Blog di Krugman

Anno 266 e dintorni (31 dicembre 2013)

 

December 31, 2013, 12:20 pm

266 And All That

Ah, some of the comments on my post about cynical lack of realism happen to illustrate a favorite observation of mine: the extent to which people who demand that we learn the lessons of history tend to rely on historical episodes in which we have very little idea of what really happened.

Thus, they’ll tell us to ignore the extensive evidence from the past century that fiat currencies needn’t lead to runaway inflation — instead, look at how currency debasement led to the fall of Rome!

Or, maybe, how the fall of Rome led to currency debasement?

The thing is, we have no data and not even that much informal evidence on the economy of ancient Rome. We do have informed speculation: Peter Temin had a lovely paper in the JEP (and a book I haven’t read yet) on the prosperity of the Augustan empire, which he estimates was comparable to late 17th-century Europe. All of that fell apart in the third century:

Around the start of the third century CE, the early Roman Empire came to an end under the pressure of a number of problems: several emperors who were exceptionally autocratic and excessive and a series of revolts by the army which in turn led to Rome being ruled by a series of short-term emperors. The disruption manifested itself in many ways, including increased inflation in the third century CE that is visible to us through debased coinage and occasional price quotations.Inflation was less than 1 percent in the first and second centuries CE, but prices doubled after the Antonine plague of the late second century and doubled again soon thereafter. The denarius began to be progressively debased at this same time.

So currency debasement can ruin your whole day — as long as it’s accompanied by civil war and plague. This is actually the same pattern as modern hyperinflations, which have always followed major political disruptions, like the collapse of the Central Powers at the end of World War II or the breakup of the Soviet Union.

But isn’t it odd that people prefer the largely undocumented distant past to the far better documented recent past? Why? My guess is that it’s precisely the vagueness that attracts them, because it’s so much easier to project your prejudices onto the scattered information available.

 

Anno 266 e dintorni

 

Eccoci, succede che alcuni commenti al mio post sulla cinica mancanza di realismo [1] illustrino una delle mie osservazioni preferite: il modo in cui le persone che chiedono di imparare dalle lezioni della storia tendano a basarsi su episodi storici sui quali abbiamo idee molto modeste di quanto effettivamente accadde.

Così, ci racconteranno di ignorare la prova dettagliata relativa al secolo passato per la quale l’emissione di valuta non porta necessariamente ad una inflazione fuori controllo – ma però, si guardi a come la svalutazione della moneta condusse alla caduta di Roma!

O forse, a come la caduta di Roma portò alla svalutazione della moneta?

Il punto è che non abbiamo dati e neanche grandi prove ufficiose sull’economia della antica Roma. Abbiamo delle riflessioni informate: Peter Temin ha pubblicato un saggio affascinante su Journal of Economic Perspectives (ed un libro che non ho ancora letto) sulla prosperità dell’impero di Augusto, che egli stima fosse paragonabile all’Europa del tardo diciassettesimo secolo. Tutto ciò cadde a pezzi nel terzo Secolo:

“Attorni agli inizi del terzo secolo dell’Era Cristiana, l’antico Impero Romano conobbe la fine sotto la pressione  di un certo numero di problemi: vari imperatori che furono eccezionalmente autocratici e senza misura ed una serie di rivolte da parte dell’esercito che a loro volta portarono Roma ad essere governata da un serie di imperatori di breve durata. Il disordine stesso si manifestò in varie forme, inclusa una crescente inflazione nel terzo Secolo dell’Era Cristiana che noi possiamo constatare in un conio svalutato e in occasionali citazioni di prezzi. L’inflazione fu meno dell’1 per cento nel primo e secondo secolo dell’Era Cristiana, ma i prezzi raddoppiarono dopo la ‘peste antonina’ [2]  della fine del secondo secolo e raddoppiarono ancora subito dopo. Contemporaneamente il ‘denarius’ [3]cominciò a svalutarsi.

Dunque, la svalutazione della moneta vi può mandare in rovina – in particolare se è accompagnata da una guerra civile e da una pestilenza. Questo è effettivamente lo stesso schema delle iperinflazioni moderne, che hanno sempre fatto seguito ad importanti disordini politici, come il collasso degli Imperi Centrali alla fine della prima Guerra Mondiale o il crollo dell’Unione Sovietica.

Ma non è strano che ci siano persone che preferiscono un lontano passato in gran parte non documentato ad un recente passato assai meglio documentato? La mia impressione è che sia proprio la vaghezza che li attrae, perché è molto più facile proiettare i propri pregiudizi su una sporadica informazione disponibile.


 

 

 


[1] Il post “Fantasia ciniche” del 31 dicembre.

[2] La peste antonina (165-180), nota anche come peste di Galeno, da colui che la descrisse, è stata un’antica pandemia di vaiolo o morbillo, riportate in patria dalle truppe di ritorno dalle campagne militari contro i Parti. L’epidemia potrebbe avere anche causato la morte dell’imperatore romano Lucio Vero, morto nel 169 e co-reggente con Marco Aurelio il cui patronimico, Antoninus, diede il nome all’epidemia. Il focolaio scoppiò di nuovo nove anni dopo, secondo lo storico romano Cassio Dione, e causò fino a 2.000 morti al giorno a Roma, un quarto degli infettati. Il totale dei morti è stato stimato in 5 000 000 di persone. La malattia uccise circa un terzo della popolazione in alcune zone, e decimò l’esercito romano. (Wikipedia)

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[3] Il sistema monetario della antica Roma comprendeva il denario, una piccola moneta d’argento, che era anche la moneta più diffusa.

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Jean-Baptiste Say, lo scarafaggio (31 dicembre 2013)

dicembre 31, 2013

 

December 31, 2013, 11:42 am

Jean-Baptiste Say, Cockroach

Regular readers know that I talk quite a lot about zombies, but also occasionally talk about cockroaches. Reading Menzie Chinn today, it occurred to me that it might be helpful to review the distinction between these two technical terms.

A zombie idea is an idea that should have died long ago in the face of evidence or logic, but just keeps shambling forward, eating peoples’ brains. I first saw the term in the context of Canadian health care, where it was used with respect to assertions that hordes of Canadians are crossing the border in search of care, or vast numbers of Canadian doctors emigrating. But it applies to many concepts, like the insistence that cutting tax rates on the wealthy leads to soaring economic growth, which remains dogma on the right in the teeth of all the evidence.

A cockroach idea is a bit different: it’s an idea whose wrongness is so obvious, once pointed out, that the people who stated it claim that they did no such thing — so that at first you think you have a weasel problem, but at least the cockroaches are gone. Next thing you know, however, the roaches have invaded all over again.

Menzie deals with a prime example, the assertion that government spending can’t, as a matter of principle, increase demand, because government borrowing must always crowd out an equal amount of private spending. In his case, he pointed out that the Heritage foundation was promoting this fallacy; Heritage complained that he was misrepresenting their extremely sophisticated intertemporal analysis; the foundation then proceeded to publish new “research” making exactly the same mistake.

But it’s not just Heritage. I was alerted to the fact that we were living in a Dark Age of macroeconomics when the same cockroach put in an appearance at the University of Chicago.

Now, some people get all upset by this terminology. Why can’t I be serious and respectful? Well, the answer is that we’re not having a serious conversation. There are real debates in economics — for example, about how much slack remains in the economy, how effective unconventional monetary policy really is, etc.. For those debates a respectful tone is appropriate. But when people resurrect 80-year-old fallacies, then claim that they never said what they said, then come right back with the same thing, we need colorful language to convey the deep unseriousness of their position.

 

Jean-Baptiste Say, lo scarafaggio [1]

 

Chi mi legge regolarmente sa che io parlo abbastanza degli zombi, ma occasionalmente parlo anche di scarafaggi. Leggendo oggi Menzie Chinn, mi è venuto in mente che sarebbe stato utile rivisitare la distinzione tra questi due termini tecnici.

Un’idea zombi è un’idea che dovrebbe esser morta da tempo di fronte ai fatti o alla logica, ma continua proprio a trascinarsi in avanti, mangiando i cervelli delle persone. Mi accorsi per la prima volta del termine nel contesto della assistenza sanitaria del Canada, dove veniva utilizzata in relazione ad affermazioni secondo le quali orde di canadesi stavano attraversando i confini in cerca di assistenza, ovvero tantissimi medici canadesi stavano emigrando. Ma si applica a tanti concetti, come quello secondo il quale il taglio delle tasse ai ricchi fa schizzare alle stelle la crescita economica, che resta un dogma della destra in barba all’evidenza.

Un’idea scarafaggio è un po’ diversa: è un’idea la cui erroneità è così evidente che, una volta messa in evidenza, le persone che l’hanno sottoscritta pretendono di non averlo mai fatto – cosicché dapprima pensate di dover ricorrere ad una donnola, ma almeno gli scarafaggi scompariranno. Sennonché, successivamente vi rendete conto che le blatte vi hanno invaso un’altra volta dappertutto.

Menzie fa i conti con un esempio di prima qualità, il giudizio per il quale la spesa pubblica non può accrescere la domanda per una ragione di principio, giacché l’indebitamento del governo deve ‘spiazzare’ una eguale quantità di spesa privata. In questo caso, egli sottolineava che a promuovere questo sbaglio era stata Fondazione Heritage [2]; Heritage si era lamentata per la rappresentazione erronea della sua estremamente sofisticata analisi intertemporale; la Fondazione aveva poi proceduto a pubblicare una nuova “ricerca”  replicando esattamente il medesimo errore.

Ma non si tratta solo di Heritage. Io misi in guardia sul fatto che stavamo vivendo in una Età Buia della macroeconomia allorché lo stesso scarafaggio fece la sua apparizione alla Università di Chicago.

Ora, alcuni si arrabbieranno per questa terminologia. Perché non posso essere serio e rispettoso? Ebbene, la risposta è che non stiamo avendo una discussione seria. In economia ci sono dibattiti veri – per esempio, su quanto l’economia resta fiacca, su quanto una politica monetaria non convenzionale sia realmente efficace etc. Per questi dibattiti un tono rispettoso è appropriato. Ma quando la gente risuscita errori vecchi di 80 anni, poi sostiene di non aver mai detto quello che ha detto, poi torna a dire la stessa cosa, abbiamo bisogno di un linguaggio colorito per comunicare la completa mancanza di serietà della loro posizione.



[1] In economia la legge di Say, detta anche legge degli sbocchi, fu enunciata dall’economista francese Jean-Baptiste Say e riguarda il fenomeno delle crisi economiche. Egli sosteneva in tale legge che in regime di libero scambio non sono possibili le crisi prolungate, poiché i prodotti si pagano con i prodotti e non con il denaro, che è solamente merce rappresentativa. L’offerta è sempre in grado di creare la propria domanda: ogni venditore è anche compratore. (Wikipedia)

In sostanza, l’idea di Say era una sorta di precedente logico dell’altra idea con la quale Krugman ironizza nel post, quella secondo la quale una aggiuntiva spesa pubblica toglie spazio (“Crowding out”) ad una equivalente spesa privata. Il che, appunto, sarebbe possibile se ci fosse sempre una corrispondenza obbligata tra offerta e domanda, in quanto la seconda sarebbe sempre determinata dalla prima.

 

[2] Nota fondazione della destra americana.

Fantasie ciniche (31 dicembre 2013)

dicembre 31, 2013

 

December 31, 2013, 9:13 am

Cynical Fantasies

One thing that happens when you try to have a rational discussion of Bitcoin, gold, and/or other libertarian causes is that you get a lot of cynical remarks about government (which is one of the clues that this is, to an important extent, about politics.) You say that there’s nothing putting a floor under Bitcoin’s value? Well, how do you know that the government won’t debase the dollar to nothing? Huh? Huh?

Well, there’s an answer to that: governments care about their reputations, and even, to some extent, about the welfare of their citizens.

I can hear the jeering already. We know better, don’t we? Don’t governments with the power of the printing press universally abuse that power?

Well, no. That sounds like cynical realism, but it’s actually cynical fantasy.

Yes, Weimar. Also Zimbabwe. And, in recent decades, who else? Actually, nobody. The real track record of fiat currencies is that most of them are run responsibly except in the aftermath of political chaos. If you look at the actual facts, you discover that episodes of high inflation have become quite rare, even though nobody is on the gold standard or (except in the euro area) anything like it.

So, again, the notion that governments can’t be trusted with the printing press sounds cynical and realistic, but it’s actually a fantasy, probably brought on by reading Ayn Rand instead of Tolkien.

It’s similar, by the way, to another cynical and supposedly realist notion, which is that fiscal stimulus never goes away, that programs instituted to fight a slump inevitably become permanent. This is also totally untrue — it’s a right-wing fantasy, not a description of anything that has actually happened.

Now, it’s true that governments aren’t run by philosopher-kings; news at 8. But the popularity of the notion that they’re inevitably or even usually run by looters and moochers says more about what some people want to believe than about the lessons of history.

 

Fantasie ciniche

 

Una cosa che accade quando provate ad avere un dibattito razionale su Bitcoin, sull’oro o su altre cause libertariane [1] è che vi procurate un sacco di osservazioni sul Governo (e questo è uno degli indizi per i quali questa faccenda, in notevole misura, ha a che fare con la politica). Dici che non c’è niente che dia un fondamento sotto il valore del Bitcoin? Ebbene, come sai che il Governo non svaluterà il dollaro sino a non farlo valere nulla? Come fai, eh?

Ebbene, a questo una risposta c’è: i governi si curano della loro reputazione, in qualche misura si curano persino del benessere dei loro cittadini.

Posso già sentire commenti beffardi. Lo sappiamo bene, non è così? Forse che i governi con il potere di stampare moneta non abusano dappertutto di quel potere?

Ebbene, no. Questo sembra cinico realismo, ma per la verità è una fantasia cinica.

Si, c’è stata Weimar. C’è stato anche lo Zimbabwe. E negli ultimi decenni, chi altri? Per la verità, nessun altro. La storia vera della emissione di valute è stata che nella maggioranza dei casi hanno proceduto responsabilmente, ad eccezione dei periodi successivi a caos politici. Se guardate ai fatti attuali, scoprite che gli episodi dell’alta inflazione sono diventati abbastanza rari, anche se nessuno si basa sul gold standard o su qualcosa di simile (ad eccezione dell’area euro).

Dunque, una volta ancora, la storia che i governi non possono essere creduti a proposito dello stampare moneta sembra cinica e realistica, ma effettivamente è una fantasia, che probabilmente deriva dal leggere Ayn Rand o, in alternativa, Tolkien.

E’ qualcosa di simile, per inciso, ad un altro concetto cinico ed immaginato come realistico, che lo stimolo della spesa pubblica non si riesce mai a levarlo di mezzo, che i programmi istituiti  per combattere una recessione inevitabilmente diventano permanenti. Anche questo è completamente falso – si tratta di una fantasia della destra, non della descrizione di qualcosa che è realmente accaduto.

Ora, è vero che i governi non sono diretti da Re Filosofi; basta sentire i notiziari delle otto [2]. Ma la popolarità dell’idea secondo la quale essi sono gestiti inevitabilmente o anche comunemente da sciacalli o da parassiti ci dice qualcosa che riguarda più quello che la gente vuole credere, che non le lezioni della storia.



[1] Vedi alle note sulla traduzione, alla voce “Ayn Rand”.

[2] Credo voglia dire questo.

Interviene un superesperto (29 dicembre 2013)

dicembre 29, 2013

 

December 29, 2013, 2:39 pm

An Ubernerd Weighs In

My old college roommate John R. Levine, who was a techie before anyone knew such creatures existed (let alone that they would rule the world), sends me a note about Bitcoin that confirms some of my own suspicions:

It occurs to me that part of the disconnect is that Bitcoin solved a major technical problem, one that people had been thinking about for about 20 years, and we nerds just can’t believe that it doesn’t also solve an economic problem. The technical problem is double spending–if I have some digital money, it’s easy enough to verify cryptographically that it’s real, but if I give it to you, how can you tell that I haven’t also given it to someone else? Until Bitcoin, the answer was to have a bank that knew which coins were valid, so you’d present my coin to the bank, which would check its database and if it’s valid, cancel it and give you a new
one. Bitcoin has its decentralized blockchain which is a very clever recasting of the problem so that the state of the “bank” is whatever the majority of bitcoin miners agree that it is. Getting enough of the miners to agree is known as the Byzantine Generals problem, and has a technical history of its own.

So with this breakthrough, we must have an economic breakthrough? We don’t? Well, then you just don’t understand/are in the pocket of the illuminati/whatever. If you belive that Bitcoin is a lot like paying for stuff with little bags of gold dust where every grain of dust has a publicly recorded serial number, well, then, uh.

My current guess is that the Bitcoin bubble will collapse when there is some bad news, e.g., a regulator demands registration of Bitcoin wallets, people try and cash out, and find that that while it’s easy to buy bitcoins, it’s much harder to find people willing to buy back nontrivial amounts, very hard to collect the sales proceeds, and completely impossible without revealing exactly who you are.

 

Interviene un superesperto

 

Il mio vecchio compagno di stanza all’università John R. Levine, che era un patito della tecnologia prima che nessuno sapesse che creature del genere esistevano (per non dire che avrebbero preso il comando del mondo), mi invia una nota su Bitcoin che conferma i miei stessi sospetti:

“Mi viene in mente che una parte dell’incomprensione deriva dal fatto che Bitcoin ha risolto un importante problema tecnico, un problema sul quale la gente aveva ragionato per circa 20 anni, e noi patiti del ramo non possiamo credere che esso non risolva anche il problema economico. Il problema tecnico è quello del doppio utilizzo – se io ho un po’ di denaro digitale, è abbastanza facile verificare con la crittografia [1]  che esso è reale, ma se lo consegno ad un altro, come posso raccontare che non l’ho anche dato ad altri ancora? Sino a Bitcoin, la risposta era avere una banca che conosceva quali monete fossero valide, cosicché avrei presentato le mie monete alla banca, che le avrebbe controllate nella sua base dati e se erano valide [2] le cancellava e me ne dava di nuove. Bitcoin ha decentralizzato la catena di bloccaggio attraverso una riformulazione molto intelligente del problema, cosicché lo stato di “banca” è qualsiasi cosa i ‘minatori’ di bitcoins decidono che sia. Ottenere un numero sufficiente di ‘minatori’ per mettersi d’accordo è conosciuto come il problema dei Generali Bizantini [3], ed ha una storia tecnica per conto suo.

Dunque, con questa scoperta fondamentale, ne consegue anche una scoperta fondamentale di economia? Oppure no? Ebbene, allora proprio non capite o comunque non fate parte della setta degli “Illuminati” [4]! Se credete che Bitcoin sia più o meno la stessa cosa che pagare con sacchetti di polvero d’oro, laddove ogni grano di polvere ha un numero di serie registrato pubblicamente, in quel caso, beh …

La mia ipotesi attuale è che la bolla di Bitcoin scoppierà quando ci saranno alcune cattive notizie, ad esempio una registrazione da regolamento delle domande dei portafogli di Bitcoin, la gente prova a ritirare e scopre che mentre era facile acquistare bitcoins, è molto più difficile trovare persone che vogliano ricomprare quantità non trascurabili, molto più difficile ritirare i ricavi delle vendite, e completamente impossibile senza rivelare chi siete esattamente.


 

 


[1] La crittografia (dall’unione di due parole greche: κρυπτóς (kryptós) che significa “nascosto”, e γραφία (graphía) che significa “scrittura”) è la branca della crittologia che tratta delle “scritture nascoste”, ovvero dei metodi per rendere un messaggio “offuscato” in modo da non essere comprensibile/intelligibile a persone non autorizzate a leggerlo. Un tale messaggio si chiama comunemente crittogramma e le tecniche usate tecniche di cifratura. (Wikipedia)

[2] Ho l’impressione che manchi la negazione. Dunque. “Se non erano valide, o se erano scadute”.

[3] Il “Problema dei due Generali”, o il “problema dei Generali Bizantini”, è un esperimento di pensiero rivolto ad illustrare i modi nei quali coordinare una azione quando si dispone di una connessione inaffidabile. Appare spesso nelle esercitazioni preliminari di informatica e si fonda sul riconoscimento dell’importanza della ‘conoscenza comune’. I “Generali” entrano nella storia, perché il raccontino su cui si basa è quello di due generali che si trovano su due opposti altipiani e devono concordare il momento dell’attacco al nemico – che si trova nella vallata intermedia e sbaraglierebbe l’attacco di un generale singolo. Potrebbero inviare dei messaggeri l’uno all’altro, ma essi probabilmente verrebbero catturati. Se anche un messaggero arrivasse, sarebbe impossibile saperlo finché anche il secondo messaggero non porta indietro una conferma del messaggio ricevuto. Non ho capito come i generali bizantini risolsero la faccenda (forse non la risolsero e da qua il  crollo di Bisanzio …).

[4] Gli Illuminati, o più precisamente l’Ordine degli Illuminati, è stato il nome di una società segreta bavarese del secolo XVIII. L’Ordine degli Illuminati di Baviera (in tedesco: Illuminatenorden) fu fondato a Ingolstadt (Germania) il 1º maggio del 1776 da Johann Adam Weishaupt (17481830), come alternativa alla massoneria, assumendone una struttura analoga. Il nome Illuminati è spesso utilizzato anche in teorie del complotto per presunti gruppi che controllerebbero il mondo.

Il Bitcoin è male (28 dicembre 2013)

dicembre 28, 2013

 

December 28, 2013, 2:35 pm

Bitcoin Is Evil

It’s always important, and always hard, to distinguish positive economics — how things work — from normative economics — how things should be. Indeed, on many of the macro issues I’ve written about it has been obvious that large numbers of economists can’t bring themselves to make that distinction; they dislike activist government on political grounds, and this leads them to make really bad arguments about why fiscal stimulus can’t work and monetary stimulus will be disastrous. I don’t, by the way, think that this effect is symmetric: although people like Robert Lucas were quick to accuse people like Christy Romer of fabricating macro arguments to support a big-government agenda, this didn’t actually happen.

But I come now to talk not about macro but about money — specifically, about Bitcoin and all that.

So far almost all of the Bitcoin discussion has been positive economics — can this actually work? And I have to say that I’m still deeply unconvinced. To be successful, money must be both a medium of exchange and a reasonably stable store of value. And it remains completely unclear why BitCoin should be a stable store of value. Brad DeLong puts it clearly:

Underpinning the value of gold is that if all else fails you can use it to make pretty things. Underpinning the value of the dollar is a combination of (a) the fact that you can use them to pay your taxes to the U.S. government, and (b) that the Federal Reserve is a potential dollar sink and has promised to buy them back and extinguish them if their real value starts to sink at (much) more than 2%/year (yes, I know).

Placing a ceiling on the value of gold is mining technology, and the prospect that if its price gets out of whack for long on the upside a great deal more of it will be created. Placing a ceiling on the value of the dollar is the Federal Reserve’s role as actual dollar source, and its commitment not to allow deflation to happen.

Placing a ceiling on the value of bitcoins is computer technology and the form of the hash function… until the limit of 21 million bitcoins is reached. Placing a floor on the value of bitcoins is… what, exactly?

I have had and am continuing to have a dialogue with smart technologists who are very high on BitCoin — but when I try to get them to explain to me why BitCoin is a reliable store of value, they always seem to come back with explanations about how it’s a terrific medium of exchange. Even if I buy this (which I don’t, entirely), it doesn’t solve my problem. And I haven’t been able to get my correspondents to recognize that these are different questions.

But as I said, this is a positive discussion. What about the normative economics? Well, you should read Charlie Stross:

BitCoin looks like it was designed as a weapon intended to damage central banking and money issuing banks, with a Libertarian political agenda in mind—to damage states ability to collect tax and monitor their citizens financial transactions.

Go read the whole thing.

Stross doesn’t like that agenda, and neither do I; but I am trying not to let that tilt my positive analysis of BitCoin one way or the other. One suspects, however, that many BitCoin enthusiasts are, in fact, enthusiastic because, as Stross says, “it pushes the same buttons as their gold fetish.”

 

Il Bitcoin è male

 

E’ sempre importante – ed è sempre difficile – distinguere l’economia concreta – come le cose funzionano – dall’economia normativa – come dovrebbero essere. Per la verità, per molti dei temi di macroeconomia sui quali ho scritto, è stato evidente che un gran numero di macroeconomisti non si rassegnano a fare questa distinzione; detestano l’attivismo dei governi su basi politiche, e questo li porta a sostenere argomenti davvero negativi sulle ragioni per le quali lo stimolo della spesa pubblica non può funzionare e quello monetario sarebbe disastroso. Non penso, per inciso, che si tratti di manifestazioni simmetriche: per quanto individui come Robert Lucas si siano affrettati ad accusare persone come Christy Romer di fabbricare argomenti macroeconomici per sostenere un programma da governo ‘interventista’, la cosa era in effetti non vera.

Ma qua non ho intenzione di parlare di teoria economica ma di denaro – in particolare del Bitcoin e di tutto il resto.

Sinora quasi tutto il dibattito sul Bitcoin ha riguardato gli aspetti economici concreti – può funzionare davvero? E devo dire che sono ancora profondamente non persuaso. Per avere successo, una moneta deve essere sia un mezzo di scambio che una riserva ragionevolmente stabile di valore. E continua ad essere del tutto non chiaro perché il Bitcoin dovrebbe essere una riserva stabile di valore. Lo dice Brad DeLong chiaramente:

“Ciò che regge il valore del dollaro è che se tutto il resto viene meno, lo potete usare per fare belle cose. Ciò che regge il valore del dollaro è: a) il fatto che lo potete usare per pagare le tasse al Governo degli Stati Uniti; b) il fatto che la Federal Reserve sia un potenziale stabilizzatore [1] del dollaro ed abbia promesso di acquistarne sino all’estinzione se il suo valore reale comincia ad affondare molto di più che al 2% all’anno (si, lo so).

Quello che stabilisce il tetto al valore dell’oro è la tecnologia mineraria, e la prospettiva che se il suo prezzo sfugge in modo anomalo e per lungo tempo, dal lato positivo si determinerà un grande accordo ulteriore su di esso. Quello che stabilisce il tetto del valore del dollaro è il ruolo della Federal Reserve come effettiva fonte dei dollari, ed il suo impegno a non consentire che abbia luogo una deflazione.

Quello che stabilisce un tetto al valore dei ‘bitcoins’ è la tecnologia del computer e la forma della ‘funzione hash’ [2] … sinché non è raggiunto il limite di 21 milioni di bitcoins. Stabilire un livello minimo al valore dei bitcoins è …. che cosa è, esattamente?

Ho avuto e continuo ad avere un dialogo con intelligenti tecnologi che sono molto esaltati dal Bitcoin – ma quando cerco di ottenere che mi venga spiegato perché il Bitcoin sarebbe una riserva affidabile di valore, mi sembrano sempre tornare a spiegazioni su come esso sia un mezzo di scambio formidabile. Anche se lo prendessi per buono (cosa che non faccio, almeno interamente), esso non risolve il mio problema. E non sono stato capace di far comprendere ai miei corrispondenti che si tratta di questioni diverse.

Ma come ho detto, questa è una discussione dal lato della concretezza. Cosa si può dire dal lato dell’economia normativa? Ebbene, dovreste leggere Charlie Stross:

“Il Bitcoin sembra sia stato escogitato come un’arma rivolta a provocare un danno alle banche centrali e a quelle che emettono denaro, avendo in mente un programma politico ‘libertariano’ [3] – per danneggiare la capacità degli Stati di raccogliere le tasse e di monitorare le transazioni finanziarie dei loro cittadini.”

Dovete leggere l’intero articolo.

Stross non ama quel programma, e neppure io; ma io sto cercando di non consentire che, in un modo o nell’altro, ciò influenzi la mia analisi sul Bitcoin. Si ha il sospetto, tuttavia, che molti entusiasti del Bitcoin, come dice Stross, siano di fatto tali perché “esso preme gli stessi tasti del loro feticcio aureo”.



[1] In questo caso mi pare si potrebbe intendere “sink” come qualcosa che provoca un affondamento, nel senso di una liquidazione – come un ‘lavello’ che consente che qualcosa scompaia, oppure come un fattore di stabilizzazione, appunto come gli strumenti che stabilizzano la fornitura di energia. Per quanto assai più specifica, mi pare che la seconda interpretazione sia più verosimile. Il “sink” successivo, invece, mi pare che non possa essere inteso se non come un ‘affondare’, un ‘diminuire di valore’.

[2] Nel linguaggio matematico e informatico, la funzione hash è una funzione non iniettiva (e quindi non invertibile) che mappa una stringa di lunghezza arbitraria in una stringa di lunghezza predefinita. Esistono numerosi algoritmi che realizzano funzioni hash con particolari proprietà che dipendono dall’applicazione. (Wikipedia)

Non che in questo modo almeno io abbia capito niente di più. Se non che il Bitcoin … non esisterebbe senza computers potenti e senza una matematica molto sofisticata.

[3] “Libertariana” era ad esempio l’ideologia di Ayn Rand (vedi le note sulla traduzione). Un misto di ideologia antistatalista, individualista, e persuasa della saggezza del capitalismo sfrenato.

Malinconia danese (27 dicembre 2013)

dicembre 27, 2013

 

December 27, 2013, 5:03 pm

Melancholy Danes

I’m going to be visiting Scandinavia next month, so I’m doing preliminary homework — and for someone who hasn’t been following the region closely, there are surprising developments. Here’s real GDP, with the US to give some sense of comparison:

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A couple of years ago Sweden was widely considered a role model, with the best recovery in the advanced world. Now, not so much, thanks to slowing growth — perhaps because of the central bank’s bubblephobia.

Meanwhile, who knew that Denmark was doing so badly? I don’t think that you want to place too much blame on the peg to the euro; this would be a drag if Denmark had entered the crisis overvalued, but it doesn’t look as if this was the case. Instead, the likely culprit is a very high level of household debt.

Interesting stuff — and very much worth looking at for further evidence on the nature of our problems.

 

Malinconia danese

 

Ho in programma di andare in visita alla Scandinavia il prossimo mese, e così sto facendo i miei compiti preliminari – e per uno che non ha seguito da vicino la regione, ci sono sviluppi sorprendenti. Ecco il PIL reale, con il dato degli Stati Uniti che dà un qualche senso al confronto:

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Un paio di anni fa la Svezia era generalmente considerata un modello guida, con la migliore ripresa nel mondo avanzato. Ora non molto, grazie ad una crescita che rallenta – forse a causa della ‘bollafobia’ della banca centrale.

Nel frattempo, chi sapeva che la Danimarca stesse andando così male? Non penso che si voglia attribuire troppa colpa all’ancoraggio all’euro; ci sarebbe stato un trascinamento se la Danimarca fosse entrata nella crisi sopravvalutata, ma non sembra che questo sia stato il caso. Piuttosto, il vero responsabile sembra un livello molto alto di debito delle famiglie.

Cose interessanti – e merita davvero molto guardare a prove ulteriori della natura dei nostri problemi.

Sulla asimmetria di periodi di espansione e di crisi (per esperti) (27 dicembre 2013)

dicembre 27, 2013

 

December 27, 2013, 12:18 pm

On the Asymmetry of Booms and Slumps (Wonkish)

Something I’m thinking about: Recently Antonio Fatas listed four ingredients that he considered missing in macroeconomic models, with the first element being the asymmetry of the business cycle. Basically, the standard models say that output fluctuates around a normal level, with the ups and downs equal in size, and that all policy can do is reduce the variance. Fatas believes, however, that the business cycle is better seen as occasional drops below potential output, then returns to trend — a view that makes good policy much more important. I agree. But why?

There are, I think, two answers we already understand.

One — which doesn’t quite fit Fatas’s framework, but nonetheless goes along with his broader logic — is that we can and should think of economies as being chronically underemployed. Why? Because of market power: the typical producer has at least some market power, hence sets a price above marginal cost, hence is happy to sell more even at the current price. This means that booms, when the economy is operating above normal levels, are happy times — not periods when people are feeling frustrated because they’ve been tricked into producing too much. And slumps hurt a lot — the losses are first-order, not second-order.

The other answer involves downward wage (and maybe price) rigidity. It is downward rigidity, not rigidity in both directions — the number of people receiving precisely zero wage change rises when the economy is depressed, not when it’s booming. That’s an asymmetry right there. And if you think of how fluctuations in the growth of nominal demand play out in something like the Daly-Hobijn model (pdf), they won’t be symmetric: low growth in demand will be reflected mainly in lower output, high growth mainly in inflation.

Much more on all this when I have time. But I think we do have the ingredients in place to make sense of Fatas’s point #1.

 

Sulla asimmetria dei periodi di espansione e di crisi (per esperti)

 

Sto pensando a qualcosa su questo tema: di recente Antonio Fatas ha elencato quattro ingredienti che egli considera stiamo perdendo nei modelli macroeconomici, e il primo elemento è l’asimmetria del ciclo economico. Fondamentalmente, i modelli comuni dicono che la produzione fluttua attorno ad un livello normale, con alti e bassi di eguali dimensioni, e tutto quello che la politica può fare è ridurre il divario. Fatas ritiene, tuttavia, che sia meglio considerare il ciclo economico come occasionali cadute al di sotto del potenziale, che poi ritornano alla linea di tendenza – un punto di vista che rende ancora più importante una buona politica. Sono d’accordo. Ma perché?

Io penso che ci siano due risposte che siamo già nelle condizioni di comprendere.

Una – che non si adatta molto allo schema di Fatas, ma nondimeno procede secondo la sua logica generale – è che noi possiamo e dovremmo pensare  alle economie come se fossero cronicamente in condizioni di sottoccupazione. Per quale ragione? A causa del potere del mercato: il produttore tipico ha almeno qualche potere di mercato, di conseguenza stabilisce il prezzo sopra il costo marginale, quindi è felice di vendere di più persino al prezzo corrente. Questo significa che i periodi di espansione, quando l’economia sta operando al di sopra dei livelli normali,  sono tempi felici – non i periodi nei quali la gente si sente frustrata perché è stata indotta forzatamente a produrre troppo. E le crisi provocano grandi danni – le perdite sono fondamentali, non secondarie.

L’altra risposta riguarda la rigidità verso il basso dei salari (e forse dei prezzi). Si tratta di rigidità verso il basso, non di rigidità in entrambe le direzioni – il numero di persone che non ricevono affatto alcun mutamento nei salari cresce quando le economie sono depresse, non quando sono in espansione. C’è una asimmetria proprio su quel punto. E se pensate a come le fluttuazioni della domanda nominale operano su aspetti come il modello di Daly-Hibijn (disponibile in pdf) [1], esse non saranno simmetriche: una bassa crescita nella domanda si rifletterà principalmente in una produzione più bassa, una alta crescita principalmente nella inflazione.

Scriverò molto di più quando ne avrò il tempo. Ma penso che abbiamo davvero gli ingredienti indispensabili per dare senso alla ipotesi numero 1 di Fatas.



[1] Sono ricercatori presso la Federal Reserve di San Francisco, e lo studio – quello a cui si riferisce Krugman è del giugno del 2013, che si aggiunge mi pare ad un precedente del 2011 – dovrebbe concernere la determinazione del  tasso naturale di disoccupazione, ovvero i fattori che ne determinano una mutamento nei periodi successivi a crisi come quella del 2007/8.

Il grande scatafascio (27 dicembre 2013)

dicembre 27, 2013

 

December 27, 2013, 11:55 am

The Big Screwup

You know how it went. They made big promises: just go to the website, provide the information, and all will be well. What actually happened was nothing like that. It’s true that many, perhaps most people did in the end manage to get what they sought; but millions found themselves frustrated and angry. Was it a disaster? That depends on which anecdotes you choose to emphasize. Will it have long-run consequences? Too soon to tell.

Yes, the great online-shopping screwup of 2013 was an object lesson. Oh, wait — did you think I was talking about healthcare.gov?

So, in case you didn’t know, online shopping had a number of glitches this holiday season, with Amazon, for example, failing to make good on many supposedly guaranteed delivery dates — and as a result, quite a few Christmas presents weren’t there when the reindeer took off. The biggest bottleneck seems to have been UPS, which just didn’t provide enough capacity, but it wasn’t the only one. Can’t the private sector do anything right?

OK, we all understand that things happen, and that sometimes they go wrong — especially when you’re dealing with something new, like the rapid growth of online shopping. But as Alec MacGillis says, many pundits were quick to declare healthcare.gov’s problems evidence of the fundamental, irretrievable incompetence of government, and as an omen of Obamacare’s inevitable collapse. Strange to say, none of these people are making similar claims about UPS or Amazon.

I wonder why.

 

Il grande scatafascio

 

Sapete come è successo. Avevano fatto grandi promesse: bastava andare su un sito, fornire l’informazione e tutto sarebbe andato a posto. Quello che effettivamente è successo non è stato niente di simile. E’ vero che molti, forse la maggior parte delle persone, alla fine sono riusciti ad avere quello che cercavano; ma milioni si sono ritrovati frustrati e indignati. E’ stato un disastro? Dipende a quali racconti volete dare maggior credito. Avrà conseguenze di lungo periodo? E’ troppo presto per dirlo.

Sì, il grande scatafascio degli acquisti on-line del 2013 è stata una lezione dal vero. Ah, scusate …. pensavate che stessi parlando del disastro del sito informatico del Governo sulla riforma sanitaria?

Dunque, nel caso che non lo sappiate, gli acquisti on-line stanno confezionando una quantità di disguidi tecnici in questo periodo di festività. Amazon, per esempio, non riesce a rispettare correttamente molte date di consegna che si pensavano garantite – e di conseguenza un buon numero di regali di Natale non c’erano, al momento in cui le renne hanno preso il volo. Il peggiore collo di bottiglia sembra essere stato UPS [1], che proprio non ha messo a disposizione mezzi sufficienti, ma non è stata l’unica. Il settore privato non riesce proprio a fare niente di giusto?

Va bene, comprendiamo tutti che sono cose che succedono, e che talvolta vanno storte, specialmente quando vi state misurando con qualcosa di nuovo come la rapida crescita degli acquisti on-line. Ma come dice Alec MacGillis, molti commentatori sono stati fulminei nel dichiarare che i problemi del sito governativo sulla riforma sanitaria erano la prova della fondamentale, irrecuperabile incapacità del Governo, ed erano anche un presagio dell’inevitabile collasso della riforma della assistenza sanitaria di Obama. Strano a dirsi, nessuno di loro sta avanzando argomenti simili su UPS o su Amazon.

Mi chiedo perché.


 

 

 

 


[1] United Parcel Service o UPS è una società americana di trasporto plichi e spedizioni internazionali. La sua sede è ad Atlanta in Georgia (USA). Il 28 agosto del 1907, a 19 anni, Jim Casey fondò la American Messenger Company a Seattle, Washington (USA). Il primo cambiamento di denominazione avvenne nel 1913 in Merchants Parcel Delivery per addivenire alla denominazione tuttora in uso nel 1919. Uno dei soprannomi con cui è conosciuta è quello di The Big Brown Machine (in lingua italiana traducibile come “la grande macchina marrone”) per la caratteristica livrea che da anni rende inconfondibili i suoi mezzi di trasporto in tutto il mondo. L’unica modifica estetica effettuata in anni recenti dall’azienda è stata la modernizzazione del logo originario, disegnato da Paul Rand, in uso dal 1961 e sostituito dopo oltre 40 anni di uso nel 2003.

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Perché alle imprese potrebbe non dispiacere una moderata depressione (25 dicembre 2013)

dicembre 25, 2013

 

December 25, 2013, 11:38 am

Why Corporations Might Not Mind Moderate Depression

Yes, it’s Christmas — but the family events won’t begin for hours yet, and I want to follow up on a train of thought I started yesterday.

I pointed out, following on a suggestion by Mike Konczal, that the continuing dire state of the labor market enhances the bargaining position of employers, increasing their power. But can this effect actually mean that employers are better off in a somewhat depressed economy than they would be in a boom?

A lot people have the instinctive reaction that it can’t be possible — that businesses would prefer to have stronger demand, even if it means that they have to pay their workers more and treat them better. And maybe that’s true. But it’s by no means an open-and-shut case.

Suppose (as I am, in fact, supposing) that we have in mind some kind of efficiency wage story, in which the effort employers can extract from their employees depends in part on the state of the labor market. So we can think of each individual employer as having a profit function F(N,U, …) where N is the firm’s own number of employees, U is the overall unemployment rate, and there’s a bunch of other stuff that would bulk this out into a full-size model. Other things equal, firms will choose the level of N that maximizes their profits.

 

But in so doing, they will be ignoring the effect of their collective hiring decisions on the unemployment rate. Indeed, any individual firm has a negligible effect on U. But collectively they in effect determine U — and a high level of U, we’ve been arguing, increases their power over workers and hence their profits. Again, other things equal.

 

So a slack economy could in effect serve as a coordinating device for firms; one way to think about it is that it keeps firms from competing too hard for workers, enabling them to exert more monopsony power. This effect would have to be weighed against the direct adverse effect of slack demand on profitability, but there’s no rule saying that firms have to do worse in a depressed economy; they could actually do better. (I’m going to try some formal modeling on all this, but if anyone else wants to jump in, be my guest.)

 

What about actual experience in this depressed economy? Well, that’s the motivating example. You see, from a profits point of view it’s not a depressed economy at all. Look at profits versus compensation of employees (that’s wages and benefits combined) since the slump began at the end of 2007; both are expressed as indexes with 2007Q4=100:

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Profits took a hit during the financial crisis, but have soared since then, and are now 60 percent above pre-crisis levels; meanwhile compensation has grown hardly at all, and indeed fallen in real per capita terms.

The point is that we have a depressed economy for workers, but not at all for corporations. How much of this is due to the bargaining-power issue is obviously something we don’t know, but the disconnect between the economy at large and profits is undeniable. A depressed economy may or may not actually be good for corporations, but it evidently doesn’t hurt them much.

Now, about the political economy: I don’t think we have to believe in a cabal of CEOs trying to keep the economy depressed. All that we need is for the big money to find the state of the economy OK from its point of view, so that politicians who listen to that money lose interest in the unemployed. You can round up a who’s who of CEOs for Fix the Debt; you can’t even get started on a power-list drive to Fix the Economy.

 

 

And so it remains unfixed.

 

Perché alle imprese potrebbe non dispiacere una moderata depressione

 

Sì, è Natale – ma gli eventi familiari non avranno inizio se non tra qualche ora, ed io vorrei proseguire con una serie di riflessioni che ho avviato ieri.

Ho sottolineato, facendo seguito ad una suggestione di Mike Konczal, che la prolungata tremenda condizione del mercato del lavoro rafforza la posizione contrattuale dei datori di lavoro, accrescendo il loro potere. Ma questa conseguenza può effettivamente significare che gli impresari si trovino più a loro agio in una economia depressa piuttosto che in un periodo di espansione?

Molte persone istintivamente reagiscono dicendo che non è possibile – che le imprese preferirebbero avere una domanda più forte, anche se questo significa che dovrebbero pagare di più e trattare meglio i loro lavoratori. E può darsi che sia vero. Ma questo non significa che sia una cosa scontata.

Supponiamo (come io in effetti suppongo) di avere in mente un qualche racconto di salari di rendimento [1], nel quale lo sforzo che gli impresari possono ottenere dai loro occupati dipende in parte dalla condizione del mercato del lavoro. Possiamo dunque ragionare di ogni datore di lavoro come se avesse una funzione di profitto F (N, U, …), laddove N è il numero degli occupati della propria impresa, U è il tasso generale di disoccupazione e ci sono un mucchio di altre cose che darebbero rilevanza a questo in un modello di dimensioni naturali. A parità delle altre condizioni, le imprese sceglieranno il livello di N che massimizza i loro profitti.

Ma così facendo, esse ignorerebbero l’effetto delle loro collettive decisioni di assunzione sul tasso di disoccupazione. In effetti, una qualsiasi impresa individuale ha un effetto trascurabile su U. Ma collettivamente esse determinano U – e un alto livello di U, noi stiamo sostenendo, accresce il loro potere sui lavoratori e di conseguenza i loro profitti. Sempre, a parità delle altre condizioni.

Dunque, una economia fiacca potrebbe in effetti servire come un congegno di coordinamento per le imprese: si può ad esempio pensare che questo le esenti dal competere troppo duramente per i lavoratori, rendendole capaci di esercitare un maggior potere di monopsonio [2].  Questo effetto dovrebbe essere valutato a fronte della diretta conseguenza negativa della debole domanda sulla capacità di fare profitti, ma non c’è nessuna regola che costringe a pensare che le imprese debbano far peggio in una economia depressa; in verità esse potrebbero comportarsi meglio (ho intenzione di cercare qualche formale modello su tutto questo, ma se qualcun altro vuole essere della partita, è il benvenuto).

Che dire della attuale esperienza a fronte di questa economia depressa? Ebbene, è proprio quello l’esempio ispiratore. Vedete, da un punto di vista dei profitti non c’è affatto una economia depressa. Si guardi ai profitti a fronte dei compensi degli occupati (cioè, dei salari e dei sussidi considerati assieme) dal momento in cui è cominciata la crisi alla fine del 2007; sono entrambi espressi come indici con il quarto trimestre del 2007 fatto pari a 100:

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I profitti presero un colpo durante la crisi finanziaria, ma sono schizzati in alto a partire da lì, ed ora sono al 60 per cento sopra i livelli precedenti alla crisi; nel frattempo i compensi sono proprio saliti a fatica, in effetti sono caduti in termini reali procapite.

Il punto è che abbiamo una economia depressa per i lavoratori, ma niente affatto depressa per le imprese. Quanto questo sia dovuto alla questione del potere contrattuale è qualcosa che naturalmente non conosciamo, ma la disconnessione tra l’economia in generale ed i profitti è innegabile. In effetti, una economia depressa può essere una cosa più o meno negativa per le imprese, ma evidentemente non le danneggia molto.

Ora, tornando alla politica economica: non credo che dobbiamo credere in un complotto degli amministratori delegati per mantenere l’economia depressa. Tutto quello che ci serve è immaginare che il grande capitale cerchi una condizione dal suo punto di vista favorevole dell’economia, cosicché i politici che ascoltano quel punto di vista perdano interesse sui disoccupati. E’ sufficiente che mettiate insieme una lista degli amministratori delegati favorevoli alla associazione “Riparare il debito” [3]; potete anche fare a meno di pensare di partire con un gruppo di pressione che spinga nella direzione di “riparare l’economia”.

E in tal modo l’economia non viene riparata.



[1] Nell’economia del lavoro, l’ipotesi del ‘salario di rendimento’ sostiene che i salari, almeno in alcuni mercati, si determinano in un modo che non è quello di un mercato in equilibrio. In particolare, essa si riferisce all’incentivo per gli imprenditori a pagare i loro occupati maggiormente rispetto al salario di un mercato in equilibrio, al fine di incrementare la loro produttività o efficienza, o di ridurre i costi connessi con il turn-over, nelle industrie nelle quali i costi per rimpiazzare il lavoro sono elevati. La incrementata produttività del lavoro e/o i minori costi compensano i salari più alti.

[2] Il termine monopsonio designa una particolare forma di mercato caratterizzata dalla presenza di un solo acquirente a fronte di una pluralità di venditori. Il vocabolo trae le proprie origini dal greco μονος monos (“solo”) e ὀψωνία opsonia (“acquisto”). Sebbene la pratica di monopsonista sia raramente riscontrabile nella sua forma pura, non è raro osservarla in talune situazioni localizzate. In alcune aree, una grande azienda industriale può creare un distretto di piccole aziende che la forniscono di componenti, ma che hanno per definizione un unico e solo acquirente. In tale forma si ricreano le condizioni di monopsonio. (Wikipedia)

[3] Appunto, una sorta di ‘generale’ lobby politica – comporta da impresari, economisti, commentatori e politici – che si esprime in quella associazione denominata “Riparare (riformare, correggere, rimediare etc)  il debito”.

La difficile condizione degli occupati (24 dicembre 2013)

dicembre 24, 2013

 

December 24, 2013, 10:23 am

The Plight of the Employed

Mike Konczal writes about how Washington has lost interest in the unemployed, and what a scandal that is. He also, however, makes an important point that I suspect plays a significant role in the political economy of this scandal: these are lousy times for the employed, too.

Why? Because they have so little bargaining power. Leave or lose your job, and the chances of getting another comparable job, or any job at all, are definitely not good. And workers know it: quit rates, the percentage of workers voluntarily leaving jobs, remain far below pre-crisis levels, and very very far below what they were in the true boom economy of the late 90s:

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Now, you may believe that employment is a market relationship like any other — there’s a buyer and a seller, and it’s just a matter of mutual consent. You may also believe in Santa Claus. The truth is that employment is, in many though not all cases, a power relationship. In good economic times, or where workers’ position is protected by legal restraints and/or strong unions, that relationship may be relatively symmetric. In times like these, it’s hugely asymmetric: employers and employees alike know that workers are easy to replace, lost jobs very hard to replace.

And may I suggest that employers, although they’ll never say so in public, like this situation? That is, there’s a significant upside to them from the still-weak economy. I don’t think I’d go so far as to say that there’s a deliberate effort to keep the economy weak; but corporate America certainly isn’t feeling much pain, and the plight of workers is actually a plus from their point of view.

 

La difficile condizione degli occupati

 

Mike Konczal scrive su come Washington abbia perso interesse sui disoccupati, e su quanto sia scandaloso. Avanza anche, però, un importante argomento che io sospetto giochi un ruolo importante nella economia politica di questo scandalo: questi sono tempi grami anche per gli occupati.

Perché? Perché il loro potere di contrattazione è diventato modesto. Lasciate il vostro posto di lavoro e le possibilità di trovarne un altro paragonabile, o un qualsiasi posto di lavoro in assoluto, sono di sicuro cattive. E i lavoratori lo sanno: le percentuali degli abbandoni, i lavoratori che volontariamente lasciano i loro posti di lavoro, restano assai al di sotto dei livelli precedenti alla crisi, e moltissimo al di sotto di quelle che erano nella effettiva espansione economica della fine degli anni ’90:

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Ora, potete credere che l’occupazione sia una relazione di mercato al pari di ogni altra – c’è chi compra e chi vende ed è solo una faccenda di mutuo consenso. Potete anche credere a Santa Claus. La verità è che l’occupazione è, in molti se non in tutti i casi, una rapporto di potere. In tempi di buona economia, oppure laddove la posizione dei lavoratori è protetta da limitazioni di legge o da sindacati forti, quel rapporto può essere relativamente equilibrato. In tempi come questi, esso è del tutto asimmetrico: gli impresari come i lavoratori sanno che questi ultimi sono facili da rimpiazzare, mentre sono difficili da rimpiazzare i posti di lavoro che si lasciano.

Posso suggerire che ai datori di lavoro, sebbene non lo diranno mai in pubblico, questa situazione non dispiace? Non penso che si debba arrivare a dire che sia in atto uno sforzo deliberato per mantenere debole l’economia; ma l’America delle imprese di sicuro non sta soffrendo granché, e le difficoltà dei lavoratori sono in verità, dal loro punto di vista, un vantaggio.

Uber e le guerre macro (21 dicembre 2013)

dicembre 21, 2013

 

December 21, 2013, 2:04 pm

Uber and the Macro Wars

Yesterday I offered a brief history of the civil war in macroeconomics, in which I explained that it really began over the question of apparent wage and price stickiness. It was an obvious empirical fact that wages generally don’t fall in recessions, and that as a result changes in nominal spending are reflected in real output. (Just as a reminder — this does NOT mean that wage flexibility would improve our current situation — on the contrary, thanks to the overhang of household debt, it would make things worse).

The Keynesian attitude — both old and New — has been that we should try to understand this empirical observation, but that while we try to get there, it’s OK to simply assume wage stickiness as a modeling strategy. The freshwater view began with an intellectually appealing solution in terms of rational behavior and imperfect information that unfortunately turned out to be all wrong; rather than drop their modeling strategy and the nifty math that went with it, freshwater economists decided to deny the facts instead.

Which brings me to Uber, the smartphone-based car service. Uber, it turns out, doesn’t charge fixed prices; it practices surge pricing, in which prices depend on the state of demand. So when there’s a snowstorm or something that makes everyone want a car at the same time, prices go way up — sometimes sevenfold.

This makes a lot of sense from a rational economic point of view — and it makes people totally furious. It turns out that people are OK with fluctuating prices when it’s really an impersonal market — but they get really angry at any hint that someone with whom they have some sort of ongoing relationship is exploiting their distress. In fact, Uber’s surge pricing is really bad public relations, and I won’t be surprised to see the company modify its strategy if only for marketing purposes.

What does this have to do with the macro wars? Well, back in the 1990s the economist Truman Bewley — an economist heretofore known for high theory in microeconomics — did something novel on the subject of wages, and why they don’t fall in recessions: he went out and asked people. And what he found was that issues of fairness and morale were key. Employers didn’t cut wages, even when unemployment was high and they knew that employees had no place to go, because they believed that morale and workplace cooperation would collapse if their employees felt that the company was exploiting a bad economy for its own gain.

The parallel should be obvious — and of course it’s a lot more important to feel that your employer won’t betray you than it is to feel good about your car service.

Is there a rigorous way to model this kind of behavior? Not yet. Someday, one suppose, we’ll be able to put it all in equations — after all, everything is quantum mechanics in the end. But two things are certain right now. One is that this kind of thing really happens; the other is that it can’t be derived from the narrow notion of maximization that underlies what passes for “microfounded” macroeconomic models in the early 21st century.

Can you live with that reality, and accept the notion that not everything you put in your model has microfoundations? If you can, you’re a saltwater economist, in some sense a Keynesian. If you can’t, you’re part of what has gone wrong with the field.

 

Uber e le guerre macro

 

Ieri ho presentato una breve storia della guerra civile in macroeconomia, con la quale ho spiegato che essa ebbe inizio sul tema della apparente rigidità dei salari e dei prezzi. Era un evidente fatto empirico che i salari non calassero durante le recessioni e che di conseguenza i mutamenti nella spesa pubblica nominale si riflettessero nella produzione reale (solo per memoria: questo NON significa che la flessibilità dei salari migliorerebbe la nostra attuale situazione; al contrario, grazie all’eccesso di debito delle famiglie, renderebbe le cose peggiori).

L’approccio keynesiano – sia del vecchio che del nuovo keynesismo –  è stato che avremmo dovuto cercar di capire questa osservazione empirica, ma che nel mentre cercavamo di arrivarci, era giusto semplicemente assumere la rigidità dei salari come una strategia di modellazione. Il punto di vista della scuola dell’ “acqua dolce” cominciò con una accattivante soluzione nei termini di comportamento razionale e informazione imperfetta che sfortunatamente risultò essere del tutto sbagliata; piuttosto che lasciar cadere le loro strategie di modellazione e l’ingegnosa matematica che le accompagnava, gli economisti dell’acqua dolce decisero di negare i fatti.

La qualcosa mi porta ad Uber,  il servizio automobilistico basato sugli smartphone. Si viene a sapere che Uber non fa pagare prezzi fissi; pratica prezzi crescenti, che dipendono dallo stato della domanda. Dunque, quando c’è una tempesta di neve o qualcosa che spinge tutti a volere una macchina contemporaneamente, i prezzi salgono – talvolta sino a sette volte.

Questo è assai sensato da un razionale punto di vista economico … e fa assolutamente infuriare le persone. Viene fuori che la gente non ha problemi con i prezzi fluttuanti quando si tratta effettivamente di un mercato impersonale – ma si arrabbia molto al minimo cenno che qualcuno con cui hanno un qualche genere di relazione duratura stia sfruttando il loro disagio. Di fatto, i prezzi   che salgono di Uber sono una forma di pubbliche relazioni davvero pessima, e non mi sorprenderei a vedere che la compagnia modifichi la sua strategia solo per uno scopo di marketing.

Cosa ha a che fare questo con le guerre della macroeconomia? Ebbene, nei passati anni ’90 l’economista Truman Bewley – un economista sino a quel punto conosciuto come raffinato teorico di microeconomia – fece qualcosa di originale sul tema dei salari e del motivo per il quale essi non scendono durante le recessioni: andò in giro a fare domande alla gente. E quello che scoprì fu che i temi della equità e della reciproca fiducia erano cruciali. I datori di lavoro non tagliavano i salari, anche quando la disoccupazione era elevata e sapevano che i loro dipendenti non avevano altri posti dove andare, perché credevano che la reciproca fiducia e la cooperazione sul luogo di lavoro sarebbero crollate se i loro impiegati avessero sentito che l’impresa stava sfruttando il difficile momento economico per il proprio profitto.

Il parallelo dovrebbe essere evidente – e naturalmente è molto più importante sentire che il vostro datore di lavoro non vi tradisce che essere a proprio agio con il vostro servizio automobilistico.

C’è un modo rigoroso per trasformare in modello questo tipo di comportamento? Non ancora. Un giorno, si può immaginare, qualcuno sarà capace di tradurre il tutto in equazioni – dopo tutto, ogni cosa alla fine si risolve in una meccanica dei quanti. Ma due cose sono certe sin d’ora. Una è che cose di questa natura realmente succedono; l’altra è che tutto questo non può essere dedotto dalla stretta nozione della massimizzazione su cui si basano quelli che vengono considerati come i ‘modelli macroeconomici fondati sulla microeconomia’ degli inizi del 21° secolo [1].

Potete vivere con questa realtà ed accettare l’idea che non tutto quello che infilate nei vostri modelli ha fondamenti ‘micro’? Se potete, siete un economista dell’ “acqua salata”, in un certo senso un keynesiano. Se non potete, fate parte di quello che non ha funzionato nella disciplina economica.



[1] Ovvero, sull’idea che la macroeconomia possa e debba consistere in una semplice estensione alle dimensioni delle società economiche dei fenomeni microeconomici.

Fondamenti microeconomici e la separazione delle acque (20 dicembre 2013)

dicembre 20, 2013

 

December 20, 2013, 3:14 pm

Microfoundations and the Parting of the Waters

The blogospheric debate about microfoundations, saltwater/freshwater and all that has, I think, been illuminating. Among other things it’s serving almost as an oral history of What Really Happened – minus the oral part, but not mediated by the usual slowness and overthinking of formal publication.

And I think the intellectual history is useful, because it gives you some idea of how people came to make the choice of which side to be on. It’s certainly possible to make the case for an eclectic, fairly salty approach on general principles, as Simon Wren-Lewis, Noah Smith, and Nick Rowe do. But the abstract logic gains force when you recall how it actually happened.

Oh, and I was there – not as a participant in the growing macro war, but as a student at the time the great divide was taking place. I felt the seduction of the microfoundations-uber-alles doctrine, but also got to watch as the demand for microfoundations, originally grounded in appeals to empirical power, became free-floating, a dogma to be defended in the teeth of the evidence.

So, if you had to choose a beginning, it would be the famous Phelps volume. The papers in that volume all started with two observations, of which the first was that there was overwhelming evidence for some kind of short-run non-neutrality of money. None of the papers in that volume questioned the proposition that nominal shocks had large real effects. You can see why if you look at annual changes in nominal versus real GDP between 1950 and 1970:

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Obviously there was a near one-to-one correspondence. Obviously, too, it was really hard in that era, with its lack of major supply shocks, to tell a story in which real GDP was driving nominal spending rather than vice versa. So the Phelps volume began with the stylized fact that in the short run nominal demand, driven for example by changes in monetary policy, gets reflected largely in quantities rather than prices.

But as the papers also observed, it was hard to explain that fact in terms of standard microeconomics: with everyone acting rationally, money should have been neutral even in the short run. Traditional Keynesian analyses simply said that people aren’t completely rational, that they have money illusion – or maybe that contracts are focal points in which nominal wages or prices matter because of salience, even though they should be arbitrary. But these were ex post rationalizations rather than being derived from some kind of fundamentals.

So the Phelps crowd came up with a lovely story: you see, it was all about information. Individuals and firms couldn’t tell, in the very short run, whether a rise in the price they were being offered represented a shock specific to them – people for some reason wanted more of their widgets — or a general change in demand. It was rational to respond to an idiosyncratic rise in demand by producing more, so confusion could explain why short-run aggregate supply seemed upward-sloping.

As Phelps and others (including Milton Friedman, who was thinking along similar lines) realized, this meant that the apparent tradeoff between unemployment and inflation would be unstable: sustained inflation would get built into expectations, and would no longer produce low unemployment. The stagflation of the 70s seemed to confirm this prediction, and brought the microfoundations project immense prestige. Encouraged by all this, freshwater economists gleefully proclaimed Keynes dead, the subject of nothing but “giggles and whispers”.

 

But here’s the thing: after that initial success, Phelps-Lucas/type microfoundations quickly collapsed both intellectually and empirically. Intellectually, the problem was that rational individuals simply should not have been confused in the way the models demanded; there’s too much information out there, whether in newspapers or in asset prices. You just couldn’t get a Lucas supply curve out of a model looking even vaguely like the real economy.

Empirically, the problem was that slumps last too long. Even if you wave away the information problem, confusion about aggregate versus idiosyncratic shocks can last for quarters, maybe, but not years.

So the truth was that microfoundations in macroeconomics had its moment, but failed utterly at the one thing it was sold, above all, as being able to do – namely, give a better explanation of why nominal shocks have real effects. Time, you might think, to reconsider the project.

And some did. There was a revival of Keynesian thinking in the late 70s and early 80s, albeit one that tried to cram as many microfoundations into the models as possible without being grossly unrealistic.

But many economists had so committed themselves to the idea that Keynes was dead and rationality roolz that they simply dug in deeper. Rationality-based microfoundations must be right; if their microfoundations couldn’t explain why nominal shocks have real effects, then nominal shocks must not have real effects – it’s all real shocks. And so real business cycle theory was born.

So now we have people debating whether models with microfoundations lead to better predictions, both of the future and of policy impacts, than models with ad hoc elements; as Wren-Lewis and Smith say, this is by no means obvious if the microfoundations are wrong, as they often clearly are. But what you want to realize is that this isn’t going to convince the microfoundations crowd. After all, more than thirty years ago they decided that the joy of microfoundations trumped the utter failure of microfounded models to work in practice, and they have now trained successive cohorts of students in this view.

There are, it’s true, some hints of a guilty conscience – as Matt Yglesias points out, there’s the odd tendency of freshwater types to immediately accuse anyone with saltwater ideas of being dishonest. (I’m not a nice guy, but if look at what I said about, say, Cochrane, it was that he was ignorant, not corrupt.)

Oh, and the notion that there had been a convergence of views by 2007, which was then ruptured by the crisis, was a saltwater delusion. People like Olivier Blanchard convinced themselves that the other side was listening; it wasn’t. The hysterical reaction to the notion that fiscal policy is effective at the zero lower bound demonstrated that the freshwater types had never bothered to learn the least thing about how New Keynesian models worked.

So there’s a lot of history here; but the main driver behind this history was, I believe, the inability of many economists to accept the fact that they took a wrong turn.

 

Fondamenti  microeconomici  e la separazione  delle acque

 

Il dibattito nell’universo dei blogs sui fondamenti microeconomici, le scuole dell’ “acqua dolce” e dell’ “acqua salata” [1] e tutto il resto,  penso, sia stato illuminante. Tra le altre cose esso ha quasi rappresentato un storia orale di Quello Che Davvero Accadde – con l’inconveniente dell’aspetto parlato, ma con il vantaggio di non essere mediato dalla solita lentezza ed eccessiva riflessività delle pubblicazioni formali.

Ed io penso che la storia intellettuale sia utile, perché fornisce alcune idee su come la gente arriva a fare la scelta di schierarsi da una parte. E’ di sicuro possibile sostenere la tesi a favore di un approccio ai principi generali eclettico, ragionevolmente orientato alla scuola dell’acqua salata, come fanno Simon Wren-Lewis, Noah Smith e Nick Rowe. Ma la logica astratta guadagna forza quando si ricorda quello che accadde davvero.

Ed inoltre, al tempo della grande divisione che avvenne, c’ero anch’io – non come un partecipante alla guerra che si sviluppava, ma come studente. Provai la seduzione della dottrina dei fondamenti microeconomici uber-alles, ma potei anche assistere alla richiesta che i fondamenti micro, all’origine basati sugli appelli al potere dei fatti, vagassero liberamente, un dogma che doveva essere difeso in barba all’evidenza.

Dunque, se si dovesse scegliere un inizio, io lo collocherei nel famoso volume di Phelps. I saggi in quel volume partivano tutti da due osservazioni, la prima delle quali consisteva nella schiacciante evidenza in qualche modo di una non-neutralità, nel breve periodo, della moneta. In nessuno dei saggi di quel volume c’erano dubbi sul concetto secondo il quale gli shocks nominali comportavano ampi effetti reali. Si può comprendere il motivo se si guarda ai mutamenti del PIL nominale a confronto di quello reale tra il 1950 ed il 1970:

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C’era evidentemente una corrispondenza pressoché completa. Era anche evidente che era difficile, a quell’epoca, con la relativa assenza di importanti shocks dal lato dell’offerta, raccontare una storia per la quale il PIL reale determinava la spesa nominale, piuttosto che il contrario. Dunque, il volume di Phelps prendeva le mosse dall’assunto convenzionale che nel breve periodo la domanda nominale, determinata ad esempio da mutamenti nella politica monetaria, veniva riflessa in larga parte nelle quantità, piuttosto che nei prezzi.

Ma, come quegli studi osservavano, era difficile spiegare quel fatto nei termini della teoria microeconomica convenzionale: agendo tutti razionalmente, la moneta avrebbe dovuto essere neutrale anche nel breve periodo. Le tradizionali analisi keynesiane dicevano semplicemente che gli individui non erano completamente razionali, che essi subiscono l’illusione della moneta – o forse che i contratti sono il punto cruciale nel quale i salari o i prezzi nominali sono importanti per il loro rilievo, anche se dovessero essere arbitrari. Ma si trattava di razionalizzazioni ex-post, non derivavano da fattori fondamentali di alcun genere.

Dunque, tutti quegli individui che si riferivano a Phelps se ne vennero fuori con una spiegazione rassicurante: vedete, dipende tutto dall’informazione. Gli individui e le imprese non potevano dire, nel brevissimo periodo, se una crescita nel prezzo che stavano offrendo avesse rappresentato per loro uno shock – si trattava di persone che per una qualche ragione volevano di più per gli oggetti a cui erano interessati – oppure se si trattasse di un cambiamento generale nella domanda. Era razionale rispondere ad una crescita stravagante della domanda con una produzione maggiore, cosicché la confusione poteva spiegare il motivo per il quale l’offerta aggregata nel breve periodo sembrava tendere ad una crescita.

Come Phelps ed altri compresero (incluso Milton Friedman, che stava ragionando su schemi analoghi), questo significava che l’apparente scambio tra disoccupazione ed inflazione sarebbe stato instabile: una prolungata inflazione sarebbe  stata incorporata nelle aspettative e non avrebbe più prodotto bassa disoccupazione. La stagflazione degli anni ’70 pareva confermare quella previsione, e conferì un immenso prestigio al progetto dei fondamenti microeconomici. Incoraggiati da tutto ciò, gli economisti dell’ “acqua dolce” proclamarono spensieratamente che Keynes era morto, oggetto di niente altro se non di “risatine e sussurri” [2].

Ma, qua è il punto: dopo quell’iniziale successo, la teoria dei fondamenti micro del genere di Phelps e Lucas, ebbe rapidamente un crollo, sia in termini intellettuali che fattuali.  Dal punto di vista intellettuale, il problema era che gli individui razionali semplicemente non avrebbero dovuto essere fraintesi nel modo in cui era richiesto da quei modelli; c’era troppa informazione in giro, sia sui giornali che sui prezzi degli assets. Semplicemente non si poteva ottenere una curva dell’offerta alla Lucas se non in un modello che assomigliasse almeno solo vagamente all’economia reale.

Empiricamente, il problema era che le crisi erano troppo lunghe. Se anche si rimuove il problema dell’informazione, la confusione sui fenomeni complessivi nei confronti degli shocks imprevedibili può durare per trimestri, forse, ma non per anni.

Dunque la verità era che i fondamenti micro della teoria macroeconomica avevano avuto il loro momento, ma avevano fallito completamente sull’unica cosa, tra tutte,  che si era raccontato fossero capaci di fare – precisamente, dare una migliore spiegazione della ragione per la quale gli shocks nominali hanno effetti reali. Era il momento, si poteva dedurne, di riconsiderare il progetto.

E qualcuno lo fece. Ci fu una ripresa del pensiero keynesiano, negli ultimi anni ’70 e nei primi anni ’80, sia pure di un genere che si sforzava di riempire i modelli di tutti i fondamenti micro possibili, senza essere grossolanamente irrealistico.

Ma molti economisti si erano talmente affidati all’idea che Keynes fosse finito e che governasse [3] la razionalità, che semplicemente scavavano sempre più a fondo. I fondamenti micro basati sulla razionalità dovevano essere giusti; se i loro fondamenti micro non potevano spiegare perché gli shocks nominali avessero effetti reali, allora gli shocks nominali non dovevano avere effetti reali – erano tutti shocks reali. E così nacque la teoria del ciclo economico reale.

Così adesso abbiamo persone che discutono se i modelli con fondamenti micro portino a previsioni migliori, sia riguardo al futuro che riguardo agli effetti delle politiche, rispetto a modelli basati su elementi ad hoc; come dicono Wren-Lewis e Smith, questo non è per nulla evidente se i fondamenti micro sono sbagliati, come spesso chiaramente sono. Ma quello che si deve comprendere è che un simile argomento non è destinato a convincere il popolo dei fondamenti micro. Dopo tutto, più di trent’anni fa avevano stabilito che i fondamenti micro andavano ben oltre la completa incapacità dei modelli basati sulla microeconomia a funzionare praticamente, ed oggi hanno addestrato varie altre generazioni di studenti a quel punto di vista.

Ci sono, è vero, alcuni cenni di coscienza sporca – come nota Matt Yglesias, c’è la strana tendenza dei soggetti della scuola dell’ “acqua dolce” ad accusare su due piedi chiunque abbia idee che derivano dalla scuola dell’ “acqua salata” di disonestà (io non sono un personaggio garbato, ma se guardo a quello che ho detto a proposito, ad esempio, di Cochrane, si è trattato di giudizi che avevano a che fare con l’ignoranza, non con la corruzione).

E infine, l’idea che ci fosse stata una convergenza di punti di vista  attorno al 2007, e che poi si fosse infranta sulla crisi, è stata una delusione di quelli dell’ “acqua salata”. Persone come Olivier Blanchard si erano convinte che l’altro schieramento stesse ascoltando, ma non era così. Le reazioni isteriche all’idea che la politica della spesa pubblica sia efficace nelle condizioni del limite inferiore dello zero ha dimostrato che i soggetti dell’ “acqua dolce” non si sono mai preoccupati di apprendere le cose più elementari su come i modelli neokeynesiani funzionino.

In tutto questo c’è dunque un bel po’ di storia; ma l’elemento motore principale di questa storia, credo, è stata l’incapacità di molti economisti di ammettere la circostanza di aver preso la strada sbagliata.



[1] Vedi a “freshwater” e “saltwater” alle note sulle traduzione.

[2] Fu una famosa espressione liquidatoria del keynesismo, pronunciata, da un economista della scuola dell’ “acqua dolce” (mi pare fosse Lucas), ovvero della scuola che aveva a Chicago il centro fondamentale (più in generale nelle Università dell’interno degli Stati Uniti, in prossimità con l’area dei Grandi Laghi; da cui il termine “acqua dolce”. Come è chiaro, la scuola dell’ “acqua salata”, invece, prevaleva nelle Università delle coste oceaniche).

[3] “Roolz” è sinonimo di “rules”, più che altro usato nei messaggini.

Pensieri tardivi sulla stretta (20 dicembre 2013)

dicembre 20, 2013

 

December 20, 2013, 2:53 pm

Tardy Taper Thoughts

Not dead yet, in case you’re wondering — just busy with preparations for family travel, and then with travel itself; this post was written during a layover.

Anyway, a quick note on the old news of the Fed’s mini-taper.

As many have noted, it looks as if the Fed has managed to pull the trick off this time — slowing the rate at which it purchases long-term assets, while simultaneously conveying the message that this did not signal a general hawkish turn, that short rates would remain at zero for a long time.

But why, exactly, is the Fed eager to start exiting the QE business, even as it clearly remains concerned that the economy is too weak? The official statement was uninformative. What one hears is that a fair number of people at the Fed worry that QE is feeding speculative bubbles, as investors search for yield that really isn’t there.

But surely that’s a feature of cheap money in general; the same argument could be used for raising short-term rates despite a weak economy and low inflation. In fact, that’s exactly what has been happening in Sweden, where fear of bubbles has been used to justify monetary tightening that makes no sense at all in terms of either an unemployment or an inflation target.

The point is that the dilemma that supposedly explains the Fed’s attempt to give with one hand what it took away with the other really has nothing to do with the form of monetary policy, and everything to do with the pretty clear evidence that the natural rate of interest is negative, which ties us back to the whole secular stagnation issue.

So why the Fed’s twist? My guess is that it’s ultimately political: that ever-growing balance sheet causes problems with Congress; Republicans hate easy money in general, but a Fed balance sheet of FOUR TRILLION DOLLARS [/Dr. Evil] offers an exceptionally easy target.

And since they do seem to have pulled this one off, I guess this particular act of political self-defense was OK.

 

Pensieri tardivi sulla stretta [1]

 

Sono sempre vivo, se è questo che vi state chiedendo – solo occupato con i preparativi per un viaggio familiare, e poi con il viaggio medesimo; questo post è stato scritto durante una pausa.

In ogni caso, una breve nota sulle vecchie notizie sulla mini-stretta della Fed.

Come molti hanno notato, sembra che la Fed in questa occasione abbia cercato di fare il gioco di prestigio – rallentare il ritmo al quale acquista gli assets a lungo termine [2], e contemporaneamente trasmettere il messaggio di non star dando un segnale di svolta verso una politica restrittiva, e che i tassi a breve resteranno prossimi allo zero per lungo termine.

Ma perché, esattamente, la Fed è ansiosa di avviare l’uscita dall’affare della “facilitazione quantitativa”, anche se resta chiaramente preoccupata che l’economia sia troppo debole? Il giudizio ufficiale non è stato chiarificatore. Quello che si sente dire è che un discreto numero di persone alla Fed sono preoccupate che la “facilitazione quantitativa” stia alimentando bolle speculative, dato che gli investitori sono alla ricerca di rendimenti che chiaramente non esistono.

Ma sicuramente è quella la caratteristica in generale del denaro facile: lo stesso argomento potrebbe essere usato per elevare i tassi  a breve termine nonostante un’economia debole ed una inflazione bassa. Di fatto, è esattamente quello che accade in Svezia, dove la paura delle bolle è stata usata per giustificare una restrizione monetaria che non ha alcun senso, sia dal punto di vista della disoccupazione che dell’obbiettivo di inflazione.

Il punto è che il dilemma che si suppone spieghi il tentativo della Fed di dare con una mano quello che toglie con l’altra, in realtà, non ha niente a che fare con la forma di una politica monetaria, e con tutto quello che si deve fare dinanzi alle prove abbastanza chiare di un tasso di interesse naturale negativo, che ci riporta all’intero tema della stagnazione secolare.

Perché, dunque, queste contorsioni della Fed? La mia impressione è che in ultima analisi si tratti di una questione politica: che gli equilibri patrimoniali sempre in crescita provochino problemi con il Congresso. I repubblicani odiano in termini generali il denaro facile, ma un bilancio patrimoniale di QUATTRO MILA MILIARDI DI DOLLARI (il Dottor Male) offre un obbiettivo eccezionalmente facile.

E dal momento che sembra che in questo modo ci siano riusciti,  suppongo che questa particolare iniziativa di auto difesa sia andata a segno.



[1] Essendo il concetto di “taper” riferito ad una diminuzione di ‘interventismo’ finanziario da parte della Fed, la cosa più semplice è tradurlo con “stretta”. Ma se si fosse voluto dire ‘stretta’, ci sarebbe stato un altro termine. In questo caso si è inteso riferirsi ad una sorta di assottigliamento, di attenuazione nella fase finale, che è la specifica connotazione di un “taper”. In effetti una stretta finanziaria è una politica restrittiva, mentre in questo caso di tratterebbe di una attenuazione graduale di una politica espansiva. Ma è più semplice chiarire questi scrupoli con una nota.

[2] Ovvero la “quantitative easing” – facilitazione quantitativa. Vedi alle note sulla traduzione.

La non-spirale della non-fatalità (18 dicembre 2013)

dicembre 18, 2013

 

December 18, 2013, 11:20 am

The Non-death Non-spiral

The glums of October, when the launch of healthcare.gov turned into a debacle, convinced many — in fact, just about all — conservatives that Obamacare was doomed, doomed, doomed. But the IT side is working much better — not as well as it should, but it’s getting there, and enrollment is rising fast.

So what’s a doomsayer to say? You could reconsider in the light of the evidence, but it’s virtually a defining characteristic of modern conservatism that you don’t do that sort of thing. So now prophecies of doom rest on predictions of a “death spiral” in which young, healthy Americans don’t sign up, leading to high premiums, leading to further dropouts, etc..

It’s not going to happen, even though the people who have signed up so far do tilt older. This was expected, by the way — the same thing happened in Massachusetts.

The point is that while the death spiral story sounds good, especially if you’re rooting for failure, you have to do the numbers. And they don’t work, as Sarah Kliff reports. Even if the young sign up at only half the rate of the rest, rates will go only a few percent higher.

Why? As the study Kliff cites explains, the key point is that while Obamacare does impose community rating — no discrimination based on medical history — it doesn’t eliminate age-based rating; it just limits the range of age-based variation in premiums. So while young enrollees are, to some extent, subsidizing their elders, it’s not nearly as big a deal as people imagine.

 

In short, the age profile of enrollees is interesting, but not a reason for either glee or nail-biting anxiety.

 

La non-spirale della non-fatalità

 

La depressione di ottobre, quando l’avvio del sito informatico governativo sulla riforma sanitaria si era trasformato in una debacle, aveva convinto molti conservatori che la riforma della assistenza sanitaria di Obama era proprio spacciata. Ma l’aspetto informatico sta ora funzionando assai meglio – non bene come dovrebbe, ma ci sta arrivando, e le registrazioni crescono velocemente.

Cosa dicono dunque i profeti di sventura? Si dovrebbe, alla luce dei fatti, ripensare alle cose, ma non fare mai niente del genere è in pratica una caratteristica distintiva del conservatorismo moderno. Dunque, adesso le profezie di sventura si basano sulle previsioni di una “spirale fatale” per la quale gli americani giovani ed in buona salute non si iscriveranno, portando così a premi assicurativi più elevati, e di conseguenza ad abbandoni ulteriori, e così via.

Non è destinato a succedere, anche se le persone che si sono iscritte sino a questo punto tendono in effetti ad essere più anziane. Ovviamente, era previsto – la stessa cosa era accaduta nel Massachusetts.

Il punto è che se il racconto sulla spirale fatale sembra giusto, in particolare se si fa il tifo per un fallimento, si devono fare i conti con i dati. Ed essi non lo confermano, come informa Sarah Kliff. Anche se i giovani si iscrivono ad un ritmo che è la metà di quello di tutti gli altri, le tariffe andranno solo di pochi punti in percentuale più in alto.

Perché? Come lo studio citato [1] dalla Kliff spiega, il punto chiave è che se la riforma di Obama impone effettivamente la ‘valutazione comunitaria’ – nessuna discriminazione sulla base della patologie pregresse [2] – essa non elimina una valutazione basata sulla età; semplicemente limita, nei premi assicurativi, la gamma delle variazioni basate sull’età. Se dunque i giovani  che si registrano in qualche misura stanno calando rispetto ai più anziani, questa non è una faccenda rilevante come la gente si immagina.

In poche parole, il profilo dell’età dei registrati è interessante, ma non è una ragione né per gioire, né per mangiarsi  le unghie per l’ansia.



[1] Si tratta di un interessante studio a cura della Fondazione Kaiser, condotto dagli analisi Larry Levitt, Gary Claxton e Anthony Damico. Lo studio è nel link sul testo inglese. In conclusione esso mostra che se anche i giovani adulti (ovvero tra i 18 ed i 34 anni)  si registrassero con una percentuale del 25% più bassa della loro consistenza effettiva, i costi per le assicurazioni crescerebbero solo dell’1,1% rispetto alle entrate assicurative delle polizze; se fossero, nella ipotesi peggiore, del 50% più bassi, i costi crescerebbero del 2,4% rispetto alle entrate delle polizze. Inoltre, lo studio mette in evidenza che il secondo scenario è piuttosto improbabile. E’ vero che esso assomiglia ai dati attuali di Stati come la California, ma alcuni sondaggi indicano una tendenza della popolazione più giovane ad iscriversi successivamente (le registrazioni sono possibili entro il marzo del 2014); cosicché la percentuale di giovani è destinata a crescere col tempo.

[2] Il “community rating” significa che la valutazione del rischio assicurativo, ovvero il calcolo attuariale sulla base del quale si definiscono i costi prevedibili delle assicurazioni e di conseguenza le polizze assicurative, viene condotto sulla base di una stima delle patologie medie di ampie comunità. Il che comporta che non è più possibile alcuna discriminazione sui singoli assicurati che hanno patologie sanitarie precedenti e dunque rischi assicurativi singolarmente più elevati.

I Tre Marmittoni hanno in mente Westminster (18 dicembre 2013)

dicembre 18, 2013

 

December 18, 2013, 11:02 am

The Three Stooges Do Westminster

A couple of weeks ago I tried to get at what’s wrong with the latest tactic of the austerians in terms of a classic Three Stooges scene. Curly is seen banging his head against the wall; when Moe asks why, he replies, “Because it feels so good when I stop.”

As Simon Wren-Lewis tries to explain, this is exactly the basis of the Cameron government’s triumphalism now that UK GDP is growing again.

The basic fact of UK economic performance since the financial crisis is that it has been terrible — in fact, as the NIESR documents, GDP performance has been substantially worse than during the Great Depression:

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The only reason Britain isn’t suffering terrifyingly high unemployment is the fact that, for reasons not clear, productivity has collapsed, so that the shrunken economy is still employing a lot of people.

Now, however, the economy is finally growing. Why?

Well, partly because economies do tend to grow unless you keep banging their heads against a wall. And that’s more or less what has happened in Britain. Wren-Lewis uses the OBR numbers; here, telling more or less the same story, is what you get from the IMF Fiscal Monitor. What I plot below is the change in the cyclically adjusted primary balance — a measure of the extent to which fiscal policy is being tightened.

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You don’t want to think of these as precise numbers, since the cyclical adjustment relies on highly uncertain estimates of potential GDP (it depends on why you think productivity collapsed). But the basic picture is surely right: Cameron/Osborne imposed a lot of austerity in their first two years, then let up substantially. In effect, they spent a while banging Britain’s head against the wall, and are now claiming vindication, because it feels good when they stop.

Politically, this may well work. We’ve long known from US evidence that elections depend on the recent growth rate, not longer-term performance; in fact, an “optimal control” strategy if a president wants to win reelection is to push the economy into a pointless slump during his first two years, then engineer a fast recovery going into the next election. Cameron may have lucked into pursuing effectively the same strategy.

But none of this political analysis should distract us from the economic point that claims that recent growth vindicates austerity are deeply stupid.

 

I Tre Marmittoni hanno in mente Westminster

 

Un paio di settimane fa ho cercato di esprimere cosa ci fosse di sbagliato nell’ultima tattica  dei patiti dell’austerità ricorrendo ad una classica scena dei “tre marmittoni”.  Si vede Curly che sbatte la destra contro una parete; quando Moe gli chiede perché, egli risponde “Perché mi sento così bene quando smetto”.

Come cerca di spiegare Simon Wren-Lewis, questa è esattamente la base del trionfalismo del Governo di Cameron ora che il PIL del Regno Unito ha ripreso a crescere.

Il fatto fondamentale sulla performance economica del Regno Unito a partire della crisi finanziaria è che essa è stata terribile – di fatto, come documento il NIESR [1],  l’andamento del PIL è stato sostanzialmente peggiore che durante la Grande Depressione [2].

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La sola ragione per la quale l’Inghilterra non sta soffrendo per una disoccupazione terribilmente elevata è il fatto che, per ragioni non chiare, la produttività è collassata, cosicché un’economia rinsecchita sta ancora dando lavoro ad una quantità di persone.

Ora, tuttavia, l’economia sta finalmente crescendo. Perché?

Ebbene, in parte proprio perché le economie tendono a crescere  quando si smette di far battere le loro teste contro un muro. E quello è più o meno quanto è successo in Inghilterra. Wren-Lewis utilizza i dati dell’OBR [3]: qua, raccontandoci più o meno la stessa storia, è quello che ottengo da Fiscal Monitor del FMI. Quello che rappresento sotto è il cambiamento del bilancio primario [4] corretto in relazione al ciclo economico – un dato che indica la misura nella quale la politica della finanza pubblica ha subito restrizioni:

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Non si deve pensare a questo come se si trattasse di dati precisi, dal momento che la correzione sulla base del ciclo si basa su stime incerte del PIL potenziale (che dipendono da quanto si ritiene che la produttività abbia subito un crollo). Ma l’immagine di fondo è certamente corretta: Cameron/Osborne hanno imposto una grande austerità nei loro primi due anni, poi la hanno sostanzialmente attenuata. In sostanza, hanno speso un certo periodo facendo sbattere all’Inghilterra la testa contro un muro, ed ora pretendono di aver avuto ragione, perché c’è una sensazione di benessere dal momento in cui si sono fermati.

In termini politici, questo può funzionare egregiamente. Sappiamo da tempo, dalla esperienza degli Stati Uniti, che i risultati elettorali dipendono dal tasso di crescita più recente, non dall’andamento di lungo periodo; di fatto, se un Presidente vuole essere rieletto, la strategia del “controllo ottimale” consiste nello spingere l’economia in una caduta senza scopo nei primi due anni, per poi organizzare una ripresa rapida quando si è prossimi alle elezioni successive. Cameron potrebbe aver fortuna, avendo perseguito essenzialmente la stessa strategia.

Ma nessuna di queste analisi politiche dovrebbe farci perder di vista che il sostenere che la recente crescita risarcisca la politica di austerità è profondamente stupido.



[1] National Institute Of Economic And Social Research, uno dei più antichi istituti di ricerca britannici, fondato nel 1938. Direttore è Jonathan Portes, del quale abbiamo talora tradotto alcuni articoli anche su questo sito.

[2] Il diagramma rappresenta  l’andamento dei principali periodi di recessione e di successiva ripresa nell’economia inglese. L’asse verticale indica l’evoluzione del PIL, quello orizzontale un arco temporale di 66 mesi. La linea nera in basso esprime la prestazione più recente, a partire dal 2008; come si vede il PIL è rimasto per tutto il periodo al di sotto del punto di partenza, dal quale era sceso drasticamente nei primi dodici mesi.

[3] “Office for Budget Responsability”. E’ una agenzia pubblica di analisi economiche e finanziarie istituita nel 2010, probabilmente con qualche analogia con il Congressional Budget Office degli Stati Uniti.

[4] Il “bilancio primario” è il bilancio statale al netto dei crediti e dei prestiti, e dunque in particolare al netto degli interessi pagati sul debito. La “correzione sulla base del ciclo”, in questo caso, significa la ulteriore correzione, per non tener conto degli effetti considerati straordinari che sono determinati dalla situazione di crisi – riduzione del prodotto, minori entrate.

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