotto qualche simpatico diagramma che mostri come le ore di lavoro di prima della riforma potevano essere troppo alte, cosicché una riduzione delle ore di lavoro è in verità uno spostamento nella giusta direzione.

Tra l’altro, una volta ogni tanto è divertente fare cose di questo genere. Ed ho il sospetto che i miei trascorsi nella teoria una volta di moda del commercio – in questo caso l’analisi ha molto in comune con l’analisi dell’equilibrio generale delle tariffe – mi dia in questo caso, diciamo così, una sorta di vantaggio comparativo.

Supponiamo dunque di avere un’economia nella quale il lavoro sia l’unico input, ed i lavoratori siano tutti identici (lo so, perché allora avremmo uno stato del benessere? Ma abbiate pazienza assieme a me). In questo caso un equilibrio competitivo apparirà in questo modo:

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Equilibrio competitivo

 

Qua la linea TT è lo scambio tra consumo e tempo libero per un lavoratore rappresentativo, che riflette la produttività, e l’arco blu è una curva di indifferenza [1] che rappresenta i gusti. In una condizione di equilibrio tutto (ogni punto della curva) è efficiente; il lavoratore è sulla curva di indifferenza più alta praticabile (anche questo non è realistico, ma è solo un punto di riferimento).

Il tradizionale punto di vista dei programmi basati sulla tassazione e sul trasferimento è che essi forniscono un beneficio nel mentre riducono il salario dopo le tasse. Dunque, i lavoratori individuali si ritrovano a fare i conti con linee di bilancio che sono più ripide che non il semplice scambio tra consumo e tempo libero – essi vedono minore vantaggio in un’ora di lavoro aggiuntiva rispetto al vero guadagno dell’economia nel suo complesso. Questo distorce le loro scelte; in una condizione di equilibrio, tuttavia, l’economia ancora si ritrova sulla linea TT. Dunque, appare in questo modo:

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Tassazione e trasferimenti: il punto di vista tradizionale

 

Il programma basato sulla tassazione e sui trasferimenti conduce ad uno sforzo di lavoro minore, e in questo mondo semplificato dove tutti sono uguali, riduce l’assistenza collettiva.

Ma la riforma sanitaria non va ad operare in un mondo nel quale non esisteva alcun intervento del Governo; anche sulla assistenza sanitaria, avevamo un ampio sussidio tramite il codice fiscale per la assicurazione basata sull’occupazione. In generale, tuttavia, questo sussidio era disponibile soltanto per i lavoratori a tempo pieno – ovvero, i lavoratori che lavoravano un numero minimo di ore. A cosa somiglierebbe un sistema del genere? Somiglierebbe a questo:

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Sussidi per i soli lavoratori a tempo pieno

 

In questo caso la linea FT indica il livello di sforzo lavorativo degli occupati a tempo pieno; i lavoratori ottengono un pezzo di assicurazione sanitaria esente da tasse se e solo se lavorano quel tanto di ore. Questo colloca una soglia nella loro linea di bilancio proprio sul punto FT; con un discreto spostamento verso la destra nel momento il cui la linea del tempo libero cade su quel punto. E questo a sua volta potrebbe condurre al risultato mostrato, una condizione di equilibrio nella quale ognuno lavora DI PIU’ che nella condizione di equilibrio efficiente allo scopo di ottenere quella agevolazione fiscale.

In questa situazione, i cambiamenti della politica che sussidia l’assicurazione per coloro che non la ottengono attraverso i loro datori di lavoro potrebbero portare a minori ore lavorate, non attraverso una distorsione degli incentivi, ma attraverso la distorsione creata dalla soglia: il risultato potrebbe essere una economia con minore apporto di lavoro, minore PIL e maggiore assistenza collettiva.

Come è plausibile? Io conosco per davvero un discreto numero di persone che si sentono costrette a conservare il lavoro a tempo pieno, non per la paga ma per l’assicurazione. C’è anche la questione connessa dell’essere bloccati in un posti di lavoro. D’altra parte dobbiamo tenere a mente che siamo sottoposti a tasse per una molteplicità di cose, non solo per i sussidi sanitari, e che ridurre lo sforzo lavorativo riduce le entrate, creando un’altra distorsione.

E poi, naturalmente, c’è il fatto che le persone non sono identiche; e c’è anche il fatto che dare alle persone l’assicurazione non è la stessa cosa che dare loro soldi contanti, perché nel contempo si stanno anche correggendo i difetti del mercato relativi alle assicurazioni private non sussidiate e non regolamentate.

Dunque è complicato. Ma l’argomento secondo il quale lo sforzo di lavoro potrebbe effettivamente per alcune persone scendere non è folle, e penso che offra l’occasione per un esercizio di modellistica ingegnoso.



[1] Nella scelta tra due beni – in questo caso tra consumo e tempo libero – la ‘curva di indifferenza’ indica un complesso di situazioni, che rappresentano varie propensioni di scelta tra quei due beni, che nel loro punto di contatto con la linea che connette i due beni definiscono l’equilibrio.  Vale a dire che in quel punto si suppone che la sostituzione di una determinata quantità di un bene con una quantità dell’altro bene (ad esempio, più tempo libero e meno consumo) sia indifferente dal punto di vista della utilità complessiva. Ma tutti i punti di una ‘curva di indifferenza’ possono essere punti di equilibrio; se si scegliesse un punto di equilibrio più in alto sulla curva, la conseguenza sarebbe che la linea TT dovrebbe scendere da un livello più elevato del bene ‘tempo libero’ e cadere su un livello ridotto del bene ‘consumi'; se lo si scegliesse più in basso, si avrebbero più consumi e minore tempo libero.

La riforma di Obama e la “soglia” inversa (5 febbraio 2014)

febbraio 5, 2014

 

Feb 5, 9:35 am

Obamacare and the Reverse Notch

Because I was teaching from 6 to 9 last night, I’m behind on the big wonkverse thing of the day, the new CBO report that, among other things, increases the budget office estimates of labor supply effects; it now says that affordable care will reduce labor supply by the equivalent of 2 million jobs.

That’s a valid point. And CBO, wich has been burned before on this sort of thing, really needs to be more careful in how it states things — a lot of the press ran with the headline “Obamacare costs 2 million jobs”, and it will become part of what everyone on the right “knows”, yet is totally untrue. First of all, we’re mainly talking about reduced hours rather than quitting the work force. Second, as Greg Sargent and Jonathan Cohn try to explain, we’re talking about a voluntary, supply-side response here — people choosing to work less — not about job destruction.

Still, don’t we have a problem with incentive effects here? Maybe, but maybe not. I’ll write this up at greater length later, but the basic point here is that we started with a system in which incentives were already strongly distorted by the deductibility of employer-paid health insurance premiums. This was a significant benefit, but one in general available only to full-time workers.

The result was to create something like the infamous “notches” sometimes created by welfare state benefits — but in reverse. The traditional notch comes when, say, housing subsidies are available as long as you’re below 150 percent of the poverty line — which means that you have a strong disincentive to move your income from slightly below to slightly above that threshold. What we had here was, instead, a system in which subsidies were available only if you worked more than a certain amount, surely leading some people to work more than they would have wanted to otherwise.

 

And that’s not a hypothetical — I know a fair number of people in just that situation. I also know some people in “job lock” — feeling trapped in their current job because they aren’t sure they could get implicitly subsidized health insurance if they moved.

Does the reverse notch plus job lock mean that the CBO’s estimate of work reduction (NOT job loss) actually represents a gain in welfare? It might or might not — the traditional tradeoffs surely apply to many workers too. But you don’t want to assume that it’s obviously a bad thing. Health reform isn’t an intervention in a previously undistorted economy; you might say that it replaces one set of distortions with a different set of distortions.

And the one thing that remains clear is that it will be a big plus for the people who most need help.

 

La riforma di Obama e la “soglia” inversa

 

Poiché dalle 18 alle 21 della sera scorsa stavo insegnando, sono in ritardo sul grande ingorgo informatico [1] della giornata, il nuovo rapporto del Congressional Budget Office che, tra le altre cose, innalza le stime dell’Ufficio del Bilancio sugli effetti sull’offerta di lavoro; esso ora dice che l’assistenza sostenibile (legge della)  ridurrà l’offerta di lavoro per l’equivalente di 2 milioni di posti di lavoro.

Si tratta di un argomento fondato. Ed il CBO, che già in precedenza si è scottato su cose di questo genere, ha veramente bisogno di stare più attento quando fa certe affermazioni – gran parte della stampa si è precipitata con il titolo “La riforma di Obama costa due milioni di posti di lavoro” [2], e ciò diventerà un aspetto di quello che ognuno a destra “sa con certezza”, pur essendo completamente falso. In primo luogo, stiamo principalmente parlando di riduzione delle ore lavorate, non di abbandono di posti di lavoro. In secondo luogo, come Greg Sargent e Jonathan Cohn cercano di spiegare, stiamo in questo caso parlando di una risposta volontaria, dal lato dell’offerta – persone che scelgono di lavorare di meno – non della distruzione di posti di lavoro.

Eppure, non abbiamo in questo caso un problema con gli effetti degli incentivi? Forse, ma forse no. Scriverò su questo in modo più preciso successivamente, ma il punto fondamentale è che siamo partiti con un sistema nel quale gli incentivi erano già fortemente distorti dalla deducibilità dei premi delle assicurazioni sanitarie pagati dai datori di lavoro. Si trattava di un beneficio significativo, ma in generale a disposizione soltanto dei lavoratori a tempo pieno.

Il risultato è stato creare qualcosa come le famigerate “soglie” [3] che talvolta vengono create dai sussidi dello stato assistenziale – ma all’opposto. Una soglia tradizionale è quella che si ha, ad esempio, quando i sussidi per le abitazioni sono disponibili sinché siete al di sotto del 150 per cento della linea di povertà – il che significa che avete un forte disincentivo a spostare il vostro reddito da un livello leggermente al di sotto ad uno leggermente al di sopra di quella soglia. Quello che avevamo in questo caso era, invece, un sistema nel quale i sussidi erano disponibili solo se si lavorava più di una certa quantità di tempo, sicuramente inducendo molte persone a lavorare di più di quello che avrebbero voluto altrimenti.

E non si tratta di una ipotesi – conosco un discreto numero di persone proprio in quella situazione. Conosco anche alcune persone che si trovano ‘bloccate, in un posto di lavoro – ovvero si sentono intrappolate nel loro posto attuale perché non sono sicure di ottenere implicitamente una assicurazione sanitaria sussidiata se si spostano.

La soglia inversa in aggiunta al posto di lavoro bloccato significa che la stima del CBO di una riduzione del lavoro (non di una perdita di posti di lavoro) rappresenti effettivamente un vantaggio nello stato assistenziale? Può essere così oppure no – i tradizionali scambi certamente si applicano anche a molti lavoratori. Ma non si deve dare per scontato che questa sia necessariamente una cosa negativa. La riforma sanitaria non è un intervento su una economia in precedenza ben regolata; si può dire che essa rimpiazza un complesso di storture con un differente complesso di storture.

È l’unica cosa che resta chiara è che ci sarà un forte miglioramento per le persone che maggiormente hanno bisogno di aiuto.



[1] Procedo un po’ a tentoni. “Wonkvert”, e solo su alcuni dizionari, significa pasticciare sino a far diventare astruso un file nel tentativo di trasferirlo da un programma all’altro.

[2] Ad esempio l’ha fatto Rampini su La Repubblica di ieri, il quale ‘informa’ del crollo di due milioni di posti di lavoro a causa della riforma sanitaria, senza neppure spiegare il meccanismo, ed anzi stabilendo una sorta di automatismo tra la convenienza a lavorare meno e la sicura sostituzione da parte delle imprese di lavoratori a pieno tempo con lavoratori a tempo parziale.

[3] Uno dei significati di “notch” è “grado, livello”, precisamente quello che in casi del genere noi definiamo “soglia”. In realtà si potrebbe benissimo dire “threshold” che significa proprio ‘soglia'; se si usa in gergo il termine “notch” tra virgolette, probabilmente è perché lo si usa nel suo significato più comune di “tacca, intaglio”. Quei livelli ai quali scattano condizioni peggiori (o, all’inverso, migliori) nel linguaggio comune devono essere detti “tacche”. Forse.

Sono un moderato? (4 febbraio 2014)

febbraio 4, 2014

 

Feb 4, 11:30 am

Moderate Me Me Me Blogging

So Noah Smith has a piece about how moderate yours truly really is. It’s almost completely right, except that I wish Noah would stop saying that my views on monetary policy in a liquidity trap derive from Eggertsson/Woodford; it’s a fine paper, but they were following me, not the other way around. Also, Arcade Fire’s “My body is a cage” isn’t a cover of Peter Gabriel; he was covering them.

OK, pettiness aside: on macroeconomics, there’s not a lot of air between my views and those of, say, staff economists at the Fed Board of Governors, the New York Fed, the IMF, and even (say it quietly) the ECB. They’re very much at odds both with freshwater macro and with austerian views; but no more so than those of many other economists — and austerian notions, like that of expansionary austerity, are far more radical than holding to old-fashioned concepts like the multiplier.

It’s not even true that I’m a hard-line opponent of modern Keynesian macro, which you might think from reading Noah’s piece. My original zero-lower-bound analysis was a New Keynesian thingie with intertemporal optimization and all that — much more stripped down than most such models, but clearly part of that genre. My work with Eggertsson (pdf) on deleveraging is similarly New Keynesian in style. It’s true that I say openly what a lot of New Keynesians think — that the new models aren’t necessarily better than ad hoc approaches, that in many cases they’re best thought of as tests of logical consistency rather than a good way to think about policy. But as I’ve just suggested, that’s actually a very widespread view, certainly in policy circles.

So where does the notion that I’m way out there come from? Politics, of course. But if you look at the examples people give of me supposedly saying something wild about economics, you’ll almost always find that they’re doing one or both of two things: citing an example where I was wrong (which is by no means the same as being nutty — it happens to everyone), and/or quoting something where I was being playful to get readers’ attention for a larger point. Space aliens? Hello?

In fact, in a way the impression that I’m some kind of far-out thinker largely comes from my willingness to go with what mainstream macroeconomics actually says, rather than shading my views and language to appease the Very Serious People. Mainstream macro said that once you’re in a liquidity trap, deficits don’t drive up interest rates; money-printing doesn’t cause inflation; contractionary fiscal policy is very contractionary. I said that, without hedging, and ridiculed the fashionable case for austerity. But what was radical, if you like, was my style, not my content.

 

I know some people think that all of Keynesian economics is crazy, or maybe just the idea that things change at the zero lower bound. But saying such things doesn’t set me apart from a lot of economists.

 

Sono un moderato? [1]

 

Dunque, Noah Smith ha un pezzo sul tema di quanto il sottoscritto sia effettivamente moderato. Ha quasi completamente ragione, fatta eccezione del fatto che io vorrei che smettesse di dire che i miei punti di vista sulla politica monetaria nella trappola di liquidità derivano da Eggertsson/Woodford; il loro era un bel saggio, ma furono loro a venirmi dietro, non il contrario. Anche “My body is a cage” degli Arcade Fire non è una cover di Peter Gabriel; è lui che fa da sostegno [2].

Va bene, a parte le frivolezze: sulla macroeconomia, non c’è una gran distanza tra i miei punti di vista e, diciamo, quelli del Comitato dei Governatori della Fed, della Fed di New York, del FMI, ed anche (sia detto sommessamente) della BCE. Tutti costoro sono molto agli antipodi con la macro della scuola dell’ “acqua dolce” o con i punti di vista dei cultori dell’austerità; ma non di più di quanto lo siano quelli di molti altri economisti – e i concetti dei cultori dell’austerità, come quello dell’austerità espansiva, sono assai più radicali che non attenersi alle vecchie idee come quella del moltiplicatore.

Non è neanche vero che io sia un oppositore inflessibile delle moderna macroeconomia keynesiana, come potreste pensare dal pezzo di Noah. La mia analisi originaria del limite inferiore di zero era un congegno dotato di ottimizzazione intertemporale e tutto il resto – assai più sommario di gran parte di quei modelli, ma chiaramente collegato con quella impostazione. Il mio lavoro con Eggertsson (disponibile in pdf) sulla riduzione del rapporto di indebitamento è anch’esso in stile neokeynesiano. E’ vero che io dico apertamente quello che molti neokeynesiani pensano – che i nuovi modelli non sono necessariamente migliori degli approcci ad hoc, che in molti casi essi sono riflessioni egregie come testi di coerenza logica piuttosto che un buon modo per ragionare dei contenuti politici. Ma come ho appena detto, questo per la verità è un punto di vista assai generale, certamente nei circoli del pensiero politico.

Dunque, da dove viene l’idea che io sia fuori da quel contesto? Dalla politica, naturalmente. Ma se guardate agli esempi che in giro si offrono del mio supposto scarso autocontrollo  nel parlare di economia, troverete che quasi sempre essi si basano su entrambe queste due cose: citano un esempio nel quale ho avuto torto (che in nessun modo è la stessa cosa di essere fuori di testa – capita a tutti), e/o citano qualcosa si cui mi ero espresso in modo scherzoso per ottenere l’attenzione dei lettori ad un tema più ampio. Come la storia degli alieni dallo spazio, non è così? [3]

Di fatto, in un certo senso l’impressione di essere in qualche modo un pensatore fantasioso deriva ampiamente dalla mia volontà di accompagnare quello che la macroeconomia ufficiale effettivamente afferma, piuttosto che annacquare i miei punti di vista e il mio linguaggio per tranquillizzare le Persone Molto Serie. La macroeconomia ufficiale ha detto che una volta che si è in una trappola di liquidità, i deficit non spingono in alto i tassi di interesse; lo stampare moneta non produce inflazione; una politica di restrizione della finanza pubblica ha effettivamente effetti restrittivi. Io ho detto quello, fuori da ogni vaghezza, ed ho messo in ridicolo l’argomento alla moda dell’austerità. Ma era radicalismo, se volete, era il mio stile, non erano i miei contenuti.

So che molte persone pensano che tutta l’economia keynesiana sia folle, o forse hanno semplicemente l’idea quando si è al punto del limite inferiore di zero le cose cambino. Ma dire le cose che dico non mi colloca altrove rispetto ad una gran quantità di economisti.



[1] L’articolo di Noah Smith al quale questo post si riferisce è un tentativo di smitizzare il supposto estremismo dell’economista americano, che spesso è soprattutto un aspetto del suo stile. Buffa l’immagine che allega:

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[2] Personaggi del mondo canzonettistico krugmaniano, che nel blog ha una stupefacente cadenza settimanale.

[3] Si riferisce ad un suo frequente paradosso, secondo il quale nelle situazioni di grave inadeguatezza della domanda, anche provocare un suo ampliamento non produttivo sarebbe meglio del non far niente. Keynes aveva usato il paradosso del nascondere denaro in vecchie miniere dismesse, lasciando libero il settore privato di appropriarsene; Krugman utilizza l’esempio aggiornato dell’inventarsi una guerra stellare.

Demografia ed occupazione (per esperti) (blog di Krugman, 3 febbraio 2014)

febbraio 3, 2014

 

February 3, 2014, 4:13 pm

Demography and Employment (Wonkish)

A blog post reporting research by Samuel Kapon and Joseph Tracy of the New York Fed is creating a splash in wonkworld today, and it is making an important point. However, the way that point is presented is, I think, likely to mislead, because it mixes two propositions together. One, which is clearly true, is that the aging of the adult population would have meant a considerable decline in the employment-population ratio over the past 7 years even if the economy had remained near full employment.

The other, which is far from obvious, is that the economy was highly overheated in late 2007, with employment far above sustainable levels. You can make that argument — although I would disagree. But the way they present the data, that argument is sort of smuggled in through the back door.

So, on the demography: a number of people have made this point, although without as much detailed modeling. I made a stab at it myself a while back. Here’s another version. Take BLS data on the composition of the noninstitutional population. Here’s a breakdown for December 2007 and December 2013:

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Here share07 is the share of the over-16 population in 12/07, share13 the share in 12/13, and ep07 is the employment-population ratio in 12/07. You can see the decline in the share of prime-age adults, and this should, other things being the same, have reduced the overall employment-population ratio. How much? Doing shift-share on the 07 employment rates, you get a decline from 62.9 to 61.3, or 1.6 points. This is almost the same as the Kapon and Tracy estimate of 1.7 points; what I take from this is that the crude calculation wasn’t missing too much.

Now, how much does this change our view of the Lesser Depression? The decline in the actual employment-population ratio looks like this:

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The actual decline was from 62.9 to 58.6, or 4.3 points. This would seem to suggest that around 40 percent of the decline is demographics, but the rest is cyclical, and that we’re still far below full employment.

But Kapon and Tracy suggest that we’re actually only 0.7 points below full employment. How do they get this result? By normalizing the data so that the baseline is the average adjusted employment-population ratio over their whole sample, reaching back to 1982. What this does is in effect build the Lesser Depression into your definition of normal, so that they get this picture:

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Federal Reserve of New York

What’s going on here? The small employment gap isn’t mainly because of the demographic adjustment — a bigger factor is the de facto reinterpretation of history, which now has a hugely overheated economy in December 2007. Oh, and this also says that the depressed economy of the early Bush years wasn’t actually depressed — in fact, it was overheated almost the whole time.

The authors seem to be aware that this is a problem, so they offer an alternative normalization that drops the post-2007 slump, and raises the employment gap to 1.7. Even that is, however, problematic. After all, inflation was considerably lower at the end of the pre-crisis era than the beginning, so that any kind of Phillips curve analysis would suggest that on average the economy was operating below capacity.

Anyway, the dramatic-sounding result that we don’t have much labor market slack isn’t what it may seem on casual reading. Just doing the demographic correction reduces the employment gap — but it’s still big unless you accept the idea that the U.S. economy was above full employment even during the early-Bush slump years, and that by late 2007 it was a highly overheated economy on the edge of major inflation.

 

Demografia ed occupazione (per esperti)

 

 

Un post sul blog ci informa che in questi giorni la ricerca a cura di Samuel Kapon e Joseph Tracy della Fed di New York sta facendo una grande impressione nel mondo degli esperti, avanzando un argomento importante. Tuttavia, il modo in cui tale argomento viene presentato, io penso, è probabile sia fuorviante, perché mette assieme due concetti diversi. Il primo, che è chiaramente vero, è che l’invecchiamento della popolazione adulta avrebbe comportato un notevole declino nel rapporto occupazione-popolazione negli ultimi 7 anni, pur essendo l’economia rimasta vicina alla piena occupazione.

L’altro, che è lungi dall’essere ovvio, è che sulla fine del 2007 l’economia era notevolmente surriscaldata, con una occupazione molto sopra i livelli sostenibili. E’ un tesi che si può avanzare – sebbene io sia in disaccordo. Ma nel modo in cui essi presentano i dati, quella tesi è come contrabbandata dalla porta di servizio.

Dunque, a proposito della demografia: un certo numero di persone hanno posto questo tema, sebbene senza una modellistica molto dettagliata. Io stesso feci un tentativo su tale aspetto un po’ di tempo da [1]. Ecco un’altra versione. Si prendano i dati dell’Ufficio delle Statistiche del Lavoro sulla composizione della popolazione non residente in strutture pubbliche [2].Ecco una scomposizione dei dati del dicembre 2007 e del dicembre 2013:

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In questo caso la quota dello 07 (“share07”) è la popolazione oltre i sedici anni al dicembre del 2007, la quota del 13 (“share13”) è quella stessa popolazione al dicembre del 2013, il dato “ep07” è il rapporto tra occupazione e popolazione al dicembre del 2007. Si può vedere il declino degli adulti  nella età di lavoro primaria [3], e questo dovrebbe, ferme le altre condizioni, aver ridotto il rapporto generale tra occupazione e popolazione. Di quanto? Facendo uno shift-share [4]sui tassi di occupazione del 2007, si ha un declino da 62,9 a 61,3, ovvero di 1,6 punti. Questo è quasi lo stesso di quello che Kapon e Tracy stimano in 1,7 punti; dal che ne derivo che il calcolo sbrigativo non è molto lontano dal vero.

Ora, quanto influisce questo cambiamento nel nostro punto di vista sulla Depressione Minore [5]? Il declino nel rapporto effettivo occupazione-popolazione appare in questo modo:

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Il declino effettivo è passato da un rapporto di 62,9 ad uno di 58,6, ovvero 4,3 punti. Questo sembrerebbe suggerire che circa in 40 per cento del declino sia provocato dalla demografia, ma che il resto sia derivante dal ciclo economico, e che siamo ancora assai al d sotto della piena occupazione.

Ma Kapon e Tracy indicano che siamo in verità soltanto di 0,7 punti al di sotto della piena occupazione. Come ottengono questo risultato? Normalizzando i dati in modo tale che la linea di partenza sia la media corretta del rapporto occupazione-popolazione per l’intero loro campione, arrivando indietro sino al 1982. In questo modo in effetti si incorpora la Depressione Minore nella definizione di ciò che rientra nella norma, in modo tale che essi ottengono questa rappresentazione:

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Federal Reserve di New York

 

Cosa accade in questo modo? Il modesto differenziale occupazionale non deriva principalmente dalla correzione demografica – un fattore più grande è la reinterpretazione vera e propria della storia, che ora mostra una economia ampiamente surriscaldata nel Dicembre del 2007. Inoltre questo ci dice anche che l’economia depressa dei primi anni di Bush non era effettivamente depressa – di fatto, era surriscaldata per quasi  l’intero periodo.

Gli autori sembrano essere consapevoli di questo problema, dunque offrono una normalizzazione alternativa, che abbassa la recessione dopo il 2007 ed alza il differenziale di occupazione all’1,7. Anche questo, tuttavia, è problematico. Dopo tutto, l’inflazione era considerevolmente più bassa alla fine dell’epoca precedente alla crisi che non all’inizio, cosicché ogni genere di analisi della curva di Phillips suggerirebbe che in media l’economia stesse operando al di sotto della sua capacità.

In ogni modo, il risultato che appare spettacolare per il quale non abbiamo molta fiacchezza nel mercato del lavoro non è quello che può sembrare ad una lettura casuale. Soltanto facendo la correzione delle cause demografiche riduce il gap occupazionale  – ma essa è ancora grande anche se non si accetta l’idea che l’economia americana era al di sopra della piena occupazione persino durante gli anni della prima recessione di Bush, e che alla fine del 2007 era una economia altamente surriscaldata sull’orlo di una importante inflazione.



[1] La connessione nel testo inglese è con un post del 12 ottobre 2012, “Occupazione a demografia costante (per esperti ma rilevante)”.

[2] Per “nonistitutional population” si intende la popolazione oltre i 16 anni che non risiede o non è confinata in strutture come le carceri, le case di cura per malati di mente o le case per anziani.

[3] Per adulti in  età di lavoro primaria (“Prime age adults”) si intendono le classi dai 16 anni ai 54, che, come si nota, sono quelle effettivamente in calo.

[4] L’analisi shift-share è una tecnica che consente di scomporre il tasso di crescita di una grandezza economica (gli aggregati della Contabilità nazionale, la produzione, l’occupazione, ecc.) in componenti strutturali e locali. (Wikipedia)

Letteralmente sarebbe: una “quota di spostamento”.

[5] La crisi degli ultimi anni, anche per distinguerla dalla Great Depression degli anni Trenta, viene talvolta chiamata “Great Recession” o anche “Lesser Depression”.

Ritorna il populismo macroeconomico (1 febbraio 2014)

febbraio 1, 2014

 

Feb 1, 12:55 pm

Macroeconomic Populism Returns

Matthew Yglesias says what needs to be said about Argentina: there’s no contradiction at all between saying that Argentina was right to follow heterodox policies in 2002, but it is wrong to be rejecting advice to curb deficits and control inflation now. I know some people find this hard to grasp, but the effects of economic policies, and the appropriate policies to follow, depend on circumstances.

I would add that we know what those circumstances are! Running deficits and printing lots of money are inflationary and bad in economies that are constrained by limited supply; they are good things when the problem is persistently inadequate demand. Similarly, unemployment benefits probably lead to lower employment in a supply-constrained economy; they increase employment in a demand-constrained economy; and so on.

So sometimes the relationship and money looks like this, from the best economics principles textbook:

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Money growth and inflation in Zimbabwe.

But sometimes it looks like this:

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And just to repeat a point I’ve made many times, those of us who understood IS-LM predicted in advance that the actions of the Bernanke Fed wouldn’t be inflationary, while the other side of the debate was screaming “debasement”.

There’s something else to be said about Argentina and, it seems, Turkey — namely, that we’re seeing a mini-revival of what Rudi Dornbusch and Sebastian Edwards long ago called macroeconomic populism. This involves, you might say, making the symmetrical error to that of people who think that running deficits and printing money always turns you into Zimbabwe; it’s the belief that the orthodox rules never apply. And it’s an equally severe mistake.

It’s not a common mistake these days; a few years ago one would have said that only Venezuela was making the old mistakes, and even now it’s just a handful of countries. But it is a mistake, and we need to say so.

 

Ritorna il populismo macroeconomico

 

Matthew Yglesias dice quello deve essere detto a proposito dell’Argentina: non c’è affatto contraddizione tra il dire che l’Argentina aveva ragione a seguire politiche eterodosse nel 2002, e il dire che è sbagliato respingere il consiglio di tenere a freno i deficit e di controllare l’inflazione oggi. So che alcuni lo troveranno difficile da afferrare, ma gli effetti delle politiche economiche, e le politiche appropriate da seguire, dipendono dalle circostanze.

Aggiungerei che sappiamo quali sono tali circostanze! Realizzare deficit e stampare grandi quantità di moneta è negativo ed inflazionistico nelle economie che sono condizionate da una offerta limitata; sono invece cose buone quando il problema è una domanda ostinatamente inadeguata. Nello stesso modo, i sussidi di disoccupazione probabilmente portano ad una occupazione più bassa in una economia condizionata dal lato dell’offerta; accrescono l’occupazione in una economia condizionata dalla domanda; e così via.

Così, talvolta la relazione e la moneta appaiono in questo modo, dal migliore libro di testo sui principi dell’economia:

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Crescita dell’offerta di moneta ed inflazione nello Zimbabwe

 

Ma talvolta in questo modo:

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E solo per ripetere un punto che ho trattato molte volte, quelli tra noi che comprendono il modello IS-LM avevano previsto in anticipo che le iniziative di Bernanke alla Fed no avrebbero avuto effetti inflazionistici, mentre sull’altro schieramento su urlava alla “svalutazione”.

C’è qualcos’altro da dire sull’Argentina e, a quanto sembra, sulla Turchia – il particolare che stiamo assistendo ad un mini risveglio di quello che Rudi Dornbusch e Sebastian Edwards un tempo chiamarono il populismo macroeconomico. Questo riguarda, si potrebbe dire, un errore simmetrico di quello delle persone che pensano che realizzare deficit e stampare moneta spedisca sempre nelle condizioni dello Zimbabwe; è la convinzione che le regole dell’ortodossia economica non si applichino mai. Ed è uno sbaglio egualmente grave.

Non un uno sbaglio frequente, di questi tempi; pochi anni orsono si sarebbe detto che solo il Venezuela stava facendo i vecchi errori, ed anche oggi si tratta solo di una manciata di paesi. Ma è uno sbaglio, ed abbiamo il dovere di dirlo.

La trappola della bassa inflazione (blog di Paul Krugman, 31 gennaio 2014)

gennaio 31, 2014

 

Jan 31, 3:09 pm

The Low-inflationary Trap

Dean Baker is, of course, completely right here. There isn’t a red line you cross when going from positive to negative inflation, with all sorts of bad things suddenly happening. What matters is inflation relative to the rate that best suits your circumstances. Since the euro area would clearly be best off with an inflation rate well above current levels, this is a disastrous report:

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To restate Dean’s points slightly, there are three reasons low inflation is bad for the euro area. First, the euro area as a whole remains depressed, with core interest rates near zero; falling inflation raises real rates, and deepens the slump. Second, many players in Europe, private and public, are burdened by an overhang of debt; inflation makes it easier to work down this debt, so low inflation makes things harder. Finally, Europe still needs large adjustments in relative wages, with wages in Club Med falling relative to wages in Germany; it’s much easier to do this via rising German wages than falling Club Med wages, so low inflation makes this much harder.

 

 

And yes, Europe is very much in a trap. Inflation is falling because the economy is weak, and the economy is being weakened in part by falling inflation. That’s the Japan syndrome. It leads eventually to actual deflation, but to the extent that there’s a red line (or more accurately, an event horizon), it’s crossed when monetary policy starts being limited by the zero lower bound, which happened years ago.

 

La trappola della bassa inflazione

 

In questo caso Dean Baker ha completamente ragione, come è evidente. Non c’è una linea rossa che si attraversa quando si passa dalla inflazione positiva a quella negativa, con tutti i tipi di cose cattive che avvengono all’improvviso. Quello che conta è l’inflazione in relazione al tasso che meglio si attaglia alle vostre circostanze. Dal momento che l’area euro starebbe chiaramente meglio lontana da una tasso di inflazione al di sotto dei livelli attuali, questo è un quadro disastroso (cliccare sulla tabella per ottenere una immagine migliore):

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Per riformulare leggermente i punti di Dean, ci sono tre ragioni per le quali la bassa inflazione è negativa per l’area euro. In primo luogo, l’area euro nel suo complesso resta depressa, con i tassi di interesse principali vicini allo zero; una inflazione in caduta fa crescere i tassi reali e approfondisce la crisi. In secondo luogo, molti protagonisti privati e pubblici in Europa sono appesantiti da un eccesso di debito; l’inflazione rende più facile far scendere questo debito, nello stesso modo la bassa inflazione rende le cose più difficili. Infine, l’Europa ha ancora bisogno di una ampia correzione nei salari reali, abbassando i salari del Club Med in rapporto a quelli della Germania; è molto più facile farlo alzando i salari tedeschi che non abbassando quelli delle nazioni del Sud Europa, dunque la bassa inflazione rende tutto questo più difficile.

Infine, è vero che l’Europa è proprio in una trappola. L’inflazione sta calando perché l’economia è debole e l’economia sta diventando debole in parte per la discesa dell’inflazione. Questa è la sindrome giapponese. Alla fine essa conduce ad una vera e propria deflazione, ma nella misura in cui si può parlare di una linea rossa (o più precisamente un punto di non ritorno), esso si attraversa quando la politica monetaria comincia ad essere condizionata dal limite inferiore dello zero [1], la qual cosa avvenne anni orsono.

 


[1] Dei tassi di interesse. Vedi “zero lower bound” sulle note della traduzione.

Io non sono un uomo saggio (31 gennaio 2014)

gennaio 31, 2014

 

Jan 31, 2:45 pm

I Am Not A Wise Man

A wise guy, yes. And maybe — I like to think so — someone with a pretty good though by no means error-free track record on depression economics. But Chris House is right, even though he refuses to say what nutty things I’ve said that come remotely close to Ed Prescott.

What he’s right about is that having a medal from Sweden doesn’t mean that you’re wise, or even sensible. And it certainly doesn’t grant you the right to have your opinion treated as gospel. Maybe the prize entitles you to a hearing, but no more than that; from there on, it’s the quality of the argument that matters. And if an economist, no matter how credentialed, consistently makes low-quality arguments, he should be tuned out — whereas someone who consistently makes very good arguments deserves attention, even if he or she lacks impressive-sounding formal credentials.

And oh yes, I deliberately included the “or she” in the second half of that sentence, but not the first. At this point we don’t have any highly credentialed female economists making insane arguments, while we have many women who deserve more attention than they get.

House is also right about one reason people smart enough to win a big prize can say remarkably stupid things: in many cases they are hedgehogs rather than foxes, experts in one narrow area with little sense of others. Worse, it’s pretty common to have done one big thing which turns out to be wrong. And it’s a natural human tendency to refuse to accept that, to let ego dominate empirical evidence.

But while this is a natural human tendency, it’s also a mortal sin. I see it all the time: economists and public intellectuals of all kinds (and pundits of all kinds too) digging into an obviously false position because they refuse to admit that they were wrong — and it’s truly shameful. Folks, we’re talking about real policies that can make or break millions of lives. If you let your ego dictate your position on, say, monetary policy, rather than do your best to get it right, you’re doing something truly vile.

It takes a real effort to, as Brad DeLong says, mark your beliefs to market. And since none of us are saints, ego will all too often find a way in. But you have to make the effort. Unfortunately, not enough famous economists do.

 

Io non sono un uomo saggio

 

Un sapientone, sì [1]. E forse – così mi piace pensare – qualcuno con un curriculum sulle depressioni economiche abbastanza buono, sebbene in nessun modo immune da errori. Ma Chris House ha ragione, anche se egli rifiuta di dire quali cose bizzarre io abbia detto pur alla lontana paragonabili a quelle di Ed Prescott [2].

Quello su cui ha ragione è che avere una medaglia ottenuta in Svezia non significa essere saggi, e neppure ragionevoli. E certamente non vi dà il diritto di veder trattate le vostre opinioni come vangelo. Forse il premio vi dà diritto ad essere ascoltati, ma non più di quello; da lì in poi, è la qualità degli argomenti che conta. E se un economista, non importa quanto accreditato, avanza in continuazione argomenti di scarsa qualità, dovrebbe essere ignorato – mentre chi regolarmente avanza buoni argomenti merita attenzione, anche se difetta di credenziali formali che facciano impressione.

Ed è vero, nella mia frase avevo scritto “lui o lei” solo in riferimento al secondo aspetto, ma non al primo. Al giorno d’oggi non abbiamo alcuna economista femmina accreditata che sostiene tesi irragionevoli, mentre abbiamo molte donne che meritano più attenzione di quella che ricevono.

House ha anche ragione riguardo ad un motivo per il quale le persone abbastanza intelligenti da vincere un premio importante, possono affermare cose considerevolmente stupide: in molti casi essi sono più ricci che volpi, esperti in un’area ristretta con poche considerazione delle altre. Peggio, è abbastanza frequente che abbiano fatto una cosa notevole che poi si scopre essere sbagliata. Ed è una tendenza umana naturale rifiutarsi di accettarlo, consentire all’ ego di prevalere sulle prove empiriche.

Ma se è una naturale tendenza umana, è anche un peccato mortale. Lo constato in continuazione: economisti ed intellettuali con funzioni pubbliche di tutti i generi (ed anche commentatori di tutti i generi) sprofondare in una posizione evidentemente sbagliata perché si rifiutano di ammettere di aver avuto torto – ed è realmente disonorevole. Signori, qua si sta parlando di scelte reali che possono aiutare o distruggere milioni di vite. Se si lascia che l’ego detti la propria posizione, ad esempio, sulla politica monetaria, piuttosto che fare del proprio meglio per comprendere le cose correttamente, si sta facendo qualcosa di veramente indegno.

Ci vuole uno sforzo vero, come dice Brad DeLong, per dare un voto ai propri convincimenti sul mercato. E dal momento che nessuno di noi è santo, l’ego anche troppo spesso troverà un ingresso. Ma quello sforzo deve essere fatto. Sfortunatamente un numero insufficiente di economisti famosi lo fa.



[1] “Wise guy” sta per “saputello”, e forse in questo caso, meglio ancora “sapientone”.

[2] Si riferisce alle dichiarazioni di Prescott riportate nel post del 28 gennaio “Kocherlakota e i membri sella setta”. L’articolo di Chris House aveva sostenuto la tesi che, al di là delle singole dichiarazioni, i Premi Nobel (Ed Prescott è stato anch’egli premiato negli anni ’80) siano una categorie di individui da trattare con una considerazione un po’ speciale, ed anche forse un pochino speciali di carattere.

Godwin aiutaci (30 gennaio 2014)

gennaio 30, 2014

 

Jan 30, 5:38 pm

Godwin Help Us

Not my line, alas — Jonathan Chait uses it as the excerpt for his report on the WSJ’s editorial defending Tom Perkins, now famed for comparing criticism of the one percent to Kristallnacht. And boy, am I jealous.

Chait also makes a very good point: what the WSJ piece really does is to confirm that Perkins-style paranoia is actually the norm over there. For throughout the piece the Journal equates criticism with persecution. If you say that the one percent is taking an excessive share of the pie, or that the Kochs exert undue influence on American politics, you’re engaged in vile persecution — OK, maybe not as bad as Hitler, but in the same ballpark.

May I say that if being criticized is a form of unjust persecution, every day of my life is a pogrom?

And what about freedom of speech? Hey, that’s only for corporations, I guess.

Slightly more seriously: the attitude of that WSJ editorial brought to mind Lincoln’s description of the attitude of Southern politicians in his Cooper Union speech. Obligatory declaration: I am not saying that a high income share for the top one percent is anything like slavery. The similarity lies not in what is being defended, but in the demands of those feeling insecure — namely, that any form of criticism be banned. Lincoln:

These natural, and apparently adequate means all failing, what will convince them? This, and this only: cease to call slavery wrong, and join them in calling it right. And this must be done thoroughly – done in acts as well as in words. Silence will not be tolerated – we must place ourselves avowedly with them … The whole atmosphere must be disinfected from all taint of opposition to slavery, before they will cease to believe that all their troubles proceed from us.

Yep. Until we all declare that the one percent is the source of all good, until all mention of inequality as a potentially troubling thing is expunged from public discussion, the rich are being persecuted by totalitarian liberals.

 

Godwin aiutaci [1]

 

Ahimè, la frase non è mia – la usa Jonathan Chait come estratto del suo resoconto sull’editoriale del Wall Street Journal a difesa di Tom Perkins, ormai famoso per avere paragonato le critiche all’1 per cento alla “Notte dei Cristalli” [2]. E, ammettiamolo, sono proprio geloso. [3]

Chait avanza anche un argomento molto buono: quello che il pezzo del WSJ fa, è confermare che la paranoia del genere di quella di Perkins è in effetti la norma da quelle parti. Perché dappertutto l’articolo del Journal equipara le critiche alla persecuzione. Se dite che l’1 per cento si sta prendendo una parte eccessiva della torta, o che i fratelli Koch [4] esercitano una influenza impropria sulla politica americana, siete impegnati in una persecuzione indegna – va bene, forse non indegna come quella di Hitler, ma sulla stessa lunghezza d’onda.

Posso dire che se essere criticati è una forma di persecuzione ingiusta, ogni giorno della mia vita è un pogrom?

E che dire della libertà di parola? Beh, suppongo che quella sia solo per le grandi imprese.

Un po’ più seriamente: l’atteggiamento di quell’editoriale del WSJ riporta alla mente la descrizione da parte di Lincoln della mentalità degli uomini politici del Sud nel suo discorso al Cooper Union[5] . Precisazione obbligata: non sto dicendo che un’alta quota di reddito a vantaggio dell’1 per cento sia come la schiavitù. La somiglianza non sta in quello che sul momento viene difeso, ma nelle pretese di coloro che si sentono insicuri – precisamente, che ogni forma di critica sia messa al bando. Disse Lincoln:

“Una volta che questi metodi naturali ed apparentemente adeguati fallissero, che cosa li convincerà? Questo e soltanto questo: smettere di dire che la schiavitù è sbagliata, ed unirsi a loro nel definirla giusta. E questo deve essere fatto in modo scrupoloso – negli atti come nelle parole. Il silenzio non sarà tollerato – dobbiamo schierarci apertamente dalla loro parte …. Tutto l’ambiente deve essere disinfettato da ogni contaminazione della opposizione alla schiavitù, prima che essi smettano di credere che siamo noi a provocare  tutti i loro problemi.”

Sì. Sino a che tutti non dichiariamo che l’1 per cento è la fonte di ogni bene, fino a che non esplicitiamo che la faccenda della potenziale problematicità dell’ineguaglianza  è stata espunta dal dibattito pubblico, continuerà la persecuzione dei ricchi da parte dei liberal totalitari.


 

 


[1] Il riferimento è al filosofo britannico William Godwin. Godwin (1756-1836) fu un pensatore repubblicano e radicale, considerato uno dei primi teorici anarchici moderni per il suo radicale programma di rovesciamento delle istituzioni politiche, sociali religiose dell’epoca. Ciononostante egli riteneva che solo una tranquilla discussione fosse l’unica cosa necessaria e utile per apportare il cambiamento, e dall’inizio alla fine della sua carriera sconsigliò ogni uso della violenza. L’ironico appello a Godwin nell’articolo di Chait verosimilmente si riferisce al fatto che, pur nella radicalità del suo pensiero, predicava quella forma di tolleranza. (da Wikipedia)

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[2] Vedi l’articolo sul New York Times del 26 gennaio (La paranoia dei plutocrati”).

[3] La forma “am I” come in questo caso – ovvero una forma interrogativa senza il punto interrogativo – dovrebbe dare  una certa enfasi a quello che si vuol dire (più o meno come “Non sarò geloso?”, oppure “Sono proprio geloso!”).

[4] Una famiglia, in particolare i due fratelli, che forniscono grandi aiuti finanziari alla destra americana.

[5] Lincoln pronunciò il 27 febbraio del 1860 un famoso discorso al Cooper Union (la sede del Sindacato dei ‘bottai’, dei costruttori di barili). Il tema fu quello della schiavitù e Lincoln esposte la sua originaria posizione seconda la quale non avrebbe consentito una espansione della schiavitù nei territori occidentali. Più in generale, rivolto agli uomini politici del Sud, li definì nel modo seguente: “ Il vostro proposito, per dirla semplicemente, è che voi distruggerete il Governo se non vi viene permesso di realizzare e di far rispettare la Costituzione a vostro piacimento, su tutti i punti sui quali tra noi e voi stiamo dibattendo. In ogni circostanza, o voi dominerete o manderete tutto in rovina.”

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Istanbul al ribasso (30 gennaio 2014)

gennaio 30, 2014

 

Jan 30, 9:55 am 30

Istanbearish

There cannot be a crisis next week. My schedule is already full.

– Henry Kissinger

OK, did we need this? Turkey? Who was paying attention to Turkey?

Some people were, of course, because that was their job. The IMF released the results of its latest Article IV consultation — regular reports that are supposed to provide a sort of early warning system — just over a month ago. It mentioned some worries. For example:

The most concerning aspect is the widening short FX position of the non-financial corporates. This has jumped from US$78 billion in 2008 to US$165 billion now.

But it went on to suggest that the risks weren’t large, among other things because “the floating exchange regime reduces the probability of a very large and abrupt adjustment in the exchange rate.”

Ahem:

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Turkish exchange rate against euro

Qualitatively, this looks like a classic emerging-markets crisis: foreign funds came flooding in, there was a sharp rise in private-sector foreign-currency-denominated debt, and then foreign money turned on its heel and fled. Quantitatively, it shouldn’t be that bad: Turkish external debt is only 40 percent of GDP (or was before the lira plunged), and supposedly Turkish businesses aren’t that leveraged. On the other hand, there’s a political crisis as well as a currency crisis.

Oh, and contagion among emerging markets.Lovely.

All this is happening with recovery in the West still very weak and growing deflation risk. Ambrose Evans-Pritchard goes more purple prose on this than I’m willing to — these economies are either fairly small (Turkey, South Africa) or not that heavily indebted (India). But definitely not what we needed right now.

And not really an accident either. If you take secular stagnation seriously, as you should, then we have a chronic problem of too much saving chasing too few good investment opportunities, which means that you only feel prosperous when money thinks it has found more good places to go than it really has — and soon enough figures that out, with nasty effects.

Lots more on this, probably, as I get up to speed on the Bosphorus.

 

Istanbul al ribasso [1]

 

“Non ci può essere una crisi la prossima settimana. Il mio calendario è già pieno.” – Henry Kissinger

 

Va bene, ci voleva anche questa? La Turchia? Chi stava attento alla Turchia?

Alcune persone lo facevano, naturalmente, perché era il loro lavoro. Il FMI aveva pubblicato  risultati della sua ultima consultazione ex Articolo IV – relazioni regolari che si pensava fornissero una sorta di sistema di messa in guardia precoce – soltanto il mese scorso. Faceva riferimento a qualche preoccupazione. Ad esempio:

“L’aspetto più preoccupante è la posizione a breve che si allarga nello scambio con l’estero delle imprese non finanziarie [2]. Questa ha fatto un salto dai 78 miliardi di dollari statunitensi del 2008 ai 165 miliardi di adesso.”

Ma esso proseguiva suggerendo che i rischi non erano rilevanti, tra le altre cose perché “il regime dei cambi fluttuanti riduce la probabilità di una correzione molto ampia ed improvvisa nel tasso di cambio.”

Ehm:

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Tasso di cambio turco nei confronti dell’euro

 

Qualitativamente, questa sembra una classica crisi da mercati emergenti: i finanziamenti stranieri sono arrivati in massa, c’è stata una brusca ascesa del debito del settore privato espresso in valuta straniera, dopodiché la moneta straniera ha girato i tacchi e si è dileguata.

Quantitativamente, non dovrebbe essere così negativo: il debito estero turco è soltanto il 40 per cento del PIL (o lo era, prima che la lira crollasse), e le imprese turche non si pensava avessero rapporti di indebitamento così negativi. D’altra parte, come c’è una crisi valutaria c’è anche una crisi politica.

Inoltre, si segnala il contagio tra i mercati emergenti. Splendido.

Tutto questo sta accadendo mentre la ripresa in Occidente è ancora molto debole e il rischio di deflazione è crescente. Ambrose Evans-Pritchard prosegue su questo aspetto con una prosa molto più elaborata di quanto io non abbia voglia – queste economie (Turchia e Sudafrica) sono tutte e due abbastanza piccole oppure non sono così pesantemente indebitate (India). Ma certamente non era quello di cui avevamo bisogno in questo momento.

E non sono affatto entrambe un caso. Se prendete sul serio, come dovreste, la stagnazione secolare, si ha il problema cronico di risparmi troppo grandi a caccia di troppo poche opportunità positive di investimento, il che significa che ci si sente prosperi soltanto quando il denaro suppone di aver trovato un numero maggiore di posti nei quali andare di quanti effettivamente ve ne sia – e lo comprende abbastanza rapidamente, con effetti malefici.

Tornerò molto più diffusamente su questo argomento, appena mi decido a correre sul Bosforo.



[1] “Bearish” significa un ‘movimento al ribasso’ sul mercato dei cambi. Il gioco di parole con Istanbul è evidentemente impossibile mantenerlo.

[2] La “net exchange position” di un’impresa indica in quale misura i suoi futuri flussi in entrata di valuta eccedano o siano inferiori ai suoi futuri flussi in uscita. (Business Dictionary)

Costi quello che costi? No, costa quello che ci vuole (29 gennaio 2014)

gennaio 29, 2014

 

Jan 29, 8:49 am

Whatever It Takes? No, It Takes Whatever

I think Josh Marshall gets this right. Obama came across relatively relaxed last night, basically because he knows two things: he isn’t getting anything substantive out of the GOP, but he’s achieved a lot, and his signature achievement is looking increasingly secure. The real theme of the SOTU was “Whatever.”

I think the fading of the deficit both in reality and as an issue is important here. A missive from Fix the Debt landed in my inbox:

We are disappointed that President Obama did not choose to place a greater focus on our nation’s long-term debt problems in tonight’s State of the Union address. The President should be actively working with Congress seeking solutions to our debt problem rather than relegating it to the political sidelines. The State of the Union was a chance for him to lead on this issue instead of leaving these tough choices to be made by the next President.

That’s the whine of people who have found themselves irrelevant. Obama isn’t afraid of the big bad deficit any more, and he knows that there won’t be a Grand Bargain, so there’s nothing he can or should do on the front that absorbed so much of his energy for three years.

Meanwhile, health reform. Substantively, there has been an impressive comeback from the two horrible first months. The workability of the law is now clear — in California, which never had the teething troubles, enrollments are running ahead of expectations, most insurers are pretty sanguine about the age and health mix, and the polling is slowly improving.

Republicans are meeting these developments with a mixture of denial and Benghazification — insistence that the law is collapsing, that people may be signing up but they won’t actually pay for their policies, etc., combined with the belief that if they just tell a few more dubious horror stories about rate shock or losing your favorite doctor, the public will rise up and demand repeal.

 

I’d be interested, by the way, to know the details about the constituent described in the official GOP response, who supposedly faced a $700 a month rise in premiums. What kind of plan did she have? Did that number include subsidies? The ACA is supposed to keep health costs to 8 percent of income, so the only way you could get numbers like that is if the individual (a) had a really bare-bones policy offering hardly any protection and (b) has an income well over $100,000.

We don’t know the particulars here, but many if not most stories of rate shock turn out to involve people who didn’t actually apply for a policy, and therefore never found out what it would really cost.

Anyway, the point is that despite his low poll numbers, time is on Obama’s side, and he knows it.

 

Costi quello che costi? No, costa quello che ci vuole

 

 

Penso che Josh Marshall abbia ragione. La sera scorsa Obama si è mostrato relativamente rilassato, principalmente perché sa due cose: non sta ottenendo niente di sostanziale dal Partito Repubblicano, ma ha realizzato molto, ed il suo risultato distintivo sembra sempre più sicuro. Il tema reale del discorso sullo Stato dell’Unione è stato “ad ogni modo”.

Penso che in questo caso il fatto che il deficit sia sparito, sia nella realtà che come tema, sia importante. Una missiva recapitata tra le mail in arrivo da parte di Fix the Debt [1]:

“Siamo delusi che il Presidente Obama nel discorso di questa sera sullo Stato dell’Unione non abbia scelto di dare grande centralità ai problemi debito a lungo termine della nazione. Il Presidente dovrebbe lavorare attivamente assieme al Congresso sul nostro problema del debito, piuttosto che relegarlo tra le cose secondarie. Il discorso sullo Stato dell’Unione era un’occasione per lui per mettersi alla testa di questo tema, anziché lasciare che queste scelte severe siano realizzate dal prossimo Presidente.”

Questo è il lamento di persone che si sono scoperte irrilevanti. Obama non è in alcun modo impaurito dal deficit grande e cattivo, e sa che non ci sarà la Grande Intesa, dunque non c’è niente che egli possa e debba fare sul fronte che ha assorbito le sue energie per tre anni.

Nel frattempo, la riforma sanitaria. In sostanza, c’è stato un impressionante ritorno in auge dopo i due orribili primi mesi. Il funzionamento possibile della legge ora è chiaro – in California, che non aveva mai avuto le difficoltà iniziali, le iscrizioni stanno volando oltre le aspettative, la maggioranza degli assicuratori sono abbastanza ottimisti sull’età e sulla composizione delle condizioni di salute [2], ed i sondaggi stanno lentamente migliorando.

I repubblicani stanno affrontando questi sviluppi con un misto di negazionismo e con un atteggiamento come quello che tennero nella vicenda di Bengasi [3] – ribadiscono che la legge sta collassando, che può darsi che le persone si stiano iscrivendo ma in realtà non vorranno pagare per le loro politiche, etc., assieme al convincimento che se soltanto avessero raccontato un po’ di più le dubbie storie dell’orrore sulle aliquote impressionanti o sulla perdita del proprio medico preferito [4], l’opinione pubblica si sarebbe sollevata ed avrebbe chiesto l’abrogazione.

Mi avrebbe interessato, per inciso, conoscere i dettagli sull’elettrice alla quale si fa riferimento nella risposta ufficiale del Partito Repubblicano, che si dice abbia dovuto far fronte ad un aumento mensile di 700 dollari nella polizza assicurativa. Che genere di programma aveva costei? Quella cifra includeva i sussidi [5]? La Legge sulla Assistenza Sostenibile si suppone mantenga i costi sanitari all’8 per cento del reddito, dunque l’unico modo nel quale si potrebbero avere cifre come quelle è che quella persona: a) avesse una polizza davvero ridotta all’osso, che non offriva alcuna protezione seria; b) abbia un reddito ben superiore ai 100.000 dollari.

In questo caso non conosciamo i particolari, ma molte se non quasi tutte le storie di aliquote esagerate si scopre riguardano individui che in effetti non avevano attivato alcuna polizza, e di conseguenza non avevano mai saputo quanto essa costasse realmente.

In ogni caso, il punto è che nonostante la sua bassa quotazione nei sondaggi, il tempo è dalla parte di Obama, e lui lo sa.



[1] La denominazione di un movimento di opinione di economisti e politici che pone il problema della riduzione del debito pubblico come centrale. Significa “riparare il debito”.

[2] Vale a dire che se tra gli iscritti ci sono percentuali apprezzabili di persone giovani – e non accade che i giovani preferiscano in massa non iscriversi per non pagare le assicurazioni, cosa che peraltro oggi sarebbe proibita – anche i conti delle assicurazioni risultano soddisfacenti, perché c’è una percentuale apprezzabile di persone che si suppongono in buona salute.

[3] Si riferisce alla vicenda dell’assalto alla sede diplomatica americana di Bengasi di mesi orsono. I repubblicani furono subito molto duri nel loro attacco al Presidente, salvo essere smentiti nella ricostruzione degli avvenimenti.

[4] La sostituzione del medico che si aveva in precedenza può essere necessaria se quest’ultimo ha deciso di non aderire alle nuove regole e di svolgere la professione solo privatamente.

[5] Ovvero, i contributi del Governo ai cittadini con redditi più bassi.

Manager degli hedge fund ed insegnanti (29 gennaio 2014)

gennaio 29, 2014

 

Jan 29, 8:27 am

Hedgies Versus Teachers

So one thing I learned last night is that the right has a new meme: inequality is the fault of the government — you see, it’s all those overpaid government workers.

I made the mistake of replying on the substance, which is that once you correct for education, government workers are paid about the same as their private-sector counterparts; basically, government workers are school teachers, which means that they need college degrees.

But there is a better answer, and a teachable moment here, which gets at the real nature of inequality in America. It’s not about overpaid teachers.

Let’s start by looking at the real winners in soaring inequality — the people who not only make incredible amounts of money, but get to pay very low taxes (and if you suggest closing their loopholes, you’re just like Hitler.) According to Forbes, in 2012 the top 40 hedge fund managers and traders took home a combined $16.7 trillion billion.

Now look at those supposedly overpaid government employees. According to the BLS, the median high school teacher earns $55,050 per year.

So, those 40 hedge fund guys made as much as 300,000, that’s three hundred thousand, school teachers — almost a third of all high school teachers in America.

OK, teachers get benefits, so their total compensation cost is higher than their wage, so maybe it’s only 200,000.

But you should keep numbers like these in mind whenever anyone tries to shift attention from the one percent (and the .001 percent) to Americans who aren’t even upper-middle class.

 

Manager degli hedge fund ed insegnanti

 

Dunque una cosa che ho imparato l’altra notte è che la destra ha un nuovo ritornello: l’ineguaglianza è colpa del Governo – sapete, sono tutti quegli impiegati statali superpagati.

Io ho fatto l’errore di replicare sulla sostanza, vale a dire che una volta che considerate il sistema educativo, i dipendenti dello Stato sono pagati all’incirca lo stesso dei loro omologhi del settore privato; fondamentalmente, i dipendenti pubblici sono insegnanti, il che significa che hanno bisogno della laurea.

Ma c’è una risposta migliore, e in questo anche un passaggio istruttivo, che alla fine riguarda la natura reale dell’ineguaglianza in America. Non riguarda gli insegnanti sovra stipendiati.

Cominciamo a guardare ai reali vincitori nella crescente ineguaglianza – le persone che non solo realizzano incredibili quantità di denaro, ma alle quali è concesso di pagare tasse molto basse (e se suggerite di interrompere le loro scappatoie, siete come Hitler). Secondo Forbes, nel 2012 i più ricchi 40 manager degli hedge fund e operatori di borsa hanno portato a casa un complessivo di 16,7 miliardi di dollari.

Ora si guardino gli impiegati pubblici che si suppongono pagati troppo. Secondo il Bureau of Labor Statistics, un insegnante medio di scuola superiore guadagna 55.050 dollari all’anno.

Dunque, quei 40 tizi degli hedge fund realizzano altrettanto di 300.000, in lettere trecentomila, insegnanti – quasi un terzo di tutti gli insegnanti di scuola superiore in America.

Va bene, gli insegnanti hanno le indennità, cosicché il loro compenso totale è superiore al loro salario, può darsi che la somma totale sia solo di 200.000 insegnanti.

Ma dovreste tenere numeri come questi a mente ogni qualvolta qualcuno cerca di spostare l’attenzione dall’1 per cento (e dallo 0,01 per cento) agli americani che non sono neppure classe media superiore.

Kocherlakota ed i membri della setta (28 gennaio 2014)

gennaio 28, 2014

 

Jan 28, 1:36 pm

Kocherlakota and the Cultists

Narayana Kocherlakota, president of the Minneapolis Fed, is the prodigal son of monetary stimulus. He was the Fed’s leading hawk a few years ago, reflecting in part the ultra-freshwater macro doctrines of the Minnesota econ department and his bank’s closely associated research department. But he did something amazing: he looked at evidence, listened to his critics, and changed his views — becoming the Fed’s leading dove.

This is totally praiseworthy, especially because it almost never happens.

Binyamin Applebaum’s article on NK also contains dramatic evidence of the intellectual climate from which he had to emancipate himself, in the form of an email from Ed Prescott, founder and relentless promoter of real business cycle theory. Prescott:

It is an established scientific fact that monetary policy has had virtually no effect on output and employment in the U.S. since the formation of the Fed.

In reality, few if any topics in economics have been studied as thoroughly as the real effects of monetary policy. And the overwhelming consensus, from multiple lines of inquiry — Sims-type econometrics, Romer-Romer style event studies, Mussa-style comparisons of exchange regimes (which are also monetary policy regimes) — is that monetary policy has powerful real effects. This consensus could be wrong — such things have happened — and Prescott could make the case that the consensus is wrong. But that’s not what he’s saying. He’s declaring it “an established scientific fact” that what everyone outside his sect believes is totally false.

That’s not science, whatever Prescott may think; it’s being part of an irrational cult. And kudos to Kocherlakota for learning to stop drinking the Kool-Aid.

 

Kocherlakota ed i membri della setta

 

Narayana Kocherlakota, Presidente della Fed di Minneapolis, è il figliol prodigo dello stimolo monetario. Alcuni anni fa era a capo dei falchi della Fed, in parte riflettendo le dottrine dell’oltranzismo della scuola dell’ “acqua dolce”   [1] del Dipartimento economico del Minnesota e del dipartimento di ricerca della sua banca, strettamente collegato al primo. Ma egli ha fatto qualcosa di sorprendente: ha guardato ai fatti, ha ascoltato i suoi critici ed ha cambiato i suoi punti di vista – diventando la guida delle colombe della Fed.

Questo è totalmente meritevole di apprezzamento, considerato soprattutto che non accade quasi mai.

L’articolo di Binyamin Applebaum sul New York Times [2] contiene anche una spettacolare prova del clima intellettuale dal quale egli ha dovuto emanciparsi, nella forma di una email da parte di Ed Prescott, fondatore ed indefesso promotore della teoria del ciclo economico:

“E’ un fatto scientifico accertato che la politica monetaria non ha avuto praticamente alcun effetto sul prodotto e sulla occupazione negli Stati Uniti sin dalla creazione della Fed.”

In realtà, pochi o punti temi in economia sono stati studiati altrettanto esaurientemente quanto gli effetti reali della politica monetaria. E lo schiacciante consenso, su molteplici linee di indagine – l’econometria sul modello di Sims [3], gli studi del generi di quelli dei coniugi Romer sugli eventi economici, i confronti del tipo di Mussa [4] dei regimi di scambio (che sono anche regimi di politica monetaria) – è che la politica monetaria ha potenti effetti reali. Questa unanimità potrebbe essere sbagliata – cose del genere sono successe – e Prescott potrebbe essere la prova che quel consenso è infondato. Ma non è quello che sta dichiarando. Lui sta dicendo che è “un fatto scientifico accertato” che quello che credono tutti, al di fuori della sua setta, sia totalmente falso.

Qualsiasi cosa pensi Prescott, questa non è scienza; è far parte di un culto irrazionale. E complimenti a Kocherlakota per aver imparato a smettere di bere il Kool-Aid [5].



[1] Vedi a Note sulla Traduzione, “freshwater and saltwater”.

[2] L’articolo di Applebaum è stato pubblicato il 27 sul NYT e la sigla non sta per Neo Keynesismo, ma indica le iniziali del dirigente della Fed, appunto Narayana Kocherlakota. Per i curiosi il nome è di origine indiana, e non degli indiani d’America. Ciononostante, il personaggio è stato allevato nella provincia Canadese del Manitoba, dove un certo culto per le originarie lingue dei pellerossa ci doveva essere per forza. Sotto il dirigente della Fed:

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[3] Christopher Albert Sims (Washington, 21 ottobre 1942) è un economista statunitense insignito del Premio Nobel per l’economia nel 2011.

[4] Michael Mussa è stato un economista americano. Capo economista al Fondo Monetario Internazionale ha diretto il gruppo dei consulenti economici sotto la presidenza di Ronald Reagan.

[5] Si tratta di una bevanda famosa, pare. Kool-aid è una polvere zuccherata che disciolta in acqua provoca un miscuglio al sapore di frutta.

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