Blog di Krugman

Soldi e classi (blog di Krugman, 28 gennaio 2014)

 

January 28, 2014, 8:37 am

Money and Class

My post on Americans starting to recognize class realities has brought some predictable reactions, which I’d place under two headings: (1) “But they have cell phones!” and (2) it’s about how you behave, not how much money you have.

My answer to both of these would be to say that when we talk about being middle class, I’d argue that we have two crucial attributes of that status in mind: security and opportunity.

By security, I mean that you have enough resources and backup that the ordinary emergencies of life won’t plunge you into the abyss. This means having decent health insurance, reasonably stable employment, and enough financial assets that having to replace your car or your boiler isn’t a crisis.

By opportunity I mainly mean being able to get your children a good education and access to job prospects, not feeling that doors are shut because you just can’t afford to do the right thing.

If you don’t have these things, I would say that you don’t lead a middle-class life, even if you have a car and a few electronic gadgets that weren’t around during the era when most Americans really were middle class, and no matter how clean, sober, and prudent your behavior may be.

Now, according to that Pew survey (pdf), in early 2008 only 6 percent of Americans considered themselves lower class — far below the official poverty rate! — only 2 percent upper class, and 1 percent didn’t know. So 91 percent of Americans — roughly speaking, people with incomes between $15,000 and $250,000 — considered themselves middle class. And a large portion of these people were wrong.

Consider health insurance: many Americans with incomes significantly above the poverty line are, or were until very recently uninsured, and many more were at risk of losing coverage. That, to me, says that they weren’t middle class on that basis alone. Many, probably most, low-wage workers have hardly any financial assets, no retirement plan, etc.

What about opportunity? Public schools in America vary widely in quality, and lower-income families can’t afford to live in good districts. College education has become far less accessible as aid to public institutions falls. The chance of finishing college varies drastically with family income (pdf).

I could go on, but surely it’s obvious when you think about it (and if you have any sense of the realities of life). A lot of Americans — quite arguably a majority — just don’t have the prerequisites for middle-class life as we’ve always understood it.

What about the upper end? In 2008 19 percent of Americans considered themselves upper-middle class. Here I think we have problems with defining what the class means. Pretty clearly, life at $250,000 is significantly, qualitatively different from life at $100,000. Yet Americans making 250K don’t feel rich, because above them loom the steep slopes of the upper tail of the income distribution (mixed metaphor, but whatever). So I won’t try to sort this one out.

But back to the lower end: the point is that we could, if we chose, guarantee the essentials of middle-class existence for almost all Americans; other advanced countries do it. Universal health care is the norm; we’re finally making a partial move toward that norm, but the right is fighting that move hysterically. Universal good basic education and free or cheap college education are available in other advanced countries.

The sad thing is that our fetishization of the middle class, our pretense that we’re almost all members of that class, is a major reason so many of us actually aren’t. That’s why the growing appreciation of class realities on the part of the public is a good thing; it raises the chances that we’ll actually start creating the kind of society we only pretend to have.

 

Soldi e classi

 

Il mio post sugli americani che cominciano  a riconoscere le realtà di classe ha provocato alcune prevedibili reazioni, che collocherei in due categorie: 1) “Ma hanno i cellulari!” e 2) è un faccenda che riguarda il comportamento, non quanto denaro si possiede.

La mia risposta ad entrambe consisterebbe nel dire che quando parliamo di far parte della classe media, mi parrebbe nella nostra mente che stabiliamo due fondamentali attributi di quella condizione: la sicurezza e l’opportunità.

Per sicurezza intendo che si abbiano abbastanza risorse e riserve per le quali le ordinarie emergenze della esistenza non ci precipitino nell’abisso. Questo significa avere una dignitosa assicurazione sanitaria, una occupazione ragionevolmente stabile, e sufficienti attivi finanziari per cui il dover cambiare una macchina o un impianto di riscaldamento non comporti una crisi.

Per opportunità intendo principalmente essere capaci di avere una buona istruzione per i vostri figli e l’accesso a prospettive di lavoro, senza sentire che le porte di chiudono solo perché non potete permettervi di fare la cosa giusta.

Se non avete queste due cose, direi che non state conducendo un’esistenza da classe media, anche se avete una macchina e pochi congegni elettronici che non erano in circolazione nell’epoca in cui gli americani erano per davvero classe media, e non è importante quanto la vostra condotta sia onesta, sobria e prudente.

Ora, secondo il sondaggio di Pew (disponibile in pdf), agli inizi del 2008 soltanto il 6 per cento degli americani si consideravano nella classe più bassa – assai al di sotto del tasso di povertà! – solo il 2 per cento tra le classi superiori, e l’1 per cento non aveva risposta. Dunque il 91 per cento degli americani  – grosso modo, persone con redditi tra i 15.000 ed i 250.000 dollari – si considerava classe media. Ed una larga parte di queste persone si sbagliava.

Si consideri l’assicurazione sanitaria: molti americani in modo significativo al di sopra della linea della povertà, sono od erano sino a molto di recente non assicurati, e molti di più erano a rischio di perdere la copertura assicurativa. Sulla base di quanto detto in precedenza, secondo me quello significava che non erano classe media. Molti, probabilmente la maggior parte, dei lavoratori con bassi salari non avevano alcun attivo finanziario, o programma pensionistico, etc.

Che dire dell’opportunità? Le scuole pubbliche in America variano largamente per qualità, e le famiglie a reddito più basso non possono permettersi di vivere in quartieri benestanti. L’istruzione universitaria è diventata assai meno accessibile da quando l’aiuto delle istituzioni pubbliche è caduto. Le possibilità di terminare l’università varia drasticamente a seconda del reddito delle famiglie (disponibile in pdf).

Potrei proseguire, ma certamente tutto questo è evidente se ci pensate (e se avete una qualche percezione delle realtà della vita). Una grande quantità di americani – è abbastanza probabile che si tratti della maggioranza – semplicemente non hanno i prerequisiti per una vita da classe media come la abbiamo sempre intesa.

Che dire della parte più alta? Nel 2008 il 19 per cento degli americani si considerava classe media superiore. In questo caso penso che abbiamo dei problemi a stabilire cosa significhi ‘classe’. E’ abbastanza chiaro che una vita da 250.000 dollari sia in modo significativo qualitativamente diversa da una vita da 100.000 dollari. Tuttavia gli americani che realizzano 250.000 dollari non si sentono ricchi, perché sopra di loro incombe il pendio ripido della coda superiore della distribuzione del reddito (metafora commista, ma pazienza). Così non cercherò di dare una collocazione a questi ultimi.

Ma tornando alla parte inferiore: il punto è se potremmo, decidendolo, garantire le cose essenziali della esistenza della classe media per quasi tutti gli americani; altre nazioni avanzate lo fanno. L’assistenza sanitaria universale è la norma; stiamo finalmente operando uno spostamento verso quella norma, ma la destra sta combattendo contro quello spostamento in modo isterico. Una buona istruzione di base universale ed una gratuita o economica istruzione universitaria è a disposizione in altri paesi avanzati.

La cosa triste è che il nostro feticismo della classe media, la nostra pretesa di essere quasi tutti componenti di quella classe, è una importante ragione per la quale così tanti tra noi non lo sono. Questo è il motivo per il quale una crescente comprensione delle realtà di classe da parte della opinione pubblica è un’ ottima cosa; essa accresce le nostre opportunità di cominciare veramente a creare il genere di società che fingiamo soltanto di avere.

La realtà di classe comincia ad essere compresa (27 gennaio 2014)

gennaio 27, 2014

 

Jan 27, 5:14 pm

The Realities of Class Begin To Sink In

One of the odd things about America has long been the immense range of people who consider themselves middle class — and are deluding themselves. Low-paid workers who would be considered poor by international standards, say with incomes below half the median, nonetheless considered themselves lower-middle class; people with incomes four or five times the median considered themselves, at most, upper-middle class.

But this may be changing. According to a new Pew survey (pdf), there has been a sharp increase in the number of people calling themselves lower class, and a somewhat smaller rise in the number calling themselves lower-middle, so that at this point the combined “lower” categories are close to a plurality of the population — in fact, closing in on, um, 47 percent:

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Pew

This is, I believe, a very significant development. The whole politics of poverty since the 70s has rested on the popular belief that the poor are Those People, not like us hard-working real Americans. This belief has been out of touch with reality for decades — but only now does reality seem to be breaking in. But what it means now is that conservatives claiming that character defects are the source of poverty, and that poverty programs are bad because they make life too easy, are now talking to an audience with large numbers of Not Those People who realize that they are among those who sometimes need help from the safety net.

And this still has a way to go. To Americans at the 86th percentile: if you think you’re upper-middle class, you really have no idea.

 

La realtà di classe comincia ad essere compresa

 

Una delle cose curiose dell’America è sempre stata l’immensa varietà di persone che si considerano classe media – illudendosi. Lavoratori con bassi salari che sarebbero considerati poveri secondo gli standards internazionali, diciamo con redditi al di sotto di metà della media, nondimeno si considerano classe media, sia pure della parte più bassa; persone con redditi quattro o cinque volte la media si considerano, al massimo, classe medio alta.

Ma forse questo sta cambiando. Secondo un nuovo sondaggio di Pew (disponibile in pdf), c’è stato un brusco incremento del numero delle persone che si definiscono appartenenti alla classe più bassa, ed una crescita un po’ minore del numero di coloro che si definiscono medio-bassi, cosicché a  questo punto le categorie “più basse” messe assieme riguardano una pluralità della popolazione – di fatto racchiudendo circa un 47 per cento [1]:

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Pew

Si tratta, io credo, di uno sviluppo molto significativo. L’intera politica sulla povertà a partire dagli anni ’70 si è fondata sul convincimento popolare che i poveri fossero “Quella Gente”, non americani veri e propri che come noi lavorano duramente. E’ da decenni che questa convinzione non è in sintonia con la realtà – ma solo adesso sembra che stia entrando in crisi. Ma ciò che questo adesso significa è che i conservatori che sostengono che i difetti di carattere siano la fonte della povertà, e che i programmi per i poveri siano negativi perché rendono la loro vita troppo facile, ora stanno parlando ad un pubblico con un largo numero di  persone “Diverse da Quella Gente” che comprendono di essere entrate nel novero di coloro che ogni tanto hanno bisogno dell’aiuto di quelle reti di sicurezza.

Ed è una situazione che non può che crescere. Agli americani dell’86° percentile [2]: se pensate di essere classe medio alta, davvero non avete idea.



[1] La tabella mostra, con riferimento agli ultimi sei anni, il fenomeno che definisce della “restrizione della classe media”, sulla base delle risposte dei cittadini ai sondaggi, dunque delle ‘auto classificazioni’ da parte dei cittadini stessi.

[2] Ovvero, che hanno redditi che si collocano nella graduatoria all’ottantottesimo punto percentuale, ovvero in una zona apparentemente alta dei redditi, in quanto prossima al novantesimo punto percentuale, oltre il quale si entra negli ultimi dieci percentili che normalmente connotano i ricchi.  Il senso è che anche in quella posizione è tutt’altro che certo che ci si collochi in una posizione medio-alta. Perché, mi pare, coloro che si staccano davvero dalla classe medio-bassa cominciano solo dopo.

Le mense dei poveri provocarono la Grande Depressione (versione dei Padri Fondatori della Scuola Austriaca) (27 gennaio 2014)

gennaio 27, 2014

 

Jan 27, 4:43 pm

Soup Kitchens Caused the Great Depression, AFF Edition

That’s AFF for “Austrian founding fathers.”

The blog Social Democracy for the 21st Century has a fascinating post about Austrian patron saint Ludwig von Mises in the Great Depression, and his attempts to make sense of what was happening. It’s a revealing story, because it bears so much resemblance to current right-wing flailing – and also highlights the lessons Keynes tried to teach but so few, economists included, have been willing to learn.

First of all, as the blog tells it, von Mises, faced with the reality of depression, basically dropped Austrian business cycle theory, and for the very reason people like me have always had trouble taking it seriously. (Yes, yes, we don’t grasp the depth and profundity of a theory that can never fail, it can only be failed.) ABCT is essentially a story about the excesses of the boom; it offers no clear or plausible story about how that boom leads to a sustained slump. And von Mises was in effect already conceding that point by 1931.

 

 

So what was the story? According to vM, it was excessive wages — trade unions were demanding too much, and unemployment benefits were leaving workers insufficiently desperate. Sound familiar? It should — it is, essentially, the current Republican story, in which unemployment is high because we’re being too nice to the unemployed — that, as I like to say, soup kitchens caused the Great Depression.

And this is where Keynes comes in. Suppose, for the sake of argument, that unions and the dole really were holding up wages, and that breaking the unions and starving the unemployed would have led to a big wage decline. How would this have promoted employment?

Don’t say that it’s obvious, that labor would get cheaper and more would be employed. As Keynes pointed out, this makes sense for an individual worker or group of workers, but not if everyone takes a wage cut and — as one would expect — prices also fall. In that case, the relative price of labor hasn’t fallen, so there is no reason for employment to rise.

Or think about it a different way. Again as Keynes pointed out, workers don’t negotiate real wages, they negotiate nominal wages. Why should the overall level of these wages matter? Rudi Dornbusch used to say that “it takes two nominals to make a real.” The usual argument for how wage-price flexibility leads to full employment is that wages “push” against a fixed nominal money supply, so that a fall in the overall wage level leads to a rise in the real money supply, a fall in interest rates, and so on. But under liquidity trap conditions this channel doesn’t work, and other channels — notably Fisherian debt deflation — almost surely mean that lower wages reduce, not increase, employment.

So it’s a nonsense story. But it turns out that it’s always the story the right turns to when market economies go bad — because the alternative would be to admit that market economies can in fact go bad, and that sometimes government is the solution, not the problem.

 

Le mense dei poveri provocarono  la Grande Depressione (versione dei Padri Fondatori della Scuola Austriaca)

 

 

Il blog Democrazia sociale per il XXI Secolo ha un post interessante sul santo patrono della scuola austriaca Ludwig von Mises nella Grande Depressione, e dei suoi tentativi di dare un senso a quello che stava accadendo. E’ un racconto rivelatore, perché ha molta somiglianza con l’attuale agitazione della destra – ed inoltre illumina le lezioni che Keynes cercò di insegnare ma che pochi, economisti inclusi, hanno avuto voglia di apprendere.

Prima di tutto, come dice il blog, von Mises, a fronte della realtà della depressione, in sostanza lasciò cadere la teoria del ciclo economico austriaca, e proprio per questa ragione persone come me hanno sempre avuto problemi a prenderlo sul serio (sì, sì e ancora sì: non riusciamo ad afferrare lo spessore e la profondità di una teoria che non può mai venir meno, salvo che è già venuta meno). La Teoria Austriaca del Ciclo Economico è essenzialmente un racconto sugli eccessi della espansione; non offre alcuna descrizione chiara o plausibile su come quella espansione abbia portato ad una prolungata recessione. E nel 1931 von Mises in effetti stava già ammettendo questo aspetto.

In cosa consiste, dunque, questo racconto? Secondo von Mises, furono i salari eccessivi – i sindacati chiedevano troppo ed i sussidi di disoccupazione mantenevano i lavoratori in condizioni di insufficiente disperazione. Vi suona familiare? Dovrebbe – è essenzialmente il racconto dei repubblicani dei nostri giorni, secondo il quale la disoccupazione è elevata perché siamo troppo premurosi con i disoccupati – così, come mi piace dire, le mense dei poveri provocarono la Grande Depressione.

Ed è a questo punto che Keynes entra in scena. Supponiamo, in coerenza con quella tesi, che i sindacati ed il sussidio di disoccupazione stessero davvero tenendo su i salari, e che la rottura dei sindacati ed il mettere alla fame i disoccupati avrebbe portato ad un grande declino salariale. Come tutto questo avrebbe promosso occupazione?

Non si dica che è evidente, che il lavoro sarebbe diventato meno caro ed in più avrebbero trovato lavoro. Come Keynes mise in evidenza,  questo ha senso per un lavoratore individuale o per un gruppo di lavoratori, ma non se ognuno riceve un taglio al salario e – come ci si aspetterebbe – anche i prezzi diminuiscono. In quel caso, il prezzo relativo del lavoro non è caduto, dunque non c’è ragione perché l’occupazione cresca.

Oppure si ragioni in un diverso modo. Ancora come Keynes mise in evidenza, i lavoratori non negoziano i salari reali, ma quelli nominali. Perché il livello generale di questi salari dovrebbe essere importante? Rudi Dornbusch era solito dire: “Ci vogliono due nominali per fare un reale”. L’argomento consueto su come la flessibilità dei salari e dei prezzi porta alla piena occupazione è che i salari “premono” contro un’offerta nominale di moneta definita, cosicché una caduta nel livello generale dei salari conduce ad un aumento dell’offerta reale di moneta, ad una caduta nei tassi di interesse, e così via. Ma in condizioni di trappola di liquidità questo canale non funziona, e gli altri canali – in particolare la ‘fisheriana’ [1] deflazione da debito – quasi certamente comporta che i bassi salari non accrescano, bensì riducano l’occupazione.

Dunque, è una storia senza senso. Ma si scopre che è la stessa storia che ci indica dove rivolgerci quando le economie di mercato vanno male – perché la alternativa sarebbe ammettere che le economie di mercato possono di fatto andar male, e talvolta i governi sono la soluzione, non il problema.

 


[1] Irving Fisher (Saugerties, 27 febbraio 1867New York, 29 aprile 1947) è stato un economista e statistico statunitense. Contribuì in modo determinante alla teoria dei Numeri indici analizzandone le proprietà teoriche e statistiche. Fu uno dei maggiori economisti monetaristi statunitensi dei primi del Novecento. Dal 1923 al 1936 il suo Index Number Institute produsse e pubblicò indici dei prezzi di diversi panieri raccolti in tutto il mondo. In campo finanziario a lui si deve la formalizzazione della equazione per stimare la relazione tra tassi di interesse nominali e reali. L’equazione è usata per calcolare lo “Yield to Maturity” ovvero il rendimento alla scadenza di un titolo, in presenza di inflazione. Tale equazione è conosciuta universalmente come Equazione di Fisher. Fu inoltre presidente dell’American Economic Association nel 1918 e dell’American Statistical Association nel 1932 nonché fondatore nel 1930 della International Econometric Society. Morì nella città di New York nel 1947. (wikipedia)

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Obama e l’1 per cento (26 gennaio 2014)

gennaio 26, 2014

 

Jan 26, 11:38 am

Obama and the One Percent

Another week, another outburst by a one-percenter comparing progressive taxation to Nazi atrocities. I particularly liked the end:

Kristallnacht was unthinkable in 1930; is its descendent “progressive” radicalism unthinkable now?

Because it’s just obvious that San Francisco progressives are the political heirs of fascism, right?

You do wonder why the WSJ published this screed. Do billionaires have the right to get their views aired, regardless? Did the Journal think that it was doing a public service by letting the rest of us see the loose screws in this guy’s head? Or — what I suspect, to be frank — did the relevant editors actually think he was making a useful point?

Anyway, thinking about this sort of thing makes me realize that there’s a danger, especially for progressives, of confusing the proposition that Obama’s billionaire haters are stark raving mad — which is true — with the proposition that Obama has done nothing that hurts the plutocrats’ interests, which is false. Actually, Obama has been tougher on the one percent than most progressives give him credit for.

Start with taxes. The Bush tax cuts haven’t gone completely away, but at the very high end they have been pretty much reversed; plus there are additional high-end taxes associated with Obamacare. The result is that taxes on wealthy Americans have basically been rolled back to pre-Reagan levels:

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The Atlantic

Meanwhile, financial reform looks as if it will have significantly more teeth than expected.

So the one percent does have reason to be upset. No, Obama isn’t Hitler; but he is turning out to be a little bit of FDR, after all.

 

Obama e l’1 per cento

 

Un’altra settimana, un’altra scenata dei difensori dell’1 per cento che fanno un paragone tra una tassazione progressiva e le atrocità dei nazisti. In particolare ho apprezzato la conclusione:

“La ‘Notte dei Cristalli’ era impensabile nel 1930; oggi è impensabile il “progressivo” [1] radicalismo, suo discendente diretto?”

Perché è semplicemente ovvio che i progressisti di San Francisco sono gli eredi politici del fascismo, non è così?

Ci si chiede perché il Wall Street Journal pubblichi tirate come questa. I miliardari hanno diritto ad avere i loro punti di vista pubblicizzati, nonostante tutto? Il Journal pensa di svolgere un servizio pubblico consentendo a tutti noi di osservare le valvoline fuse [2] nella testa di questo individuo? Oppure – ciò che sospetto, ad esser sincero – gli editori che contano pensano per davvero di dire una cosa degna di nota?

In ogni caso, pensando a cose di questo genere comprendo che c’è un pericolo, particolarmente per i progressisti, di confondere il concetto secondo il quale i miliardari che hanno in odio Obama siano totalmente fuori di testa – il che è vero – con il concetto secondo il quale Obama non avrebbe fatto niente per colpire gli interessi dei plutocrati, che è falso. In effetti, Obama è stato, nei confronti dell’1 per cento dei più ricchi, più duro di quello che la maggioranza dei progressisti gli riconosce.

Cominciamo con le tasse. Gli sgravi fiscali di Bush non sono completamente usciti di scena, ma ai livelli più alti sono stati in una buona misura ribaltati; in aggiunta,  sui redditi più elevati ci sono le tasse aggiuntive connesse con la riforma della assistenza sanitaria di Obama. Il risultato è che le tasse sugli americani ricchi fondamentalmente sono ritornate ai livelli precedenti a Reagan:

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The Atlantic

 

Nel frattempo, la riforma del sistema finanziario pare destinata ad avere in modo significativo una presa maggiore di quello che ci si aspettava [3].

Dunque, gli individui dell’1 per cento hanno ragione di essere turbati. No, Obama non è Hitler; ma, in fin dei conti, si scopre che ha almeno un po’ di Franklin Delano Roosevelt.



[1] Leggendo l’articolo originario, penso che il senso di ‘progressive’ non fosse quello di ‘progressista’, ma quello di ‘sempre più in crescita, inarrestabile’.

[2] Sarebbe letteralmente “le viti allentate”.

[3] La notizia proviene da un articolo apparso alla fine di dicembre sulla rivista New Repubblic a cura di Mike Konczal, che vediamo adesso nella connessione e prossimamente tradurremo.

La divisione nella teoria economica: nessuno è così cieco (come chi non vuol vedere) (blog di Krugman, 25 gennaio 2014)

gennaio 25, 2014

 

January 25, 2014, 2:32 pm

None So Blind, Macroeconomics Division

Noah Smith reminds us of a quarter-century-old diatribe by Robert Barro against the New Keynesian economics, which is notable for its bitterness. You can sort of see why: people like Barro had triumphantly declared Keynes dead a decade earlier, and were evidently horrified to see even a mild version of Keynesian ideas making a comeback.

But what’s also striking is Barro’s evident inability to understand why these ideas didn’t shrivel up and die the way they were supposed to. His only answer was politics – leftists looking for rationales for government intervention – which is kind of funny when you realize that in its early days New Keynesian economics included among its leading lights Greg Mankiw and John Taylor. Also, the kind of intervention under discussion – monetary policy – was hardly the stuff of Big Government.

So why did so many macroeconomists feel that they needed to resurrect something Keynesian in feel? Don’t tell anyone, but they were looking at this thing called evidence.

Just an aside – Noah seems to me to have a blind spot here, an urge toward nihilism on the question of evidence in macro. I don’t really see why. The evidence that, at the very least, we don’t live in a classical world is very strong, and in any normal science would long have been considered conclusive.

Let’s ask what the debate in the 80s and 90s was about. It wasn’t about fiscal policy, which only came back into central focus after we hit the zero lower bound. Instead, it was about monetary policy: whether actions by central banks could drive economic fluctuations, or whether these were all real shocks of some kind. Keynesian models (including the monetarist subclass, which isn’t really very distinct in content as opposed to attitude) argue that money has real effects because some wages and/or prices are sticky in nominal terms. (This is not the same thing as arguing that increased price flexibility would help end recessions – I’ve written about that before, but just leave that on the side right now.)

So, what evidence might you look for on the proposition that monetary policy can drive the real economy? You could look for direct evidence of the asserted real effect – preferably in the form of natural experiments, where there was a clear change in policy and you could track the outcome. Alternatively or additionally, you could look for evidence of nominal stickiness.

And by the mid-1980s there was already overwhelming evidence of both kinds. Romer and Romer hadn’t yet published their classic event-study demonstration that money matters, but as they said, their methodology was largely based on the work of a guy named Milton Friedman. And the mother of all Romer-Romer natural experiments took place when Paul Volcker first tightened policy to break the back of inflation, then loosened it when he thought we had suffered enough; the results – the worst recession since the 30s, followed by a roaring recovery – were pretty decisive. I remember, during our time at the CEA in 1982-3, someone making a new classical argument, and Larry Summers saying something like “aren’t 12 million unemployed enough reason to stop listening to this nonsense?”

Meanwhile, on nominal stickiness: there was the evidence from real exchange rate behavior, where nominal and real rates not only moved in tandem, but real-rate behavior changed totally when the exchange rate regime changed. And there was clear evidence from surveys both that there was a spike in the distribution of wage changes at zero and that employers believed that nominal wage cuts were very costly for morale.

All of this evidence has, of course, only grown stronger since.

Seriously: if this were a normal scholarly field, can you imagine a large part of the profession not only ignoring this evidence but doing all it could to excommunicate anyone trying to face reality? And no, I’m not engaged in hyperbole: remember, it was Ken Rogoff, not me, who wrote about bearing the scars of “new neoclassical repression.”

So my take on macro is that we have plenty of evidence about what kind of approach works – and that approach really does work, giving lots of useful guidance. In fact, the empirical evidence for basic macro propositions is better than that for most of micro! The problem is that so many macroeconomists refuse to see the obvious.

 

La divisione nella teoria economica: nessuno è così cieco (come chi non vuol vedere)

 

 

Noah Smith ci ricorda la polemica di venticinque anni orsono di Robert Barro contro l’economia neo keynesiana, che fu notevole per la sua asprezza. Potete in qualche modo constatarne la ragione: persone come Barro avevano dichiarato in modo trionfalistico Keynes morto e sepolto un decennio prima, ed erano evidentemente inorridite nel vedere persino una versione edulcorata delle idee keynesiane tornare sulla scena.

Ma era anche stupefacente l’evidente incapacità di Barro di comprendere il motivo per il quale quelle idee non si erano esaurite e non erano scomparse come si era supposto. La sua sola risposta fu in termini politici – i progressisti cercavano argomenti per l’intervento dello Stato – la qualcosa era abbastanza buffa se si considera che nel suo primo periodo l’economia neo keynesiana includeva tra le sue muse ispiratrici Greg Mankiw e John Taylor. Inoltre, il tipo di intervento del quale si discuteva – la politica monetaria – non aveva proprio  che fare con posizioni stataliste.

Perché dunque tanti economisti sentirono di aver bisogno di resuscitare qualcosa della sensibilità keynesiana? Non ditelo in giro, ma dipese dal fatto che stavano osservando quel genere di cose che si chiamano fatti.

Solo un inciso – mi pare che in questo caso Noah finisca in un punto cieco, una propensione al nichilismo sul tema del ruolo delle prove in economia. Non capisco proprio perché. La prova che, quantomeno, non viviamo in un mondo classico è molto chiara, in una scienza normale sarebbe da tempo stata considerata definitiva.

Chiediamoci che cosa riguardasse il dibattito negli anni ’80 e ’90. Non riguardava la politica della finanza pubblica, che è tornata al centro dell’attenzione soltanto dopo che abbiamo toccato il limite inferiore dello zero [1]. Piuttosto riguardava la politica monetaria: se le azioni da parte delle banche centrali potevano provocare fluttuazioni economiche, o se si trattava in ogni caso di shocks reali di qualche natura. I modelli keynesiani (inclusa la sottocategoria monetarista, che non è in realtà molto distinta nei contenuti, quanto nella mentalità) sostenevano che la moneta ha i suoi effetti reali perché alcuni salari e/o prezzi sono vischiosi in termini nominali (questa non è la stessa cosa che sostenere che una maggiore flessibilità dei prezzi aiuterebbe a far finire le recessioni – ho già scritto a questo proposito in passato, ma in questo momento lasciamolo da parte).

Dunque, quale prova si deve cercare a proposito del concetto per il quale la politica monetaria può guidare l’economia reale? Si potrebbero cercare prove dirette dei supposti effetti reali – preferibilmente nella forma di esperimenti naturali, dove sia dato un evidente cambiamento nella politica e si possano seguire i risultati. In alternativa o in aggiunta, si potrebbero cercare prove della rigidità nominale (dei salari e/o dei prezzi).

E sulla metà degli anni ’80 c’erano già prove schiaccianti di entrambi i generi. I coniugi Romer [2] non avevano ancora pubblicato la loro classica dimostrazione, basata su uno studio di eventi reali, che la moneta ha importanza, ma, come dissero loro stessi, la loro metodologia si era ampiamente basata sul lavoro di un individuo chiamato Milton Friedman. E la madre di tutti gli esperimenti naturali dei coniugi Romer ebbe luogo quando Paul Volcker anzitutto diede una stretta alla politica monetaria per dare un colpo definitivo all’inflazione, poi la allentò quando pensò che avessimo sofferto abbastanza; i risultati – la peggiore recessione dagli anni ’30 [3], seguita da una ripresa vivace – furono abbastanza determinanti. Ricordo, durante il nostro periodo presso il Comitato dei Consiglieri economici nel 1983-3 [4], che qualcuno avanzava tesi neo classiche, e Larry Summers disse qualcosa come: “12 milioni di disoccupati non sono una ragione sufficiente per smettere di dare ascolto a queste insensatezze?”

Nel frattempo, a proposito della rigidità dei prezzi e dei salari nominali: ci fu la prova, dal comportamento del tasso di cambio reale, che non solo i tassi nominali e reali si muovevano in coppia, ma che il comportamento del tasso di cambio reale cambiava completamente quando cambiava il regime dei tassi di cambio. E ci fu la prova evidente, sulla base di sondaggi, che si determinò sia un picco nella distribuzione al punto più basso [5] delle modifiche salariali, sia che i datori di lavoro credevano che i tagli ai salari nominali sarebbero stati molto costosi in termini di motivazione dei lavoratori.

Da allora, evidentemente, tutte queste prove sono soltanto diventate sempre più chiare.

Seriamente: se ci fosse un ambiente accademico normale, vi potreste immaginare che una larga parte della disciplina non solo ignori queste prove, ma faccia anche il possibile per scomunicare chiunque si misura con la realtà? E non sto affatto esagerando: si ricordi, non sono stato io ma Ken Rogoff che ha scritto a proposito delle umiliazioni patite da parte della “nuova repressione neoclassica” [6].

Dunque, la mia posizione sulla macro è che siamo pieni di prove su quale sia il genere di approccio che dà risultati – e quell’approccio in realtà funziona davvero, offrendo una quantità di indirizzi utili. Di fatto, le prove empiriche dei fondamentali concetti macro sono migliori di gran parte di quelle che valgono per la microeconomia! Il problema sono i tanti economisti che rifiutano di riconoscere quello che è evidente.



[1] Nei tassi di interesse, vedi note sulla traduzione a “zero lower bound”.

[2] David e Christina Romer, sono due economisti americani che hanno studiato, appunto con vari importanti lavori soprattutto in un periodo successivo agli anni ’80, i temi dell’influenza della politica fiscale sulla crescita economica. Hanno studiato assieme al MIT e sono stati colleghi come docenti alla Università della California, Berkeley. Christina Romer ha guidato la Commissione presidenziale dei consiglieri economici con Obama, nel 2008. In quella veste aveva stimato e proposto come necessario un intervento economico statale contro la crisi di circa 1.800 miliardi di dollari. Alla fine Obama decise – in parte fu anche costretto a decidere, per l’opposizione repubblicana – un intervento di 800 miliardi di dollari, che provocò forti critiche da parte degli economisti di orientamento keynesiano.

Ecco i due economisti:

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[3] Naturalmente per quei tempi, non certo peggiore di quella del 2008.

[4] Krugman fu membro di quella commissione nel primo mandato di Reagan.

[5] I sondaggi del genere di quelli citati, di solito misurano la “vischiosità/rigidità” dei salari misurandoli in termini di frequenza di modifiche. Spesso si esprimono attraverso grafici a dispersione, che mostrano come i cambiamenti si distribuiscono, indicando come punto più basso la condizione di ‘nessuna modifica’.

[6] Il giudizio di Rogoff su quegli anni, compreso il riferimento ai modi nel quali gli economisti neo classici osteggiavano gli interventi e le pubblicazioni di economisti di diverso orientamento,  è riferito nel post di Krugman del 13 dicembre 2013, dal titolo “Rudi Dornbusch e la salvezza della macroeconomia internazionale”.

Tutte le cose nuove sono a loro volta vecchie (blog di Paul Krugman, 23 gennaio 2014)

gennaio 23, 2014

 

January 23, 2014, 10:43 am

Everything New Is Old Again

Logistical note: I’ll be traveling the next couple of days — family, not work — so little if any blogging. Also, for those who like to plan their TV viewing far in advance, next week I’ll be doing SOTU commentary on CNN. I believe I’ve been assigned to discuss Michelle Obama’s wardrobe, or something.

But before we hit the very cold road, I thought I’d weigh in on an ongoing discussion about the state of Keynesian economics. Simon Wren-Lewis had a piece a few days ago that I never got around to discussing, and now John Quiggin has a further piece that lays out an interesting typology. I don’t really disagree with either piece, but have a slightly different take.

So Wren-Lewis asks whether the financial crisis and aftermath will lead to a revolution in macroeconomics. He thinks mostly not, and he’s probably right — but the absence of a revolution will be mainly for the wrong reasons.

There have been two big revolutions in macro. First was the Keynesian revolution, closely tied to the Great Depression; then the new classical counterrevolution, more loosely tied to stagflation in the 1970s. In the first case the linkage was obvious: Keynes offered a way to understand what was happening, and a solution too.

In the second case things weren’t quite so obvious — new classical models didn’t actually have anything much to say about inflation. But stagflation was predicted by Friedman and Phelps, using models that attempted to derive wage and price-setting behavior from rational choice. So the effect of the emergence of stagflation was to give a big boost to “microfoundations” as a modeling strategy

There was a limited Keynesian pushback, what Quiggin calls the Old New Keynesian economics. Basically, this approach tried to get as much rationality into the models as possible without reaching the conclusion that demand-side recessions can’t happen. So intertemporal optimization by consumers, optimal price-setting by firms, with just the caveat that for reasons not specified firms and/or workers had to set prices well in advance, so that surprises in demand could translate into real fluctuations.

There was never a compelling empirical case for this approach. Yet it became dominant for, I think, a couple of reasons. First, it aped the style of the new classical types, creating the illusion of intellectual convergence. Second,it was mathematically hard enough to give you the feeling that you were doing real theoretical work, not just writing down something ad hoc — and maybe even more important, hard enough to convince referees that it was serious stuff. Finally, on a more positive note, New Keynesian-type models did and do under certain circumstances force you to think harder about issues in a way that enhances your understanding, even if you don’t really believe them; that’s certainly been my experience, which is why I usually try to model macro issues both ways (old and new Keynesian), just to be sure I’m not missing something.

So now comes the Lesser Depression — and it turns out that the New Keynesian models have been of hardly any use, while old Keynesian approaches (sometimes with a consistency check using NK modeling) have been tremendously useful. The result has been the rise of what Quiggin, borrowing a phrase from Tyler Cowen, calls New Old Keynesian economics. I liked my term Neo-Paleo-Keynesianism, but whatever.

Quiggin says that I’m the leader in this movement; hey, I’ll take it, although Larry Summers is giving me a definite run for the money lately.

But will this sweep the academic world? No. Partly because of politics: as Quiggin says, new classical economics is effectively part of the broader right-wing apparatus of denial, into which awkward facts rarely penetrate.But there’s also a professional dynamic going on.

You see, both the Keynesian revolution and the classical counterrevolution had one great virtue for ambitious academics: they involved both new ideas and more elaborate math than their predecessors. (It’s often forgotten, but Keynesian economics and the Samuelsonian modeling revolution went hand in hand.) New Old Keynesian economics, on the other hand, involves turning away from hard math back toward rough-and-ready assumptions based on empirical observation. Aspiring up-and-coming economists may be able to publish empirical papers in this vein, but theoretical analyses are likely to be met with giggles and whispers. Just because the stuff works doesn’t mean that it will be publishable.

So I think we’re in for a long siege in which the economics that works remains virtually absent from economic journals (except policy journals like Brookings Papers) and largely untaught in graduate programs.

I hope I’m wrong.

 

Tutte le cose nuove sono a loro volta vecchie

 

Nota logistica: sarò in viaggio nei prossimi due giorni – per ragioni familiari, non per lavoro – dunque scriverò poco o niente. Inoltre, per coloro a cui piace pianificare in anticipo i programmi televisivi cui assistere, la prossima settimana commenterò alla CNN il Discorso sullo Stato dell’Unione [1]. Credo che sarò incaricato di discutere il guardaroba di Michelle Obama, o qualcosa del genere.

Ma prima di mettermi in marcia con questo freddo, ho pensato di intervenire su un perdurante dibattito sullo stato dell’economia keynesiana. Alcuni giorni fa pubblicò un pezzo Simon Wren-Lewis che non ha mai avuto il tempo di discutere, ed ora John Quiggin scrive un altro pezzo che propone una interessante tipologia. In effetti io non sono in disaccordo con entrambi gli articoli, ma direi le cose in modo leggermente diverso.

Dunque, Wren-Lewis si chiede se la crisi finanziaria e le sue conseguenze ci porteranno ad una rivoluzione nella teoria economica. Principalmente egli pensa che non accadrà, ed ha probabilmente ragione – ma la mancanza di una rivoluzione dipenderà principalmente da ragioni sbagliate.

Ci sono state due grandi rivoluzioni in macroeconomia. La prima fu la rivoluzione keynesiana, strettamente connessa con la Grande Depressione; poi la controrivoluzione neo classica, in modo più generico legata alla stagflazione degli anni ’70. Nel primo caso la connessione era evidente: Keynes offrì un modo per capire cosa stava accadendo, ed anche una soluzione.

Nel secondo caso le cose non furono altrettanto evidenti – i modelli neoclassici in verità non avevano molto da dire sull’inflazione. Ma la stagflazione fu prevista da Friedman e Phelps, utilizzando modelli che cercavano di derivare l’assestamento dei salari e dei prezzi dal comportamento sulla base di scelte razionali. Dunque, l’effetto dell’emergenza della stagflazione fu quello di dare un grande incoraggiamento alle “fondamenta microeconomiche” come strategia di definizione di modelli.

Ci fu una limitata reazione keynesiana, che Quiggin definisce il Vecchio Nuovo Keynesismo. Fondamentalmente, questo approccio cercò di ottenere la maggiore razionalità possibile nei modelli senza arrivare alla conclusione che le recessioni dal lato della domanda non possono aver luogo. Così, ottimizzazione intertemporale da parte dei consumatori, perfetta definizione dei prezzi da parte delle imprese, solo con l’avvertimento che per ragioni non specificate le imprese e/o i lavoratori dovevano definire i prezzi ben in anticipo, e che dunque sorprese nella domanda potevano tradursi in fluttuazioni reali.

Non ci furono mai convincenti esempi empirici per questo approccio. Tuttavia, penso per un paio di ragioni, esso divenne dominante. La prima, esso scimmiottava lo stile dei soggetti neoclassici, creando l’illusione di una convergenza intellettuale. La seconda, era matematicamente abbastanza difficile  convincersi che si stava facendo un vero e proprio lavoro teoretico, piuttosto che un prender nota di argomenti in qualche modo ad hoc – e, forse più importante ancora, era abbastanza difficile convincere coloro che giudicavano che si trattasse di una cosa seria. Infine, una considerazione più positiva. I modelli del genere neo keynesiano vi costringevano per davvero, e in certe circostanze ancora vi costringono, a pensare con più impegno su tematiche che accrescono la vostra facoltà di comprendere, anche se effettivamente non credete ad essi; questa è stata certamente la mia esperienza, e quella è la ragione per la quale io normalmente cerco di esprimere in modelli i temi macroeconomici in entrambi i modi (keynesismo vecchio e nuovo), proprio per essere sicuro di non perdere qualcosa.

Così ai nostri giorni arriva la Depressione Minore – e si scopre che i modelli neo keynesiani sono stati di poca utilità, mentre gli approcci del vecchio keynesismo (talvolta con una verifica di coerenza,   utilizzando la modellistica neo keynesiana) sono stati incredibilmente utili. Il risultato è stata l’ascesa di quello che Quiggin chiama, prendendo a prestito una espressione di Tyler Cowen,  l’economia del  Nuovo Vecchio Keynesismo. Io preferivo il mio termine Neo-Paleo keynesismo, ma tant’è.

Quiggin dice che sarei io il leader di questo movimento; attenzione, posso accettarlo, ma di recente Larry Summers mi  dà molto filo da torcere [2].

Ma questo metterà fuori scena il lavoro accademico? No. In parte a causa della politica: come Quiggin dice, l’economia neo classica è effettivamente una componente del più ampio apparato del ‘negazionismo’ della destra, nel quale i fatti imbarazzanti raramente riescono a penetrare. Ma c’è anche una dinamica professionale che va avanti.

Vedete, sia la rivoluzione keynesiana che la controrivoluzione neo classica ebbero una grande virtù per gli accademici ambiziosi: riguardavano sia le nuove idee che un uso della matematica più sofisticato di quello dei loro predecessori (spesso lo si dimentica, ma l’economia keynesiana e la rivoluzione nella modellistica di Samuelson procedettero mano nella mano). L’economia del Nuovo Vecchio Keynesismo, d’altra parte, consiste nel distogliere lo sguardo dalla matematica complessa per tornare a concetti ruvidi e di uso immediato basati sulla osservazione empirica. Gli economisti ambiziosi e di buone speranze possono essere capaci di pubblicare studi empirici su questo filone, ma le analisi teoretiche è probabile siano accolte con risatine e sussurri [3]. Il fatto che alcune cose funzionino non significa che saranno pubblicabili.

Penso dunque che il futuro ci riserverà un lungo assedio, nel quale l’economia che funziona resterà virtualmente assente dalla riviste economiche (ad eccezione di riviste che si occupano di politica come Brookings Papers[4] ) ed ampiamente trascurata nei programmi universitari.

Spero di aver torto.



[1] Il prossimo annunciato discorso di Obama, che Krugman ha commentato ex ante nel New York Times di questi giorni.

[2] Letteralmente “to give you run for your money” significa “farti correre per (meritare) il tuo denaro” …

[3] E’ l’espressione che un economista neo classico, Robert Lucas, utilizzò con compiacimento per definire il modo in cui, nei decenni passati, si accoglievano i riferimenti a Keynes nel corso di convegni accademici. Krugman fece un riferimento a questo in un post del giugno del 2011.

[4] E’ una rivista di economia che ha iniziato le pubblicazioni nel 1970. La sua caratteristica è quella di offrire riflessione e ricerche attinenti alla teoria macroeconomica, in riferimento costante agli eventi economici principali contemporanei.

L’eutanasia del rentier (blog di Paul Krugman, 22 gennaio 2014)

gennaio 22, 2014

 

Jan 22, 5:53 pm

The Euthanasia of the Rentier

A commenter quotes John Maynard Keynes:

The outstanding faults of the economic society in which we live are its failure to provide for full employment and its arbitrary and inequitable distribution of wealth and incomes.

It is, of course, a perfect quote for our times, too. It comes from the last chapter of the General Theory — a chapter that definitely bears rereading in the light of current debates.

For what Keynes describes in this chapter is, pretty much, a condition of secular stagnation — of persistently low returns on investment, in which there is a chronic oversupply of saving. He believed, in 1936, that this would be the state of affairs in the decades ahead, and was of course wrong in that belief. But he wasn’t wrong about the possibility of such a state of affairs, and since Larry Summers came out as a secular stagnationist, the view that we may well be there now has gone mainstream.

What struck me, looking at what Keynes wrote, were his remarks on interest rates and the return to capital: low rates of interest, he suggested,

would mean the euthanasia of the rentier, and, consequently, the euthanasia of the cumulative oppressive power of the capitalist to exploit the scarcity-value of capital.

Actually, for now at least profits remain high — but bond yields are very low.

What Keynes didn’t say, but now seems obvious, is that the rentiers are unlikely to accept their euthanasia gracefully. And therein, I’d argue, lies the ultimate explanation of the persistent clamor for monetary tightening despite weak economies and low inflation. I’ve described on a number of occasions how tight-money advocates are constantly shifting their arguments — it’s about inflation; no, it’s about sound market functioning; no, it’s about financial stability — but always with the same bottom line: rates must rise now now now.

Well, what I think we’re hearing is the sound of rentiers and those who, explicitly or implicitly, work for them, demanding their natural right to earn good returns even if the resource they control isn’t actually scarce anymore. They are not willing to go gently into their euthanasia.

 

L’eutanasia del rentier

 

Un commentatore cita John Maynard Keynes:

“I rilevanti difetti della società economica nella quale viviamo sono la sua incapacità a fornire la piena occupazione e la sua distribuzione della ricchezza e dei redditi arbitraria ed iniqua.”

Si tratta, come è evidente, di una citazione perfetta anche per i nostri tempi. Proviene dall’ultimo capitolo della Teoria Generale – un capitolo che certamente conviene rileggere alla luce dei dibattiti attuali.

Perché quello che Keynes definisce in questo capitolo è, praticamente, una condizione della stagnazione secolare – dei rendimenti persistentemente bassi degli investimenti, a fronte dei quali c’è una cronica offerta eccessiva di risparmi. Egli riteneva, nel 1936, che questa sarebbe stata la condizione corrente nei decenni a venire, ed evidentemente in questo sbagliava. Ma non sbagliava sulla possibilità di una tale situazione, e dal momento che Larry Summers ha aderito alla tesi della stagnazione secolare, il punto di vista su cui possiamo ben convenire è diventato l’orientamento prevalente.

Quello che mi ha colpito, guardando quello che scrisse Keynes, sono le sue osservazioni sui tassi di interesse e sui rendimenti del capitale: i bassi tassi di interesse, suggeriva:

“significherebbero l’eutanasia del ‘rentier’ e, conseguentemente, l’eutanasia dell’aggiuntivo potere dispotico del capitalista di sfruttare il valore del capitale in termini di scarsità.”

In effetti, al momento almeno i profitti restano alti, ma i rendimenti dei bond sono molto bassi.

Quello che Keynes non diceva, ma che oggi sembra evidente, è che è improbabile che coloro che possiedono rendite finanziarie accettino la loro eutanasia senza batter ciglio. E in questo, direi, consiste in ultima analisi la spiegazione del perdurante clamore a favore di una restrizione monetaria nonostante le economie deboli e la bassa inflazione. Abbiamo illustrato in varie occasioni come i sostenitori del denaro a tasso elevato cambino in continuazione i loro argomenti – dipende dall’inflazione; no, dipende dal corretto funzionamento del mercato; no, dipende dalla stabilità finanziaria – ma sempre con la stessa morale della favola: i tassi devono crescere senza perdere un istante.

Ebbene, io penso che quello che stiamo udendo è il frastuono dei rentier e di coloro che, esplicitamente o implicitamente, lavorano per loro, che rivendicano il loro naturale diritto a guadagnare buoni rendimenti, anche se la risorsa che controllano in verità non è affatto scarsa, al giorno d’oggi. Non hanno nessuna voglia di accettare educatamente la loro eutanasia.

Il Washington Post si “de-Kleinizza” (21 gennaio 2014)

gennaio 21, 2014

 

Jan 21, 8:48 pm

The Washington Post is De-Kleining

Ezra Klein of Wonkblog is leaving the Washington Post. Not news, exactly — the impending move has been all over the blogs for a while. But now it’s official. And may I say respectfully to the Post: You idiots!

You see, Ezra and his team filled a huge gap. That gap exists throughout the news media, although the Times has, I believe, largely closed it in other ways. But it was especially severe at the Post.

Here’s the problem: When you’re covering policy, the usual tools of journalism — cultivating sources, pounding the pavement, pulling out the Rolodex — just won’t cut it. You have to have people who actually understand the policy issues — people who can pound a spreadsheet, or whose Rolodex includes academic experts as well as DC flacks.

Otherwise what you get at best is he-said-she-said reporting — what I mocked many years ago as responding to claims that the earth is flat with the headline “Views differ on shape of planet.” Or, even worse, you rely on people who seem like authority figures because of their style or their official position, but are in reality just guys with an agenda, and often completely untrustworthy.

The Post — I really don’t think I’m being unfair here — has been particularly guilty of the latter sin. Colin Powell says Iraq is building WMD — well, that settles it, doesn’t it? The Committee for a Responsible Federal Budget says we have a fiscal crisis — well, they’re the authorities, aren’t they?

What Ezra and company brought was a combination of sophistication about policy issues and skepticism toward the Very Serious People. Ezra and Sarah Kliff really understood health policy, and knew that if you needed to know more, you called Gruber or Cutler, not Senator Bomfog. Others on the team actually understood macroeconomic policy, and knew that you shouldn’t treat the hacks at Heritage as if they were symmetrical with, say, the careful wonks at the Center on Budget and Policy Priorities.

Wonkblog has generally come off as liberal-leaning, but that’s just because the facts have a well-known liberal bias.

I have to say, I wonder — based on nothing at all — whether there wasn’t some hostility to Wonkblog among older-line journalists at the Post. Just a feeling, based on extrapolation from some other cases I know about.

Anyway, I wish Ezra best of luck in his new venture. And let’s hope that the Post understands what it has lost, and needs to replace as best it can.

 

Il Washington Post si “de-Kleinizza”

 

Ezra Klein di Wonkblog sta lasciando il Washington Post [1]. Non è esattamente una notizia – che lo spostamento fosse incombente è stato per un po’ su tutti i blog. Ma ora è ufficiale. Ed io posso rispettosamente dire al Post: siete degli idioti!

Vedete, Ezra e la sua squadra riempivano un gran buco. Questo buco esiste in tutti i giornali di informazione, sebbene il Times, io credo,l’abbia ampiamente chiuso in altri modi. Ma esso era particolarmente grave al Post.

Il problema è il seguente: quando vi occupate di politica, gli strumenti normali del giornalismo – coltivare le proprie fonti, battere ogni pista, tirar fuori il Rolodex [2] – proprio non sono adatti. Dovete avere persone che davvero comprendano i contenuti della politica – persone che possano lavorare su un foglio elettronico, o i cui Rolodex contengano esperti universitari e non solo portavoce della Capitale.

Altrimenti, quello che potete avere è un giornalismo del genere “lui ha detto/lei ha detto” [3] – quello che molti anni fa prendevo in giro come se si rispondesse alla pretesa che la Terra sia piatta con un titolo di giornale del genere “Punti di vista diversi sulla forma del pianeta”. Oppure, anche peggio, basandosi su persone che sembrano individui autorevoli a causa del loro stile di vita o della loro posizione ufficiale, ma in realtà sono soltanto individui con i loro programmi, e spesso completamente inaffidabili

Il Post – e penso di non essere ingiusto nel dirlo – in particolare ha commesso peccati del secondo genere. Colin Powell dice che l’Iraq sta costruendo armi di distruzione di massa – bene, a posto così, non è vero? La Commissione per un Bilancio Federale Responsabile dice che abbiamo una crisi della finanza pubblica – ebbene, le autorità sono loro, non è così?

Quello che Ezra e compagni avevano portato era stata una combinazione di raffinatezza sui contenuti della politica e di scetticismo nei confronti delle Persone Molto Serie. Ezra e Sarah Kliff capivano per davvero la politica sanitaria e sapevano che se avevate bisogno di saperne di più, dovevate chiamare Gruber o Cutler, non il Senatore Bomfog [4]. Nel suo gruppo, altri in effetti si intendevano di politica macroeconomica, e sapevano che non potevate trattare i ‘falchi’ dell’Heritage [5] come se fossero simmetrici, diciamo, con gli scrupolosi esperti del Centro per il Bilancio e le Priorità Politiche.

Wonkblog, in generale, è apparso avere una tendenza liberal, ma questo è dipeso soltanto dal fatto che gli eventi hanno una ben nota inclinazione progressista.

Devo dire, mi chiedo – basandomi su niente di preciso – se ci fosse una qualche ostilità verso Wonkblog tra gli altri giornalisti di più vecchia data al Post. Solo una sensazione, basata su una estrapolazione da qualche altro caso che conosco.

In ogni modo, auguro tanta fortuna a Ezra nella sua nuova impresa. E speriamo che il Post capisca cosa ha perso, e senta il bisogno di rimpiazzarlo come meglio può.



[1] Come è noto, Ezra Klen in questi anni è stato un interlocutore costante dei posts di Krugman. Eccolo:

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[2] Il Rolodex è questo, e pare venga o venisse usato per archiviare informazioni, come uno schedario:

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[3] Intende dire un giornalismo che resoconta dando informazioni dei commenti di vari esponenti politici, senza mai correre il rischio di capire e di approfondire.

[4] Il Senatore BOMFOG significa un uomo politico che ripete frasi trite, dette e ridette. L’origine della espressione è questa: BOMFOG è l’acronimo della frase “the brotherhood of man, under the fatherhood of God” (che significa “spirito fraterno dell’uomo, avendo Dio come Padre”). Era un espressione che il Governatore di New York Nelson Rockfeller usava infilare in tutti i suoi discorsi, al punto tale che i giornalisti avevano preso a riferirla con l’acronimo. Dopodiché è diventata sinonimo di un “Quaquaraquà”, come più o meno diremmo noi, ovvero di qualcuno che chiacchiera a vuoto, anche se nel gergo mafioso ha il significato più specifico di “delatore”.

[5] Fondazione della destra americana.

Far andare le economie sulla sabbia (21 gennaio 2014)

gennaio 21, 2014

 

Jan 21, 12:17 pm

Running Economies Into the Sand

Hmm. Allies of the Cameron government are now taunting Hollande as having run the French economy “into the sand” — presumably by contrast with the British triumph. How does that look in terms of, you know, actual numbers?

Here’s French and British real GDP since the beginning of the crisis:

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Eurostat

Neither economy has covered itself with glory, but this sure doesn’t look like a British triumph.

OK, but maybe we should only look at developments since the coalition took power. That’s actually a bad idea — economies do tend to rebound from deep slumps, so you would expect faster growth since the trough in Britain, which had the deeper slump. Still, for what it’s worth:

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Eurostat

British performance was clearly worse than French until the last couple of quarters, when it pulled slightly ahead. Again, hardly the kind of thing that would justify the boasting.

It really is amazing to watch a so far brief and not all that impressive cyclical upswing get sold as a gigantic policy triumph. But I guess that’s politics.

 

Far andare le economie sulla sabbia

 

Mmmh. Adesso coloro che sono vicini al Governo Cameron stanno deridendo Hollande per aver portato l’economia francese “sulla sabbia” – si presume in contrasto col trionfo inglese. Come sempre in questi casi, cosa risulta dai dati effettivi?

Ecco i PIL reali francese ed inglese dall’inizio della crisi:

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Eurostat

 

Nessuna delle due economie ha brillato in modo particolare, ma questo di sicuro non sembra un trionfo britannico.

Va bene, forse dovremmo solo guardare agli sviluppi dal momento in cui la coalizione è entrata in funzione. Per la verità è una cattiva idea – le economie tendono a rimbalzare dalle crisi profonde, quindi vi aspettereste una crescita più rapida considerato il punto basso del Regno Unito, che ha avuto la recessione più profonda. Eppure, per quello che vale:

zz 83

 

 

 

 

 

 

 

 

Eurostat

 

La prestazione inglese è stata chiaramente peggiore di quella francese sino agli ultimi due trimestri, quando si è portata leggermente in avanti. Ancora, non proprio il tipo di cose che possono giustificare un gran vanto.

E’ davvero sorprendente osservare come un così breve e niente affatto impressionante oscillazione ciclica verso l’alto sia rivenduta come un gigantesco trionfo politico. Ma suppongo che sia la politica.

A proposito di Kim Guadagno (20 gennaio 2014)

gennaio 20, 2014

 

Jan 20, 11:41 am

In the Matter of Kim Guadagno

One of the interesting and bittersweet aspects of the burgeoning Bridgegate-plus scandal in New Jersey has been the centrality of local newspapers. The original story wasn’t broken by the crack investigative reporters at the New York Times, or the fake-scandal-chasers at 60 Minutes. It was broken by the transportation reporter of the Bergen Record.

What makes this bittersweet is that local news is in decline, savaged by the decline in classified ads and other key sources of revenue.

So I thought I might do a public service by drawing attention to another super-local report that I suspect hasn’t gotten on the radar of many big-paper reporters. I mean, unless you live right here, who reads US1, a weekly that mainly covers sports, movies, and restaurants in the Princeton area? But the current issue has an account of one person’s interactions with Kim Guadagno, the lieutenant governor now accused of threatening storm-wracked Hoboken — and it fits the narrative perfectly.

Maybe this account is all wrong. But if it isn’t, you have to wonder how many other similar stories of vindictiveness — enough to make the Hoboken accusations completely plausible — are out there, waiting for reporters to find them.

 

A proposito di  Kim Guadagno

 

Uno degli aspetti interessanti  ed agrodolci del montante scandalo del Bridgegate-ed-oltre nel New Jersey è stata la centralità dei giornali locali. Alle origini la storia non è scoppiata per i cronisti che investigano sui grossi scandali [1] al New York Times, oppure per coloro che inseguono falsi scandali a “60 Minutes” [2]. E’ scoppiato per il cronista di trasporti del Bergen Record [3].

Quello che rende la circostanza agrodolce è il fatto che i notiziari locali sono in declino, assaliti dal declino delle inserzioni pubblicitarie e di altre risorse fondamentali per le entrate.

Così ho pensato che avrei dovuto rendere un pubblico servizio attirando l’attenzione su un altro resoconto che sospetto non sia finito sui radar di molti giornalisti di grandi organi di informazione. Voglio dire, a meno che non viviate proprio lì, chi legge “US1”, un settimanale che principalmente si occupa di sport, di film e di ristoranti nell’area di Princeton? Ma l’edizione odierna ha un resoconto sui rapporti di un individuo con Kim Guadagno, la vicegovernatrice adesso accusata di aver minacciato la cittadina di Hoboken colpita dalla tempesta [4] – ed esso si attaglia perfettamente alla natura della storia in questione.

Forse questo resoconto è tutto sbagliato. Ma se non lo fosse, dovete chiedervi quanti altri simili racconti di spirito vendicativo – sufficienti a rendere le accuse della cittadina di Hoboken del tutto plausibili – ci siano in giro, in attesa di giornalisti che li scoprano.



[1] Che “crack” abbia nel contesto questo significato non ne sono certo.

[2] 60 Minutes è un programma televisivo statunitense di attualità, in onda sul network televisiva CBS.

[3] North Bergen è una cittadina della Contea di Hudson, nel New Jersey.

[4] Se ho compreso, la Vice Governatrice Kim Guadagno sarebbe oggi denunciata per aver minacciato un Sindaco di togliere alla cittadina di Hoboken gli aiuti per i danni provocati dal disastroso evento atmosferico “Sandy”, se non avesse dato il proprio consenso ad alcune speculazioni immobiliari. La stessa Guadagno, nella ricostruzione dell’articolo apparso sul settimanale locale, si sarebbe resa responsabile di un altro episodio di intimidazione nei confronti di un professionista. Ed ecco la signora Kim Guadagno, vice del Governatore repubblicano Chris Christie, possibile candidato repubblicano alle prossime presidenziali americane:

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Oggettivamente a favore della disoccupazione (20 gennaio 2014)

gennaio 20, 2014

 

Jan 20, 11:15 am

Objectively Pro-Unemployment

Jonathan Chait makes a good point about the deficit scolds: whatever they may say, they have in practice played a key role in promoting short-run fiscal austerity and therefore in keeping unemployment high.

That’s not what they say, of course. Talk to almost any tentacle of the Peterson octopus, and he or she will say “Of course I’m against spending cuts in a depressed economy — in fact, I’m for more stimulus.” But this will be followed by a declaration that such stimulus must be accompanied by an agreement on long-term deficit reduction. Confidence, don’t you know. See, for example, Robert Rubin’s latest.

And the point is that given America’s current political situation, long-run deficit reduction is simply not on the table except to the extent that it takes place by controlling health costs (which actually is going pretty well.) Democrats are willing to cut a deal, trading spending cuts for tax hikes, but Republicans insist on cuts only, and in fact want more tax cuts. So no deal — and no relief from austerity.

Even the scolds have to realize this, so their anti-austerity rhetoric is empty. Objectively — and I think knowingly — they are on the side of higher unemployment.

 

Oggettivamente a favore della disoccupazione

 

Jonathan Chait avanza un buon argomento sulle Cassandre del deficit: qualsiasi cosa possano dire, hanno in pratica giocato un ruolo chiave nel promuovere l’austerità della finanza pubblica nel breve termine, e di conseguenza nel tenere alta la disoccupazione.

Non è questo quello che loro dicono, naturalmente. Parlate quasi con ogni tentacolo della piovra di Peterson e vi dirà “Naturalmente io sono contro i tagli alla spesa in un’economia depressa – in sostanza, io sono a favore di misure di sostegno all’economia”. Ma questo sarà seguito da una dichiarazione per la quale tali misure di sostegno dovranno essere accompagnate da un accordo su una riduzione del deficit nel lungo periodo. Da ultimo, si veda ad esempio Robert Rubin.

Ed il punto è che, data la attuale situazione politica in America, una riduzione del deficit sul lungo periodo semplicemente non è sul tavolo, se non nella forma di un controllo dei costi sanitari (che per la verità sta andando piuttosto bene). I Democratici vogliono fare un accordo, tagliare le spese di rappresentanza al posto di aumenti delle tasse, ma i repubblicani insistono solo sui tagli, e di fatto vogliono maggiori sgravi fiscali.  Dunque, nessun accordo – e nessuna attenuazione dell’austerità.

Anche le Cassandre del deficit lo devono capire, e per questo la loro retorica contro l’austerità è vuota. Obiettivamente – e penso comprensibilmente – sono dalla parte di una disoccupazione maggiore.

Il Pirata Roberts Patacca (19 gennaio 2014)

gennaio 19, 2014

 

Jan 19, 2:13 pm

Derp Pirate Roberts

We finally saw American Hustle last night; it was a lot of fun, although heavy-handed in parts (I would have lost the microwave scene). But if this story on the arrest of the man accused of being Dread Pirate Roberts is any indication, being in the FBI these days is a lot more fun (unless you’re really into Amy Adams’s cleavage, which I can understand) than it was in the Abscam days.

I mean, there’s the hired killing contracted with a guy who was actually working for the FBI, and the fake video supposedly demonstrating that the deed had been done:

Dread Pirate Roberts agreed to the price but wanted “proof of death,” asking nob to instruct the killers to send a video, “and if they can’t do that, then pictures” of the deceased.

Only the broad outlines are known of what must have been a highly cinematic dumb show of violence. What is clear from the criminal complaint is that by Feb. 21, nob sent photos of Mr. Green doing a fine impression of a corpse. Mr. Green had “died of asphyxiation/heart rupture” while being tortured, nob explained. Dread Pirate Roberts replied that he found the images disturbing, but that he did not have any other choice.

“I just wish more people had some integrity,” D.P.R. wrote.

Whee!

What you also get from the report is just how connected all this stuff is with libertarian derp:

By the time Mr. Ulbricht left Penn State, his views had taken on a vehemently anti-tax tone. A friend in Austin said Mr. Ulbricht’s politics at the time were more “hard core” than his own.

“I’d say ‘Less government but we need the government to build roads,’ ” this friend said. “But for him, even when it came to building roads, he felt there ought to be a voluntary basis for that. The point for him wasn’t to abolish government. He just thought people should have the ability to opt out of paying taxes.”

Ross Ulbricht and Dread Pirate Roberts have other similarities, including a fondness for the Ludwig von Mises Institute, part of the Austrian School of Economics, which was celebrated by Mr. Ulbricht on his Google+ page and by D.P.R. in Silk Road pep talks.

This could be a coincidence. It could also be a coincidence that neither man nor pseudonym seemed motivated by greed. Mr. Ulbricht’s lifestyle was one notch above that of urban couch surfer. And the primary goal that D.P.R. professed was to unshackle humanity from what he regarded as economic tyranny. If a handful of miscreants — and yes, a few of their unfortunate roommates — were killed along the way, that is a shame. But Silk Road was like a tunnel under the gulag, and D.P.R. was digging for the sake of humanity.

Amazing stuff. Who will play DPR in the movie?

 

Il Pirata Roberts Patacca [1]

 

Abbiamo finalmente visto American Hustle la sera scorsa [2]: è stato molto divertente, in qualche parte un po’ opprimente (avrei fatto a meno della scena del forno a microonde). Ma, se la storia dell’arresto dell’uomo accusato di essere Dread Pirate Roberts ha fondamento, essere nella FBI di questi tempi è molto più divertente (a meno che non siate proprio sul solco di Amy Adams [3], cosa che potrei capire) di quanto fosse ai tempi dell’operazione Abscam.

Voglio dire, c’è la assunzione a contratto di un sicario che in realtà stava lavorando per la FBI ed il falso video che doveva dimostrare che l’atto era stato compiuto:

“Dread Pirate Roberts si accordava su un prezzo ma voleva la “prova della morte”, chiedendo al soggetto di istruire gli assassini di spedire un video sui defunti, “e se non possono farlo, allora foto”.

Sono noti soltanto i contorni più generali di quello che deve essere stato un muto spettacolo di violenza altamente cinematografico. Quello che è chiaro, da una lamentela del criminale, è che il 21 febbraio il signore in questione ha inviato le foto del Signor Green con una bella rappresentazione del cadavere. Il signor Green era “morto per asfissia/collasso cardiaco” nel mentre veniva torturato, spiegava il personaggio.  Dread Pirate Roberts ammetteva di aver trovato le immagini scioccanti, ma di non aver avuto altra scelta.

“Desidero soltanto che un numero maggiore di persone abbiano una qualche affidabilità”, aveva scritto Dread Pirate Roberts.

Allegria!

Quello che anche si capisce dal resoconto, è come tutta questa roba sia proprio collegata con il pensiero ‘libertariano’ [4] del Pirata-patacca:

“Al tempo in cui il signor Ulbricht lasciò l’Università Statale della Pennsylvania, i suoi punti di vista avevano assunto veementi toni anti fisco. Un suo amico ad Austin disse che la politica del signor Ulbricht a quell’epoca era più “estremista” della sua.

‘Io direi che abbiamo bisogno di meno Governo, ma che il Governo deve costruire le strade’, riferì questo amico. ‘Ma per lui, anche nel caso di costruire le strade, sentiva che doveva essere fatto su basi volontarie. Per lui il punto non era abolire il Governo. Pensava soltanto che le persone avrebbero dovuto esser capaci di tirarsi fuori dal pagare le tasse.’

….

Ross Ulbricht e Dread Pirate Roberts hanno altri punti di contatto, come la passione per il ‘Ludwig von Mises Institute’, un settore della Scuola di Economia di orientamento ‘austriaco’, che veniva elogiata dal signor Ulbricht nella sua pagina Google e dal Pirata nei suoi vivaci colloqui su Silk Road.

Questa potrebbe essere una coincidenza. Potrebbe anche essere una coincidenza che né l’individuo né il personaggio con lo pseudonimo sembravano motivati da avidità. Lo stile di vita del signor Ulbricht era di un gradino superiore di persone che vivono alla giornata [5].E l’obbiettivo primario che il Pirata professava era quello di liberare l’umanità da quella che considerava una tirannia economica. E’ un peccato che una manciata di furfanti – e magari alcuni loro sfortunati compagni di stanza – venissero assassinati nel percorso. Ma Silk Road era come un tunnel sotto il gulag, e lo Spaventoso Pirata Roberts scavava nell’interesse dell’umanità.”

Cose interessanti. A chi toccherà la parte dello Spaventoso Pirata Roberts nel film?



[1] Anzitutto una avvertenza: questo post potrebbe sembrare una stranezza, se non si ha un po’ di pazienza nel comprenderlo. Ma si badi che il tema è quello della cultura di persone in carne ed ossa che si ispirano alla destra americana, che gestiscono il più grosso commercio per via informatica di sostanze stupefacenti, che usano il crimine nel regolare le vicende di quel commercio e che hanno come moneta il Bitcoin. Coincidenze e banalità del male.

 

E veniamo alla traduzione avventurosa, che necessita di varie informazioni supplementari. Andiamo con ordine: “Dread Pirate Roberts” significa “Lo spaventoso Pirata Roberts” ed è un titolo di un racconto e di un film. Lo stesso nome veniva attribuito all’ignoto proprietario di un sito – “Silk Road” (“La strada della seta”) – che era il sito underground nel quale si commerciava ogni genere di droga. Il sito ed il proprietario avevano fama di inaccessibilità – utilizzando meccanismi informatici oscurissimi, a loro volta chiamati “il sistema Tor”. Particolare interessante: i commerci avvenivano attraverso il Bitcoin.

Ora la FBI ha trovato il Pirata e scoperto i segreti del sito, a seguito di un banalissimo arresto in una libreria nella quale il personaggio stava gestendo i suoi affari con un lap top sulle ginocchia in un retrolocale. Sembra che avesse commesso errori inqualificabili per un hacker, come aver usato in qualche caso il proprio nome e cognome, ovvero Ross Ulbricht. La stupidità degli errori fa ‘storpiare’ a Krugman il nome di battaglia del Pirata, sostituendo  “dread” (“Spaventoso”) con “derp”, che è una espressione che deriva dalla serie ‘South Park’ ed indica il nome di un soggetto  abbastanza stupido. Se avete ancora curiosità, eccoli in sequenza entrambi, il signor Ulbricht  e Mr Derp:

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[2] American Hustle – L’apparenza inganna (American Hustle) è un film del 2013 diretto da David O. Russell. Il film è incentrato su eventi reali e racconta l’operazione Abscam, creata dall’F.B.I. verso la fine degli anni settanta per indagare sulla corruzione dilagante nel Congresso degli Stati Uniti d’America e in altre organizzazioni governative.

[3] Una famosa attrice, protagonista appunto del film American Hustle, ma finché non lo vedo non so cosa significhi essere sul “suo solco”.

[4] Ovvero, l’ideologia un po’ folle del capitalismo senza limiti.

[5] Pare che non esista un equivalente italiano di “couch surfing”, che equivale – quando si va all’estero – a trovarsi un letto come sistemazione provvisoria. In questo caso il “couch surfing” è urbano, e quindi mi pare sinonimo del passare da una sistemazione provvisoria all’altra.

Il mito del ricco meritevole (18 gennaio 2014, blog di Krugman)

gennaio 18, 2014

 

Jan 18, 12:11 pm

The Myth of the Deserving Rich

Many influential people have a hard time thinking straight about inequality. Partly, of course, this is because of Upton Sinclair’s dictum: it’s hard for a man to understand something when his salary depends on his not understanding it. Part of it is because even acknowledging that inequality is a real problem implicitly opens the door to taking progressive policies seriously.

But there’s also a factor that, while not entirely independent of the other two, is somewhat distinct; I think of it as the urge to sociologize.

I’ve written about that urge in the context of poverty: many pundits and politicians clearly want to believe that poverty is all about dysfunctional families and all that, a view that’s at least 30 years out of date, overtaken by the raw fact of stagnant or declining wages for the bottom third of workers.

There is also a counterpart on the upside of the income distribution: an obvious desire to believe that rising incomes at the top are kind of the obverse of the alleged social problems at the bottom. According to this view, the affluent are affluent because they have done the right things: they’ve gotten college educations, they’ve gotten and stayed married, avoiding illegitimate births, they have a good work ethic, etc.. And implied in all this is that wealth is the reward for virtue, which makes it hard to argue for redistribution.

The trouble with this picture is that it might work for people with incomes of $200,000 or $300,000 a year; it doesn’t work for the one percent, or the 0.1 percent. Yet the bulk of the rise in top income shares is in fact at the very top. Here’s the CBO:

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What’s a sociologizer to do? Well, what you see, over and over, is that they find ways to avoid talking about the one percent. They talk about the top quintile, or at most the top 5 percent; this lets them discuss rising incomes at the top as if we were talking about two married lawyers or doctors, not the CEOs and private equity managers who are actually driving the numbers. And this in turn lets them keep the focus on comfortable topics like family structure, and away from uncomfortable topics like runaway finance and the corruption of our politics by great wealth.

This is, by the way, why the Occupy slogan about the one percent is so brilliant. I would actually argue that the number should be even smaller. But one percent is an easy to remember number, and small enough to make it clear that we’re not talking about the upper middle class.

And that’s good. The myth of the deserving rich is, in its own way, as destructive as the myth of the undeserving poor.

 

Il mito del ricco meritevole

 

Molte persone influenti hanno qualche problema a ragionare di ineguaglianza correttamente. In parte, evidentemente, lo si spiega con la massima di Upton Sinclair: è difficile per chiunque capire una cosa quando il suo stipendio dipende dal non capirla. In parte perché anche l’ammettere che l’ineguaglianza sia un problema reale, è implicitamente uno spiraglio a prendere sul serio le proposte politiche progressiste.

Ma c’è anche un fattore che, se non è interamente indipendente dagli altri due, è in qualche nodo distinto; lo definirei il bisogno di sociologizzare.

Ho scritto a proposito di quel bisogno nel contesto del tema della povertà: molti commentatori ed uomini politici evidentemente vogliono credere che la povertà riguardi contesti familiari marginali e tutto quanto ne consegue, un punto di vista che è vecchio almeno di trent’anni, superato dal fatto nudo e crudo dei salari stagnanti o in calo per un terzo dei lavoratori che sono in fondo alla scala sociale.

C’è anche una simmetria sul lato alto della distribuzione del reddito: il desiderio evidente di credere che i redditi in crescita dei più ricchi siano in qualche modo l’altra faccia della medaglia di pretesi problemi sociali dei più poveri. Secondo questo punto di vista, i benestanti sono benestanti perché fanno le cose giuste; hanno avuto istruzione universitaria, si sono sposati e hanno mantenuto la loro famiglia, hanno evitato figli illegittimi, hanno un’etica del lavoro corretta, etc. E in tutto questo è implicito che la ricchezza sia un premio per la virtù, il che rende difficile avanzare argomenti per la redistribuzione del reddito.

Il guaio in questo quadro è che esso potrebbe avere un senso con persone da 200.000 o 300.000 dollari all’anno; non funziona per l’1 per cento, o per lo 0,1 per cento. Tuttavia  il grosso della crescita del reddito dei più ricchi di fatto è ai livelli più alti. Ecco cosa ci dice il Congressional Budget Office [1]:

 zz 75

 

 

 

 

 

 

Cosa debbono fare coloro che la buttano in sociologia? Ebbene, come potete vedere essi cercano in continuazione i modi per evitar di parlare dell’1 per cento. Parlano dell’ultimo quintile, o tutt’al più del 5 per cento dei più ricchi [2]; questo consente loro di riferirsi ai più ricchi come se stessero parlando di due avvocati o di due dottori sposati, non degli amministratori delegati o dei manager di società finanziarie che rilevano le imprese, che sono in effetti coloro che determinano i dati. E questo a sua volta consente loro di mantenere il dibattito su temi rassicuranti come la struttura della famiglia, e di escludere temi meno comodi come il sistema finanziario fuori controllo e la corruzione della nostra politica da parte del grande capitale.

Questa è, per inciso, la ragione per la quale lo slogan di Occupy sull’uno per cento è così geniale. In effetti, direi che il numero dovrebbe essere persino più piccolo. Ma l’1 per cento è un numero facile da ricordare, ed abbastanza piccino da rendere chiaro che non stiamo parlando della parte superiore della classe media.

Ed è giusto così. Il mito del ricco meritevole è, a modo suo, altrettanto devastante del mito della inadeguatezza dei  poveri.



[1] La tabella mostra, in relazione al periodo dal 1979 al 2007, nelle prime quattro posizioni i quintili “bottom”, cioè l’80 per cento dei redditi più bassi. Le ultime due posizioni sono invece, rispettivamente, relative ai diciannove percentili che individuano la parte più agiata della popolazione (dalla 81° alla 99° posizione) ed all’1 per cento dei ricchissimi.

[2] Un quintile è la quinta parte del totale della scala sociale, e dunque l’ultimo quintile dei redditi corrisponde al 20% più agiato della popolazione. Che è evidentemente un raggruppamento ancora più generico dell’ultimo cinque per cento più ricco della popolazione.

Perchè parliamo dell’1 per cento (17 gennaio 2014)

gennaio 17, 2014

 

Jan 17, 9:54 am

Why We Talk About the One Percent

Many people in Washington, even those willing to concede that inequality has been rising rapidly, are uncomfortable talking about the famous 1 percent — perhaps because it sounds too populist, too much like an invitation to crowds with pitchforks. For a long time respectable discussion focused on the top 20 percent; today I see my colleague David Brooks talking about the top 5 percent.

But framing the discussion in terms of some broader group is in this case deeply misleading. Here’s what the Piketty-Saez numbers tell us about the top 5 percent (incomes in 2012 dollars):

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Piketty and Saez

If you look at the bottom 4 percent of the top 5, you see good but not spectacular income gains. These are the kinds of gains that you might be able to explain in terms of skills, assortative mating, and so on. But the top 1 percent is in a different universe altogether. And in fact the gains within the top 1 percent are concentrated in an even smaller group: this is a Pareto distribution thing, in which the higher the income the greater the percentage gains.

The point is that using wider definitions than the one percent is, in effect, diluting the wolves of Wall Street by lumping them in with the upper middle class. Not the same story at all.

 

Perchè parliamo dell’1 per cento.

 

Molte persone nella Capitale, anche quelli che sono disposti ad ammettere che l’ineguaglianza è venuta crescendo rapidamente, trovano sgradevole parlare del famoso 1 per cento – forse perché suona troppo populista, troppo simile ad un incitamento alle folle a prendere i forconi. Per molto tempo il dibattito responsabile si concentrava sulla fascia del 20 per cento dei più ricchi; oggi vedo che il mio collega David Brooks parla della fascia del 5 per cento dei più ricchi.

Ma inquadrare il dibattito in riferimento a qualche gruppo più ampio è in questo caso profondamente fuorviante. Ecco quello che ci dicono i numeri di Picketty e Saez a proposito delle fasce del 5 per cento dei più ricchi:

zz 74

 

 

 

 

 

Picketty e Saez

Se guardate al 4 per cento più in basso del 5 per cento dei più ricchi, vedete guadagni nel reddito buoni ma non spettacolari. Questi sono i generi di guadagni che potreste esser capaci di spiegare in termini di competenze professionali, di accoppiamenti con persone della stessa estrazione [1], e così via. Ma la fascia dell’1 per cento è in un universo interamente diverso. E di fatto i guadagni della fascia dell’1 per cento sono concentrati in un gruppo persino più piccolo: questa è la faccenda della distribuzione di Pareto, secondo la quale più alto è il reddito più grande è la percentuale che aumenta.

Il punto è che utilizzando classificazioni più ampie dell’1 per cento, in effetti, è come diluire i lupi di Wall Street [2], raggruppandoli nella fascia superiore della classe media. E’ tutto un altro racconto.



[1] Questa espressione è davvero buffa; non si trova se non nel solito UrbanDictionary, che la definisce come “l’arte delle persone grasse di procreare con individui dalle medesime caratteristiche fisiche. Alla fine questo porta ad una popolazione che è grassa e responsabile”. Ho pensato che il riferimento poteva essere ampliato all’origine sociale, dato il contesto del ragionamento.

Ma sarebbe stato molto bello tradurre con il gaddiano “accoppiamenti giudiziosi” !

[2] Il titolo dell’ultimo film di Martin Scorsese è “Il lupo di Wall Street”.

Le crisi scintillanti (17 gennaio 2014)

gennaio 17, 2014

 

Jan 17, 9:04 am

The Glittering Crises

Many people have pointed out that the euro has ended up functioning a lot like the gold standard — and in so doing has replicated the “gold fetters” that many economic historians say played a big role in the propagation of the Great Depression.

Among other things, this whole discussion has ushered in, um, a golden age for economic history: I can’t think of a time when history has been as useful as a guide to current events (and current action, if only policymakers would listen) as it has since 2008.

And the historians still have more to teach us. Kevin O’Rourke goes back to the gold standard in its pre-1914 heyday, and points out that even under the favorable conditions of the day — relatively flexible wages and prices, a limited franchise so that the great unwashed couldn’t effectively complain — the system only worked even passably well during periods of inflation.

This is, as he says, all the more reason leaders in the euro zone should be deeply alarmed about the slide toward overall deflation.

 

Le crisi scintillanti

 

Molte persone hanno messo in evidenza che l’euro ha finito col funzionare in modo molto simile al gold standard – e così facendo ha replicato i cosiddetti “vincoli aurei” che molti storici dell’economia sostengono abbiano giocato un grande ruolo nella diffusione della Grande Depressione.

Tra le altre cose, questa intera discussione ha dato la stura, per così dire, ad una età aurea della storia dell’economia: non riesco a pensare ad un’epoca nella quale la storia è stata una guida così utile alla comprensione dei fatti attuali (ed anche alla iniziativa presente, se solo gli uomini politici volessero ascoltare) come a partire dal 2008.

E gli storici hanno ancora molto da insegnarci. Kevin O’Rourke ritorna al gold standard nel suo fulgore precedente al 1914, e mette in evidenza come persino nelle favorevoli condizioni dell’epoca – prezzi e salari relativamente flessibili, diritti di cittadinanza limitati in modo tale che le masse non potevano protestare efficacemente – il sistema funzionava persino passabilmente bene soltanto nei periodi di inflazione.

Questa, egli dice, è la ragione ancora più importante per la quale i dirigenti della zona euro dovrebbero essere profondamente allarmati per lo scivolamento verso una generale deflazione.

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