Jan 17, 8:54 am
Unemployment has fallen a lot recently, but for a peculiar reason: not so much rising employment as a falling share of the population actively looking for work. This has sparked a debate over how much of the decline in labor force participation reflects a weak job market — why bother looking? — and how much demography, changing culture, and all that. And it looks like one of those debates that will go on, unresolved, for a long time — certainly past the point where a decisive win for one side or the other can inform policy.
Luckily, Jan Hatzius of Goldman Sachs makes a very good point: the headline unemployment rate is only one of several measures (it’s actually U3), and given our uncertainty about what’s going on it makes sense to also look at broader measures, notably U6, which counts discouraged and marginally attached workers. Normally all of the Us move in tandem, but lately, not so much.
Here’s my version: a scatterplot of U6 versus U3 since the U6 numbers became available in 1994, with data points up to June 2009 — the start of the official recovery — in blue, those after in red. The black line shows the average relationship before the current recovery.
What you can see is that the two measures are telling different stories: U3 is considerably lower than you would have predicted using U6, and the labor market looks much worse using the broader measure.
My take on this is that at the very least you should look at both measures; it’s obvious from the figure that doing so would lead you to conclude that the economy still has a lot of slack, something confirmed by low inflation. This economy needs more, not less, stimulus.
La ragione per una migliore (misurazione della) Disoccupazione
Di recente la disoccupazione è molto calata, ma per una ragione peculiare: non tanto per una crescita dell’occupazione, quanto per una diminuzione della quota di popolazione che sta attivamente cercando lavoro. Questo ha scatenato il dibattito su quanto il declino della partecipazione alla forza lavoro rifletta un debole mercato del lavoro – perché disturbarsi a cercare? – e quanto dipenda dalla demografia, dal mutamento di cultura e da tutto il resto. E sembra uno di quei dibattiti che procederà a lungo, senza una soluzione – certamente oltre il punto in cui una vittoria dell’una o dell’altra parte potrebbe influenzare la politica.
Fortunatamente, Jan Hatzius avanza un ottimo argomento: il tasso complessivo di disoccupazione [1] è soltanto uno dei vari metri di misura (si tratta in effetti della cosiddetta U3), e data la nostra incertezza su cosa sta succedendo è sensato anche guardare ad altre misurazioni più generali, in particolare alla U6, che conteggia i lavoratori scoraggiati e marginalmente impegnati. Normalmente tutte le varie misure della disoccupazione si muovono in sincronia, ma di recente non molto.
Ecco la mia versione: un grafico a diffusione dello U6 a confronto con lo U3, dal momento in cui i dati sull’U6 sono diventati disponibili nel 1994, con i dati sino a giugno del 2009 – la partenza della ripresa ufficiale – che si evidenziano in blu, e gli altri successivi in rosso. La linea nera mostra la relazione media prima della ripresa attuale.
Quello che si vede è che le due misurazioni stanno raccontando storie diverse [2]: la U3 è considerevolmente più bassa di quello che si sarebbe previsto utilizzando la U6, ed il mercato del lavoro appare molto peggiore utilizzando la misurazione più generale.
La mia opinione su questo è che almeno si dovrebbe guardare ad entrambe le misurazioni; è evidente dalla figura che facendo così si sarebbe indotti a concludere che l’economia è ancora molto fiacca, circostanza confermata dalla inflazione bassa. Questa economia ha bisogno di maggiori, non di minori, misure di sostegno.
[1] Traduco “tasso di disoccupazione complessivo” per analogia a come trovo spesso tradotto in italiano “headline inflation” (in opposizione a “core inflation”, che è invece una misurazione “ridotta” dell’inflazione, o “sostanziale”, basandosi sui dati che escludono i generi che sul mercato hanno molta variabilità). Ma il senso di quel “complessivo”, mi pare e per essere precisi, non è quello di “totale”, bensì quello che deriva letteralmente dal suo significato comune di “titolo di giornale” (“linea di testa”), ovvero di “formulazione sintetica”, nel senso che un titolo normalmente sintetizza il contenuto più ampio di un articolo.
In ogni caso, vedi il Dizionario on-line di Cambridge, significa precisamente: “Il tasso di disoccupazione che è basato sul numero di persone che dicono di non avere un posto di lavoro e di stare cercando lavoro”.
[2] E’ doveroso tentare una interpretazione, se non altro per confessare la mia ignoranza. 1) In un grafico a dispersione, i dati singoli, rappresentati dai tondini, sono rilevazioni che si collocano senza una obbligata sequenza temporale, che può essere variabile. Però il fatto che i dati si addensino in zone particolari, mostra alla fine le diverse caratteristiche dei diversi periodi che si esaminano; 2) il periodo complessivo dovrebbe andare dal 1994 al 2013, ovvero riguardare 19 anni; 3) la collocazione delle singole rilevazioni mostra due valori, il valore ristretto – ovvero relativo ad una misurazione della disoccupazione ristretta, come per la U3 – che si legge in riferimento alla linea verticale (ordinata) e quello più largo – la U6, che si bada su una nozione più ampia di disoccupati – che si legge in relazione alla linea orizzontale (ascissa). Dunque, ogni periodo di rilevazione è rappresentato da un ‘tondino’ che si colloca nella figura esprimendo due valori, uno in relazione alla linea verticale ed uno in relazione a quella orizzontale; 4) I dati in blu sembrano tutti indicativi del periodo che va dal 1994 al 2009, mentre quelli in arancione mostrerebbero il periodo successivo; 5) Se questa interpretazione è giusta, il periodo 1994/2009 avrebbe mostrato una evoluzione della disoccupazione che quanto al valore U3 varia da un minimo di 4 ad un massimo tra il 6 ed il 7, e quanto a quella più ampia del valore U6 da un valore 7 ad un valore massimo di 11. Invece il periodo degli anni più recenti per la misurazione ristretta passerebbe da circa 7 a circa 10, per quella più ampia da un valore superiore vicino a 17 ad un valore inferiore vicino a 13.
Forse l’aspetto più significativo è che il ‘tondino’ che viene indicato come la rilevazione più recente esprimerebbe un valore di disoccupazione ristretta inferiore a 7 ed un valore di disoccupazione più larga superiore a 13, e la differenza è davvero notevole.
gennaio 16, 2014
Jan 16, 5:22 am
“You shall not crucify mankind upon a croissant d’or.” That was Alan Taylor’s response (in correspondence) to François Hollande’s embrace of Say’s law — he literally said that “supply actually creates demand” — together with a shift to, again in his own words, supply-side policies. Kevin O’Rourke also weighs in, as did Ambrose Evans-Pritchard . Mark Thoma is your go-to site for the rapidly growing avalanche of horrified snark.
The amazing thing to me, aside from Hollande’s haplessness, is the extreme pessimism that has evidently enveloped French elite opinion. You’d think that France was a disaster area. Yet the numbers, while not good, just aren’t that dramatic.
Start with growth since the crisis. How does France stack up in the European context? Not as good as Germany, obviously. But if you compare it with other European countries — even if you leave out the troubled debtors — it doesn’t stand out as a poor performer:
European Commission
What about declining competitiveness? It’s true that France has run consistent current account deficits in recent years, but they’re quite small:
International Monetary Fund
France’s fiscal outlook doesn’t look at all worrying, except to the extent that it has slashed its structural deficit too much in the face of economic weakness:
International Monetary Fund
Bond markets, which panicked during the worst of the euro crisis, don’t seem very worried at this point:
French-German yield differential
Now, French performance has definitely been weak in recent quarters. But why? Francesco Saraceno argues, using survey evidence, that it’s demand, not supply. Inflation data also support this view:
France, like much of Europe, seems to be flirting with deflation and very much at risk of a Japan scenario. Oh, and the IMF’s most recent Article IV consultation, while it tries to place some weight on “uncertainty” — zombies at the Fund! — still concludes that austerity policies are a large part of the story.
Again, things aren’t good. But you do have to wonder why the French elite is so easily intimidated into making a hard right turn while the elites of much worse cases like Finland and the Netherlands remain steadfast in their notion that the worse things get, the more committed they have to be to inflicting further pain.
La Francia dai numeri
“Non crocefiggerete il genere umano su un croissant d’oro!” [1]. Questa è stata la risposta di Alan Taylor (in corrispondenza) all’abbraccio da parte di François Hollande della Legge di Say (egli ha detto letteralmente che “ in verità l’offerta crea la domanda”) assieme ad uno spostamento, ancora con parole sue [2], verso politiche dal lato dell’offerta. Interviene su questo aspetto anche Kevin O’Rourke, come aveva fatto Ambrose Evans-Pritchard. Mark Thoma è il sito [3] da consultare per la valanga di scandalizzati sarcasmi.
La cosa per me sorprendente, a parte l’infortunio di Hollande, è l’estremo pessimismo che ha evidentemente coinvolto l’opinione dei gruppi dirigenti francesi. Sareste tentati di pensare che la Francia sia stata un paese disastrato. Eppure i dati, per quanto non buoni, non sono così drammatici.
Cominciamo con la crescita dal momento della crisi. Come si colloca la Francia nel contesto europeo? Non altrettanto bene della Germania, è evidente. Ma se la confrontate con gli altri paesi europei – persino se lasciate fuori i paesi debitori – la sua prestazione non spicca certo in termini negativi:
Commissione Europea
E cosa dire del declino della competitività? E’ vero che la Francia ha realizzato consistenti deficit di conto corrente negli anni recenti, ma si tratta di dati abbastanza modesti:
Fondo Monetario Internazionale
Le prospettive della finanza pubblica della Francia non sembrano così preoccupanti, ad eccezione del fatto che essa ha abbattuto troppo il suo deficit strutturale a fronte della debolezza dell’economia:
Fondo Monetario Internazionale
Il mercato dei bonds, che è entrato in panico nel momento peggiore della crisi dell’euro, non sembra a questo punto particolarmente preoccupante:
Differenziale franco-tedesco
Ora, nei trimestri recenti l’andamento della Francia è stato certamente debole. Ma perché? Francesco Saraceno sostiene, utilizzando i risultati di una indagine [4], che si tratta della domanda, non dell’offerta. Ed anche i dati sull’inflazione confortano questo punto di vista:
La Francia, come una buona parte dell’Europa, sembra stia flirtando con la deflazione e sembra molto a rischio di uno scenario giapponese. Infine, il più recente “Article IV Consultation” del Fondo monetario Internazionale, nel mentre cerca di dare qualche credito al tema dell’ “incertezza” – ci sono zombi anche al Fondo! – conclude tuttavia che le politiche dell’austerità sono una larga parte della spiegazione.
Ripetiamolo, le cose non vanno bene. Ma dovete chiedervi perché i gruppi dirigenti francesi siano con tanta facilità intimiditi a realizzare un duro spostamento a destra mentre i gruppi dirigenti di situazioni molto peggiori, come la Finlandia e l’Olanda, restano ben saldi nella loro idea per la quale più le cose peggiorano, maggiore impegno devono mettere nel provocare ulteriori sofferenze.
[1] La frase fu pronunciata da William Jennings Bryan nel 1896, durante la campagna elettorale nella quale egli rappresentava il Partito Democratico. Era l’epoca, tra l’altro, di un acuto scontro tra i sostenitori di una politica di ampliamento della base monetaria anche con il conio illimitato in argento, e coloro che volevano conservare il primato aureo. Gli ambienti rurali sostenevano la prima posizione, che divenne il cavallo di battaglia del neonato Partito Populista e che venne in seguito fatta propria anche dai Democratici. La frase pronunciata da Bryan era appunto rivolta ai Repubblicani, accusati di voler “crocifiggere” il popolo americana alla loro fissazione aurea. In realtà le elezioni furono vinte da William McKinley, il candidato repubblicano, il cui successo dipese fondamentalmente dal risultato degli Stati del Nord e dell’Est.
Alan Taylor, economista americano e docente alla Università della California – in quella che sembra essere una corrispondenza privata con Krugman, ironizza sulle recenti posizioni espresse da Hollande, trasformando la “croce” in un “croissant” aureo.
[2] Di Hollande.
[3] Il blog di Mark Thoma “Economist’s View” contiene un ampio resoconto delle varie posizioni espresse sul discorso di Hollande, che da noi hanno provocato dibattito soprattutto per la vicenda sentimentale.
[4] Saraceno, nel suo blog che titola “Sparse thoughts of a gloomy european economist” (“Pensieri sparsi di un economista europeo avvilito”) presenta e commenta questi risultati di una indagine condotta tre le imprese francesi, alle quali era stato chiesto quali principali motivi di difficoltà segnalassero (il dato in blu indica “difficoltà nella domanda”, quello in giallo “difficoltà nell’offerta”, quello in rosso “nessuna difficoltà”, quello in viola “difficoltà sia nella domanda che nell’offerta”):
gennaio 13, 2014
January 13, 2014, 9:56 am
Since I’m in Ireland, I should give a belated plug to the very good piece by Fintan O’Toole debunking talk about Irish recovery.
It’s kind of amazing, really. Here’s what Ireland’s recovery — both what has happened so far, and what’s likely over the next two years — looks like, according to the European Commission itself:
European Commission
It takes an almost heroic act of denial to look at this chart and see a success story, a vindication for austerity policies.
And for what it’s worth (which isn’t much), Dublin still looks like a depressed city, with a lot of vacant storefronts — although my impressions may be colored by what I know about the macro numbers. Also, hotel rooms are remarkably cheap — good for visitors, but a sign that business remains very slack.
It’s really quite awesome, then, how the slight uptick here and in a few other places is being greeted by the likes of Olli Rehn with victory dances.
Il successo, stile europeo
Da quando sono in Irlanda, non faccio altro che fornire una tardiva pubblicità all’ottimo articolo di Fintan O’Toole che demistifica tutte le chiacchiere sulla ripresa irlandese.
E’ una cosa davvero stupefacente. Ecco in cosa consiste la ripresa irlandese – sia per quello che è avvenuto sinora che per i prossimi due anni – secondo la stessa Commissione Europea:
Commissione Europea
Si richiede una disposizione quasi eroica al negazionismo per guardare questa tabella e trovarci una storia di successo, un risarcimento delle politiche di austerità.
E per quanto può valere (che non è molto), Dublino sembra ancora una città depressa, con una gran quantità di vetrine vuote – sebbene le mie impressioni possono essere condizionate da quello che so dei dati macroeconomici. Inoltre, le camere degli alberghi sono considerevolmente economiche – un bene per i visitatori, ma il segno che gli affari restano molto fiacchi.
E’ davvero abbastanza terribile, dunque, come il leggero incremento, qua e in altri posti, venga salutato da personaggi come Olli Wren con danze di vittoria.
gennaio 13, 2014
January 13, 2014, 5:18 am
The other day someone — I don’t remember who or where — asked an interesting question: when did it become so common to disparage anyone who hasn’t made it big, hasn’t gotten rich, as a “loser”? Well, that’s actually a question we can answer, using Google Ngrams, which track the frequency with which words or phrases are used in books:
Sure enough, the term “losers” has become much more common since the 1960s. And I think this word usage reflects something real — a growing contempt for the little people.
This contempt surely isn’t limited to Republican politicians. Still, it’s striking how unable they are to show any empathy for people who are just doing their best to make a modest living. The most famous example, of course, is Mitt Romney, who didn’t just disparage 47 percent of the nation; he urged everyone to borrow money from their parents and start a business. I still think the most revealing example to date was Eric Cantor, who marked Labor Day by tweeting:
Today, we celebrate those who have taken a risk, worked hard, built a business and earned their own success.
But Marco Rubio’s latest speech deserves at least honorable mention, for the airy way he dismissed the idea of raising the minimum wage: “Raising the minimum wage may poll well, but having a job that pays $10 an hour is not the American dream.”
In a sense, he’s right: if the American dream means getting rich, then $10 an hour isn’t living that dream. But most people aren’t and won’t get rich. Raising the minimum wage would mean higher incomes for around 27 million people; in many cases the gains would amount to thousands of dollars a year, which is really a lot in low-income families. So what are all these people, chopped liver? Well, yes, at least in the eyes of the GOP — or maybe make that chopped losers.
OK, I know what the answer will be: conservative policies will lead to economic growth, and that will raise all boats, the way it did in the days of Saint Ronald. Except, you know, it didn’t. Here’s the real wage of nonsupervisory workers:
Real wage of production and nonsupervisory workers
Even if you give Reagan credit for the 1982-9 business cycle expansion, which you shouldn’t, there’s no way to claim that his policies led to higher wages for ordinary workers.
So what is the GOP agenda to help people who aren’t going to build businesses and get rich? There isn’t one — partly because they really can’t reconcile any real agenda with their overall ideology, but also because, deep in their hearts, they consider ordinary people trying hard to get by a bunch of losers.
Siete tutti perdenti
L’altro giorno qualcuno – non ricordo chi né dove – pose una domanda interessante: quando ha cominciato a diventare comune denigrare come “perdente” chi non ha fatto grandi cose, chi non è diventato ricco? Ebbene, in effetti a questa domanda si può rispondere, utilizzando il programma Ngrams di Google, che traccia la frequenza con la quale le parole o le frasi sono utilizzate nei libri:
E’ sicuro che il termine “perdenti” è diventato molto più frequente a partire dagli anni ’60. E credo che l’uso della parola rifletta qualcosa di reale – un disprezzo crescente per la povera gente.
Questo disprezzo certamente non è limitato agli uomini politici repubblicani. Eppure, è sorprendente come essi siano incapaci di mostrare una qualche empatia per persone che stanno semplicemente facendo del loro meglio per condurre una vita modesta. L’esempio più famoso, naturalmente, è Mitt Romney, che non si limitò a denigrare il 47 per cento della nazione; voleva che tutti prendessero soldi a prestito dai genitori ed avviassero un’impresa. Penso ancora che l’esempio più rivelatore a cui risalire sia stato Eric Cantor, che scrisse questo tweet per definire il Giorno del Lavoro:
“Celebriamo oggi coloro che si sono assunti rischi, che hanno lavorato duramente, hanno costruito un’impresa ed hanno ricevuto profitti dal loro successo personale.”
Ma l’ultimo discorso di Marco Rubio merita almeno un premio di consolazione, per il modo borioso con il quale ha liquidato l’idea di aumentare i minimi salariali: “Aumentare i minimi salariali può godere di buoni sondaggi, ma avere un posto di lavoro da 10 dollari all’ora non è il sogno americano.”
In un certo senso ha ragione: se per sogno americano si intende diventare ricchi, allora dieci dollari all’ora non sono la realizzazione di quel sogno. Ma la maggior parte delle persone non sono ricche né lo diventeranno. Aumentare i minimi salariali significano redditi più elevati per circa 27 milioni di persone; in molti casi i guadagni ammonterebbero a migliaia di dollari all’anno, che sono realmente tanti in famiglie a bassi redditi. Chi sono tutte queste persone, figli di nessuno? Ebbene, sì, almeno agli occhi del Partito Repubblicano – o meglio sfigati figli di nessuno [1].
Va bene, so quale sarà la risposta: le politiche conservatrici porteranno alla crescita economica, e quella crescita sarà un bene per tutti [2], come fu ai tempi di San Ronaldo [3]. Sennonché, come sapete, non andò così. Ecco il salario reale dei lavoratori con funzioni non direzionali:
Salari reali dei lavoratori alla produzione e con funzioni non direzionali
Anche se volete assegnare a Reagan il merito del ciclo espansivo dal 1982 al 1989, cosa che non dovreste fare, non potete in alcun modo sostenere che le sue politiche abbiano portato salari più alti per i lavoratori comuni.
Qual è dunque il programma del Partito Repubblicano per aiutare la gente che non è destinata a metter su imprese e a diventare ricca? Nessuno – in parte perché essi non possono per davvero riconciliare alcun programma effettivo con la loro ideologia complessiva, ma anche perché, dal profondo dei loro cuori, sono convinti che le persone ordinarie difficilmente possono essere altro che una accozzaglia di perdenti.
[1] “Chopped liver” sarebbe uno “spezzatino di fegato”, ovvero un piatto di importanza molto secondaria, per gli americani che non conoscono il ‘fegato alla veneta’. In Italia si potrebbe tradurre in mille modi, uno per regione: genericamente, con “figlio della serva” o con “ultima ruota del carro”; nel nordest “fiò de la gesa” (figlio della Chiesa); in Veneto “figlio della lattaia”; in Toscana il più rude “figlio della maiala” o, in Versilia, “figliolo della schifosa” etc etc.
[2] Letteralmente: “alzerà tutte le barche”. Una espressione adoperata in una occasione, se non sbaglio, da Clinton, per significare che il benessere è come l’alta marea, che alza ogni barca.
[3] Ovviamente, Reagan.
gennaio 12, 2014
January 12, 2014, 2:13 pm
The Anti-Scientific Revolution in Macroeconomics
Well, now I’m in Dublin to receive the James Joyce Award; life is interesting, although it does tend to get in the way of blogging.
But I thought I could squeeze out a few minutes to talk about something I’ve been thinking about a lot lately: the remarkable extent to which powerful groups, including a fair number of economists, have rejected intellectual progress because it disturbs their ideological preconceptions.
What brings this to mind is the debate over extended unemployment benefits, which I think provides a teachable moment.
There’s a sort of standard view on this issue, based on more or less Keynesian models. According to this view, enhanced UI actually creates jobs when the economy is depressed. Why? Because the economy suffers from an inadequate overall level of demand, and unemployment benefits put money in the hands of people likely to spend it, increasing demand.
You could, I suppose, muster various arguments against this proposition, or at least the wisdom of increasing UI. You might, for example, be worried about budget deficits. I’d argue against such concerns, but it would at least be a more or less comprehensible conversation.
But if you follow right-wing talk — by which I mean not Rush Limbaugh but the Wall Street Journal and famous economists like Robert Barro — you see the notion that aid to the unemployed can create jobs dismissed as self-evidently absurd. You think that you can reduce unemployment by paying people not to work? Hahahaha!
Quite aside from the fact that this ridicule is dead wrong, and has had a malign effect on policy, think about what it represents: it amounts to casually trashing one of the most important discoveries economists have ever made, one of my profession’s main claims to be useful to humanity.
If you read Barro’s piece, what you see is a blithe dismissal of the whole notion that economies can ever suffer from am inadequate level of “aggregate demand” — the scare quotes are his, not mine, meant to suggest that this is a silly, bizarre notion, in conflict with “regular economics.”
You’d never know, either from the WSJ or from people like Barro, why anyone ever felt that regular economics — the economics of supply and demand and all that — was inadequate.
But you see, there are these things we call recessions. And if you believe regular economics is all there is, you should find them very upsetting.
Think, for example, about the Great Recession and its aftermath. Regular economics says that economies should normally get richer each year, as their work force and capital stock grow, and technology advances. But after 2007 the United States and other advanced countries suddenly went into reverse, becoming poorer instead of richer, and for an extended period too:
Real GDP per capita
So did plagues kill off part of the work force? Did termites eat part of the capital stock? Did technology retrogress? No, no. no. On the last point, has anyone noticed that the iPhone was introduced in 2007, and that the whole smartphone/tablet revolution has more or less coincided with a period of terrible economic performance?
So what did happen? Keynes offered an answer: it is, in fact, possible for economies to suffer from an overall lack of demand. Other people had said things along these lines, but Keynesian economics put it front and center.
This really was an intellectual revolution; indeed, while I’m generally against scientific pretensions, it amounted to a scientific revolution, something like plate tectonics in geology. Suddenly the seemingly inexplicable — what elevates mountain ranges? what explains periods of economic retrogression? — became comprehensible.
And yes, the theory has made successful predictions — surprising predictions that people who didn’t accept the theory regarded as absurd until they came true. I’ve written a lot about what happened (or actually didn’t happen) to inflation and interest rates; go back to 2009 and read what the usual suspects were saying. You claim that the Fed can print vast quantities of money without causing inflation? You claim that the government can run huge deficits without driving up interest rates? Hahahaha.
But even better, in a way, is the relationship between government spending and private spending. Demand-side economics says that under depression conditions government spending won’t compete with private spending — in fact, lower government spending will lead to lower private spending too. Hahahaha! After all, common sense says that the government and the private sector are in competition for scarce resources. Except if we look at the euro zone, where some countries were forced into severe austerity while others weren’t, we see this:
European Commission Percent changes in real government consumption and real private spending, 2009-2013
So let me summarize: we had a scientific revolution in economics, one that dramatically increased our comprehension of the world and also gave us crucial practical guidance about what to do in the face of depressions. The broad outlines of the theory devised during that revolution have held up extremely well in the face of experience, while those rejecting the theory because it doesn’t correspond to their notion of common sense have been wrong every step of the way.
Yet a large part of both the political establishment and the economics establishment rejects the whole thing out of hand, because they don’t like the conclusions.
Galileo wept.
La rivoluzione antiscientifica in macroeconomia
Bene, ora sono a Dublino a ricevere il Premio James Joice; la vita è interessante, anche se tende a mettersi di mezzo alla attività del blog.
Ma ho pensato che avrei potuto farmi pochi minuti di spazio per parlare di qualcosa a cui sto pensando molto nel periodo recente: il modo considerevole nel quale gruppi potenti, incluso un discreto numero di economisti, hanno messo da parte il progresso intellettuale, in quanto elemento di disturbo per i loro preconcetti ideologici.
La cosa che mi fa pensare a questo è il dibattito sulla proroga dei sussidi di disoccupazione, che costituisce, io penso, un passaggio istruttivo.
C’è una sorta di punto di vista tradizionale su questo tema, più o meno basato sui modelli keynesiani. Secondo questo punto di vista, aumentare l’assicurazione di disoccupazione [1] quando l’economia è depressa crea effettivamente posti di lavoro. Perché? Perché l’economia soffre di un livello generale della domanda inadeguato, ed i sussidi di disoccupazione mettono soldi nelle mani di persone che è probabile li spendano, incrementando la domanda.
Suppongo che si potrebbe mettere assieme vari argomenti contro questa proposizione, o almeno contro la saggezza di aumentare la assicurazione di disoccupazione. Si potrebbe, ad esempio, essere preoccupati per i deficit di bilancio. Potrei a mia volta obiettare a tali preoccupazioni, ma quello sarebbe almeno un dibattito più o meno comprensibile.
Ma se si seguono i discorsi della destra – per i quali non mi riferisco a Rush Limbaugh, ma al Wall Street Journal e ad un economista come Robert Barro – si constata che l’idea che l’aiuto ai disoccupati possa creare posti di lavoro è liquidata come assurda in se stessa. Pensate che si possa ridurre la disoccupazione pagando la gente per non lavorare? Risata fragorosa.
A parte il fatto che questa ironia è un errore fatale, ed ha un effetto malefico sulla politica, si pensi a cosa rappresenta: essa corrisponde a buttar via con noncuranza una delle più importanti scoperte che gli economisti abbiano mai fatto, uno dei principali argomenti della mia disciplina che sono utili all’umanità.
Se leggete il pezzo di Barro, quello che notate è una spensierata liquidazione dell’idea complessiva che le economie possano persino soffrire di un livello inadeguato di “domanda aggregata” – le spaventose virgolette sono sue, non mie, e intendono suggerire che questa sia un’idea sciocca, bizzarra, in conflitto con la “teoria economica regolare”.
Non capireste mai, né dal Wall Street Journal né da persone come Barro, perché qualcuno possa mai pensare che la teoria economica regolare – l’economia dell’offerta e della domanda e tutto il resto – fosse inadeguata.
Ma vedete, ci sono cose che chiamiamo recessioni. E se credete che la regolare teoria economica sia tutta lì, le dovreste trovare molto fastidiose.
Si pensi ad esempio alla Grande recessione ed alle sue conseguenze. Le teorie economiche regolari dicono che le economie dovrebbero normalmente diventare ogni anno più ricche, mentre la forza lavoro e le riserve di capitale crescono, e le tecnologie avanzano. Ma dopo il 2007 gli Stati Uniti e le altre economie avanzate improvvisamente hanno fatto l’opposto, diventando più povere invece che più ricche, ed anche per un periodo di tempo prolungato:
PIL reale procapite [2]
Dunque, le avversità sterminano una parte della forza lavoro? Le termiti si mangiano una parte delle riserve di capitale? No, no e no. Sull’ultimo punto, ha notato qualcuno che iPhone è stato introdotto nel 2007, e che l’intera rivoluzione degli smartphone e dei tablet ha più o meno coinciso con un periodo di prestazioni terribili dell’economia?
Che cosa è successo, dunque? Keynes fornì una risposta: è, nei fatti, possibile che le economie soffrano di una generale insufficienza della domanda. Altre persone hanno detto cose di questa natura, ma l’economia keynesiana la pone al centro come fondamentale.
Questa fu realmente una rivoluzione intellettuale; in effetti, mentre io sono generalmente contrario alla presunzione delle scienze, essa ebbe lo stesso effetto di una rivoluzione scientifica, qualcosa come la tettonica della placche nella geologia. All’improvviso quello che era apparentemente inspiegabile – che cosa alza i livelli delle montagne? Che cosa spiega le regressioni economiche? – diventa comprensibile.
Ed è vero che la teoria ha prodotto previsioni azzeccate – sorprendenti previsioni che le persone che non accettavano quella teoria consideravano assurde finché non si sono rivelate vere. Ho scritto molto a proposito di quello che è accaduto (o per la verità che non è accaduto) per l’inflazione ed i tassi di interesse; si torni al 2009 e si legga quello che stavano dicendo i soliti noti. Pretendete che la Fed possa stampare grandi quantità di denaro senza provocare inflazione? Pretendete che il Governo possa realizzare grandi deficit senza spingere in alto i tassi di interesse? Risate fragorose.
Ma in un certo senso, è andata persino meglio quanto alla relazione tra spesa pubblica e spesa privata. L’economia dal lato della domanda dice che in condizioni di depressione la spesa pubblica non sarà in competizione con la spesa privata – di fatto, una spesa pubblica più bassa porterà anche ad una spesa privata più bassa. Ancora risate fragorose. Dopo tutto il senso comune dice che il governo ed il settore privato sono in competizione per risorse scarse. Sennonché, se guardiamo all’eurozona nella quale alcuni paesi sono costretti ad una rigida austerità mentre altri non lo sono, osserviamo questo:
Commissione Europea. Mutamenti percentuali nei consumi pubblici reali e nella spesa privata reale, 2009- 2013[3]
Consentitemi di riassumere: abbiamo avuto una rivoluzione scientifica nella teoria economica, tale che è cresciuta in modo spettacolare la nostra comprensione del mondo e ci ha anche fornito una guida pratica cruciale su ciò che si deve fare di fronte alle depressioni. I contorni generali della teoria concepiti durante quella rivoluzione hanno retto in modo davvero soddisfacente a fronte della esperienza, mentre coloro che respingevano la teoria in quanto non corrispondente alla loro idea di senso comune hanno avuto torto in tutti i passaggi.
Tuttavia una larga parte sia del mondo politico che di quello economico respingono sommariamente l’intera faccenda, perché non gradiscono le conclusioni.
E a Galileo non resta che piangere.
[1] UI sta per Unemployment Insurance.
[2] Si noti che la tabella si riferisce agli andamenti negli Stati Uniti.
[3] La tabella mette a confronto i cambiamenti nella domanda privata (linea verticale) e quelli nella domanda aggregata (linea orizzontale). Sulla linea verticale i decrementi sono sulla parte bassa, su quella orizzontale sono a sinistra. Come si vede, Francia e Germania hanno avuto andamenti positivi in entrambi i casi, mentre Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo hanno visto peggiorare entrambi i dati.
gennaio 11, 2014
January 11, 2014, 9:33 am
North Carolina is an interesting place these days, and I mean that in the worst possible way. It’s a southern state, but one with a major technology complex, growing foreign investment, and what seemed until recently to be a moderating, increasingly sophisticated political culture. But then came the Republican wave of 2010, and NC was taken over by right-wing radicals, who have — among other things — taken the nation’s hardest line in cutting benefits to the unemployed.
So how’s it going? Not well. Others have taken this issue on before me, notably Evan Soltas here and here, but I wanted to put up my own version for future reference.
The idea behind cutting benefits is that we are “paying people to be unemployed”, and that tough love will force them to go out and create jobs. It’s never explained exactly how greater desperation on the part of the unemployed will, in fact, lead to higher overall employment. Still, you could imagine that an individual state might gain some competitive advantage against other states by cutting wages. What you actually see in North Carolina, however, is nothing — employment growth tracked the national average both before and after the benefit cuts:
The unemployment rate did fall — but this was due to a large drop in the labor force, as the number of people looking for work fell. Why?
Well, a likely explanation is that some of the unemployed continued to search for work, and were therefore counted in the labor force, despite low prospects of finding a job in a depressed economy, because such search is a requirement for those collecting benefits. Take away the benefits, and they drop out. Now, labor force participation has fallen nationally as well as in North Carolina, and the state’s labor force began dropping before the benefit cuts, so that the case for claiming that reduced benefits actually reduced job search isn’t ironclad. Still, it’s worth emphasizing just how extraordinary the changes have been. North Carolina’s labor force drop has been much larger than the national change:
And it has also been unprecedented in historical terms. There’s been nothing like the recent North Carolina decline — taking place at a time of modest recovery, not recession — in the state’s previous history:
Again, if there were anything to the theory that cutting unemployment benefits encourages job search and somehow translates into higher employment even in a slump, harsh policies should work better at the state than at the national level. But there is no sign at all that North Carolina’s harshness has done anything except make the lives of the unemployed even more miserable.
L’esperimento di Raleigh [1]
Il North Carolina è un posto interessante, di questi tempi, e intendo nel peggiore dei sensi possibile. E’ uno Stato del Sud, ma con un importante complesso tecnologico, crescenti investimenti stranieri e quella che sin di recente era sembrata essere una sempre più sofisticata cultura politica di moderazione. Ma poi è venuta l’ondata repubblicana del 2010 e il North Carolina è stato conquistato da estremisti di destra che, tra le altre cose, hanno assunto l’orientamento più duro di tutta la nazione in materia di taglio dei sussidi di disoccupazione.
Che cosa sta succedendo, dunque? Non belle cose. Altri si sono occupati di questo tema prima di me, in particolare Evan Soltas in queste due connessioni, ma mi è venuta voglia di dare a futura memoria anche la mia versione.
L’idea che sta dietro i tagli dei sussidi è che “stiamo pagando le persone per fare i disoccupati”, e che un po’ di durezza a fin di bene li costringerebbe ad uscire ed a creare posti di lavoro. Non viene mai spiegato in che senso esattamente una disperazione maggiore da parte dei disoccupati dovrebbe, in pratica, portare ad un maggiore occupazione complessiva. Eppure, si potrebbe immaginare che uno Stato singolo, tagliando i salari, potrebbe ottenere qualche vantaggio competitivo rispetto agli Stati in concorrenza. Tuttavia, nel North Carolina non c’è traccia di un bel niente – la crescita dell’occupazione seguiva la media nazionale prima e dopo i tagli ai sussidi:
Il tasso di disoccupazione in verità è caduto – ma questo è derivato da una rilevante discesa improvvisa della forza lavoro, dato che un certo numero di persone che cercavano lavoro è venuto meno. Perché?
Ebbene, una spiegazione probabile è che un certo numero di disoccupati continuassero a cercare lavoro, e di conseguenza fossero annoverati tra le forze di lavoro, nonostante poche possibilità di trovare lavoro in un’economia depressa, perché tale ricerca è richiesta per l’ottenimento di quei sussidi. Togliete i sussidi ed essi si ritireranno. Ora, la partecipazione alla forza lavoro è scesa anche al livello nazionale oltre che nel North Carolina, e la forza lavoro nello Stato è cominciata a calare dopo i tagli dei sussidi, cosicché come esempio per giustificare la pretesa che i sussidi ridotti effettivamente abbiano ridotto la ricerca di posti di lavoro, esso non è a prova di bomba. Eppure, è davvero il caso di sottolineare come i cambiamenti siano stati straordinari. La caduta della forza lavoro nel North Carolina è stata assai più ampia del cambiamento nazionale:
Ed è stata anche senza precedenti in termini storici. Nella storia precedente dello Stato non c’è stato niente che somigliasse al declino recente – che abbia avuto luogo in tempi di modesta ripresa e non di recessione:
Ripetiamolo, se ci fosse stato qualcosa a favore della teoria per la quale tagliare i sussidi di disoccupazione incoraggia la ricerca dei posti di lavoro e in qualche modo si traduce in una maggiore occupazione anche durante una recessione, la severità delle politiche avrebbe dovuto provocare effetti migliori in quello Stato che non al livello nazionale. Ma non c’è alcun segno che tutta quella severità del North Carolina abbia fatto nient’altro se non rendere la vita dei disoccupati ancora più miserabile.
[1] Raleigh è una città degli Stati Uniti d’America, capitale della Carolina del Nord e capoluogo della Contea di Wake. Il nome è in onore a Sir Walter Raleigh, famoso esploratore.
gennaio 11, 2014
January 11, 2014, 3:39 am
National Review has an actually interesting report by Kevin Williamson on the state of Appalachia, providing a valuable portrait of the region’s woes — plus an account of how people turn food stamps fungible by converting them into soda. But the piece also has a moral: the big problem, it argues, is the way government aid creates dependency. It’s the Paul Ryan notion of the safety net as a “hammock” that makes life too easy for the poor.
But do the facts about Appalachia actually support this view? No, they don’t. Indeed, even the facts presented in the article don’t support it.
Williamson dismisses suggestions that economic factors might be driving social collapse:
If you go looking for the catastrophe that laid this area low, you’ll eventually discover a terrifying story: Nothing happened.
But he almost immediately contradicts himself, noting that employment in eastern Kentucky has fallen with the decline of coal and what little manufacturing the area once had. True, there was no sudden moment when the town’s main employer closed up shop; it was a gradual process. But so what? The underlying story of Appalachia is in fact one of declining opportunity. Here’s the unemployment rate for Owsley county:
Is it any surprise that people have turned to food stamps?
And what would they do if they didn’t have food stamps? Williamson is too good a reporter to argue that people could find jobs in eastern Kentucky if only they really wanted to work. Instead, he implicitly argues that the “dole” fosters dependency by allowing people to stay in their home counties rather than going someplace else. Maybe — but as he also notes, many people are leaving. Indeed, they’ve been leaving in droves:
So the moral hazard doesn’t look that severe. Mainly this looks like a story of what happens when a region faces a drastic loss of economic opportunity.
Oh, and about the soda: things like that will happen when you try to provide aid in kind to very poor people. Give an only moderately poor person food stamps, and she’ll probably be willing to use all of it on food. Give a very poor person, with hardly any other source of income, food stamps and she’ll try to convert part of it into cash to be spent on other things. This doesn’t say that they’re getting too much help; it just says that they’re pretty desperate across the board, not just in their food budget.
Back to the broader issue: My take on Williamson’s report (like my take on Charles Murray’s recent book) is that it basically says that William Julius Wilson was right. Wilson famously argued that the social troubles of urban blacks emerged, not because there was something inherently wrong with their culture, but because job opportunities in inner cities dried up. Sure enough, when the God-fearing (and definitely white) people of Appalachia face a loss of employment opportunity, their region turns into what Williamson calls the Great White Ghetto.
And this in turn says that the problem isn’t that we’re becoming a nation of takers; it’s the fact that we’re becoming a nation that doesn’t offer enough economic opportunity to the bottom half, or maybe even the bottom 80 percent, of its citizens.
Una amaca nel Kentucky?
National Review ha un interessante resoconto a cura di Kevin Williamson sullo Stato degli Appalachi [1], che fornisce un ritratto apprezzabile dei guai della regione – oltre ad una stima di quante persone si rivolgono alle tessere alimentari che sono idonee ad essere scambiate con soda [2]. Ma il pezzo ha anche una morale: il grande problema, esso sostiene, è il modo in cui l’aiuto governativo ha creato dipendenza. Si tratta del concetto di Paul Ryan che equipara le reti della sicurezza sociale ad una ‘amaca’ che rende la vita dei poveri troppo facile.
Ma è proprio vero che i fatti degli Appalachi sono una convalida di questa opinione? No, non è vero. In effetti, neanche i fatti presentati nell’articolo la convalidano.
Williamson liquida con poche parole l’idea che fattori economici possano aver portato al collasso sociale:
“Se andate a vedere la catastrofe che ha condotto quest’area così in basso, alla fine scoprite una storia terribile: non è successo niente.”
Ma quasi subito si contraddice, osservando che l’occupazione nel Kentucky orientale è caduta con il declino del carbone e di quelle piccole manifatture che una volta quell’area aveva. E’ vero, non c’è stato alcun momento improvviso nel quale il principale datore di lavoro del paese ha chiuso i battenti; si è trattato di un processo graduale. Ma allora cosa è successo? La storia profonda degli Appalachi è di fatto una storia di opportunità che scompaiono. Ecco il tasso di disoccupazione per la Contea di Owsley:
Qualcuno si sorprende che la gente si sia rivolta alle tessere alimentari?
E cosa farebbero, se non avessero le tessere alimentari? Williamson è un giornalista troppo bravo per sostenere che la gente potrebbe trovare lavoro nel Kentucky orientale se soltanto volesse lavorare. Piuttosto, egli implicitamente sostiene che “l’elemosina” incoraggia la dipendenza consentendo alla gente di restare a casa sua anziché andarsene da qualche altra parte. Può darsi – ma egli osserva anche che molte persone se ne stanno andando. In effetti, se ne sta andando un sacco di gente:
Dunque, non sembra così grave l’approfittare della situazione di assistenza. Questa sembra principalmente una storia di quello che succede quando un’area fa i conti con una drastica perdita di opportunità economiche.
E per quello che riguarda la faccenda della soda: cose del genere succedono quando cercate di fornire aiuti in natura alla povera gente. Date ad una persone anche moderatamente povera tessere alimentari e questa probabilmente le userà tutte per il cibo. Date le tessere alimentari ad una persona poverissima, con quasi nessuna altra fonte di reddito, ed ella cercherà di convertirle in parte in contante da spendere in altre cose. Questo non vi dice che stanno ricevendo troppo aiuto; vi dice soltanto che sono abbastanza disperate a tutti i livelli, non solo nel loro bilancio alimentare.
Tornando al tema più generale: la mia opinione sull’articolo di Williamson (come sul libro recente di Charles Murray) è che esso in generale conferma che William Julius Wilson aveva ragione [3]. Come è noto Wilson sosteneva che i gravi problemi sociali dei neri dei centri urbani emersero non perché ci fosse qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella loro cultura, ma perché le opportunità di lavoro nei quartieri poveri si esaurirono. E’ chiaro che quando le persone timorate di Dio (nonché bianche, senza alcun dubbio) si trovano dinanzi alla perdita della opportunità di una occupazione, la loro ragione si trasforma in quello che Williamson chiama il “Grande Ghetto Bianco”.
E questo a sua volta ci dice che il punto non è che stiamo diventando una nazione di ‘assistiti’; stiamo diventando una nazione che non offre sufficienti opportunità economiche alla metà dei suoi cittadini, forse persino all’80 per cento, che stanno in basso nella scala sociale.
[1] Gli Appalachi (in inglese Appalachian Mountains, in francese Appalaches) sono una catena montuosa situata nella parte orientale degli Stati Uniti d’America. Si sviluppa, quasi parallelamente alla costa, dal golfo del fiume San Lorenzo fino all’Alabama, per almeno 2500 km con picchi non molto elevati (i più alti sono con 2037 m il monte Mitchell e con 1917 m il monte Washington). Gli Appalachi riguardano anche l’isola di Terranova (Canada) e l’isola francese di Miquelon parte della collettività territoriale di Saint-Pierre e Miquelon[1][2]. La porzione sud degli Appalachi viene chiamata monti Unakas. Per via dell’età geologica, gli Appalachi sono la catena montuosa più vecchia delle Americhe. (Wikipedia)
Gli Appalachi statunitensi sono una delle zone economicamente più depresse degli Stati Uniti. Storicamente la miseria degli Appalachi – in particolare del cuore di quella grande area che è rappresentato dal Kentucky orientale – riguarda una popolazione di bianchi, che sono gli eredi di una classe operaia di origine scozzese ed irlandese che si insediò nelle attività minerarie dalle quali erano usciti gli schiavi afroamericani.
[2] Da quello che si capisce dall’articolo di Williamson, la estrema miseria di molti di questi piccoli villaggi degli Appalachi, indurrebbe gli abitanti ad acquisire con le loro tessere alimentari e cassette di soda, che a loro volta sarebbero successivamente utilizzabili come merce di scambio per qualcos’altro. In generale le cassette vengono rivendute a commercianti locali, che le pagano per la metà del loro valore. Alla fine possono servire anche per essere scambiate con farmaci che sono sostituti di oppiacei (i “pillbillies”, a base di oxycontin, anche detta la “eroina dei montanari degli Appalachi”).
[3] Sociologo americano: vedi post dell’8 gennaio “Sull’ultima guerra combattuta (sulla povertà)”.
gennaio 10, 2014
January 10, 2014, 8:01 am
Something really interesting is happening on the health-care front: costs are rising much less rapidly than anyone expected. This is good news for the budget; it’s also good news for Obamacare. There was much skepticism about promises that health reform would “bend the curve”, reducing cost growth; well, the curve is bending, and it’s likely that the cost control measures that are part of Obamacare (and have been in effect for several years) are part of the reason.
One thing I haven’t seen mentioned much, however, is that another aspect of recent developments — the rapid rise in Medicaid enrollment, despite Republican efforts to block it — adds to the prospect of continuing good news on health costs.
Medicaid gets a bad rap. It’s a poor people’s program, and it’s widely assumed that this means poor care. In fact, there’s not much evidence that this is true, and claims that Medicaid patients can’t find care are greatly exaggerated. Beyond that, however, Medicaid is the piece of the US health care system (aside from the VA) that does the best job of controlling costs. It does this by being able to say no. For example, it’s able (in a way Medicare so far can’t) to say that it won’t pay for me-too drugs that are far more expensive than equally or almost equally good alternatives. This ability to say no, combined with its size, means that Medicaid covers people far more cheaply than private insurance, and probably than Medicare.
One way to think about this is that Medicaid is actually the piece of the US system that looks most like European health systems, which cost far less than ours while delivering comparable results.
Now, expanded Medicaid is a key part of Obamacare — and so far, despite GOP obstruction, Medicaid enrollments have outpaced insurance through the exchanges. This is often reported as if it were a bad thing — as if Medicaid were somehow a fake solution, as if only purchases of private insurance count. But Medicaid is good, very cost-effective coverage! And rising Medicaid enrollment is, aside from a huge benefit to the previously uninsured, a step toward better cost control in the system as a whole.
So liberals, don’t apologize for Medicaid growth. In economic and human terms, it’s just what the, um, doctor ordered.
La cura Medicaid
Sta succedendo qualcosa di davvero interessante sul fronte della assistenza sanitaria: i costi stanno crescendo molto meno rapidamente di quanto tutti si aspettassero. Questa è una buona notizia per il bilancio ed è anche una buona notizia per la riforma di Obama. C’era molto scetticismo sulle promesse per le quali la riforma sanitaria avrebbe “piegato la curva”, riducendo la crescita dei costi; ebbene, la curva si sta piegando, ed è probabile che le misure di controllo dei costi che costituiscono una parte della riforma di Obama (e che sono state in funzione da un certo numero di anni), lo spieghino in parte.
Una cosa alla quale non ho visto fare molto riferimento, tuttavia, è che un altro aspetto degli sviluppi recenti – la rapida crescita delle registrazioni a Medicaid, nonostante gli sforzi del repubblicani per bloccarla – si somma alla prospettiva di una prosecuzione delle buone notizie sui costi sanitari.
Medicaid ha una cattiva fama. E’ il programma per la povera gente, e in generale si considera che questo significhi povera assistenza. Nei fatti non ci sono grandi prove che questo sia vero, e le pretese che i pazienti di Medicaid non possano trovare assistenza sono grandemente esagerate. Oltre a ciò, tuttavia, Medicaid è il pezzo del sistema di assistenza sanitaria statunitense (a parte quello che riguarda i soldati in congedo [1]) che funziona meglio nel controllo dei costi. Riesce a farlo perché è capace di dire dei “no”. Ad esempio, è capace di dire (in un modo che sin qua non è stato possibile per Medicare) che esso non pagherà senza eccezioni medicine che sono più costose delle alternative egualmente o quasi egualmente adatte. Questa capacità di dire dei “no”, combinate con le sue dimensioni, significa che Medicaid protegge le persone molto più economicamente della assicurazione privata, e probabilmente di Medicare.
Un modo di considerare questa questione è che Medicaid è effettivamente il pezzo del sistema sanitario americano che assomiglia maggiormente ai sistemi europei, che costano molto meno del nostro nel mentre ottengono risultati analoghi.
Ora, l’espansione di Medicaid è una parte cruciale della riforma di Obama – e sinora, nonostante l’ostruzionismo del Partito repubblicano, le registrazioni a Medicaid hanno lasciato indietro le assicurazioni attraverso il meccanismo delle “borse” sanitarie [2]. Questa notizia frequentemente viene diffusa come se fosse una cosa negativa – come se Medicaid fosse in qualche modo una soluzione falsa, come se contassero soltanto gli acquisti delle assicurazioni private. Ma Medicaid è una protezione buona, molto efficace sul lato dei costi. E la crescita delle registrazioni a Medicaid, a parte il grande beneficio per coloro che in precedenza non erano assicurati, costituisce un passo verso un controllo migliore dei costi nel sistema nel suo complesso.
Dunque, i progressisti non si scusino per la crescita di Medicaid. In termini economici ed umani, come dire, è proprio quello che consiglierebbe il dottore.
[1] “VA” dovrebbe stare per “Veteran Affairs”.
[2] Le “borse sanitarie”, meccanismo introdotto dalla riforma di Obama che corrisponde ad una molteplicità di sedi – una per Stato, da quanto ho compreso – alle quali le persone si rivolgono per comprendere le condizioni offerte dalle varie assicurazioni private e per registrarsi ad un sistema di ‘copertura sanitaria’, evidentemente sono anche una sede nella quale alcune persone che sino ad ieri sceglievano costose e precarie assicurazioni private, possono scegliere oggi un sistema interamente pubblico come Medicaid. Inoltre, le “borse” sono l’occasione per tutti coloro che non erano assicurati nel passato, per iscriversi a Medicaid. Tutto questo, naturalmente, alla condizione che ricorrano le condizioni di reddito per la registrazione, ovvero che si tratti di redditi bassi. Credo che l’entità di questi redditi di ammissione siano il motivo dello scontro di questi mesi tra varie amministrazioni statali governate dai repubblicani e la Amministrazione Obama. La legge, infatti, consentiva – in gran parte a carico del Governo federale – di ‘estendere’ la platea delle persone assistibili da Medicaid, ma alcuni Stati repubblicani sono arrivati al punto di rinunciare agli aiuti federali pur di non consentirlo. Ma sembra che non ci siano riusciti, anche perché la maggioranza degli Stati repubblicani ha minacciato di farlo, ma alla fine non ne ha avuto il coraggio.
gennaio 10, 2014
January 10, 2014, 7:42 am
OK, and I’m more or less back on duty, although next week I’ll be busy in Ireland. But time to weigh in again on a few things.
First up: Brad DeLong is bothered by Robert Rubin’s latest deficit-hawk op-ed, which doesn’t seem to recognize how much the arithmetic of fiscal policy in a liquidity trap favors fiscal stimulus. I agree. But surely the worse thing about Rubin’s piece is that its whole premise is that the confidence fairy is alive and well:
The US recovery remains slow by historical standards – even if recent signs of improvement are borne out. One reason is that our unsound fiscal trajectory undermines business confidence, and thus job creation, by creating uncertainty about future policy and exacerbating concerns about the will of Congress to govern. Business leaders frequently cite our fiscal outlook as a deterrent to hiring and investment.
Do business leaders really express those kinds of concerns? Maybe — if they’re guests at a Peterson-hydra event, where that’s the kind of thing they’re expected to say. But there isn’t a shred of evidence that long-term deficit fears are actually exerting any drag on the economy, let alone that some kind of medium-term austerity plan would be expansionary through the confidence channel.
The truth is that business investment isn’t especially low given the weakness of the overall economy (why expand capacity when you aren’t selling enough to use the capacity you have?) Look at residential investment (blue line) and nonresidential investment (red line) as shares of GDP:
The US economy has suffered an extraordinary, persistent plunge in residential investment; the fall in business investment was only normal for recessions and aftermaths, and the recovery has been comparable to past experience. There’s just nothing in this picture that would lead you to believe that you need to invoke some special factor like deficit fears to explain business behavior.
So it’s actually amazing that someone like Rubin would invoke this confidence story as if it were sound economics, when it’s actually a highly dubious, mathematically implausible argument that receives no support at all from the data.
Of course, Rubin isn’t alone. I keep hearing the same argument in Europe.
Why, it’s almost as if very serious people are willing to grab any argument that supports their deficit-reduction obsession, never mind the facts.
La Fata Zombi della Fiducia
Sì, sono più o meno tornato al lavoro, sebbene la prossima settimana sarò occupato in Irlanda. Ma ho ancora il tempo per intervenire su poche cose.
Prima di tutto: Brad DeLong è infastidito dall’ultimo articolo da ‘falco del deficit’ di Robert Rubin, che non sembra rendersi conto di quanto, in una trappola di liquidità, anche solo un po’ di conti sulla politica della finanza pubblica siano a favore del sostegno della spesa pubblica. Sono d’accordo. Ma sicuramente la cosa peggiore nell’articolo di Rubin è che la sua intera premessa consiste nel ritenere la ‘fata della fiducia’ viva e vegeta:
“La ripresa degli Stati Uniti resta lenta per gli standards storici – anche se si manifestano segni recenti di miglioramento. Una ragione è che la nostra insana prospettiva della finanza pubblica mette in crisi la fiducia delle imprese, e di conseguenza la creazione dei posti di lavoro, creando incertezza sulla politica futura ed esacerbando le preoccupazioni sulla volontà del Congresso a governarla. I dirigenti delle imprese citano frequentemente la nostra prospettiva della finanza pubblica come un deterrente alle assunzioni ed agli investimenti.”
Esprimono per davvero preoccupazioni di quella natura i dirigenti delle imprese? Può darsi – se sono invitati ad un qualche evento dell’ “idra di Peterson” [1], dove ci si aspetta di sentir dire cose del genere. Ma non c’è un briciolo di prova che le paure per un deficit a lungo termine stiano effettivamente provocando un qualsiasi effetto di trascinamento sull’economia, per non parlare del fatto che un programma di austerità a medio termine avrebbe effetti espansivi attraverso il canale della fiducia.
La verità è che gli investimenti delle imprese non sono particolarmente bassi, se si considera la debolezza complessiva dell’economia (perché espandere la capacità produttiva quando non si sta vendendo a sufficienza usando la capacità produttiva esistente?) Si guardi agli investimenti nel settore abitativo (linea blu) ed a quelli nel settore non-abitativo (linea rossa) espressi come quote del PIL:
L’economia americana ha sofferto di una caduta degli investimenti in abitazioni straordinaria e prolungata; la caduta degli investimenti delle imprese era semplicemente normale in situazioni di recessione e nei loro postumi, e la ripresa è confrontabile con le esperienze passate. Non c’è niente in questa rappresentazione che vi possa portare a credere che abbiate bisogno di invocare un qualche speciale fattore come le paure per il deficit per spiegare il comportamento delle imprese.
Così per la verità è sorprendente che uno come Rubin invochi questa storia della fiducia come se fosse buona economia, quando nei fatti è un argomento del tutto dubbio, matematicamente privo di fondamento, che non ha affatto alcun sostegno nelle statistiche.
Naturalmente, Rubin non è solo; continuo a sentire la stessa tesi in Europa.
Perché è quasi come se ogni persona seria abbia voglia di aggrapparsi ad ogni argomento che supporta la loro ossessione della riduzione del deficit, a prescindere dai fatti.
[1] Ovvero, della specie di ‘mostro’ propagandistico generato dai finanziamenti di un importante sostenitore della destra come Peterson.
gennaio 8, 2014
January 8, 2014, 2:10 am
Sorry about radio silence — I’ve been on the road, and busy. And I still am.
I wanted, however, to say something about the 50th anniversary of Lyndon Johnson’s War on Poverty.
By 1980 or so, as the linked CBPP piece says, there was widespread consensus that the WoP had failed. As CBPP also says, that conclusion doesn’t stand up once you do the numbers right: poverty measures that take into account government aid — aid of the kind provided by the war on poverty! — do show a significant decline since the 1960s. There’s more sheer misery in America than there should be, but less than there was.
Even so, progress against poverty has obviously been disappointing. But why? Here’s where it’s important to realize that conservatives are stuck with a fossil narrative — a story about persistent poverty that may have had something to it three decades ago, but is all wrong now.
The narrative in the 1970s was that the war on poverty had failed because of social disintegration: government attempts to help the poor were outpaced by the collapse of the family, rising crime, and so on. And on the right, and to some extent in the center, it was often argued that government aid was if anything promoting this social disintegration. Poverty was therefore a problem of values and social cohesion, not money.
That was always much less true than the elite wanted to believe; as William Julius Wilson showed long ago, the decline of urban employment opportunities actually had a lot do with the social disintegration. Still, there was something to it.
But that was a long time ago. These days crime is way down, so is teenage pregnancy, and so on; society did not collapse. What collapsed instead is economic opportunity. If progress against poverty has been disappointing over the past half century, the reason is not the decline of the family but the rise of extreme inequality. We’re a much richer nation than we were in 1964, but little if any of that increased wealth has trickled down to workers in the bottom half of the income distribution.
The trouble is that the American right is still living in the 1970s, or actually a Reaganite fantasy of the 1970s; its notion of an anti-poverty agenda is still all about getting those layabouts to go to work and stop living off welfare. The reality that lower-end jobs, even if you can get one, don’t pay enough to lift you out of poverty just hasn’t sunk in. And the idea of helping the poor by actually helping them remains anathema.
Will it ever be possible to move this debate away from welfare queens and all that? I don’t know. But for now, the key to understanding poverty arguments is that the main cause of persistent poverty now is high inequality of market income — but that the right can’t bring itself to acknowledge that reality.
Sull’ultima guerra combattuta (sulla povertà)
Mi dispiace per il silenzio sul blog – sono stato in viaggio, e occupato. E lo sono ancora.
Tuttavia voleva dire qualcosa sul 50° anniversario della Guerra alla povertà di Lyndon Johnson [1].
Attorno all’incirca al 1980, come il (precedente) pezzo in connessione del Center of budget and Policy Priorities afferma, c’era un consenso generale nel ritenere che la ‘guerra alla povertà’ avesse fallito. Come sempre il CBPP dice, quella conclusione non sta in piedi se si guardano con attenzione i dati: i numeri sulla povertà che tengono conto degli aiuti del Governo – aiuti del genere di quelli forniti dalla guerra sulla povertà! – a partire dagli anni ’60 hanno mostrato un significativo declino. C’è una vera e propria maggiore miseria in America rispetto a quanta ve ne dovrebbe essere, ma meno grande di quanta non ve ne fosse.
Anche così, i progressi contro la povertà sono stati evidentemente deludenti. Ma perché? E’ qua dove è importante comprendere quanto i conservatori siano bloccati in un racconto fossilizzato – un racconto sulla perdurante povertà che può aver avuto qualche fondamento tre decenni orsono, ma è completamente sbagliato oggi.
La storia degli anni ’70 fu che la guerra sulla povertà mancò i suoi obbiettivi a causa della disintegrazione sociale: i tentativi del Governo nell’aiutare i poveri vennero lasciati indietro dal collasso delle famiglie, dalla crescita del crimine, e da altro ancora. E a destra, in qualche misura anche al centro, si sostenne spesso che l’aiuto del Governo stava semmai promuovendo la disintegrazione sociale. La povertà era di conseguenza un problema di valori e di coesione sociale, non di soldi.
Tutto questo era molto meno vero di quanto non volessero credere le classi dirigenti; come William Julius Wilson [2] sostenne molto tempo fa, il declino delle opportunità di occupazione urbana in verità influì molto nella disintegrazione sociale. Eppure, c’era qualcosa di vero.
Ma questo accadeva molto tempo fa. Di questi tempi il crimine è calato, lo stesso è accaduto con la tendenza a far figli delle adolescenti, e con tutto il resto; la società non ha collassato. Quello che invece ha collassato sono le opportunità economiche. Se i risultati contro la povertà sono stati deludenti nel mezzo secolo passato, la ragione non è il declino della famiglia ma la crescita di una ineguaglianza estrema. Siamo una nazione molto più ricca di quanto non fossimo nel 1964, ma poco o punto di quello che è cresciuto nella ricchezza si è distribuito in basso ai lavoratori della metà della fascia più bassa della distribuzione del reddito.
Il guaio è che la destra americana sta ancora vivendo negli anni ’70, o magari nelle fantasie reaganiane degli anni ’70; la sua idea di una agenda contro la povertà consiste ancora interamente nel mandare al lavoro tutti quegli sfaccendati, smettendo di farli campare di assistenza. La realtà per la quale i lavori ai livelli più bassi, ammesso che se ne possa trovare, non vi danno abbastanza mezzi per risalire dalla povertà, semplicemente non gli è entrata in testa. E l’idea di aiutare i poveri aiutandoli effettivamente resta una bestemmia.
Sarà mai possibile portar fuori questo dibattito dalle storie delle ‘regine dell’assistenza’ [3] e cose del genere? Non lo so. Ma per adesso, la chiave per comprendere gli argomenti sulla povertà è che di questi tempi la causa principale della persistente povertà è l’elevata ineguaglianza dei redditi sul mercato – mentre la destra non può giungere a riconoscere questo dato di fatto.
[1] L’8 gennaio 1964, in un famoso discorso sullo Stato dell’Unione, Lyndon Johnson lanciò la “Guerra alla povertà”. La legislazione che si intese promuovere era una risposta ad un tasso di povertà che in quegli anni era giunto al 19 per cento. Il discorso spinse il Congresso ad approvare la Legge sulle Opportunità Economiche, con la quale fu tra l’altro istituito un Ufficio delle opportunità economiche che avrebbe dovuto gestire le iniziative assistenziali ai livelli locali. La popolarità del tema delle azioni contro la povertà cominciò a svanire con la fine degli anni ’60.
[2] William Julius Wilson è un sociologo statunitense nato nel 1935, che ha insegnato all’Università di Chicago, dal 1972 al 1996, e poi a quella di Harvard. I suoi studi sulla povertà, particolarmente sulle condizioni degli afroamericani, hanno contribuito in particolare a mettere in evidenza la complessa interazione di fenomeni politici e culturali – la cultura dei ghetti e l’intera storia dei diritti civili – e di fenomeni socioeconomici, quali quelli della evoluzione di molte metropoli americane, che hanno conosciuto grandi fenomeni di decentramento dell’occupazione. Tra l’altro mostrò come il fenomeno delle donne afroamericane sole e con figli spesso derivasse semplicemente dalla resistenza delle donne di colore a riconoscere i padri dei loro figli attraverso regolari matrimoni, sinché i padri non potevano mantenere una famiglia con redditi almeno paragonabili agli aiuti delle famiglie di origine.
[3] L’espressione “Regine della assistenza’ venne coniata da Ronald Reagan per giustificare il suo attacco alle leggi assistenziali. A suo dire c’erano appunto signore – prevalentemente afroamericane – che andavano in Cadillac a ritirare i sussidi assistenziali …
gennaio 4, 2014
January 4, 2014, 10:50 am
There’s an alarming amount of optimism out there about US economic prospects for 2014. Let me make the situation even more alarming by saying that I basically share that optimism.
Why? Basically because of the Three Stooges effect: if you’ve been banging your head against a wall for no good reason, you’ll feel a lot better when you stop.
One way to look at the US economy in 2013 is that it was, in effect, trying to begin a strong recovery, but was held back by terrible federal fiscal policy. Housing was making a comeback, state and local austerity was, if not going into reverse, at least not getting more intense, household spending was starting to revive as debt levels came down. But the feds were raising the payroll tax, slashing spending via the sequester, and more.
Incidentally, these other factors are why I don’t take seriously the claims of market monetarists that the failure of growth to collapse in 2013 somehow showed that fiscal policy doesn’t matter. US austerity, although a really bad thing, wasn’t nearly as intense as what happened in southern Europe; it was small enough that it could be, and I’d argue was, more or less offset by other stuff over the course of a single year.
The point, in any case, is that the head-banging is about to stop — not in the sense that we’ll reverse our move in the wrong direction, but that we won’t keep on moving in that direction. Here’s Goldman Sachs’s estimate of “fiscal drag” from federal policies (no link):
Goldman Sachs
What a drag! But it’s coming to an end. Meanwhile, housing is still moving forward, and other stuff is relatively favorable.
None of this vindicates the multiple years of sluggish recovery that should have been vigorous. And let’s be clear: this kind of forecast is much less secure than, say, my predictions that inflation and interest would stay low in a liquidity trap, which were grounded in model fundamentals.
Still, the new year starts with some good omens. Oh, and politics: between the non-disaster of Obamacare (which is producing epic levels of denial) and the prospect of a decent rate of economic growth, the midterm elections may not go the way many on the right currently expect.
Felice anno nuovo?
Ci sono dosi allarmanti di ottimismo in giro sulle prospettive economiche degli Stati Uniti per il 2014. Consentitemi di rendere la situazione ancora più allarmante dicendo che in ultima analisi condivido quell’ottimismo.
Perché? Fondamentalmente a causa dell’effetto dei ‘Tre Marmittoni’ [1]: se state sbattendo la testa contro un muro per nessuna buona ragione, vi sentirete molto meglio quando vi fermate.
Un modo per osservare l’economia degli Stati Uniti nel 2013 è considerare che essa, in effetti, ha cercato di avviare una forte ripresa ma è stata trattenuta dalla terribile politica federale della finanza pubblica. Il settore delle abitazioni stava tornando in auge, l’austerità ai livelli degli Stati e delle comunità locali stava, se non realizzando una inversione, almeno non diventando più intensa, la spesa delle famiglie cominciava a riprendersi nel mentre i livelli dei debiti scendevano. Ma il governo federale ha elevato le tasse sugli stipendi, abbattuto la spesa pubblica attraverso il “sequestro” [2], ed altro ancora.
Per inciso, questi altri fattori sono il motivo per cui io non prendo sul serio gli argomenti dei monetaristi di mercato secondo i quali il mancato collasso della crescita nel 2013 ha in qualche modo mostrato che la politica della finanza pubblica non è importante. L’austerità degli Stati Uniti, per quanto realmente negativa, non è stata neanche lontanamente grave come quella dell’Europa meridionale; è stata poca cosa rispetto a quello che poteva essere, e direi che è stata più o meno bilanciata da altre cose nel corso dello stesso anno.
Il punto, tuttavia, è che il battere la testa sta per finire – non nel senso che invertiremo il nostro movimento nella direzione sbagliata, ma che non continueremo a procedere su quella direzione. Ecco la stima di Goldman Sachs sul “drenaggio di finanza pubblica” da parte delle politiche federali (non c’è connessione):
Goldman Sachs
Che prelievo! Ma sta arrivando alla fine. Nel frattempo il settore delle abitazioni sta ancora avanzando e le altre cose sono relativamente favorevoli.
Sono tutte cose che non risarciscono i vari anni di ripresa fiacca che avrebbero dovuto essere vigorosi. E siamo chiari: una stima come questa è molto meno sicura, per esempio, delle mie previsioni secondo le quali l’inflazione ed i tassi di interesse sarebbero rimasti bassi in una trappola di liquidità, che erano fondate sugli aspetti di fondo dei modelli.
Eppure, il nuovo anno comincia con qualche buon presagio. C’è poi la politica: tra il non-disastro della riforma della sanità di Obama (che sta producendo livelli epici di negazionismo) e la prospettiva di un tasso decente di crescita economica, le elezioni di medio termine potrebbero non andare nel modo in cui molti a destra attualmente si aspettano.
[1] Vedi post del 18 dicembre 2013.
[2] Vedi la nota relativa in calce all’articolo del 21 febbraio 2013 “Il sequestro degli sciocchi”.
gennaio 2, 2014
January 2, 2014, 1:39 pm
The bit about the WSJ’s continuing denialism on rising inequality brings to mind a point I think I’ve made before, but which seems especially appropriate for recent debates. It is this: Today’s right wing never gives up on a politically convenient argument, no matter how thoroughly it may have been refuted by analysis and evidence. It may downplay that argument for a while — though often even that doesn’t happen — but it always comes back.
Inequality is a clear though not at all unique example. Consider three arguments one might make against 21st-century populism:
1. Inequality isn’t increasing.
2. OK, inequality is increasing, but it’s not a problem.
3. OK, it would be nice to have lower inequality, but any proposed solutions would do more harm than good.
Which of these arguments does the right choose, when making its stand? The answer is, all three. Argument 1 faded away briefly when the CBO published its landmark study documenting the rise of the one percent, but as we’ve just seen, it’s back (this is an illustration of the concept of cockroach ideas.) Argument 2 doesn’t stand up under scrutiny, but it just keeps being made anyway — it’s a zombie. But meanwhile, argument 3 is made against anyone like, say, the new mayor of New York who proposes even the slightest effort to equalize opportunity.
This kind of thing flummoxes many people, who imagine that we’re having a real debate. It makes perfect sense, however, once you realize that the other side here isn’t engaged in good-faith argument, just looking for anything that comes to hand, with no regard for consistency.
Much the same thing takes place in macroeconomics. There are several arguments you could make for austerity in a depressed economy:
1. As a matter of principle, government borrowing must crowd out an equal amount of private spending.
2. OK, maybe that’s not true. But confidence!
3. OK, maybe no confidence fairy. But debt! 90 percent!
In this case, argument 1 is again a cockroach — Heritage angrily denies making any such argument, insisting that it’s dong sophisticated intertemporal somethingorother, then makes the same argument all over again. And the WSJ does it too. Argument 2 is a zombie, thoroughly refuted by evidence, but continually asserted all the same. And 3 is part-zombie, part highly dubious assertion. Again, however, none of these arguments is ever taken off the table.
Incidentally, I love the sneering way the Wall Street Journal talks about the “notorious ‘multiplier’”, implying that this is a ridiculous notion only ignorant fools could take seriously — ignorant fools like the researchers at the International Monetary Fund …
I’d love to be having real debates on these issues. But we aren’t having and can’t have such debates, because the cockroaches and zombies get in the way.
Guardie del corpo degli zombi, gli scarafaggi contrattaccano
Il pezzo [1] sul perdurante negazionismo del Wall Street Journal sulla crescente ineguaglianza mi ricorda un punto che penso di aver avanzato in precedenza, ma che sembra particolarmente appropriato per i dibattiti recenti. Si tratta di questo: le destre odierne non rinunciano mai ad un argomento conveniente, a prescindere da quanto esso possa essere stato confutato in modo esauriente dall’analisi e dai fatti. Possono deporre per un po’ quell’argomento – sebbene di solito non succeda neanche questo – ma esso si ripresenta in continuazione.
L’ineguaglianza è chiaramente un esempio, sebbene niente affatto l’unico. Si considerino i tre argomenti che uno potrebbe avanzare contro il populismo [2] del 21° secolo:
Con quale di questi argomenti si fa la scelta giusta, quando si prende posizione? La risposta è: con tutti e tre. L’argomento numero uno è temporaneamente uscito di scena quando il Congressional Budget Office ha pubblicato il suo decisivo studio che documenta la crescita dei redditi dell’1 per cento dei più ricchi, ma come si è visto è tornato (questa è una illustrazione del concetto delle idee scarafaggio). L’argomento numero 2 non regge ad una seria analisi, ma continua ad essere avanzato in tutti i modi – è uno zombi. Ma nel frattempo l’argomento numero 3 viene avanzato contro chiunque, come ad esempio il nuovo sindaco di New York, proponga anche il più leggero sforzo per rendere eguali le opportunità.
Questo genere di cose sconcerta molta gente, che si immagina che sia in corso una discussione vera. E’ tutto ben comprensibile, tuttavia, una volta che si comprenda che sull’altro fronte in questo caso non si è impegnati in argomenti in buona fede, si cerca soltanto quello che c’è a portata di mano, senza alcun riguardo al suo fondamento.
La stessa cosa in gran parte avviene sulla macroeconomia. Ci sono vari argomenti che potreste avanzare a favore della austerità in una economia depressa:
In questo caso, l’argomento 1 è ancora una scarafaggio – l’Heritage nega indignata di aver mai usato un simile argomento, sostenendo di essere impegnata a realizzare in un modo o nell’altro sofisticati modelli intertemporali, poi ripresenta lo stesso argomento dappertutto. E il Wall Street Journal fa lo stesso. L’argomento 2 è uno zombi, completamente confutato dai fatti, ma continuamente riformulato nello stesso modo. E il terzo è una asserzione in parte zombi, in parte altamente dubbia. Ancora una volta, tuttavia, nessuno di questi argomenti viene tolto dal tavolo.
Per inciso, sono affascinato dal modo beffardo nel quale il Wall Street Journal parla del “famigerato ‘moltiplicatore’ “, intendendo che questo sia un concetto che solo sciocchi ignoranti possono prendere sul serio – sciocchi ignoranti come i ricercatori del Fondo Monetario Internazionale …
Mi piacerebbe avere discussioni vere si questi temi. Ma non abbiamo dibattiti di questa natura, perché scarafaggi e zombi ci stanno tra i piedi.
[1] Si riferisce al post precedente.
[2] E’ possibile che definire il tema della ineguaglianza come ‘populistico’ contenga in questo caso dell’ironia, ovvero sia una espressione utilizzata dal punto di vista della destra, del suo armamentario polemico. Ciononostante si deve considerare che il termine ‘populistico’ non ha nel linguaggio politico americano quel connotato chiaramente negativo che ha in italiano, al pari di ‘demagogico’. Ho osservato in vari casi che ha un senso più oggettivo: il ‘populismo’ è una politica che cerca di ottenere il favore delle persone, per la sua efficacia e semplicità. In un certo senso anche il New Deal era ‘populista’. La politica in certi casi può essere consapevolmente populista senza essere definitivamente demagogica.
gennaio 2, 2014
January 2, 2014, 9:49 am
Miles Kimball catches Bret Stephens pulling a fast one on Wall Street Journal readers – but it’s much worse than Kimball says.
Kimball take Stephens to task for overstating the economic progress of poorer Americans by presenting nominal figures, without any adjustment for inflation. What Kimball doesn’t mention is that the constant-dollar figures are presented by the Census in the same table (Excel file) from which Stephens is taking his numbers – and the constant-dollar figures actually show a small decline in the incomes of the bottom 20 percent.
Wait, it gets worse. In the same piece in which he commits the unforgivable sin of using nominal incomes as a measure of progress, Stephens also accuses President Obama of a “factual error” in claiming that the top 10 percent receive half the income; it’s the top 20 percent, says Stephens, and there has been no significant rise since the mid-1990s.
What’s going on here? Stephens is citing the Census data, which everyone who knows anything about inequality knows has a problem with very high incomes thanks to “top-coding”. The Piketty-Saez data, which use tax returns to estimate income shares, do indeed show the top 10 percent receiving half the income, up from 42 percent in 1995. Maybe you don’t like those estimates, but Obama made no mistake – while Stephens did.
Why doesn’t this sharp rise show in the Census data? Because almost all of it took place among the top 1 percent – the income range that the Census data, which are survey-based, can’t effectively track.
OK, we’re still not done here. Stephens then goes on to suggest not just that there has been no rise in inequality since 1995, but that not much has changed since 1979. So let me pull out the Congressional Budget Office – they’re right behind this sign over here – to comment on that:
CBO finds that, between 1979 and 2007, income grew by:
•275 percent for the top 1 percent of households,
•65 percent for the next 19 percent,
•Just under 40 percent for the next 60 percent, and
•18 percent for the bottom 20 percent.
The point here, as on so many other economic issues, is that we are not having anything resembling a good-faith debate.
We could have a debate about whether rising inequality is a problem, and whether measures intended to curb it would do more harm than good. But we can’t have that kind of debate if the anti-populist side won’t acknowledge basic facts – and it won’t. In his piece Stephens trashes Obama, accusing him of making a factual error when he did no such thing; then proceeds to commit just about every statistical sin you can imagine in an attempt to minimize the rise in inequality. In the process he leaves his readers more ignorant than they were before. When this is what passes for argument, how can we have any kind of rational discussion?
Oh, and just FYI: this is the kind of journalism that the great and the good deem worthy of a Pulitzer Prize.
Disinformazione sull’ineguaglianza
Miles Kimball sorprende Bret Stephens nel fare uno scherzetto veloce ai lettori del Wall Street Journal – ma è molto peggio di quello che dice Kimball.
Kimball si accorge che Stephens sopravvaluta il progresso economico degli americani più poveri presentando dati nominali, senza alcuna correzione per l’inflazione. Ciò che Kimball non dice è che i dati a valuta costante sono presentati dal Censimento nella stessa tavola (file di Excel) dalla quale Stephens sta prendendo i suoi dati – ed i dati a valuta costante in effetti mostrano un piccolo declino nel 20 per cento più in basso nella scala dei redditi.
Aspettate, fa di peggio. Nello stesso articolo nel quale egli commette il peccato imperdonabile di usare i redditi nominali come misura di progresso, Stephens accusa il Presidente Obama anche di un ‘errore materiale’ nel sostenere che il dieci per cento dei più ricchi riceva la metà dei redditi; si tratta del 20 per cento dei più ricchi, dice Stephens, e non c’è stata alcuna significativa crescita dalla metà degli anni ’90.
Che cosa è accaduto, in questo caso? Stephens sta citando i dati del Censimento, che ognuno che conosce qualcosa sul tema dell’ineguaglianza sa che hanno un problema con i redditi molto elevati a causa della ‘codifica’ dei redditi alti. I dati Picketty-Saez, che utilizzano i rendimenti fiscali per stimare la partecipazione al reddito, mostrano che il dieci per cento dei più ricchi ottiene proprio la metà del reddito, dal 42 per cento che aveva nel 1995. Queste stime possono non piacere, ma Obama non ha fatto alcun sbaglio – mentre l’ha fatto Stephens.
Perché questa brusca crescita non compare nei dati del Censimento? Perché quasi per intero interessa l’1 per cento dei più ricchi – la quota dei redditi che i dati del Censimento, che sono basati su sondaggi, non può efficacemente seguire.
Bene, e non abbiamo ancora finito. Stephens successivamente passa a suggerire non solo che non ci sia stata alcuna crescita dell’ineguaglianza dal 1995, ma che non sia cambiato molto dal 1979. Consentitemi dunque di chiamare in causa il Congressional Budget Office – i dati sono proprio lì, dietro la sigla – per un commento su tutto ciò:
Il CBO valuta che tra il 1979 ed il 2007, il reddito sia cresciuto per:
Come in molti altri temi economici, in questo caso il punto è che non stiamo avendo niente che assomigli ad un dibattito in buona fede.
Si potrebbe discutere se la crescente ineguaglianza sia un problema, e se le misure con le quali si intende contenerla farebbero più male che bene. Ma non possiamo avere una discussione di quel genere se lo schieramento sedicente anti-populista non riconoscerà i fatti fondamentali – e non lo farà. Nel suo articolo Stephens critica ferocemente Obama, accusandolo di fare errori materiali quando egli non fa niente del genere; poi prosegue affidandosi proprio a quasi tutti gli errori statistici si possano immaginare nel tentativo di minimizzare la crescita delle ineguaglianze. In questo modo egli lascia i suoi lettori meno consapevoli di quanto non fossero in precedenza. Se questi passano per argomenti, come possiamo avere un dibattito razionale di qualsiasi natura?
E, per vostra informazione: questo è il genere di giornalismo che gli alti papaveri considerano meritevole di un Premio Pulitzer.
gennaio 2, 2014
January 2, 2014, 8:37 am
I’m a bit late to this party, but Pew has a new report about changing views on evolution. The big takeaway is that a plurality of self-identified Republicans now believe that no evolution whatsoever has taken place since the day of creation — let alone that evolution is driven by natural selection. The move is big: an 11-point decline since 2009.
Obviously there hasn’t been any new scientific evidence driving this rejection of Darwin. And Democrats are slightly more likely to believe in evolution than they were four years ago.
So what happened after 2009 that might be driving Republican views? The answer is obvious, of course: the election of a Democratic president
Wait — is the theory of evolution somehow related to Obama administration policy? Not that I’m aware of, but that’s not the point. The point, instead, is that Republicans are being driven to identify in all ways with their tribe — and the tribal belief system is dominated by anti-science fundamentalists. For some time now it has been impossible to be a good Republicans while believing in the reality of climate change; now it’s impossible to be a good Republican while believing in evolution.
And of course the same thing is happening in economics. As recently as 2004, the Economic Report of the President (pdf) of a Republican administration could espouse a strongly Keynesian view, declaring the virtues of “aggressive monetary policy” to fight recessions, and making the case for discretionary fiscal policy too. (Naturally, the only form of discretionary fiscal policy considered was tax cuts, but the logic was straight Keynesian, and could have been used to justify public works programs equally well.)
Oh, and the report — presumably written by Greg Mankiw — used the “s-word”, calling for “short-term stimulus”.
Given that intellectual framework, the reemergence of a 30s-type economic situation, with prolonged shortfalls in aggregate demand, low inflation, and zero interest rates should have made many Republicans more Keynesian than before. Instead, at just the moment that demand-side economics became obviously critical, we saw Republicans — the rank and file, of course, but economists as well — declare their fealty to various forms of supply-side economics, whether Austrian or Lafferian or both. Compare that ERP chapter with the currency-debasement letter and you see a remarkable case of intellectual retrogression.
And look, this has to be about tribalism. All the evidence, from the failure of inflation and interest rates to rise despite huge increases in the monetary base and large deficits, to the clear correlation between austerity and economic downturns, has pointed in a Keynesian direction; but Keynes-hatred (and hatred of other economists whose names begin with K) has become a tribal marker, part of what you have to say to be a good Republican.
Tribalismo, biologia e macroeconomia
Sono un po’ in ritardo su tutta la materia [1], ma Pew [2] ha un nuovo sondaggio sui cambiamenti dei punti di vista sull’evoluzione. La grande scoperta è che una pluralità di sedicenti repubblicani ora credono che nessuna evoluzione di qualsiasi genere sia avvenuta dal momento della creazione – a parte il fatto che l’evoluzione sia guidata dalla selezione naturale. Lo spostamento è grande: un declino di 11 punti dal 2009.
Ovviamente non c’è stata alcuna nuova prova scientifica che porta a questo rigetto di Darwin. Ed è verosimile che i democratici credano nell’evoluzione leggermente di più che quattro anni orsono.
Cosa è dunque avvenuto dal 2009 ad oggi che possa aver spinto i punti di vista dei repubblicani? La risposta è ovvia, naturalmente: l’elezione di un Presidente democratico.
Un momento – la teoria dell’evoluzione è in qualche modo collegata con la politica della Amministrazione Obama? No, per quanto io sappia, ma non è quello il punto. Il punto, invece, è che i repubblicani sono stati spinti in tutti i modi ad identificarsi con la loro tribù – ed il sistema delle convinzioni tribali è dominato dai fondamentalisti ostili alle scienze. Da un po’ di tempo è diventato impossibile essere buoni repubblicani e credere nella realtà dei cambiamenti climatici; ora è impossibile essere buoni repubblicani e credere nell’evoluzione.
E naturalmente la stessa cosa avviene per l’economia. Ancora nel 2004, il Rapporto Economico del Presidente (disponibile in pdf) di una amministrazione repubblicana poteva far proprio un punto di vista fortemente keynesiano, affermando le virtù di “una aggressiva politica monetaria” nel combattere le recessioni, ed anche avanzando la tesi a favore di una politica della finanza pubblica discrezionale (naturalmente la sola politica discrezionale della finanza pubblica considerata erano gli sgravi fiscali, ma la logica era coerentemente keynesiana, ed avrebbe potuto essere altrettanto bene utilizzata per giustificare programmi di lavori pubblici).
E inoltre il rapporto – presumibilmente scritto da Greg Mankiw – utilizzava il termine incriminato [3], pronunciandosi a favore di “azioni di stimolo nel breve termine”.
Data quella impostazione intellettuale, il riemergere di una situazione economica del tipo degli anni ’30, con una caduta prolungata nella domanda aggregata, una bassa inflazione e tassi di interesse a zero, avrebbe dovuto rendere molti repubblicani più keynesiani di prima. Invece, proprio nel momento in cui la teoria economica dal lato della domanda è divenuta evidentemente essenziale, abbiamo visto i repubblicani – i membri ordinari, naturalmente, ma anche gli economisti – dichiarare la loro fedeltà alle varie forme della teoria economica dal lato dell’offerta, che fosse nella forma della “scuola austriaca” o di quella di Laffer [4]. Confrontate quel capitolo del Rapporto con la ‘lettera sulla svalutazione della moneta [5]’ ed avrete un caso notevole di regressione intellettuale.
E badate, questo ha a che fare con il tribalismo. Tutte le prove, dalla mancata inflazione e dalla mancata crescita dei tassi di interesse nonostante grandi incrementi nella base monetaria ed ampi deficit, sino alla chiara correlazione tra l’austerità e le recessioni economiche, sono andate in una direzione keynesiana; ma l’odio verso Keynes (e l’odio verso altri economisti il cui nome comincia con K) è diventato un segno distintivo tribale, una parte di ciò che si deve dire per essere buoni repubblicani.
[1] Letteralmente “a questa festa”.
[2] “Pew Research” è una Fondazione di ricerche sociali e culturali. La ricerca alla quale Krugman si riferisce è del dicembre scorso e mostra i cambiamenti nelle convinzioni dei cittadini americani in materia di “evoluzione”. Oggi il 60% degli americani crede che il genere umano sia cambiato nel corso del tempo, ovvero sia soggetto a mutamenti evolutivi; mentre il 33 % crede che esso sia lo stesso dalla Creazione. Notevole che l’opinione dei repubblicani dal 2009 ad oggi sia passata da un 54% di fautori dall’evoluzione di allora, a solo in 43 % di oggi (e questo spiega il successivo dato del ‘grande spostamento’ dell’11 per cento). Nel frattempo i democratici “evoluzionisti” sono passati dal 63 al 67 per cento.
[3] Penso che l’espressione “la parola che comincia con s” abbia questo significato ironico. Il termine è cioè “Stimulus”.
[4] Arthur Betz Laffer (Youngstown, 14 agosto 1940) è un economista statunitense, sostenitore della teoria dell’offerta, che divenne molto influente negli anni dell’amministrazione Reagan, tanto da esserne uno dei massimi consiglieri economici negli anni della sua presidenza. Laffer è conosciuto principalmente per la sua curva di Laffer. La curva ipotizza che se la pressione fiscale è troppo alta, le entrate fiscali calano, in virtù dei disincentivi a aumentare -in presenza di aliquote elevate- l’attività lavorativa. Sebbene non rivendichi la paternità di questo concetto, rimane popolare un incontro con esponenti repubblicani prima delle elezioni presidenziali del 1980. Leggenda vuole che Laffer incontrò Reagan in un ristorante e, scarabocchiando la curva su un tovagliolo, lo convinse della bontà della propria teoria. (Wikipedia)
[5] Fu una iniziativa con la quale vari economisti, opinionisti ed uomini politici conservatori scrissero al Presidente della Fed una lettera aperta per contrastare la politica di ‘facilitazione quantitativa’ della banca ed ipotizzare lo spettro di una svalutazione del dollaro.
gennaio 1, 2014
January 1, 2014, 10:17 am
Happy New Year! I’m trying to organize my thoughts and data on matters European, and I think I’ve come up with a useful way to summarize what has been happening in the euro area. In the figure below I compare the ratio of government debt to GDP (from the IMF — year-end number) with the 10-year interest rate (from the ECB) for a number of euro nations; I show two dates, the peak of the euro crisis in 2011 and a relatively recent observation:
What you see here is that borrowing costs for the troubled euro countries have dropped a lot. But it’s not because austerity policies have brought their debt under control — debt ratios are still rising, in large part because of shrinking economies and deflation. Instead, there has been a dramatic flattening of the relationship between debt and interest rates.
Why has this happened? The timing strongly suggests that it’s mainly the Draghi effect — that the ECB’s signal that it will, in a pinch, act as sovereign lender of last resort has removed much of the fear of self-fulfilling liquidity panics. It’s possible that there has also been some reduction in the political risk premium, because European nations are proving amazingly determined to stay on the euro at almost any cost.
So is the euro crisis over? No — it’s not over until the debt dynamics sing, or perhaps until the debt dynamics sing a duet with internal devaluation. We have yet to see any of the crisis countries reach a point where falling relative wages are generating a clear export-led recovery, or in which austerity is actually paying off in falling debt burdens.
But as a europessimist, I do have to admit that it’s now possible to see how this could work. The cost — economic, human, and political — will be huge. And the whole thing could still break down. But the ECB’s willingness to step up and do its job has given Europe some breathing room.
La condizione dell’euro in un grafico
Felice Anno Nuovo! Sto cercando di organizzare i miei pensieri e i dati sulle faccende europee, e penso di aver trovato un modo utile per sintetizzare quello che sta succedendo nell’area euro. Nella figura sotto confronto il tasso del debito statale (fonte FMI – dato di fine anno) con il tasso di interesse sulle obbligazioni decennali (fonte BCE) per un certo numero di nazioni euro; mostro due date, il picco della crisi dell’euro nel 2011 ed una osservazione relativamente recente:
Quello che vedete è che i costi di indebitamento delle nazioni in difficoltà sono scesi molto. Ma non sono state le politiche di austerità a mettere il loro debito sotto controllo – i tassi del debito sono ancora in crescita, in larga parte per la restrizione delle economie e la deflazione. Piuttosto, c’è stato uno spettacolare appiattimento della relazione tra debito e tassi di interesse.
Perché è successo? La sequenza temporale indica che principalmente si è trattato dell’effetto Draghi – ovvero che il segnale della BCE, per il quale a fronte di un momento critico essa avrebbe agito come prestatore sovrano di ultima istanza ha rimosso gran parte dei timori di situazioni di panico per la liquidità che si autoavverano. E’ possibile che ci sia anche stata una qualche riduzione del premio per il rischio politico, giacché le nazioni europee si stanno mostrando sorprendentemente determinate a restare nell’euro a quasi ogni costo.
Dunque la crisi dell’euro è passata? No – non è passata finché c’è la musica delle dinamiche del debito, o magari finché continua il duetto delle dinamiche del debito e della svalutazione interna. Dobbiamo ancora vedere un qualsiasi paese in crisi raggiungere un punto nel quale la caduta dei salari relativi generi una chiara ripresa guidata dalle esportazioni, o nel quale l’austerità stia effettivamente ripagando con una diminuzione del peso del debito.
Ma come europessimista devo proprio ammettere che è ora possibile vedere come potrebbe avvenire. Il costo – economico, umano e politico – sarà grande. E tutta la faccenda potrebbe crollare. Ma la volontà della BCE di farsi avanti e di fare il suo mestiere ha dato all’Europa un qualche margine di respiro.