December 17, 2013, 2:01 pm
David Brooks has a funny piece today about the new profession of Thought Leaders. I think I know who he’s talking about. But I started thinking about my own neck of the woods — and while the rules of the game in economics are definitely changing, it’s nothing like what David describes.
What is true is that there has been a major erosion of the old norms. It used to be the case that to have a role in the economics discourse you had to have formal credentials and a position of authority; you had to be a tenured professor at a top school publishing in top journals, or a senior government official. Today the ongoing discourse, especially in macroeconomics, is much more free-form.
But you don’t get to play a major role in that discourse by publishing clever Slateish snark; you get there by saying smart things backed by data.
Obviously the web has changed a lot, although the process actually started even before the rise of blogs. Economics journals stopped being a way to communicate ideas at least 25 years ago, replaced by working papers; publication was more about certification for the purposes of tenure than anything else. Partly this was because of the long lags — by the time my most successful (though by no means best) academic paper was actually published, in 1991, there were around 150 derivative papers that I knew of, and the target zone literature was running into diminishing returns. Partly, also, it was because in some fields rigid ideologies blocked new ideas. Don’t take my word for it: It was Ken Rogoff, not me, who wrote about the impossibility of publishing realistic macro in the face of “new neoclassical repression.”
Anyway, at this point the real discussion in macro, and to a lesser extent in other fields, is taking place in the econoblogosphere. This is true even for research done at official institutions like the IMF and the Fed: people read their working papers online, and that’s how their work gets incorporated into the discourse.
How does the econoblogosphere work? It’s a lot like the 17th-century coffee shop culture Tom Standage describes in his lovely book Writing on the Wall. People with shared interests in effect meet in cyberspace (although many of them are, as it happens, also sitting in real coffee shops at the time, as I am now), exchange ideas, write them up, and make those writeups available to others when they think they’re especially interesting.
As Standage explains, this informal system gradually evolved into the modern structure of scientific journals, as the process of circulating research writing became formalized, with refereeing as a form of quality check. But the way it began, as Standage says, was in important ways more like social media than like centralized publication with clear lines of authority.
And now we’re back to something like that world.
So who are the players in this world? Well, look at any of the various rankings of economics blogs — say, the one at Onalytica. I don’t see any of Brooks’s Thought Leaders there. I see a lot of solid professional economists; a number of equally solid economic journalists; and a few people who don’t fall into standard categories, but are by no means the kind of shallow operator Brooks describes. Mike Konczal at Next New Deal, for example, doesn’t fit any of the old categories, but does utterly serious and important work.
Well, and there’s Zero Hedge, but it’s an imperfect world.
Does this new, amorphous system work? Yes! In just the past few years we’ve had what I’d consider three classic economic debates — on the effects of monetary expansion at the zero lower bound, on fiscal multipliers and austerity, on the effects of high debt ratios; the emergence of major new themes involving issues like private-sector leverage and the need for safe assets; and more, all strongly informed by data. Of course most of the people on the losing side of these debates refuse to admit having been wrong, but it was ever thus — science progresses funeral by funeral and all that.
So don’t feel nostalgic for the days of authority figures dominating the discourse. Intellectually, in economics at least, these are the good old days.
Il “Facebook” della teoria economica
David Brooks scrive oggi un buffo articolo sulla nuova professione dei “Leaders del pensiero”. Penso di sapere di chi sta parlando. Ma mi sono messo a pensare su come vanno le cose dalle mie parti – e se le regole del gioco stanno sicuramente cambiando in economia, non c’è niente del genere di quello che descrive David.
Quello che è vero è che c’è stata una importante erosione delle vecchie norme. Era consuetudine che per avere un ruolo nel dibattito economico si dovevano avere credenziali formali ed una posizione autorevole; si doveva essere professori di ruolo in una scuola di primo livello e pubblicare sulle riviste più importanti, o avere un incarico rilevante in un governo. Oggi il dibattito in corso, specialmente in macroeconomia, è molto più libero da condizionamenti.
Ma non ottenete un ruolo importante in quel dibattito pubblicando intelligenti commenti sarcastici più o meno come quelli su “Slate” [1]; lo ottenete dicendo cose intelligenti seguite da dati.
Ovviamente il web ha effettivamente cambiato molte cose, sebbene il processo fosse partito anche prima dell’avvento dei blogs. Le riviste economiche hanno finito di essere un modo per comunicare le idee almeno 25 anni orsono, rimpiazzate dai ‘documenti di lavoro’; la pubblicazione era più un certificato ai fini della cattedra che altro. In parte questo dipese dai lunghi ritardi – all’epoca in cui fu pubblicato il mio lavoro accademico di maggiore successo (sebbene in nessun senso il migliore), nel 1991, c’erano circa 150 saggi di mia conoscenza che avevano preso spunto da esso, e la letteratura sull’area di quel tema faceva i conti con rendimenti calanti. In parte, anche, dipese dal fatto che in alcuni settori ideologie rigide ostacolavano le nuove idee. Se non volete credere a quello che dico, considerate che fu Ken Rogoff, non il sottoscritto, che scrisse della impossibilità di pubblicare una macroeconomia realistica di fronte alla “repressione neoclassica”.
In ogni modo, a questo punto il reale dibattito sulla macroeconomia, e in minor misura in altre discipline, ha luogo nella “econoblogosfera”. Questo è vero anche per la ricerca condotta presso le istituzioni ufficiali come il Fondo Monetario Internazionale e la Fed: la gente legge i propri documenti di lavoro online, e questo è il modo in cui il loro lavoro viene inserito nel dibattito.
Come funziona la “econoblogosfera”? E’ un po’ come nella cultura dei locali da caffè del diciassettesimo secolo che Tom Standage descrive nel suo bel libro “Scrivere sulla parete”. La gente con interessi comuni si incontra in effetti nello cyberspazio (sebbene molti di loro, come accade, possono anche star seduti davvero in un caffè, come io in questo momento), si scambiano le idee, le mettono nero su bianco e poi rendono queste note disponibili agli altri quando pensano che esse siano particolarmente interessanti.
Come spiega Standage, questo sistema informale gradualmente si sviluppò nella struttura moderna delle riviste scientifiche, allorché venne formalizzato il processo dello scrivere le ricerche allo scopo di diffonderle, con i giudizi che diventavano una forma di controllo di qualità. Ma il modo in cui esso ebbe inizio, come dice Standage, fu per aspetti importanti più simile ai ‘social media’ che non alla pubblicazione centralizzata secondo chiari percorsi di autorità.
Ed oro siamo tornati a qualcosa di simile a quel mondo.
Chi sono dunque gli attori, in questo mondo? Ebbene guardate a qualcuna delle varie classifiche dei blogs economici – ad esempio, quella su Onalytica[2] . Non trovo qua nessuno dei ‘leaders del pensiero’ di cui parla Brooks. Vedo un mucchio di solidi economisti di professione; un certo numero di giornalisti economici altrettanto solidi ed un po’ di persone che non ricadono nelle categorie usuali, ma che non sono in nessun senso del genere degli operatori superficiali che Brooks descrive. Mike Konczal col Next New Deal, ad esempio, non corrisponde ad alcuna delle solite categorie, ma fa un lavoro assolutamente serio ed importante.
Ed è vero, c’è anche Zero Hedge [3], ma viviamo in un mondo imperfetto.
Funziona, questo nuovo ed amorfo sistema? Sì! Solo negli ultimi tre anni abbiamo avuto quelli che io considero tre dibattiti economici classici – sugli effetti della espansione monetaria nelle condizioni del limite inferiore di zero dei tassi di interesse, sui moltiplicatori della finanza pubblica e sull’austerità, sugli effetti delle percentuali elevate di debito; l’emergere di importanti nuovi temi che includono problematiche come quelle del rapporto di indebitamento del settore privato e della necessità della sicurezza negli assets, ed altro ancora, il tutto fortemente corredato di dati. Come è naturale, gran parte delle persone, dal lato di coloro che sono stati sconfitti in queste discussioni, rifiutano di ammettere di aver avuto torto, ma così è sempre stato – la scienza progredisce di funerale in funerale, con tutto quanto ne consegue.
Dunque, io non provo nostalgia per i giorni nei quali le persone cosiddette autorevoli dominavano il dibattito. Intellettualmente, almeno in economia, i bei tempi andati sono quelli attuali.
[1] Non ne sono certo. Ma “snark” sicuramente sta per “commento sarcastico” – una combinazione di “snide” (“beffardo”) e “remark” (“Commento, osservazione”). E “Slateish” dovrebbe essere riferito alla rivista liberal “Slate”, con l’aggiunta del suffisso “ish” che può significare “più o meno”, “all’incirca”, “simile a”.
[2] Si tratta di un blog che pubblica le classifiche dei blogs più significativi del mondo. Nell’ultima sono elencati 200 blogs, che ricevono punteggi sotto tre profili: Influenza, Popolarità e un terzo fattore definito “Sovrainfluenza”. L’indice di influenza rappresenta il “fattore di impatto”, che viene riferito al valore del blog più influente in assoluto. La Popolarità viene valutata in termini di conoscenza presso gli altri blogs economici. La Sovrainfluenza corrisponde alla influenza di un blog, rapportata alla influenza che ci si aspetterebbe che esso abbia per effetto della sua popolarità (si noti che in questo terzo caso il punteggio vada inteso in termini relativi, nel senso che la ‘sovrainfluenza’ indica un fattore di interesse verso un sito che è più che proporzionale alla sua notorietà, e dunque essa può avere un punteggio elevato per effetto di una popolarità ‘inferiore’ a quello che si potrebbe precedere data la sua influenza …).
Può essere interessante l’ultima graduatoria con i punteggi relativi (come prevedibile, al primo posto c’è Krugman).
1. The Conscience of a Liberal |
100.0 |
100.0 |
1.2 |
|
New Entry ★ | 2. Economix |
61.7 |
64.9 |
1.1 |
New Entry ★ | 3. FT Alphaville |
60.8 |
52.0 |
1.4 |
New Entry ★ | 4. Vox |
57.4 |
56.5 |
1.2 |
2 ↓ | 5. Marginal Revolution |
53.1 |
63.4 |
1.0 |
2 ↓ | 6. Brad Delong |
50.8 |
61.3 |
1.0 |
5 ↓ | 7. Economist’s View |
50.6 |
62.8 |
1.0 |
9 ↑ | 8. Zero Hedge |
49.0 |
57.7 |
1.0 |
2 ↓ | 9. Naked Capitalism |
40.4 |
48.0 |
1.0 |
4 ↓ | 10. Econbrowser |
36.2 |
42.0 |
1.0 |
– | 11. The Big Picture |
35.9 |
42.6 |
1.0 |
2 ↓ | 12. EconLog |
35.9 |
45.3 |
0.9 |
4 ↓ | 13. The Money Illusion |
30.2 |
48.0 |
0.7 |
9 ↓ | 14. Greg Mankiw’s Blog |
30.1 |
36.6 |
1.0 |
5 ↑ | 15. Economic Policy Institute |
28.7 |
35.7 |
0.9 |
3 ↓ | 16. Calculated Risk |
28.6 |
25.5 |
1.3 |
[3] “Zero Hedge” è un blog nato nel 2009, abbastanza ‘chiacchierato’ – se ho ben capito – per la supposta presenza tra i fondatori di un tale Ivandjiiski, che si era procurato una condanna per ‘insider trading’. Ma, sempre se ho ben capito, il blog era anche stato protagonista di una serie di posts che avevano messo in evidenza la pratica discutibile se non truffaldina del “flash trading”, a carico di Goldman Sachs.
dicembre 17, 2013
December 17, 2013, 1:30 pm
Dana Milbank has an interesting piece today, on two levels.
He begins:
When will the criticism of Obamacare finally end?
I’ve done some research on the question, and by my calculations, judging from current trends, this will happen approximately . . . never.
He then goes on to compare Obamacare to the auto bailout, which at this point looks like a rousing success — but continues to be lambasted by the right, because it shouldn’t have worked, and therefore can’t have worked.
It’s a clever and apt comparison. But it’s something else, too: Milbank may be funny, but he’s not Shrill (TM). So when you see him asking how conservatives will react to Obamacare’s success, it’s a strong signal that the press is catching up to the reality that December is not October, and that the news — while there are still many troubles — is increasingly positive. Actually, so is Darrel Issa’s angry rebuke to a health care official: “You need to watch more Fox News.”
One thing this says is that GOP expectations that Obamacare’s collapse will lead them to triumph are way off. More generally, current polling — which reflects press coverage over the past couple of months, not the months to comes — is probably a very bad guide to future attitudes.
Il verme della riforma sanitaria di Obama continua a rivoltarsi [1]
Dana Milbank [2] ha oggi un articolo interessante, in un duplice senso.
Inizia così:
“Quando finiranno tutte queste critiche sulla riforma sanitaria di Obama?
Ho fatto alcune ricerche sul tema e secondo i miei calcoli, giudicando dalle tendenze attuali, questo, approssimativamente …. non accadrà mai.
Egli poi passa a confrontare la riforma della assistenza sanitaria di Obama con il salvataggio dell’auto, che a questo punto sembra un esaltante successo – ma continua ad essere fustigato dalla destra, perché non avrebbe dovuto funzionare, e di conseguenza non può aver funzionato [3].
E’ un confronto intelligente ed appropriato. Ma è anche qualcosa d’altro: Milbank può essere buffo, ma non è “Stridulo” [4]. Così, quando lo vedete chiedere come reagiranno i conservatori al successo della riforma sanitaria di Obama, si tratta di un forte segnale che la stampa sta comprendendo che la realtà di dicembre non è quella di ottobre, e che le notizie – per quanto ci siano ancora molti guai – sono sempre più positive. Per la verità, ha lo stesso significato l’irritato rimprovero di Darrel Issa ad un dirigente del settore sanitario: “Lei ha bisogno di guardare di più Fox News” [5].
Quello che questo ci dice è che le aspettative del Partito Repubblicano che un collasso della riforma sanitaria di Obama li porti al trionfo se ne sono andate. Più in generale, i sondaggi odierni – che riflettono le campagne di stampa nei due mesi trascorsi, e non dei mesi a venire – probabilmente sono una pessima guida alla previsione degli atteggiamenti futuri.
[1] Non saprei come tradurre se non letteralmente. E’ un idioma che significa che “anche un verme prima o poi si ribella”, e l’espressione è stata usata in un post precedente appropriatamente. Qua significa che “quel verme” continua a rivoltarsi contro. Ovvero, la riforma di Obama, per quanto attaccata, reagisce con crescente efficacia.
[2] Dana Milbank è un giornalista del Washington Post , dunque di un giornale ‘centrista’ e non pregiudizialmente favorevole ad Obama. Il fatto che il WP paragoni la testardaggine dei repubblicani sugli esiti prossimi della riforma sanitaria alla loro posizione pregiudizialmente ostile all’intervento di Obama sulla industria automobilistica è assai significativo.
[3] Questo, tra parentesi, spiega anche la ragione per la quale questo post è introdotto dal diagramma sul tasso di disoccupazione nel Michigan. Come si vede, il tasso di disoccupazione era salito con la crisi al 14 per cento, ed è ridisceso tra l’8 ed il 9 per cento. Il che significa che, in effetti, l’intervento di salvataggio del settore automobilistico è stato un notevole successo. Ed il post è proprio relativo al confronto tra la vicenda di quel salvataggio e la riforma sanitaria; entrambi manifestazioni della incapacità dei repubblicani a misurarsi con i fatti.
[4] Parrebbe che il termine “shrill” – che significa solo “stridulo”, o magari “petulante” – abbia un significato più preciso nel linguaggio dei Pokemon, e TM starebbe per “Technical Machine” , che è uno strumento di quei videogiochi. Ma questa volta mi arrendo.
[5] Darrel Issa è un congressista repubblicano. Forse il senso è questo: che se i repubblicani non hanno maggiori argomenti che richiamare i servizi di Fox News come fonti di verità, devono essere un po’ agli sgoccioli.
dicembre 16, 2013
December 16, 2013, 5:04 pm
Health Expenditure Is Really Really Big (A Clarifying Note)
OK, for some reason I didn’t see that coming. But when I pointed out that insurers are getting ready to lay out around $500 million to promote policies via the Affordable Care Act — which I see as very good news — a fair number of readers were outraged. Insurers are spending all that money on advertising, when they should be spending it on health care!
Well, yes. And I would, as I said, prefer single-payer — except that if you followed the legislative process at all, you know that Medicare for all wasn’t going to happen in 2010, or probably for decades to come.
But you really do need a sense of the magnitudes here. Outlays by private insurers will be nearly $1 trillion this year. So Obamacare-related advertising, while big news in terms of getting the word out — and a big signal that insurers think it’s a go — amounts to about 0.05 percent of those insurers’ costs. Don’t get bent of shape!
La spesa sanitaria è grande per davvero (una nota di chiarimento)
Va bene, per qualche ragione non mi sono accorto di quello che stava succedendo. Ma quanto ho messo in evidenza che gli assicuratori si stanno apprestando a sborsare circa 500 milioni di dollari di promozione di politiche quali quelle della Legge sulla Assistenza Sostenibile – che ho considerato una notizia assai buona – un discreto numero di lettori si sono sentiti oltraggiati. Gli assicuratori stanno spendendo tutti quei soldi sulla propaganda, quando dovrebbero spenderli sulla assistenza sanitaria!
Ebbene, sì. Ed io preferirei, come ho detto, un sistema con un unico centro di spesa – a parte il fatto che se avete seguito sul serio il percorso legislativo, saprete che nel 2010 non era destino che si avesse una soluzione del tipo “tutto Medicare”, né probabilmente lo sarà per decenni.
Ma in questo caso avete proprio bisogno del senso delle proporzioni. Quest’anno le spese pubblicitarie degli assicuratori privati saranno circa mille miliardi di dollari. Dunque, la pubblicità connessa con la riforma sanitaria di Obama, se è una grande notizia in termini di comunicazione – ed un grande segnale del fatto che gli assicuratori pensano che stia andando – corrisponde a circa lo 0,05 per cento di quei costi assicurativi.
Non è il caso di uscire dai gangheri!
dicembre 16, 2013
December 16, 2013, 4:50 pm
Conservative Wonks, Conservative Politicians, and Recessions
Josh Barro has a good but incomplete post about the conservative inability to deal in any meaningful way with the reality of recessions. As he says, GOP policy prescriptions — deregulate, cut spending (especially on the poor), and cut taxes (on the rich) — are the same when unemployment is above 9 percent as when it is below 5. “How,” he asks, “can a political ideology have nothing to say about how to address recessions?”
But Barro, I’d argue, misrepresents this as a case of doctrinaire, anti-intellectual politicians rejecting the ideas of conservative wonks. No doubt the politicians are indeed anti-intellectual and doctrinaire; and yes, there are some conservative wonks who are voices in the wilderness.
It’s quite wrong, however, to imagine that it’s only dumb politicians who reject the notion that there’s anything special about recessions, and that periods of high unemployment call for different policies than periods of full employment. When I read Barro’s piece, I immediately thought of a diatribe by a *very* prestigious conservative economist, rejecting and ridiculing the idea that “regular economics” — his term — loses any of its validity during times of high unemployment:
Keynesian economics argues that incentives and other forces in regular economics are overwhelmed, at least in recessions, by effects involving “aggregate demand.”
Those scare quotes are significant. If you consider the notion of “aggregate demand” ludicrous, you aren’t just rejecting Keynesian economics; you’re rejecting monetarism, of any form too; you are in effect declaring that Milton Friedman was a fool. In fact, the author of this diatribe ridicules the whole notion that recessions involve some kind of market failure that needs addressing.
So who are we talking about? Um, Robert Barro.
Why would someone really smart — and the elder Barro certainly is, even if he has some problems with history — reject the very notion of a failure of aggregate demand? The answer has to be political — the sense that acknowledging that markets fail, ever, would be the thin edge of the wedge for liberal policies. Whatever the reason, what we have here is the position Barro the younger lambastes as a failure of conservative politicians being taken by one of the most famous, prestigious conservative economists around.
Whatever has gone wrong here, it’s a problem of the conservative intelligentsia as well as the base.
Conservatori specialisti, conservatori politici e recessioni
Josh Barro ha un pezzo interessante ma incompleto sull’incapacità dei conservatori a fare i conti in qualche modo sensato con le recessioni. Come egli dice, le prescrizioni politiche del Partito Repubblicano – deregolamentare, tagliare la spesa (specialmente sui poveri) e tagliare le tasse (sui ricchi) – sono le stesse quando la disoccupazione è attorno al 9 per cento e quando è sotto il 5 per cento. “Come può”, si chiede, “una ideologia politica non aver niente da dire su come affrontare le recessioni?”.
Ma Barro, direi, interpreta questo malamente, come un caso di uomini politici dogmatici ed antintellettuali che respingono le idee degli specialisti conservatori. Nessun dubbio che gli uomini politici siano antintellettuali e dogmatici; ed è vero che ci sono alcuni conservatori specialisti che sono come voci nel deserto.
Tuttavia è piuttosto sbagliato pensare che si tratti soltanto di uomini politici sciocchi che respingono l’idea che ci sia qualcosa di speciale nelle recessioni e che i periodi di alta disoccupazione richiedano politiche diverse dai periodi di piena occupazione. Quando ho letto il pezzo di Barro ho subito pensato alla polemica di un economista conservatore ‘molto’ prestigioso, che rigetta e mette in ridicolo l’idea che una “economia secondo le regole” – questo il termine che usa – perda una parte della sua validità nei periodi di alta disoccupazione:
“L’economia keynesiana sostiene che incentivi ed altri fattori in una economia secondo le regole sono sopraffatti, almeno durante le recessioni, dagli effetti che coinvolgono la ‘domanda aggregata’.”
Queste paurose citazioni sono significative. Se voi considerate la nozione di “domanda aggregata” ridicola, non state solo rigettando l’economia keynesiana; state rigettando anche il monetarismo, in qualsiasi forma; in effetti state dichiarando che Milton Friedman era uno sciocco. Di fatto, l’autore di questa polemica mette in ridicolo l’intero concetto secondo il quale le recessioni riguardano un qualche genere di fallimento del mercato che ha bisogno di essere affrontato.
Dunque, di chi stiamo parlando? Ehm, di Robert Barro [1].
Perché una persona davvero intelligente – e il Barro più anziano certamente lo è, anche se ha qualche problema con la storia – dovrebbe respingere l’intero concetto di un carenza della domanda aggregata? La risposta non può che essere politica – la sensazione che riconoscere che i mercati sbagliano, non di poco, sarebbe la punta sottile di un cuneo per politiche progressiste. Qualsiasi sia la ragione, quello che abbiamo in questo caso è che la posizione che il giovane Barro critica aspramente come un fallimento dei politici conservatori è stata assunta da uno dei più famosi e prestigiosi economisti che ruotano attorno al mondo conservatore.
Qualsiasi cosa non abbia funzionato a questo proposito, si tratta di un problema della intellighenzia conservatrice come della base.
[1] Joshua A. “Josh” Barro è un giornalista americano, attuale direttore di Business Inside. Robert Joseph Barro (born September 28, 1944) è invece un economista americano, docente alla Harvard University. Ed è il padre di Josh.
dicembre 16, 2013
December 16, 2013, 10:55 am
More Paleo-Keynesianism (Slightly Wonkish)
More followup on the state of Keynesian economics. In the Brad DeLong post I cited, he mentions as one of the key planks of New Keynesian (as opposed to old Keynesian) macroeconomics the rejection of the old-fashioned notion of a stable relationship between unemployment and inflation.
Now, you can argue that the notion of a long-term usable unemployment-inflation tradeoff was never really part of Keynesian economics, that it’s a caricature of what 60s Keynesians actually believed. Nonetheless, the stagflation of the 70s was a decisive moment in economic ideology. Stagflation seemed to confirm the Friedman-Phelps notion — based loosely on “microfoundations”, i.e., notions of rational behavior — that sustained inflation would get built into wage and price setting, so that historical correlations between unemployment and inflation would disappear. And this in turn gave a huge push to the anti-Keynesian revolution.
Put it this way: when I was in grad school, I remember lunchtime conversations that went something like this; “I just don’t buy the Lucas stuff — it’s not remotely realistic.” “But these people have been right so far, how can you be sure they aren’t right now?”
But that was then. And here’s a question: How many economists realize that the data since around 1985 — that is, since the Reagan-Volcker disinflation — actually look a lot like an old-fashioned Phillips curve?
Start with the raw data. Here’s unemployment and increases in nonsupervisory wages since 1985:
What you see is that wage growth was low when unemployment was high, and vice versa. Now take annual averages (to avoid overlapping data) and plot the unemployment rate against the wage change over the next year:
There are a couple of possible explanations for the return of the good old-fashioned Phillips curve: anchored inflation expectations, downward sticky nominal wages. I’ll have more thoughts on that later (actually, downward rigidity and anchored expectations I think reinforce each other). But the point is that notions of how inflation works that were formed in the era of stagflation are very much at odds with the way the world has looked, not just since the Great Recession began, but since the mid-1980s. Yet stagflation still shapes both public perceptions and policy.
This matters, a lot. The belief that the economy fluctuates around potential output, that it can’t be persistently below potential, is based ultimately on the natural rate hypothesis, which in turn took over economic thinking during the era of stagflation. This belief, in turn, underlies official estimates of potential output, which as Simon Wren-Lewis notes, causes any sustained slump to get built into official estimates of potential. Hence the official EU view that Spain is near full employment, the notion that Britain in 2007 was a hugely overheated economy with a huge structural budget deficit, and so on. If stagflation-era macro is wrong, so are all of these conclusions.
It is, in short, time to go back to the future.
Ancora sul paleo-keynesismo (leggermente per esperti)
Un qualche seguito sullo stato dell’economia keynesiana. Nel post di Brad DeLong che ho citato, egli ricorda come uno dei punti programmatici principali dell’economia neokeynesiana (all’opposto di quella keynesiana antica) il rigetto del concetto, una volta di moda, di una relazione stabile tra disoccupazione ed inflazione.
Ora, si può sostenere che il concetto di uno scambio durevole nel lungo periodo tra disoccupazione ed inflazione non sia stato mai parte della teoria economica keynesiana, che esso sia una caricatura di quello in cui i keynesiani degli anni ’60 effettivamente credevano. Nondimeno, la stagflazione degli anni ’70 fu un momento decisivo nell’ideologia economica. La stagflazione sembrava confermare l’idea di Friedman-Phelps – genericamente basata su fondamenti microeconomici, ovvero su concetti del cosiddetto comportamento razionale – secondo la quale una prolungata inflazione si sarebbe strutturata in un contesto di salari e di prezzi, in modo tale che la correlazione storica tra disoccupazione ed inflazione sarebbe scomparsa. E questo a sua volta diede un’ampia spinta alla rivoluzione antikeynesiana.
Mettiamola così: quando ero all’università, mi ricordo conversazioni all’ora di pranzo che procedevano all’incirca in questo modo: “Io non abbocco alle idee di Lucas – non sono neanche lontanamente realistiche”. “Ma questa gente sinora ha avuto ragione, come puoi esser certo che non l’abbiano anche adesso?”.
Ma quello accadeva allora. E qua c’è una domanda: come hanno potuto comprendere molti economisti che i dati a partire da circa il 1985 – vale a dire dalla disinflazione di Reagan e Volcker – assomigliavano per davvero alla curva di Phillips un tempo di moda?
Cominciamo con i dati grossolani. Ecco la disoccupazione e gli incrementi dei salari dei lavoratori con funzioni non direttive a partire dal 1985:
Quello che potete vedere è che la crescita dei salari era bassa quando la disoccupazione era elevata, e viceversa. Ora consideriamo le medie annuali (per evitare la sovrapposizione di dati) e rappresentiamo il tasso di disoccupazione a fronte dei mutamenti salariali nel corso dell’anno successivo [1]:
Ci sono un paio di possibili spiegazioni per questo ritorno della curva di Phillips di vecchia concezione: le aspettative di inflazione bloccate ed i salari nominali rigidi verso il basso. Svilupperò a tale proposito ulteriori pensieri successivamente (io penso che in verità la rigidità verso il basso e le aspettative bloccate di inflazione si rafforzino reciprocamente). Ma il punto è che le idee su come si forma l’inflazione che si erano stabilite nell’epoca della stagflazione sono molto diverse dal modo in cui il mondo è apparso, non solo dopo che ebbe inizio la Grande recessione, ma sin dalla metà degli anni ’80. Tuttavia la stagflazione ancora informa sia le percezioni dell’opinione pubblica che la politica.
Questo ha molta importanza. La convinzione che l’economia fluttui attorno alla produzione potenziale, che essa non possa collocarsi in modo persistente al di sotto del potenziale, è basata in ultima analisi sulla ipotesi del tasso naturale [2], che a sua volta prese piede nel pensiero economico durante l’epoca della stagflazione. Questo convincimento, a sua volta, si basa sulle stime ufficiali della produzione potenziale, il che, come nota Simon Wren-Lewis, induce ogni recessione prolungata a venir costruita dentro le stime ufficiali del potenziale. Da qui il punto di vista ufficiale dell’Unione Europea secondo la quale la Spagna sarebbe vicina alla piena occupazione, l’idea che l’Inghilterra nel 2007 sarebbe stata un’economia ampiamente surriscaldata con un largo deficit strutturale di bilancio, e così via. Se la macro della stagflazione era sbagliata, lo sono altrettanto tutte queste conclusioni.
In breve, è il momento di tornare al futuro.
[1] Come si vede, quando la disoccupazione è elevata (asse orizzontale, con i dati più elevati a destra) i mutamenti del salari sono più contenuti (asse verticale, con i dati più elevati in basso); e viceversa.
[2] Di interesse.
dicembre 16, 2013
December 16, 2013, 10:23 am
The Big Money Bets on Obamacare
As Greg Sargent has been pointing out for some time, the startup troubles of Obamacare have divided both the general public and the political class into two different intellectual universes. On one side, Republicans — both the base and the political leadership — have decided that health reform is already a failure; that conviction is actually helping the leadership rein in some of the crazies, by telling them that now is the time to wait and let the political payoff from Obamacare’s collapse fall into their laps.
On the other side, Democrats see a law that got off to a terrible start but is getting rapidly better.
Which is right? There’s data showing a sharp rise in enrollments, but there are continuing problems with the back end, and then there are dueling anecdotes. It would be hard to assess all this objectively even if political passions weren’t running so high.
But one group has a strong incentive to be objective — and also has a much better perspective on what’s really going on than any lay observer. Namely, the insurance industry. So the shoe we’ve all been waiting to see drop — or not — was the surge of advertising urging people buying insurance through the exchanges to buy from me, me, me.
That shoe has just dropped, with $500 million of advertising spending now in the pipeline. Insurers think this is going to work.
Now, some people will see this as bad news. Obamacare is just going to add to insurer profits! And it will indeed make money for the likes of Aetna and Wellpoint. In an ideal world, this wouldn’t be happening: single payer would clearly have been a better system. But it wasn’t going to happen. This was the health reform we could get — and when it works, as the big money now believes it will, it’s going to make a huge, positive difference to millions of lives.
Il grande capitale scommette sulla riforma sanitaria di Obama
Come Greg Sargent viene opportunamente sottolineando da un po’ di tempo, i guai dell’avvio della riforma sanitaria di Obama hanno diviso sia l’opinione pubblica in generale che la classe politica in due diversi universi intellettuali. Da una parte i repubblicani – sia la base che il gruppo dirigente politico – hanno deciso che la riforma sanitaria sia già un fallimento; per la verità, quella convinzione sta aiutando il gruppo dirigente a tenere a freno alcuni di quelli pazzi, dicendo loro che ora è il momento di attendere che il compenso finale derivante dal collasso della riforma sanitaria di Obama caschi nel loro grembo.
Dall’altra i democratici vedono una legge che è partita nel modo peggiore ma sta rapidamente migliorando.
Chi ha ragione? Ci sono i dati che mostrano una forte crescita nelle iscrizioni, ma ci sono problemi che continuano nella parte successiva [1], e poi c’è una contesa di aneddoti. Sarebbe difficile valutare tutto ciò obiettivamente anche se le passioni non fossero così forti.
Ma un gruppo ha un forte incentivo ad essere obbiettivo – ed ha anche una visione molto migliore su quanto sta realmente accadendo di quella di ogni osservatore inesperto. In particolare, il settore delle assicurazioni. Così, il primo fenomeno [2] che ci aspettavamo di veder capitare – oppure no – è stata la crescita delle pubblicità che spinge le persone ad acquistare l’assicurazione attraverso le “borse” [3] dall’uno anziché dall’altro.
Il che è successo, con una spesa di 500 milioni di dollari di propaganda che sono adesso stati messi in programma. Gli assicuratori pensano che la cosa sia destinata a funzionare.
Ora, alcune persone la considereranno come una cattiva notizia. La riforma di Obama sta semplicemente aumentando i profitti degli assicuratori! E in effetti soggetti come Aetna e Wellpoint [4] faranno soldi. In un mondo ideale questo non dovrebbe accadere: un sistema con un unico centro di pagamenti sarebbe chiaramente stato migliore. Ma non era possibile. La riforma sanitaria che ci siamo trovati è stata questa – ed una volta che funzionerà, come il grande capitale ora crede che accadrà, è destinata a produrre una grande e positiva differenza per milioni di vite umane.
[1] Forse si riferisce alle procedure successive a quella del semplice “enrollment”. In effetti io traduco “enrollment” come “iscrizione” ma sarebbe più precisamente una “registrazione”, cioè l’avvio della procedura. Una volta “registrati’ si deve procedere con la scelta di un piano assicurativo e di una assicurazione e con le procedure relative ai sussidi pubblici, se sono dovuti.
[2] L’espressione idiomatica è solitamente usata quando ci si riferisce ad una “first shoe” (“prima scarpa”) che sta per caderci addosso, intendendo implicitamente che la seconda scarpa verrà in seguito e sarà anche peggiore.
[3] Vedi le note sulla traduzione ad “exchanges”.
[4] Naturalmente sono nomi di imprese del settore delle assicurazioni.
dicembre 15, 2013
December 15, 2013, 8:50 am
I’ve mentioned before that at this point Europe is actually doing worse in the aftermath of the 2007 crisis than it did in the Great Depression. Nick Crafts documents this at greater length, and adds a provocative analysis of debt dynamics.
First, his chart:
He also notes that while many European countries had lower debt ratios in the 30s than they do today, the UK actually had a substantially higher ratio — and even more so after World War II. How did it deal with this debt? Not through the recipe currently being imposed in Europe, of fiscal austerity and internal devaluation. Instead, the UK relied on a cheap-money policy that produced low interest rates and moderate inflation — “financial repression” — with the central bank “subservient” not just to the government, but to government debt-management policies.
In an earlier paper Crafts argued, in effect, that high government debt levels may even have been a sort of advantage, in that they made it possible to credibly commit to inflationary policies. More than a decade ago Gauti Eggertsson made a similar argument for Japan in the 1930s.
So how does the current position of Europe fit into all this? Not well. The central bank isn’t subservient, least of all to debt-management concerns, and the ideology of austerity rules. The result is a continuing slump — despite occasional quarters of growth — and a very bleak outlook.
Se solo fossero gli anni ‘30
Ho ricordato in precedenza che a questo punto l’Europa, all’indomani della crisi del 2007, sta effettivamente andando peggio che durante la Grande Depressione. Nick Crafts lo documenta in modo più ampio, ed aggiunge una analisi provocatoria sulle dinamiche del debito.
Anzitutto, ecco il suo diagramma:
Egli nota anche che mentre i paesi europei hanno tassi di debito più bassi degli anni ’30, il Regno Unito ebbe un tasso sostanzialmente più alto [1] – persino più alto di quello successivo alla seconda Guerra Mondiale. Come si misurò con un debito del genere? Non attraverso la ricetta che attualmente viene imposta in Europa, della austerità della finanza pubblica e della svalutazione interna. Piuttosto, il Regno Unito si basò su una politica del denaro conveniente che produsse bassi tassi di interesse e moderata inflazione – la cosiddetta “repressione finanziaria” – con la banca centrale remissiva non solo al governo, ma anche alle politiche di gestione del debito del governo.
In un precedente studio Crafts, in effetti, aveva sostenuto che alti livelli di debito pubblico possono persino costituire una sorta di vantaggio, in quanto possono rendere possibile impegnarsi credibilmente a politiche inflazionistiche. Più di dieci anni fa Gauti Eggertsson avanzò un argomento simile per il Giappone degli anni ’30.
Come si adatta tutto questo alla attuale posizione dell’Europa? Non bene. La banca centrale non è remissiva, tanto meno alle preoccupazioni di gestione del debito, e domina l’ideologia dell’austerità. Il risultato è una caduta continua – nonostante occasionali trimestri di crescita – ed una prospettiva molta cupa.
[1] Il riferimento mi pare sia all’andamento del debito nei paesi del blocco della sterlina tra il 1929 ed il 1938. Ma il diagramma non è relativo al debito, ma al PIL. Esso misura l’andamento del PIL nelle crisi degli anni trenta (linea grigia per i paesi del blocco della sterlina e linea gialla per i paesi del blocco aureo) e nella crisi dell’area euro dal 2007 in poi (linea rossa).
dicembre 14, 2013
December 14, 2013, 11:19 am
OK, I can’t resist this one — and I think it’s actually important.
Brad DeLong reacts to Binyamin Appelbaum’s piece on Young Stan Fischer by quoting from his own 2000 piece on New Keynesian ideas in macroeconomics, a piece in which he argued that New Keynesian thought was, in important respects, a descendant of old-fashioned monetarism. There’s a lot to that view.
But I’m surprised that Brad stopped there, for two reasons. One is that it’s worth remembering that Fischer staked out that position at a time when freshwater macro was turning sharply to the right, abandoning all that was pragmatic in Milton Friedman’s ideas. The other is that the world of macroeconomics now looks quite different from the world in 2000.
Specifically, when Brad lists five key propositions of New Keynesian macro and declares that prominent Keynesians in the 60s and early 70s by and large didn’t agree with these propositions, he should now note that prominent Keynesians — by which I mean people like Oliver Blanchard, Larry Summers, and Janet Yellen — in late 2013 don’t agree with these propositions either. In important ways our understanding of macro has altered in ways that amount to a counter-counter-counterrevolution (I think I have the right number of counters), giving new legitimacy to what we might call Paleo-Keynesian concerns.
Or to put it another way, James Tobin is looking pretty good right now. (Incidentally, this was the point made by Bloomberg almost five years ago, inducing John Cochrane to demonstrate his ignorance of what had been going on macroeconomics outside his circle.)
Consider Brad’s five points:
1. Price stickiness causes business cycle fluctuations: You clearly need price stickiness to make sense of the data. However, there is now widespread acceptance of the point that making prices more flexible can actually worsen a slump, a favorite point of Tobin’s.
2. Monetary policy > fiscal policy: Not when you face the zero lower bound — and that’s no longer an abstract or remote consideration, it’s the world we’ve been living in for five years. And Tobin, who defended the relevance of fiscal policy, is vindicated.
3. Business cycles are fluctuations around a trend, not declines below some level of potential output: This view comes out of the natural rate hypothesis, and the notion of a vertical long-run Phillips curve. At this point, however, there is wide acceptance of the idea that for a variety of reasons, but especially downward nominal wage rigidity, the Phillips curve is not vertical at low inflation. Again, a very Tobinesque notion, as Daly and Hobijn explain.
4. Policy rules: Not so easy when once in a while you face Great Depression-sized shocks.
5. “Low multipliers associated with fiscal policy”: Ahem. Not when you’re in a liquidity trap.
I do think this is important. Among economists who are actually looking at recent events, not doing a see-no-Keynes, hear-no-Keynes, speak-no-Keynes act, there has been a strong revival of some old ideas in macroeconomics. It’s not just new classical macroeconomics that’s in retreat; we’re also seeing, within the Keynesian camp, a distinct if polite rise of neopaleo-Keynesianism.
La Neo-Paleo-Contro-Contro-Controrivoluzione (per esperti)
Va bene, questa volta non posso resistere – e penso che in verità sia importante.
Brad DeLong reagisce all’articolo di Binyamin Appelbaum sul giovane Stan Fischer citando il suo articolo del 2000 sulle idee neokeynesiane in macroeconomia, nel quale aveva sostenuto che il pensiero neo keynesiano era, sotto importanti aspetti, un discendente del monetarismo un tempo di moda. C’è molta verità in questo punto di vista.
Ma sono sorpreso del fatto che Brad si fermi a quel punto, per due ragioni. Una è che merita ricordare che Fischer tenne quella posizione in un’epoca nella quale la macroeconomia dell’ “acqua dolce” [1] si stava spostando bruscamente a destra, abbandonando tutto quello che era pragmatico nelle idee di Milton Friedman. L’altra è che oggi il mondo della macroeconomia appare notevolmente diverso da quello del 2000.
In modo particolare, quando Brad elenca cinque concetti chiave della macroeconomia neokeynesiana e dichiara che negli anni ’60 e nei primi anni ’70 importanti keynesiani in generale non concordavano con quelle proposizioni, dovrebbe notare che importanti keynesiani – per i quali intendo persone come Oliver Blanchard, Larry Summers e Janet Yellen – non concordano con quei concetti neanche sulla fine del 2013. Per aspetti importanti la nostra comprensione della macroeconomia si è modificata in modi che corrispondono ad una “contro-contro-controrivoluzione” (penso di aver usato il giusto numero di “contro”), dando nuova legittimazione a quelle che potremmo definire le preoccupazioni paleo-keynesiane.
O per dirla in altro modo, James Tobin [2] ha un discreta considerazione in questo momento (tra parentesi, questo era l’argomento che Bloomberg [3] avanzò quasi cinque anni orsono, costringendo John Cochrane a dar prova della sua ignoranza su tutto ciò che era andato avanti nella macroeconomia fuori dalla sua cerchia).
Si considerino i cinque punti di Brad:
1 La rigidità dei prezzi provoca le fluttuazioni del ciclo economico: chiaramente c’è bisogno della rigidità dei prezzi perché i dati abbiano senso. Tuttavia c’è oggi una accettazione generale dell’argomento secondo il quale rendere i prezzi più flessibili può effettivamente peggiorare una depressione, punto di vista favorito di Tobin.
2 La politica monetaria contro la politica della finanza pubblica: ma non quando si è di fronte al limite inferiore dello zero [4] – e quella non è più una considerazione remota o astratta, è il mondo nel quale viviamo da cinque anni. E Tobin, che aveva difeso la rilevanza della politica della spesa pubblica, è risarcito.
3 I cicli economici sono fluttuazioni attorno ad una tendenza, non cadute al di sotto di un qualche livello della produzione potenziale: questo punto di vista deriva dalla ipotesi del tasso naturale, e dal concetto della curva verticale di lungo periodo di Phillips. A questo punto, tuttavia, c’è una accettazione generale della idea che, per una varietà di ragioni, ma specialmente per una rigidità dei salari verso il basso, la curva di Phillips non è verticale in condizioni di bassa inflazione. Ancora un concetto molto ‘tobiniano’, come spiegano Daly e Hobijn.
4 Le regole della politica: non sono così semplici quando d’un tratto ci si trova dinanzi a sconvolgimenti delle dimensioni della Grande Depressione.
5 “I bassi moltiplicatori connessi con la politica della finanza pubblica”. Ebbene, non quando si è in una trappola di liquidità.
Penso che tutto questo sia davvero importante. Tra gli economisti che effettivamente si rivolgono agli eventi recenti, che non professano la posizione del “non vedere-non ascoltare e non-parlare di Keynes”, c’è stata una forte ripresa di alcune vecchie idee della macroeconomia. Non c’è solo un battere in ritirata della macroeconomia neoclassica; stiamo anche assistendo, all’interno del campo keynesiano, ad una distinta anche se garbata ascesa di un neopaleo-keynesismo.
[1] Per “freshwater” e “saltwater” macroeconomia vedi alle note sulla traduzione.
[2] James Tobin (Champaign, 5 marzo 1918 – New Haven, 11 marzo 2002) è stato un economista statunitense, vincitore del Premio Nobel per l’economia nel 1981. Laureato presso l’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign e alla Harvard University, ove iniziò la sua attività di docente,[1] fu consulente della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti e consigliere economico del presidente John F. Kennedy.[1] Insegnò per anni, a partire dal 1955, alla Yale University. Nel 1981 gli fu conferito il Premio Nobel per l’economia per “la sua analisi dei mercati finanziari e le loro relazioni con le decisioni di spesa, con l’occupazione, con la produzione e con i prezzi”
Tobin è noto per la sua proposta di tassazione sulle transazioni internazionali (la “Tobin tax“, diventata il cavallo di battaglia dell’organizzazione Altermondialista Attac) e per la teoria chiamata “q di Tobin“. Tale teoria afferma che il valore di mercato del pacchetto azionario di un’impresa è in grado di misurare la differenza tra il capitale desiderato dall’impresa e il capitale effettivamente posseduto da questa. (Wikipedia)
[3] Il riferimento è ad un articolo sul blog Bloomberg del 27 febbraio 2009, nel quale si dava conto della ‘ispirazione tobiniana’ della politica dello stimulus del Presidente Obama.
[4] Limite nei tassi di interesse, vedi le note sulla traduzione.
dicembre 14, 2013
December 14, 2013, 10:38 am
Some further numerical thoughts on the right of inequality to be considered a “defining challenge.”
Many of the participants in our economic discourse start with the working presumption that inequality is a second-order issue, that the effects of rising inequality — to the extent that these effects are considered worth mentioning at all — are minor compared with the effects of economic growth or the lack thereof. This presumption is so ingrained in the discourse that hardly anyone looks at the numbers. But when you do look at those numbers, you get a shock.
In my previous post I looked at income changes since 2000, and argued that for the bottom 90 percent rising inequality has actually cost more than the economic slump. Obviously that calculation depends on the starting date — and you might also wonder whether the period since 2000 is exceptional.
But look, first, at the long-term trend in inequality. Piketty-Saez have the income share of the bottom 90 percent falling from two-thirds in 1979 to one-half now; that’s roughly 0.9 percent lopped off their income growth per year, for more than three decades. CBO’s numbers aren’t exactly comparable, but they show the income share of the bottom 80 percent declining from 57 to 47 percent over 1979-2007, which means income growth 0.7 percentage point per year slower than in the constant-inequality case.
Those are big numbers. They’re big enough that even if we restrict ourselves to the period 2007-13 — that is, to the Great Recession and the Not-So-Great Recovery — they suggest that the decline in middle-class incomes owes as much to rising inequality as it does to the depressed state of the economy. And this is true even though we’ve suffered the worst economic crisis since the 1930s!
You might be tempted to say that the depressed economy still deserves priority, because recovery is in everyone’s interests, so we should be able to achieve consensus on good short-run macro policies even as we debate inequality. That is, you might be tempted to say this if you’ve been living in a cave these past five years. In practice, debates over macroeconomic policy are just as polarized as debates over inequality — and along pretty much the same lines. That is, the same people who screech “Class warfare!” if you bring up the rising share of the 1 percent also shriek “Greece! Zimbabwe!” if you advocate expansionary fiscal and monetary policies.
So once again, the focus on inequality isn’t a diversion. It’s the right way to move this discussion.
Ineguaglianza e redditi, continuazione
Alcuni ulteriori pensieri statistici sulle ragioni per le quali considerare l’ineguaglianza una “sfida distintiva”.
Molti di coloro che partecipano a questo dibattito economico cominciano con l’ipotesi di lavoro che l’ineguaglianza sia una tema di second’ordine, che gli effetti della crescente ineguaglianza – nella misura in cui questi effetti sono considerati meritevoli di attenzione – siano minori a confronto degli effetti della crescita economica o della assenza di tale crescita. Questa ipotesi è così radicata nel dibattito che a fatica c’è chi guarda i dati. Ma quando si osservano tali dati, si resta sbalorditi.
Nel mio precedente post ho osservato i cambiamenti di reddito dal 2000 ed ho sostenuto che per il 90 per cento della fascia inferiore del reddito, l’ineguaglianza crescente ha effettivamente comportato un costo maggiore della crisi economica. Ovviamente questo calcolo dipende dalla data di partenza – e potreste anche chiedervi se il periodo a partire dall’anno 2000 sia stato eccezionale.
Ma si osservi, in primo luogo, la tendenza di lungo termine dell’ineguaglianza. Piketty-Saez sostengono che la quota del 90 per cento della popolazione con reddito inferiore è caduta dai due terzi del 1979 alla metà di oggi; vale a dire che grosso modo lo 0,9 per cento del loro reddito è stato tagliato anno dopo anno, per più di tre decenni. I dati del Congressional Budget Office non sono esattamente comparabili, ma mostrano che la quota dell’80 per cento della popolazione con reddito inferiore è diminuita dal 57 al 47 per cento nel periodo tra il 1979 ed il 2007, il che significa una crescita del reddito di 0,7 punti percentuali più lenta rispetto alla ipotesi di una ineguaglianza costante.
Sono numeri importanti. Sono talmente importanti che anche se ci restringiamo al periodo 2007-2013 – cioè, alla Grande Recessione ed alla ‘non-così-grande-ripresa’ – essi indicano che il declino dei redditi di classe-media è dipeso dalla crescente ineguaglianza nello stesso modo in cui è dipeso dalle condizioni di depressione dell’economia. E questo è vero pur avendo patito la peggiore crisi economica dagli anni ’30!
Potreste essere propensi a sostenere che l’economia depressa continua a meritare priorità, giacché la ripresa è negli interessi di tutti, dunque dovremmo essere capaci di ottenere consenso su buone politiche economiche a breve termine anche se stiamo discutendo di ineguaglianza. O meglio, potreste essere propensi a sostenere questo se foste vissuti in una grotta nei cinque anni passati. In pratica, i dibattiti sulla politica macroeconomica sono proprio polarizzati nello stesso modo dei dibattiti sull’ineguaglianza – e procedono in gran parte sulle stesse linee. Ovvero, le stesse persone che strillano alla “lotta di classe!” se sollevate il caso della crescita della quota di reddito dello 0,1 per cento della popolazione più ricca, strepitano alla Grecia ed allo Zimbabwe (!!) se sostenete politiche della finanza pubblica e monetarie espansive.
Dunque, ancora una volta concentrarsi sull’ineguaglianza non è un diversivo. E’ il modo giusto per spostare questo dibattito.
dicembre 14, 2013
December 14, 2013, 8:36 am
It has taken an amazingly long time, but inequality is finally surfacing as a significant unifying issue for progressives — including the president. And there is, inevitably, a backlash, or actually a couple of backlashes.
One comes from groups like Third Way; Josh Marshall, I think, characterized that kind of position best:
That captures a lot of what the ‘Third Way’ is about: a sort of fossilized throwback to a period in the late 20th century when there was a market for groups trying to pull the Democrats ‘back to the center and away from the ideological extreme’ in an era when Democrats are the fairly non-ideological party and have a pretty decent record of winning elections in which most people vote.
But there’s also an intellectual backlash, with people like Ezra Klein arguing that inequality, while an issue, doesn’t rate being described as “the defining challenge of our time”. This in turn infuriates others, with Steve Randy Waldman going medieval on Klein.
Well, I’m not infuriated, but I would argue that Ezra has gotten this one wrong. And yes, I’ve expressed skepticism about the simple argument that inequality accounts for our slow recovery; the evidence surveyed in Jared Bernstein’s excellent new paper on the subject eases my skepticism somewhat, but it’s not entirely gone.
The key point, however, is that the case for regarding inequality as a major, indeed defining challenge — and as something that should be at the center of progressive concerns — rests on multiple pillars. Taken together, the reasons to focus on inequality are overwhelmingly convincing, even if you can be skeptical about particular arguments.
Let me make four points.
First, in sheer quantitative terms, rising inequality is what Joe Biden would call a Big Something Deal. Take the Piketty-Saez data on income shares; these show that the share of the bottom 90 percent in income excluding capital gains fell from 54.7 percent in 2000 to 50.4 percent in 2012. This means that the income of the bottom 90 is about 8 percent lower than it would have been if inequality had remained stable. Meanwhile, estimates of the output gap — the extent to which our economy is operating below capacity — are generally less than 6 percent. So in raw numerical terms, rising inequality has done more than the slump to depress middle-class incomes.
You can argue that the damage done by unemployment is greater than the mere income loss, and I’d agree. Still, it’s hard to look at this kind of calculation and dismiss inequality as a secondary issue.
Second, there is a reasonable case for assigning at least partial blame for the economic crisis to rising inequality. The best story involves something like this: high saving by the 1 percent, with demand sustained only by rapidly rising debt further down the scale — and with this borrowing itself partly driven by inequality, which leads to expenditure cascades and so on. Is this a slam-dunk case? No — but it’s serious, and reinforces the rest of the argument.
Third, there’s the political economy aspect, where you can argue that policy failures both before and, perhaps even more crucially, after the crisis were distorted by rising inequality, and the corresponding increase in the political power of the 1 percent. Before the crisis, there was an elite consensus in favor of deregulation and financialization that was never justified by the evidence, but aligned closely with the interests of a small but very wealthy minority. After the crisis, there was the sudden turn away from job creation to deficit obsession; polling suggests that this wasn’t at all what the average voter wanted, but that it did reflect the priorities of the wealthy. And the insistence on the importance of cutting entitlements is overwhelmingly a 1 percent thing.
Finally, very much tying in with this, is the question of what progressive think tanks should research. Klein suggests that “how to fight unemployment” should be a more central topic than “how to reduce inequality.” But here’s the thing: we know how to fight unemployment — not perfectly, but good old basic macroeconomics has worked very well since 2008. There’s no mystery about the economics of our slow recovery — that’s what happens when you tighten fiscal policy in the face of private deleveraging and monetary policy is constrained by the zero lower bound. The question is why our political system ignored everything macroeconomics has learned, and the answer to that question, as I’ve suggested, has a lot to do with inequality.
The causes of soaring inequality, on the other hand, are more mysterious; so are the channels through which we might reverse this trend. We know some things, but there is much more room for new knowledge here than in business cycle macro.
So inequality is definitely a defining challenge; whether it is “the” defining challenge can be argued, but it makes very good sense for progressives to focus much of their energy on the issue. And yes, it’s also true that inequality is easier to explain to the public than demand-side macroeconomics — but since these concerns are complements rather than substitutes, that’s not something that should induce any feelings of guilt.
In short: go populism go.
L’ineguaglianza come una sfida distintiva [1]
C’è voluto un tempo incredibilmente lungo, ma alla fine l’ineguaglianza sta emergendo come un tema significativamente unificante per i progressisti – incluso il Presidente. E c’è, inevitabilmente, un contraccolpo, o per la verità una coppia di contraccolpi.
Uno viene da gruppi come Terza Via; Josh Marshall, penso, abbia descritto quel genere di posizione nel migliore dei modi:
“Questo esprime gran parte di ciò di cui ‘Terza Via’ si occupa: una sorta di fossilizzato ritorno al passato ad un periodo dell’ultima parte del XX Secolo quando c’era spazio per gruppi che cercavano di spingere i democratici ‘verso il centro e fuori dagli estremismi ideologici’, in un’epoca nella quale i democratici sono il partito ragionevolmente non-ideologico ed hanno una prestazione abbastanza dignitosa di vittorie in elezioni nelle quali votano la maggior parte degli elettori.”
Ma c’è anche un contraccolpo intellettuale, con persone come Ezra Klein che sostengono che l’ineguaglianza, sebbene sia un tema, non merita di essere descritta come “la sfida distintiva del nostro tempo”. Questo a sua volta fa infuriare altri, con Steve Randy Waldman che dà del medioevale a Klein.
Ebbene, io non sono infuriato ma vorrei sostenere che questa volta Ezra sbaglia. Ed è vero, io ho espresso scetticismo sul solo argomento che l’ineguaglianza abbia un peso agli effetti della nostra lenta ripresa; in qualche modo i fatti esaminati da Jared Bernstein nel suo nuovo eccellente studio sul tema semplificano il mio scetticismo, ma esso non è del tutto risolto.
L’aspetto fondamentale, tuttavia è che la tesi di considerare l’ineguaglianza come una importante, davvero distintiva sfida – e come qualcosa che dovrebbe stare al centro delle preoccupazioni dei progressisti – si fonda su molteplici punti di forza. Considerate complessivamente, le ragioni per concentrarsi sull’ineguaglianza sono completamente convincenti, anche se si può essere scettici su alcuni particolari argomenti.
Fatemi avanzare quattro punti.
Il primo, in termini meramente quantitativi, la crescente ineguaglianza è quello che Joe Biden chiamerebbe una “faccenda davvero grossa”. Si prendano i dati di Piketty-Saez sulle quote di reddito: essi mostrano che la quota di reddito del 90 per cento della fascia inferiore, esclusi i profitti da capitale, è caduta dal 54,7 per cento del 2000 al 50,4 per cento del 2012. Questo significa che il reddito del 90 per cento della fascia inferiore è di circa l’8 per cento più basso di quello che sarebbe stato se l’ineguaglianza fosse rimasta stabile. Nel frattempo, le stime sul differenziale di prodotto – la misura nella quale la nostra economia sta operando al di sotto delle sue possibilità – sono in generale inferiori del 6 per cento. Dunque, in termini numerici grossolani, la crescente ineguaglianza ha fatto di più della crisi nel deprimere i redditi della classe media.
Si può sostenere che il danno fatto dalla disoccupazione sia più grande della mera perdita di reddito, ed io sono d’accordo. Eppure, è difficile guardare a calcoli di questo genere e liquidare l’ineguaglianza come una questione secondaria.
Il secondo, c’è un motivo ragionevole per assegnare almeno una parziale responsabilità della crisi economica alla crescente ineguaglianza. L’argomento più forte riguarda questa circostanza: elevati risparmi da parte dell’1 per cento (della popolazione più ricca), con una domanda sostenuta soltanto da un debito rapidamente crescente più in basso nella scala – e con questo indebitamento che è esso stesso guidato dall’ineguaglianza, il che porta a spese a cascata e così via. E’ un argomento definitivo [2]? No – ma è serio e rafforza il resto del ragionamento.
Il terzo, c’è un aspetto di politica economica, per il quale si può sostenere che i fallimenti sia prima che, forse ancora più fondamentalmente, dopo la crisi siano stati stravolti dalla crescente ineguaglianza, e dalla crescita corrispondente del potere politico dell’1 per cento (della popolazione più ricca). Prima della crisi ci fu una unanimità delle classi dirigenti a favore della deregolamentazione e della finanziarizzazione che non furono mai giustificate dai fatti, ma si allinearono strettamente agli interessi di una piccola ma ricchissima minoranza. Dopo la crisi ci fu l’improvviso spostamento dal tema della creazione di posti di lavoro alla ossessione del deficit; i sondaggi mostrano che quello non era affatto quello che voleva la maggioranza degli elettori, ma rifletteva le priorità dei più ricchi. E l’insistenza sulla importanza dei tagli ai programmi sociali è qualcosa che riguarda completamente l’1 per cento (della popolazione più ricca).
Infine, strettamente collegata con tutto questo, c’è la questione di che cosa dovrebbe essere oggetto di analisi dei gruppi di ricerca progressisti. Klein suggerisce che “come combattere la disoccupazione” dovrebbe essere una tematica più centrale del “come ridurre l’ineguaglianza”. Ma il punto è proprio lì: noi sappiamo come combattere la disoccupazione – non perfettamente, ma una buona macroeconomia di base ha operato assai bene a partire dal 2008. Non c’è alcun mistero sull’economia della nostra lenta ripresa – è quello che accade quando si restringe la politica della finanza pubblica a fronte di una riduzione del rapporto di indebitamento privato, e la politica monetaria è limitata dal limite inferiore dello zero [3]. La domanda è perché il nostro sistema politico ha ignorato tutto ciò che era stato appreso dalla macroeconomia, e la risposta a tale domanda, come ho mostrato, ha molto a che fare con l’ineguaglianza.
Le cause delle crescente ineguaglianza, d’altro lato, non sono misteriose; così come non lo sono i canali attraverso i quali potremmo invertire questa tendenza. Alcune cose le conosciamo, ma c’è molto più spazio qua per una nuova conoscenza che nella macroeconomia del ciclo economico.
Dunque l’ineguaglianza è sicuramente una sfida distintiva; se essa sia “la” sfida distintiva può essere discusso, ma è assolutamente sensato per i progressisti concentrare molte delle loro energie su quel tema. E sì, è anche vero che l’ineguaglianza è più facile da spiegare alla opinione pubblica della macroeconomia – ma dal momento che queste preoccupazioni sono complementari e non sono in alternativa l’una con l’altra, non sono cose che dovrebbero indurre ad alcun senso di colpa.
In breve: avanti col populismo!
[1] Il termine “defining” – “caratterizzante”, “distintivo” (di un epoca …) – probabilmente era contenuto nel discorso sulla ineguaglianza recentemente pronunciato da Obama.
[2] Penso che “slam-dunk” sia nel senso del termine sportivo “schiacciata” ….
[3] Dei tassi di interesse. Per “zero lower bound” vedi le note sulla traduzione.
dicembre 13, 2013
December 13, 2013, 10:36 am
Ezra Klein is puzzled (or at least says he is; I suspect he understands it perfectly) by Republican hypocrisy on health care. For many years the GOP has advocated things that are supposed to bring the magic of the marketplace and individual incentives to health care: higher deductibles to give people “skin in the game”, competition among private insurers via exchanges — competition that would include reducing costs by limiting networks — and, of course, for cuts in Medicare. Now the GOP complains bitterly that some Obamacare policies have high deductibles, that it relies on the horror of exchanges, that some networks are limited, and that there are cuts in Medicare.
Klein suggests that Republicans are really upset by other aspects of Obamacare, but are going after the easy targets even though they’re attacking their own ideas. In a sense he’s right, but as I said, I suspect that he knows that the issue is both bigger and simpler than he says.
What underlies what Jonathan Chait calls the Heritage uncertainty principle? He describes it thus:
Conservative health-care-policy ideas reside in an uncertain state of quasi-existence. You can describe the policies in the abstract, sometimes even in detail, but any attempt to reproduce them in physical form will cause such proposals to disappear instantly. It’s not so much an issue of “hypocrisy,” as Klein frames it, as a deeper metaphysical question of whether conservative health-care policies actually exist.
The question should be posed to better-trained philosophical minds than my own. I would posit that conservative health-care policies do not exist in any real form. Call it the “Heritage Uncertainty Principle.”
Well, actually it’s pretty simple. The purpose of most health care reform is to help the unfortunate — people with pre-existing conditions, people who don’t get insurance through their jobs, people who just don’t earn enough to afford insurance. Cost control is also part of the picture, but not the dominant part. And what we’re seeing right now, in any case, seems to confirm a point some of us have been making for a long time: controlling costs and expanding access are complementary targets, because you can’t sell things like cost-saving measures for Medicaid and limits on deductibility of premiums unless they’re part of a larger scheme to make the system fairer and more comprehensive.
And here’s the thing: Republicans don’t want to help the unfortunate. They’ll propound health-care ideas that will, they claim, help those with preexisting conditions and so on — but those aren’t really proposals, they’re diversionary tactics designed to stall real health reform. Chait finds Newt Gingrich more or less explicitly admitting this.
Hence the rage of the right. Here they were, with a whole raft of ideas they could throw out, like chaff thrown out to confuse enemy radar, to divert and confuse any attempt to actually provide insurance to the uninsured. And those dastardly Democrats have gone ahead and actually incorporated those ideas into real reform.
Once you realize this, you also realize that people who warn that by opposing Obamacare Republicans are undermining their own proposals are missing the point. Yes, the Ryan plan to privatize Medicare looks a lot like Obamacare — but Ryan comes to Medicare not to save it, but to bury it, so the question of whether his plan could work is irrelevant.
There’s no mystery here; it’s just top-down class warfare as usual.
Un mistero spiegato della assistenza sanitaria
Ezra Klein è perplesso (o almeno dice di esserlo; io sospetto che capisca perfettamente) sulla ipocrisia repubblicana in materia di assistenza sanitaria. Per molti anni il Partito Repubblicano ha sostenuto cose che si supponeva portassero la magia dei mercati e degli incentivi individuali alla assistenza sanitaria: importi detraibili più alti per dare alla gente una competizione “più spinta” tra gli assicuratori privati attraverso le ‘borse’ [1] – una competizione che avrebbe comportato una riduzione dei costi attraverso una limitazione delle reti – e, ovviamente, per fare tagli a Medicare. Ora il Partito Repubblicano si lamenta che alcune politiche della riforma dell’assistenza di Obama comportino importi detraibili elevati, che essa si basi sull’orrore delle ‘borse’, che alcune reti siano limitate e che ci siano tagli a Medicare.
Klein suggerisce che i repubblicani siano in realtà arrabbiati con altri aspetti della riforma obamiana, ma che stiano perseguendo obbiettivi più semplici anche se stanno andando contro le loro stesse idee. In un certo senso ha ragione ma, come ho detto, penso che egli sappia che il tema è al tempo stesso più ampio e più semplice di quello che dice.
Cosa sta sotto quello che Jonathan Chait chiama il ‘principio dell’incertezza’ di Heritage [2]? Egli lo descrive in questo modo:
“Le idee sulla politica della assistenza sanitaria dei conservatori derivano da una incerta condizione di semi-esistenza. Potete descrivere quelle politiche in astratto, talora persino nei dettagli, ma ogni tentativo di riprodurle in forma fisica farà scomparire all’istante tali propositi. Non si tratta tanto di una questione di “ipocrisia”, come schematizza Klein, quanto di una più profonda domanda metafisica che attiene alla stessa esistenza di politiche di assistenza sanitaria presso i conservatori.
La domanda dovrebbe essere posta a menti più esperte di filosofia di quanto non sia la mia. Io direi che politiche conservatrici di assistenza sanitaria non esistono in forme in qualche modo reali. Chiamiamolo il “Principio di Incertezza di Heritage”.
Ebbene, in effetti è abbastanza semplice. Il proposito di gran parte della riforma della assistenza sanitaria è aiutare le persone meno fortunate – persone con precedenti patologie sanitarie, persone che non hanno l’assicurazione nei loro posti di lavoro, persone che non guadagnano abbastanza da permettersi di pagare una assicurazione. Un parte del quadro è anche il controllo dei costi, ma non una parte dominante. E quello a cui stiamo adesso assistendo, in ogni caso, sembra confermare un punto che alcuni di noi avevano avanzato da lungo tempo: il controllo dei costi e l’ampliamento degli accessi sono obbiettivi complementari, perché non si può fare accettare cose come il risparmio sui costi di Medicaid e i limiti delle deducibilità sulle polizze assicurative, se essi non sono parte di uno schema più ampio che rende in sistema più giusto e più inclusivo.
E qua è il punto: i repubblicani non vogliono aiutare quelli che hanno meno fortuna. Proporranno idee di assistenza sanitaria che, a loro giudizio, aiutano coloro che hanno precedenti patologia sanitarie e così via – ma quelle non sono delle vere proposte, sono dei diversivi, tattiche rivolte a bloccare la vera riforma sanitaria. Chait scopre che Newt Gingrich più o meno lo sta ammettendo.
Di qua la rabbia della destra. Loro erano a quel punto, con un intero mucchio di idee di cui potevano disfarsi, come scarti da buttar fuori per confondere i radar nemici, per sviare e confondere ogni tentativo di fornire effettivamente assicurazione a coloro che non sono assicurati. E quei democratici in modo ignobile sono andati avanti ed hanno incorporato quelle idee in un vera riforma.
Quando capite questo, vi rendete anche conto che alle persone che mettono in guardia i repubblicani perché opponendosi alla riforma di Obama mettono a repentaglio le loro stesse proposte, sta sfuggendo la sostanza. Sì, il piano di Ryan per privatizzare Medicare assomiglia non poco alla riforma di Obama – ma Ryan si occupa di Medicare non per salvarla, bensì per seppellirla, dunque la domanda se il suo piano potrebbe funzionare è irrilevante.
Non c’è alcun mistero; è solo lotta di classe come al solito, dei ricchi contro i poveri.
[1] Vedi alla voce “exchanges” nelle note sulla traduzione. Più in generale, sui temi e termini della riforma della assistenza sanitaria vedi le voci “Medicare” e “Medicaid”.
[2] Famosa e fondamentale Fondazione della destra americana.
dicembre 13, 2013
December 13, 2013, 10:12 am
Over at the Economix blog, Binyamin Appelbaum has a post about Stan Fischer’s role in the early development of New Keynesian macroeconomics. I was a student at MIT at the time, and remember Stan assigning papers on long-term contracts, which he viewed as one possible way to think about the sources of nominal price and wage stickiness – which he obviously considered both a clear fact about the world and important.
What’s interesting, as Appelbaum notes, is that the revival of Keynesian ideas was taking place at a time when Chicago was proclaiming Keynes gone, vanquished, consigned to the dustbin of history, pushing up the daisies, joined the choir invisible (hand invisible?). So why was Stan not willing to go with the seemingly triumphant paradigm?
One answer, I’d suggest, was his friendship and collaboration with Rudi Dornbusch, who was leading international macroeconomics in a direction very different from where Lucas and later Prescott were taking the domestic side of the field.
You can argue that even without Rudi’s leadership, international macro would probably have rejected the perfectly-flexible-prices, it’s-all-equilibrium tendency. For even a cursory look at international data makes a compelling case for short-run price stickiness. Exchange rates behave like asset prices, swinging wildly year to year; goods prices move much less, which means that the real exchange rate – the relative price of two currencies, deflated by the ratio of price levels in the two countries, fluctuates wildly too. But the real exchange rate is the relative price of two bundles of goods; it’s a real variable. It’s very hard to tell a story about why it should move the way it does without invoking some kind of price stickiness.
Look, for example, at the Japan-US real exchange rate, defined as yen per dollar * US CPI / Japan CPI:
The nominal rate and the real rate have swung wildly, and always in tandem, which makes perfect sense if you think of the exchange rate as an asset price and goods prices as sticky, but is very hard to justify in a neoclassical model.
So international macro was probably going to stay relatively Keynesian, simply because the facts had such a well-known Keynesian bias. But Rudi Dornbusch brought something extra: he showed how to bring rational expectations, at least as a hypothesis, into the sticky-price paradigm, and showed that you could do interesting, fun stuff with the combination.
I was Rudi’s student when he was working out the classic “overshooting” model, and got to see a bit of the struggle involved – because like almost all seemingly simple ideas in economics, it was the product of a lot of hard thinking. What emerged, however, was hugely influential, even though I don’t think many people regard it as the main explanation of currency volatility.
Rudi asked what would happen if a central bank for some reason suddenly and permanently increased the money supply. In the long run, just about all economists agreed that this would lead to an equal proportional rise in the price level and depreciation of the currency. In the short run, however, prices are clearly sticky, and expansionary monetary policy reduces interest rates. So what happens to the currency? As Rudi pointed out, the fall in the interest rate would induce investors to move their money abroad unless they expected the currency to rise. And the only way that could happen was for the currency to depreciate past its long-run value – to overshoot – so that it could be expected to appreciate back to that value over time.
As I said, this isn’t the real reason currencies fluctuate so much, but no matter. Rudi showed that you could produce interesting, provocative analyses by recognizing the role of forward-looking financial markets while retaining a realistic view of price behavior in goods markets. This, in turn, meant that the best and brightest students in international macro didn’t throw Keynes out the window. And at MIT, where Rudi’s influence was strong, it meant that even those in domestic macro, like Olivier Blanchard – and Stan Fischer – retained a skeptical attitude toward the neoclassical takeover.
Ken Rogoff had a very good paper on all this, in which he also says something about the state of affairs within the economics profession at the time:
The Chicago-Minnesota School maintained that sticky prices were nonsense and continued to advance this view for at least another fifteen years. It was the dominant view in academic macroeconomics. Certainly, there was a long period in which the assumption of sticky prices was a recipe for instant rejection at many leading journals. Despite the religious conviction among macroeconomic theorists that prices cannot be sticky, the Dornbusch model remained compelling to most practical international macroeconomists. This divergence of views led to a long rift between macroeconomics and much of mainstream international finance …
There are more than a few of us in my generation of international economists who still bear the scars of not being able to publish sticky-price papers during the years of new neoclassical repression.
Notice that this isn’t the evil Krugman talking; it’s the respectable Rogoff. Yet he too is in effect describing neoclassical macro as a sort of cult, actively suppressing alternative approaches. What he gets wrong is in the part I’ve elided with my “…”, in which he asserts that this is all behind us. As we saw when crisis struck, Chicago/Minnesota had in fact learned nothing and was pretty much unaware of the whole New Keynesian enterprise — and from what I hear about macro hiring, the suppression of ideas at odds with the cult remains in full force.
Anyway, the point was that international macro — which was my home within macro — never bought into the nonsense, largely thanks to the Dornbusch influence.Thank you, Rudi.
Rudi Dornbusch e la salvezza della macroeconomia internazionale (per esperti)
Su Economix Blog, Bimyamin Appelbaum ha un post sul ruolo di Stan Fischer nei primi sviluppi della macroeconomia neokeynesiana. Allora ero studente al MIT e ricordo Stan che assegnava temi sui contratti a lungo termine, che egli considerava come un modo possibile per pensare alle origini della rigidità dei prezzi nominali e dei salari – che evidentemente considerava sia un fatto indiscutibile della realtà che una cosa importante.
Quello che è interessante, come nota Applebaum, è che la ripresa di idee keynesiane stava affermandosi in un’epoca nella quale Chicago dichiarava che Keynes era uscito di scena, era stato sbaragliato, consegnato al dimenticatoio della storia, morto e sepolto [1], aveva raggiunto il coro invisibile (la mano invisibile?). Perché dunque Stan non ebbe voglia di seguire il paradigma che in apparenza trionfava?
Una risposta, suggerirei, era la sua amicizia e collaborazione con Rudi Dornbusch [2], che stava indirizzando la macroeconomia internazionale in un verso assai diverso da quello verso il quale Lucas e l’ultimo Prescott stavano portando gli esponenti nazionali della disciplina.
Si può sostenere che anche senza la guida di Dornbusch, la macroeconomia internazionale avrebbe rifiutato la tendenza dei prezzi-perfettamente-flessibili, ovvero dell’equilibrio generale. Perché persino un’occhiata fugace alle statistiche internazionali fornisce un esempio convincente sulla vischiosità dei prezzi nel breve periodo. I tassi di cambio si comportano come i prezzi degli assets, oscillando paurosamente di anno in anno; i prezzi dei beni si muovono molto meno, il che significa che il reale tasso di cambio – il prezzo relativo di due valute, deflazionate dalla componente dei livelli dei prezzi nei due paesi, anch’esso fluttua in modo rilevante. Ma il tasso di cambio reale è il prezzo relativo di due pacchetti di beni; è esso la variabile vera. E’ molto difficile dare una spiegazione sulle ragioni per le quali esso si dovrebbe muovere come in effetti si muove, senza ricorrere ad un qualche tipo di rigidità nei prezzi.
Si osservi per esempio il reale tasso di cambio tra Giappone e Stati Uniti, definito come rapporto tra yen e dollaro sulla base dell’indice dei prezzi al consumo negli Stati Uniti e nel Giappone:
Il tasso nominale e il tasso reale hanno oscillato in modo impressionante, e sempre in tandem, il che rende del tutto sensato che si pensi al tasso di cambio come ad un prezzo di un asset ed ai prezzi dei beni come rigidi, ma è molto difficile giustificare tutto ciò in un modello neoclassico.
Dunque, la macroeconomia internazionale era probabilmente destinata a restare relativamente keynesiana, semplicemente perché i fatti avevano un ‘pregiudizio’ keynesiano piuttosto evidente. Ma Rudi Dornbusch ci aggiunse qualcos’altro; mostrò come ricondurre le aspettative razionali, almeno come ipotesi, dentro il paradigma dei prezzi rigidi, e mostrò che attraverso questa combinazione si potevano fare cose interessanti e divertenti.
Io ero uno studente di Rudi quando egli stava trovando una soluzione al modello classico della “eccedenza” [3], è potei rendermi conto in qualche misura della battaglia che ne derivò – perché come quasi tutte le idee apparentemente semplici in economia, esse sono il prodotto di un pensiero assai impegnativo.
Quello che emerse, tuttavia, ebbe una vasta influenza, anche se non penso che molte persone lo considerino come la spiegazione principale della volatilità delle valute.
Rudi si chiese cosa sarebbe successo se per qualche ragione una banca centrale avesse, in modo improvviso e definitivo, accresciuto l’offerta di moneta. Quasi tutti gli economisti concordavano che questo avrebbe portato ad una eguale crescita in proporzione del livello dei prezzi e della svalutazione della valuta. Nel breve periodo, tuttavia, i prezzi sono chiaramente rigidi, ed una politica monetaria espansiva riduce i tassi di interesse. Dunque, cosa accade alla valuta? Come Rudi mise in evidenza, la caduta nel tasso di interesse indurrebbe gli investitori a spostare i loro soldi all’estero, a meno che non si aspettino che la valuta risalga. Ed il solo modo nel quale ciò potrebbe avvenire sarebbe che la moneta svaluti il suo precedente valore di lungo periodo – in questo senso “ecceda”, vada oltre il bersaglio – cosicché ci si potrebbe aspettare che essa si rivaluti nel corso del tempo.
Come ho detto, non è questa la ragione reale per la quale le monete fluttuano così tanto, ma non è questo l’importante. Rudi mostrò che si potevano produrre analisi interessanti e provocatorie riconoscendo il ruolo del ‘guardare in avanti’ dei mercati finanziari, nel mentre si mantiene un punto di vista realistico sul comportamento dei mercati delle merci. Questo, a sua volta, comportava che gli studenti migliori e più acuti della macroeconomia internazionale non buttarono Keynes fuori dalla finestra. E al MIT, dove l’influenza di Rudi era così forte, significò che anche gli studiosi della macroeconomia all’interno di una nazione, come Olivier Blanchard – e Stan Fisher – mantennero un atteggiamento scettico nei confronti del successo neoclassico.
Ken Rogoff scrisse un saggio molto bello su tutto questo, nel quale disse anche qualcosa a proposito dello stato dell’arte all’interno della disciplina economica a quel tempo:
“La Scuola di Chicago e del Minnesota continuò a pensare che la rigidità dei prezzi fosse un non senso e procedette con quel punto di vista per almeno un’altra quindicina d’anni. Era il punto di vista dominante nella macroeconomia accademica. Certamente, ci fu un lungo periodo nel quale l’assunto dei prezzi rigidi era una ricetta per una bocciatura immediata da parte di molte riviste più importanti. Nonostante la convinzione religiosa tra i teorici della macroeconomia che i prezzi non possono essere rigidi, il modello di Dornbusch rimase convincente per i macroeconomisti internazionali con maggior senso pratico. Questa divergenza di punti di vista provocò una prolungata frattura tra la macroeconomia e gran parte della corrente principale della finanza internazionale ….
Ci sono non pochi di noi, nella mia generazione di economisti internazionali, che ancora portano i segni del non essere stati capaci di pubblicare studi sui prezzi rigidi durante gli anni della nuova repressione neo-classica.”
Si noti che chi sta parlando non è il malefico Krugman; è il rispettabile Rogoff. Eppure anche lui in sostanza descrive la macroeconomia neoclassica come un sorta di culto, capace di sopprimere energicamente approcci alternativi. Dove lui sbaglia è nella parte che io ho espunto con i puntini (….) , nella quale sostiene che tutto questo è alle nostre spalle. Come abbiamo constatato quando la crisi è scoppiata, la Scuola di Chicago e del Minnesota di fatto non ha imparato niente ed è rimasta assai inconsapevole della complessiva intraprendenza Neokeynesiana – e da quello che sento dire a proposito di assunzioni di economisti, la soppressione delle idee in contrasto con il culto rimane in pieno esercizio.
In ogni modo, il punto era che la macroeconomia internazionale – che è stata casa mia, all’interno dell’economia – non ha mai preso per buona la moda dell’insensatezza, in gran parte grazie alla influenza di Dornbusch. Grazie Rudi.
[1] “Push up the daises” è un idioma brutale nonostante le “margherite”, letteralmente “far crescere le margherite”.
[2] Rudiger “Rudi” Dornbusch (Krefeld, 8 giugno 1942 – Washington, 25 luglio 2002) è stato un economista tedesco. Ha studiato all’Università di Ginevra ed ha conseguito nel 1971 il Ph.D. presso l’Università di Chicago. Robert Mundell, premio Nobel dell’economia nel 1999, scoprì le sue grandi doti durante una visita all’Università di Ginevra e lo portò con sé all’Università di Chicago. Al Mit è stato per 27 anni. La sua impronta alla moderna economia internazionale l’ha fornita oltre che con i suoi numerosi scritti sulle più importanti riviste scientifiche anche seguendo più di 125 tesi di Ph.D. I suoi contributi pubblicati su riviste ed in capitoli di libri ammontano a più di 300. Il suo testo universitario sulla macroeconomia scritto a quattro mani con Stanley Fischer è un manuale per i corsi di base di economia che negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso è stato il più diffuso a livello mondiale. Una traduzione non autorizzata del libro è stata diffusa clandestinamente anche nell’ex Cecoslovacchia. Dornbusch è famoso tra l’altro per la sua teoria dell’overshooting del tasso di cambio. Possedeva una didattica unica che lo ha portato ad elaborare grafici innovativi per far comprendere meglio il suo pensiero. (Wikipedia)
[3] Il modello della “eccedenza” o l’ipotesi del tasso di cambio eccedente è una spiegazione per la elevata volatilità dei tassi di cambio che fu proposta per primo da Rudi Dornbusch. Le configurazioni principali del modello includono gli assunti che i prezzi dei beni sono rigidi, o lenti a modificarsi, nel breve periodo, mentre I prezzi delle valute sono flessibili, che l’ “arbitraggio” regge i mercati degli assets, tramite l’equazione sulla parità dell’interesse “non coperto”, e che le aspettative sui mutamenti dei tassi di cambio sono ‘coerenti’ – vale a dire razionali. (Wikipedia, dall’inglese)
Cercando di chiarire un po’ più semplicemente, si consideri che per “arbitraggio” si intende quella condizione del trarre un vantaggio istantaneo tra le differenze dei prezzi su due mercati, come acquistare qualcosa ad un prezzo basso e rivenderlo ad un prezzo più elevato. Diciamo che è un termine che rimanda più al sostantivo “arbitrio” che al sostantivo “arbitro”, o meglio ancora che rimanda ad un concetto di vantaggio di chi conosce una provvisoria opportunità. Quanto al concetto di “parità di interessi non-coperti”, il termine “non-coperti” dovrebbe significare che non sono garantiti da soluzioni come quelle di contratti che proteggono dai rischi dei tassi di cambio delle valute. In quel caso la loro parità consiste nel fatto che, nel più lungo periodo, entrano in gioco meccanismi di correzione che eliminano la possibilità di profitti sugli interessi “non coperti”. Gli investitori che operano sul lungo periodo, in quel caso sono protetti dal fatto che ci si attende una correzione degli squilibri.
dicembre 12, 2013
December 12, 2013, 11:48 am
I’ve been getting a fair bit of correspondence wondering why I haven’t written about the negotiations for a Trans Pacific Partnership, which many of my correspondents and commenters regard as something both immense and sinister.
The answer is that I’ve been having a hard time figuring out why this deal is especially important.
The usual rhetoric — from supporters and opponents alike — stresses the size of the economies involved: hundreds of millions of people! 40 percent of global output! But that tells you nothing much. After all, the Iceland-China free trade agreement created a free trade zone with 1.36 billion people!!! But only 300,000 of those people live in Iceland, and nobody considers the agreement a big deal.
The big talk about TPP isn’t that silly. But my starting point for things like this is that most conventional barriers to trade — tariffs, import quotas, and so on — are already quite low, so that it’s hard to get big effects out of lowering them still further.
The deal currently being negotiated involves only 12 countries, several of which already have free trade agreements with each other. It’s roughly, though not exactly, the TPP11 scenario analyzed by Petri et al (pdf). They’re pro-TPP, and in general pro-liberalization, yet even so they can’t get big estimates of gains from that scenario — only around 0.1 percent of GDP. And that’s with a model that includes a lot of non-standard effects.
An aside: one little-known aspect of the literature on trade liberalization is that to get any kind of large effect it’s necessary to drop the assumption that markets are highly competitive and efficient, and assume instead that there are large inefficiences that will be reduced as a result of international competition. This was the case for people claiming large gains from 1992 in Europe, and it’s the case for TPP now. I’m not saying that this is wrong — the Melitz model in which inefficient firms don’t get driven out unless there’s increased external pressure is a beautiful thing. But it’s sort of dissonant with the overall pro-market feel of this stuff.
Oh, and 1992 was kind of a disappointment, wasn’t it?
As I read it, to make TPP something really important you have to (a) bring China inside, which isn’t on the table right now and (b) have major effects on foreign direct investment.To be fair, NAFTA seems to have had effect (b) — but NAFTA changed the political environment in Mexico in a way TPP probably won’t.
OK, I don’t want to be too dismissive. But so far, I haven’t seen anything to justify the hype, positive or negative.
Trans Pacific Partnership [1]
Sto ricevendo un po’ di corrispondenza nella quale ci si meraviglia che non stia scrivendo niente sui negoziati per una Trans Pacific Partnership, che molti dei miei corrispondenti e commentatori considerano o come qualcosa di straordinario o come qualcosa di sinistro.
La risposta è che ho qualche difficoltà ad immaginare le ragioni per le quali questo accordo sarebbe particolarmente importante.
La consueta retorica – tra i sostenitori come tra gli oppositori – insiste sulle dimensioni delle economie coinvolte: centinaia di milioni di persone! Il 40 per cento della produzione globale! Ma questo non ci dice molto. Dopo tutto, l’accordo di libero commercio tra la Cina e l’Islanda ha creato una zona di libero scambio con un miliardo e 360 milioni di persone !! Ma solo 360 mila di questi individui vivono in Islanda, e nessuno considera l’intesa un grande tema.
Il gran discorrere sul TPP non è così sciocco. Ma il mio punto di partenza per cose del genere è che le più convenzionali barriere al commercio – tariffe, quote dell’import, e così via – sono già abbastanza basse, cosicché è difficile ottenere grandi effetti dall’abbassarle ulteriormente.
L’accordo attualmente in corso di negoziazione riguarda soltanto 12 paesi, alcuni dei quali hanno già accordi di libero scambio gli uni con gli altri. Si tratta grosso modo, sebbene non esattamente, dello scenario del TPP 11 [2] analizzato da Petri ed altri (disponibile in pdf). Essi sono favorevoli al TPP, e in generale favorevoli alla liberalizzazione, eppure ciononostante non possono fornire grandi stime dei vantaggi di quello scenario – soltanto qualcosa come lo 0,1 del PIL. E quello scenario si basa su un modello di effetti non convenzionali.
Un inciso: un aspetto poco noto della letteratura sulla liberalizzazione degli scambi è che per ottenere un qualche ampio effetto è necessario lasciar cadere l’assunto che i mercati siano altamente competitivi ed efficienti, e considerare invece che ci sono ampie inefficienze che sono riducibili in conseguenza della competizione internazionale. Questo fu il caso delle persone che sostenevano la possibilità di grandi vantaggi nell’Europa del 1992, ed è oggi il caso del TPP. Non sto dicendo che sia sbagliato – il modello di Melitz secondo il quale le imprese inefficienti non vengono liquidate senza una accresciuta competizione esterna è un’ottima cosa. Ma c’è una certa dissonanza con il sentimento generale favorevole al mercato implicito in questo genere di cose.
Per giunta, il 1992 fu una specie di delusione, non è così?
Per come leggo il problema, per rendere in qualche modo importante il TPP si dovrebbe: a) coinvolgere la Cina, che in questo momento non è al tavolo; b) avere importanti effetti sugli investimenti diretti stranieri. Per essere onesti, il NAFTA sembra avere avuto quegli effetti di cui al punto b) – ma il NAFTA cambiò l’ambiente politico nel Messico in un modo nel quale probabilmente il TPP non farà.
Lo riconosco, non voglio essere troppo liquidatorio. Ma sinora non ho visto niente che giustifichi tutto il battage pubblicitario, positivo o negativo che sia.
[1] Il TPP, nella forma distesa come nel titolo, è un tentativo di accordo commerciale in corso tra le seguenti nazioni: Australia, Brunei, Cile, Canada, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam. Ha suscitato molto dibattito e proteste la segretezza di tali trattative; nel novembre del 2013 una copia del capitolo sulle regole di riservatezza dell’accordo è stato pubblicato di Wikileaks.
[2] Il Trans Pacific Partnership ebbe origine nel 2005, come un accordo tra quattro paesi (TPP4) – Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore – e si viene via via ampliando a nuove nazioni interessate. Poiché al momento le nazioni coinvolte sono 12, il TPP 1 dovrebbe essere una versione appena precedente. Non mi è chiaro se nel frattempo cambino gli accordi, o più probabilmente si amplino i negoziati che ancora non hanno prodotto un esito finale.
dicembre 12, 2013
December 12, 2013, 8:36 am
As many people have noted, a strange thing has happened on the fiscal policy front. Intellectually, the case for austerity has pretty much collapsed, having been reduced at this point to the Three Stooges Theory: we’re supposed to consider austerity a success because it feels good when you stop, or at least let up. At the same time, however, austerity policies continue to be imposed, on both sides of the Atlantic.
And amid the punditizing over the latest budget deal, it’s worth considering just how unprecedented US austerity has been. Look at total government spending — federal, state, and local — and correct it for inflation, as measured by the core personal consumption expenditures deflator (the Fed’s preferred measure). (It doesn’t matter much which measure you use, but this one has less noise). Smooth it out by looking at three-year changes. Here’s what you get:
You can see that there was a brief, modest spurt in spending associated with the Obama stimulus — but it has long since been outweighed and swamped by a collapse in spending without precedent in the past half century. Taking it further back is tricky given data non-comparability, but as far as I can tell the recent austerity binge was bigger than the demobilization after the Korean War; you really have to go back to post-World-War-II demobilization to get anything similar.
And to do this when the private sector is still deleveraging and interest rates are at the zero lower bound is just awesomely destructive.
Austerità senza precedenti
Come molte persone hanno notato, è successa una cosa strana sul fronte della politica della finanza pubblica. Intellettualmente, gli argomenti a favore dell’austerità sono in buona parte implosi, riducendosi a questo punto alla “Teoria dei tre marmittoni” [1]: si ritiene di considerare l’austerità un successo perché ci si sente meglio quando la si interrompe, o almeno la si attenua. Nello stesso tempo, tuttavia, si continuano ad imporre le politiche di austerità, su entrambe le sponde dell’Atlantico.
E nel mentre dilagano i commenti sull’ultimo accordo per il bilancio, vale la pena di considerare quanto questa austerità degli Stati Uniti sia stata senza precedenti. Si guardi alla spesa totale dello Stato – federale, degli stati e locale – e la si corregga per l’inflazione, come viene misurata dal deflatore fondamentale delle spese per i consumi personali (il metro di misura preferito dalla Fed [2]). (Non conta molto quale misura si utilizza, ma questa ha molti meno fattori di disturbo). La si spalmi in modo da osservare i mutamenti in un triennio. Ecco quello che si ottiene:
Si può notare che vi fu un breve, modesto impulso alla spesa associato con lo stimulus di Obama – ma esso è stato da molto tempo sovrastato e sommerso da un crollo nella spesa che non ha precedenti negli ultimi cinquanta anni. Andare anche più indietro è complicato dalla non comparabilità dei dati, ma per quello che posso dire la recente ‘scorpacciata’ di austerità è stata maggiore della smobilitazione dopo la guerra di Corea; si deve davvero tornare alla smobilitazione successiva alla Seconda Guerra Mondiale per trovare qualcosa di simile.
E fare questo nel mentre il settore privato sta ancora riducendo il suo rapporto di indebitamento ed i tassi di interesse sono al limite inferiore di zero è solo paurosamente distruttivo.
[1] Vedi il post del 6 dicembre.
[2] Per “core inflation” ed “headline inflation” vedi le note sulla traduzione.
dicembre 11, 2013
December 11, 2013, 2:14 pm
It goes without saying that Obamacare had a disastrous rollout. But it’s not October any more. Enrollment is rising fast, and administration officials — who have every reason not to overpromise after what happened last time — are sounding increasingly confident.
Yet as Greg Sargent notes, right-wing pundits, from Bill Kristol to the WSJ, have clearly decided that the GOP will win big in 2014 by running against the Obamacare debacle. The possibility that it might not be perceived as a debacle by November — that it might even be perceived as a qualified success — doesn’t seem to figure at all in their thinking.
Why the disconnect? Well, it’s feeling to me a lot like the later months of the 2012 campaign, when the polls clearly pointed to an Obama win but Republicans lived in a closed information loop where such information was excluded — the only polls they heard about were “unskewed” to remove the unwelcome information.
So right now I see a lot of analyses that take the October-November average enrollment and present it as the shape of things to come — see, enrollment is far behind the predicted pace, and it’s mainly Medicaid! No acknowledgment of the reality that these numbers are weighed down by a non-functional website that’s pretty functional now, that the pace has accelerated dramatically, and that experience in Massachusetts tells us to expect a surge of enrollment, especially among healthy Americans, as the deadline for avoiding the penalty approaches.
Meanwhile, polling on health reform is already improving, even though a majority of voters don’t yet know how much better the signup process is working.
Obviously a lot of things can happen in the months ahead. But 2014 may be more like 2012 than anyone imagines.
La sensazione non distorta
Non è il caso di ripetere che la riforma sanitaria di Obama ha avuto un avvio disastroso. Ma ora non è più ottobre. Le iscrizioni stanno salendo velocemente, e i dirigenti della Amministrazione – che dopo quello che è successo l’ultima volta hanno tutte le ragioni per non esagerare con le promesse – sembrano sempre più fiduciosi.
Tuttavia, come nota Greg Sargent, i commentatori della destra, da Bill Kristol al Wall Street Journal, hanno evidentemente deciso che il Partito Repubblicano vincerà alla grande nel 2014 cavalcando la débâcle della riforma della assistenza. La possibilità che essa possa non essere percepita come una debacle di qua a novembre – che anzi possa essere percepita come un successo qualificante – non sembra comparire affatto nei loro pensieri.
C’è una ragione per questa mancata percezione? Ebbene, io ho una sensazione molto simile agli ultimi mesi della campagna elettorale del 2012, quando i sondaggi indicavano chiaramente una vittoria di Obama ma i repubblicani vivevano in un circolo vizioso informativo dal quale tale notizia era esclusa – gli unici sondaggi cui davano ascolto erano quelli “non distorti”, allo scopo di rimuovere la indesiderata notizia.
Dunque, in questo momento vedo molte analisi che considerano il dato delle iscrizioni medie in ottobre-novembre e lo considerano come lo stato dell’arte prossimo venturo – vedete, le iscrizioni sono molto al di sotto del ritmo previsto, e dipende principalmente da Medicaid! Nessuna volontà di vedere che questi dati sono alterati da un sito informatico difettoso che ora sta quasi cominciando a funzionare, che il ritmo si è accelerato in modo spettacolare, e che l’esperienza nel Massachusetts ci dice che è probabile una risalita nelle iscrizioni, specialmente tra gli americani più ricchi, nel mentre si avvicina l’ultima scadenza per evitare le penalizzazioni.
Nel frattempo, i sondaggi sulla riforma sanitaria stanno già migliorando, anche se la maggioranza degli elettori ancora non sa quanto il processo delle iscrizioni stia migliorando.
Ovviamente, sono molte le cose che possono succedere nei mesi a venire. Ma il 2014 è più probabile che assomigli al 2012 di quanto tutti si immaginano.