November 21, 2013, 8:48 am
Remember all the pundits who stroked their chins, pretended to deliberate, then — completely predictably — came out against health care reform because, they said, it wouldn’t control health care costs? Remember all the demands that Obama do something real, like raising the Medicare age (which turns out not to make any significant difference to the deficit)?
Now, from the CEA, we have this:
The CEA is careful not to claim too much — there’s pretty good evidence that the ACA has played an important role in the cost slowdown, but they don’t assign any particular number. Still, it looks as if the biggest complaint against Obamacare was completely wrong: cost control is one of the things that is really, really working, with huge positive fiscal implications.
If they get the enrollment process working — it’s getting better, but we still don’t know if it’s moving fast enough — this is still going to go down in the long run as a policy triumph.
Una vera riforma dei programmi assistenziali
Ricordate tutti quegli opinionisti che si lisciavano il mento, fingendo di pensare intensamente, e poi – in modo del tutto prevedibile, se ne venivano fuori contro la riforma della assistenza sanitaria perché, dicevano, non si sarebbero tenuti i costi sotto controllo? Ricordate tutte quelle richieste ad Obama perché facesse qualcosa di concreto, come elevare l’età di ingresso in Medicare (che si scopre non farebbe nessuna differenza su deficit)?
Ora, da parte del Consiglio dei consulenti economici (del Presidente degli USA), riceviamo questo [1]:
Il CEA ha lo scrupolo di non aggiungere troppi argomenti – c’è una prova abbastanza evidente che la legge di riforma sanitaria ha giocato un ruolo importante nel rallentamento dei costi, pur non stabilendo alcuna particolare cifra. Eppure, sembra che la grande lamentela contro le riforma di Obama fosse del tutto infondata: il controllo dei costi è una delle cose che sta proprio, per davvero, funzionando, con ampie implicazioni positive sulla finanza pubblica.
Se riescono a mettere in funzione il meccanismo delle iscrizioni – sta andando meglio, ma ancora non sappiamo se si metterà in modo abbastanza alla svelta – nel lungo periodo è ancora destinato a calare, alla stregua di un trionfo politico.
[1] Come si vede, si tratta di proiezioni sui futuri costi di Medicare e Medicaid, elaborati all’agosto del 2010, del 2011, del 2012 e, l’ultima in nero ed in evidente calo, al maggio del 2013.
novembre 20, 2013
November 20, 2013, 11:29 am
A brief thought inspired by the suddenly prominent debate over secular stagnation.
If we accept the secstag hypothesis — and it’s really amazing how fast the debate is moving here (did Larry Summers make all the difference? Have I effectively used LS as a stalking horse for views I already held? Will we ever know?) — one answer is to accept the need for a persistently negative real interest rate. And this means a higher inflation target. As Brad says, the chief economist of the IMF has come pretty close to making that case, although he has said similar things before.
Another option, however (or a complementary option) would be to follow up on another surprising notion that is suddenly gaining traction: expanding, not cutting, Social Security.
If you have been around long enough, you know that one of the things that originally made Martin Feldstein’s reputation was his claim that Social Security, even if solvent, had a strongly negative effect on saving. This was based on a life-cycle argument: if you believe that much saving is undertaken by working-age people preparing for their senior years, giving them a guaranteed retirement income should displace much of this saving. The empirical evidence Feldstein presented in support didn’t hold up very well — in fact, the results were driven in large part by, er, a programming error. (Somehow it seems to me that I’ve heard about a similar case more recently. I wonder where?) Still, suppose his logic was right?
Well, in 1974, when Feldstein published his alleged results, depressing saving looked like a bad thing. In 2013, in an economy mired in the paradox of thrift and quite possibly set to remain stuck there for a long tiime, it could be just what we need.
Previdenza Sociale e stagnazione secolare
Un breve pensiero ispirato dal dibattito di tutto rilievo sulla stagnazione secolare.
Se accettiamo l’ipotesi della stagnazione secolare – ed è davvero sorprendente come si sia spostato velocemente il dibattito in questo caso (Larry Summers ha fatto tutta la differenza? Ho effettivamente utilizzato Larry Summers per punti di vista che avevo in precedenza? Lo sapremo mai?) – una conseguenza da accettare è la necessità di un prolungato tasso di interesse reale negativo. E questo significa un obbiettivo di inflazione più elevato. Come dice Brad, l’economista principale del FMI [1] è arrivato abbastanza vicino ad avanzare tale tesi, sebbene egli abbia detto cose del genere in precedenza.
Un’altra opzione, tuttavia (o una opzione complementare) sarebbe approfondire un’altra sorprendente idea che all’improvviso sta guadagnando terreno: espandere anziché tagliare la Previdenza Sociale.
Se ve ne siete occupati da un po’, saprete che una delle cose che in origine contribuirono alla reputazione di Martin Feldstein fu la sua tesi per la quale la Previdenza Sociale, pur avendo i conti a posto, aveva un effetto fortemente negativo sui risparmi. Si basava su un argomento sul ciclo della esistenza: se credete che una gran parte del risparmio è accantonato dalle persone in età lavorativa per prepararsi agli anni della vecchiaia, offrire loro un reddito di pensione garantito comporterebbe una rimozione di tale risparmio. La prova empirica che Feldstein portò a sostegno non resistette granché – di fatto, i risultati erano provocati in larga parte, guarda un po’, da un errore di calcolo elettronico (mi sembra in qualche modo di aver sentito dire di una caso simile più di recente. Dove, mi chiedo? [2]) Eppure, supponiamo che la sua logica fosse giusta?
Ebbene, nel 1974, quando Feldstein pubblicò i suoi presunti risultati, risparmi depressi sembravano una cosa negativa. Nel 2013, in un’economia impantanata nel paradosso del risparmio ed abbastanza probabilmente destinata a non muoversi da lì per lungo tempo, potrebbe essere quello di cui abbiamo bisogno.
[1] Olivier Blanchard, del quale si ricorda uno studio del 2010.
[2] Mi pare chiaro che sia una ironia riferita alla recente discussione sull’errore di Reinhart-Rogoff.
novembre 20, 2013
November 20, 2013, 11:02 am
I haven’t been writing about the healthcare.gov thing, for the simple reason that I have nothing to say. What’s going on isn’t a policy question: we know from the states with working exchanges (including California) that the underlying structure of the law is workable. Instead, it’s about an implementation botch, which is an incredible mess, and reflects very badly on Obama. But the future of the reform depends not on policy per se but on whether the IT issues can be fixed well enough soon enough, a subject on which I have zero expertise.
Of course, that hasn’t stopped other people from breathlessly commenting on every twist and turn in the polls, every meaningless vote in the House, and so on. Hey, it’s a living.
But at this point there’s enough information coming in to make semi-educated guesses — and it looks to me as if this thing is probably going to stumble through to the finish line. State-run enrollments are mostly going pretty well; Medicaid expansion is going very well (and it’s expanding even in states that have rejected the expansion, because more people are learning they’re eligible.) And healthcare.gov, while still pretty bad, is starting to look as if it will be good enough in a few weeks for large numbers of people to sign up, either through the exchanges or directly with insurers.
If all this is right, by the time open enrollment ends in March, millions of previously uninsured Americans will in fact have received coverage under the law, and reform will be irreversible. Obama personally may never recover his reputation; Democratic hopes of a wave election in 2014 are probably gone, although you never know. But anyone counting on Obamacare to collapse is probably making a very bad bet.
Lo stato della riforma sanitaria di Obama
Non ho scritto sulla faccenda del sito governativo sulla riforma sanitaria, per la semplice ragione che non ho niente da dire. Quello che sta accadendo non è una questione politica: sappiamo dagli Stati con le ‘borse’ [1] funzionanti (compresa la California) che la struttura su cui si basa la legge può funzionare. Ha invece riguardato il pessimo lavoro dell’implementazione dei dati il punto in cui si è prodotto un indicibile pasticcio, che ha riflessi molto negativi su Obama. Ma il futuro prossimo della riforma non dipende in sé dalla politica, bensì dal fatto che gli aspetti informatici possano essere risolti bene in tempi abbastanza rapidi, un tema sul quale non ho alcuna competenza.
Naturalmente, questo non ha fermato altre persone dal commentare senza sosta ogni mossa ed ogni spostamento nei sondaggi, ogni votazione priva di senso alla Camera, e così via. Sapete, così va la vita.
Ma a questo punto c’è abbastanza informazione in arrivo per fare congetture con apparente cognizione di causa – e mi pare che questa faccenda sia destinata a barcollare per tutta la fase finale. Le iscrizioni gestite dagli Stati per la maggior parte stanno andando abbastanza bene; l’espansione di Medicaid sta andando molto bene ( e si sta espandendo persino negli Stati che avevano respinto tale provvedimento, perché molta gente sta scoprendo di averne diritto). Ed il sito governativo se è abbastanza malmesso, sembra che finirà col funzionare abbastanza in poche settimane consentendo ad un gran numero di persone di iscriversi, sia attraverso le ‘borse’ o direttamente con gli assicuratori.
Se tutto procede bene, al momento in cui finiranno le iscrizioni in marzo milioni di americani in precedenza non assicurati di fatto avranno ricevuto la copertura prevista dalla legge, e la riforma diventerà irreversibile. Obama personalmente non potrà recuperare la sua reputazione; le speranze dei democratici di fare man bassa nelle elezioni del 1914 sono probabilmente perdute, sebbene non si possa mai dire. Ma tutti quelli che si affidano ad una collasso della riforma della assistenza sanitaria di Obama probabilmente stanno facendo una pessima scommessa.
[1] Le “borse” sono dei nuovi istituti della riforma sanitaria americana, fondamentalmente finalizzati a favorire l’incontro tra la domanda dei nuovi acquirenti i trattamenti assicurativi e le assicurazioni stesse, in competizione l’una con l’altra, Esse dunque sono servite, in una prima fase, a rendere note le condizioni di ogni assicurazione e successivamente a favorire le procedure, anche on line, di acquisto della copertura assicurativa e l’ottenimento dei sussidi pubblici. Esiste una “borsa” unica federale – che è quella nella quale è andato subito in tilt il sistema informativo – ed esistono altresì, dove si sono scelte, “borse” al livello dei singoli Stati. Queste ultime in genere hanno funzionato bene, consentendo di sperimentare i primi passi della riforma.
novembre 19, 2013
November 19, 2013, 4:07 pm
Since I gave Larry Summers’s endorsement of secular stagnation theory a plug, I’ve been getting a lot of commentary in various forms. Some of it is the usual Keynes-hatred and/or incomprehension, and not worth going into. But there are also some questions/complaints that call for some serious further exegesis.
First, about monetary policy. Ryan Avent says that the evident implication of the whole analysis is that we need persistent inflation of something like 4 percent, which he calls “The solution that cannot be named”. Actually, I’ve named it repeatedly; so have many others. But it’s true that it’s still outside what central bankers are allowed to say.
The question here for economists is tactical: how hard do you bang on the inflation target right now? My belief — which could be wrong — is that a higher inflation target will not get into the Overton Window until the general idea of secular stagnation gets widely accepted. As long as current conditions are perceived as temporary and abnormal, the urge to normalize around traditional inflation rates will be hard to beat. Remember, I started calling for 4 percent in Japan in 1998; and even now, with Abenomics, they’re only going for 2.
Second, about fiscal policy: I’ve had several people apparently believing that what I’ve said about stagnation is somehow an about-face from previous writings: “You said that we’re suffering from a financial crisis, and that austerity was killing us — but now you say that it’s some long-term problem and we’re doomed to permanent depression!”
As Charlie Brown would say, Aaugh!
The reason austerity is so destructive is that we’re up against the zero lower bound, so that reductions in demand can’t be offset with interest rate cuts. And why are we up against the zero lower bound? The proximate cause is the financial crisis and the overhang of debt left behind by the bubble, but the reason we’re so vulnerable to getting into this position — the reason we tend to be in a liquidity trap whenever we don’t have a bubble inflating — is, or at least that’s what we’re arguing, the generally low natural real interest rate, aka secular stagnation.
The point is that the case against austerity is as strong as it ever was.
And maybe even stronger, once you think about debt dynamics.
Right now the real interest rate on US government borrowing is about 0.5 percent on 10-year securities, negative 0.4 percent on 5-year. Meanwhile, even pessimistic estimates of US potential growth put it in the 1.5-2 percent range. So r is less than g — the real interest rate on debt is less than the normal growth rate.
This in turn means that the usual worry about a rising debt level — that it will require that we eventually run big non-interest surpluses to pay down the debt — is all wrong. As long as we run a primary (non-interest) balance, or in fact not too large a deficit, the debt/GDP ratio will tend to erode over time. What’s more, an increase in the primary deficit won’t cause a runaway debt spiral, it will lead to a gradual rise in debt to a higher level, but it will stabilize there.
Suppose, for example, that r is 0.5 and g is 1.5 — not too unrealistic. Suppose that you start with debt at 50 percent of GDP, and then begin running primary deficits of 1 percent of GDP. What will happen? Debt will rise to 100 percent of GDP, and stay there, even if nothing is done to address the deficit.
I don’t want to push this too hard, but I just want to make it clear that if we really believe in low or even negative normal real interest rates, conventional views of fiscal prudence make even less sense than people like me have been saying.
So fear not: I’m still bitterly against austerity, and even less impressed by the fiscal scolds than before. Secular stagnation just adds to the reasons to believe that we’re doing things very, very wrong.
Implicazioni della stagnazione secolare sulla politica monetaria e della finanza pubblica
Dal momento che ho dato un contributo di pubblicità alla adesione di Larry Summers alla teoria della stagnazione secolare, sto ricevendo in varie forme una quantità di commenti. Alcune del solito genere dell’odio e/o della incomprensione su Keynes, e non merita approfondirli. Ma ci sono altre domande o lamentele che impongono una qualche ulteriore esegesi.
In primo luogo, a proposito della politica monetaria. Ryan Avent dice che la evidente implicazione di tutta quella analisi è che abbiamo bisogno di una inflazione costante attorno al 4 per cento, che egli chiama “La soluzione che non si può nominare”. Per la verità, io l’ho chiamata per nome molte volte, e così molti altri. Ma è vero che è qualcosa su cui non è consentito ai banchieri centrali di parlare.
In questo caso la domanda per gli economisti riguarda la tattica: in questo momento con quanta energia si batte sul tema dell’obbiettivo di inflazione? Il mio convincimento – che potrebbe essere sbagliato – è che un più alto obbiettivo di inflazione non finirà dentro la “finestra di Overton” [1] finché l’idea generale della stagnazione secolare non viene generalmente accolta. Finché le attuali condizioni sono percepite come provvisorie ed anormali, sarà difficile insistere sulla spinta a collocarsi su tassi di inflazione tradizionali. Si ricordi: io cominciai a chiedere un 4 per cento nel Giappone del 1998, e persino adesso, con la politica economica di Abe, stanno provandoci con un 2 per cento.
In secondo luogo: ci sono varie persone che apparentemente credono che quello che ho detto sulla stagnazione sia in qualche modo un dietrofront rispetto a miei scritti precedenti: “Hai detto che stavamo soffrendo di una crisi finanziaria e che l’austerità ci stava ammazzando – ma ora dici che si tratta in qualche modo di un problema di lungo periodo e che siamo condannati ad una depressione permanente!”
Come direbbe Charlie Brown, “Aaugh” [2]!
La ragione per la quale l’austerità è così distruttiva è che siamo a fronte del limite inferiore di zero (nei tassi di interesse), e che le riduzioni nella domanda non possono essere bilanciate con tagli ai tassi di interesse. E perché siamo a fronte del limite inferiore di zero? La causa più vicina è la crisi finanziaria e l’eccesso di debito che sono state lasciate dalla bolla, ma la ragione per la quale siamo suscettibili di finire in quella situazione – la ragione per la quale tendiamo a finire in una trappola di liquidità ogni qualvolta non abbiamo una bolla che monta – è, o almeno questo è quanto sosteniamo, il tasso di interesse reale naturale generalmente basso, ovvero la stagnazione secolare.
Il punto è che l’argomento contro l’austerità è più forte che mai.
E forse persino più forte, una volta che voi pensate alle dinamiche del debito.
In questo momento il tasso di interesse reale sul debito del governo degli Stati Uniti è circa lo 0,5 per cento sui titoli decennali, dello 0,4 per cento negativo su quelli quinquennali. Nel frattempo, anche le stime pessimistiche della crescita potenziale degli Stati Uniti la collocano in un range del 1,5 – 2 per cento. Dunque r è minore di g – il tasso di interesse reale è minore del normale tasso di crescita.
Questo a sua volta significa che la normale preoccupazione sul livello crescente del debito – per la quale si richiederà che alla fine si realizzino grandi avanzi al netto degli interessi per abbattere il debito – è tutta sbagliata. Finché avremo un equilibrio finanziario primario (al netto degli interessi), o di fatto un deficit non troppo ampio, il rapporto debito/PIL tenderà nel tempo ad erodersi. C’è di più, un incremento nel deficit primario non provocherà una spirale del debito senza controllo, porterà ad una graduale crescita del debito ad un livello più alto, ma si stabilizzerà a quel punto.
Si supponga, ad esempio, che r (il tasso di interesse) sia a 0,5 e g (il tasso di crescita) sia ad 1,5 – il che non è affatto irrealistico. Si supponga che partiate da un debito al 50 per cento del PIL, e che in seguito cominciate a realizzare deficit primari dell’1 per cento del PIL. Che cosa accadrà? Il debito crescerà sino al 100 per cento del PIL e poi si fermerà, anche se non si è fatto niente per aggredire il deficit.
Non intendo affermare questo concetto con troppa forza, ma solo chiarire che se effettivamente si crede in tassi di interesse reali bassi o persino negativi, i punti di vista convenzionali sulla prudenza nella finanza pubblica hanno persino meno senso di quello che persone come me sono venute dicendo.
Dunque, non abbiate timore: io sono ancora con più asprezza contro l’austerità, ed anche meno impressionato di prima dalle Cassandre del deficit. La stagnazione secolare semplicemente aggiunge ragioni per credere che stiamo facendo proprio le cose sbagliate.
[1] Joseph P. Overton è stato un politologo americano (1960-2003). La sua tesi era che esistono un complesso di idee che hanno una probabilità di essere accolte dalla opinione pubblica, ed esse stanno in un range non grande, appunto una “finestra stretta”. In ogni momento esiste un range di opinioni accettabili, non troppo estreme, da parte della opinione pubblica e l’uomo politico dovrebbe muoversi entro lo spazio di quella “finestra”.
[2] Espressione che Charlie Brown adopera in occasioni di questo tipo:
novembre 19, 2013
November 19, 2013, 9:31 am
Or at least it seems to be a new rule — namely, pick whatever price index makes the point you want, even if it’s not at all the price index you would normally use.
Via EconoSpeak, John Taylor says that the U.S. economy was too experiencing a substantial acceleration of inflation during the years when he says monetary policy was too loose:
Inflation was not steady or falling during the easy money period from 2003-2005. It was rising. During the years from 2003 to 2005, when Fed’s interest rate was too low, the inflation rate for the GDP price index doubled from 1.7% to 3.4% per year. On top of that there was an extraordinary inflation and boom in the housing market as demand for homes skyrocketed and home price inflation took off, exacerbated by the low interest rate and regulatory policy.
Um, the inflation rate for the “GDP price index”? That’s the GDP deflator, which the Fed very carefully does not use as a policy indicator. Why? Because it contains things like grain and oil prices, which fluctuate a lot, so that it’s an unstable measure that is highly unreliable as an indicator of underlying inflation. The Fed prefers the consumption deflator excluding food and energy. Here’s how the two compare since 2000:
Do you really think that the blue line, which has fluctuated wildly, should have been used to guide monetary policy? Was Taylor calling for gigantic monetary expansion in 2009, when the GDP deflator almost went negative? And using the Fed’s preferred measure, inflation was indeed quiescent during the “Bush boom.”
Oh, and if you’re going to use home prices — not rents — as a measure of inflation, you should know that it looks like this:
Again, wildly erratic (even more so) — and, by the way, negative when Taylor signed the debasement and inflation letter.
Actually, there’s a broader point. Taylor’s argument is that monetary policy was too loose during the boom; it’s also that monetary policy has been too loose during the slump. So it has basically always been too loose, for a decade or more. Yet inflation is lower now than it was in 2000. How is that possible?
Un’altra regola di Taylor
O almeno sembra essere una nuova regola – precisamente, scegliete qualsiasi indice dei prezzi che sia favorevole al vostro punto di vista, anche se non è quello che normalmente usereste.
Attraverso Econospeak John Taylor dice che l’economia statunitense aveva sin troppo fatto esperienza di una accelerazione dell’inflazione durante gli anni nei quali egli diceva che la politica monetaria era troppo accomodante:
“L’inflazione non fu stabile o in caduta durante il periodo della moneta facile dal 2003 al 2005. Era in crescita. Durante gli anni dal 2003 al 2005, quando il tasso di interesse della Fed era troppo basso, il tasso di inflazione secondo l’indice dei prezzi del PIL raddoppiò dall’1,7% al 3,4% all’anno. Agli inizi di quel periodo ci fu una straordinaria inflazione ed un boom nel mercato immobiliare quando la domanda di alloggi schizzò alle stelle e decollò l’inflazione dei prezzi delle abitazioni, esacerbata dai bassi tassi di interesse e dalla politica di regolamentazione.”
Ma guarda, il tasso di inflazione “secondo l’indice dei prezzi del PIL”? Vale a dire il deflatore del PIL, che la Fed scrupolosamente non utilizza come indicatore per le proprie scelte. Perché? Perché contiene cose come i prezzi del grano e del petrolio che sono molto fluttuanti, cosicché è una misura instabile altamente inaffidabile come indicatore dell’inflazione sottostante. La Fed preferisce il deflatore ai consumi con l’esclusione di alimenti ed energia. Ecco il confronto tra i due a partire dal 2000:
Pensate davvero che la linea blu, che ha fluttuato vistosamente, avrebbe dovuto essere usata per guidare la politica monetaria? Taylor stava parlando della gigantesca espansione monetaria del 2009, quando il deflatore del PIL diventò quasi negativo? Ed utilizzando la misura prescelta dalla Fed, l’inflazione fu in effetti quiescente durante gli anni del ‘boom’ di Bush.
Inoltre, se avete intenzione di usare i prezzi delle case – non degli affitti – come una misura di inflazione, dovreste sapere che il risultato è questo:
Ancora, enormemente erratico (anche di più, in questo caso) – e, per inciso, negativo nel momento in cui Taylor firmò la lettera sulla svalutazione e sull’inflazione [1].
Per la verità, c’è un aspetto più generale. L’argomento di Taylor è che la politica monetaria fu troppo accomodante durante l’espansione ed anche che la politica monetaria sia stata troppo accomodante durante la crisi. Dunque, fondamentalmente è stata sempre facile, per un decennio e più. Tuttavia l’inflazione è più bassa oggi che nel 2000. Come è possibile?
[1] E’ la lettera aperta della quale si parla nel post del 17 novembre “Cosa fare quando si ha torto”, della quale Tayor fu un firmatario autorevole.
novembre 19, 2013
November 19, 2013, 8:48 am
The Washington Post editorial board wants to cut Medicare and Social Security. That has been its consistent position as long as I can remember. And what it advocates, always, are cuts in benefits, not costs — that is, while it may give lip service to efforts to control health-care costs (which seem to be going surprisingly well, in one of the untold success stories of Obamacare), what it has pushed repeatedly are things like a rise in the Medicare age. These are the kind of moves that are considered serious inside the Beltway. And as you might imagine, the Post has gone wild over recent suggestions that Social Security should be expanded, not cut.
But perceived seriousness is not the same as actual seriousness, which depends on the facts. We now know that raising the Medicare age is a truly terrible idea, which would create a lot of hardship while making next to no dent in the budget deficit. And the central premise of the latest editorial — that the elderly are doing fine — just isn’t true.
The Post writes:
The bill’s authors warn of a looming “retirement crisis” because of low savings rates and disappearing private-sector pensions. In fact, the poverty rate among the elderly is 9.1 percent, lower than the national rate of 15 percent — and much lower than the 21.8 percent rate among children.
This suggests that Social Security is doing a good job of fighting poverty as is and that those gains could be preserved in any attempt to trim the program.
Guys, you have to keep up here. It’s well-known that the official poverty measure is quite flawed, for a variety of reasons — and it’s especially flawed when it comes to the elderly, who — even with Medicare — tend to have a lot of medical expenses and in other ways aren’t as well off as the official numbers suggest. The Census Supplemental Poverty Measure puts senior poverty at 14.8 percent, only slightly lower than the rate for younger adults.
And some of today’s seniors are still benefiting from traditional defined-benefit retirement plans. In the future, income other than from Social Security will depend almost entirely on defined-contribution plans — basically 401(k)s. And 401(k)s are basically an experiment that failed, except for the already affluent.
Maybe you don’t believe that the failure of defined-contribution plans is a reason to expand the one major defined-benefit plan we have, aka Social Security. But don’t make that argument by claiming that all is well with America’s seniors. The geezers are not alright.
Ai vecchi non va benissimo
Il Consiglio di redazione del Washington Post vuole tagliare Medicare e la Previdenza Sociale [1]. Questa è stata la sua continua posizione da quanto io ricordi. E quello che da sempre sostiene sono i tagli ai sussidi, non ai costi – vale a dire, se può dare una adesione di facciata agli sforzi di controllare i costi della assistenza sanitaria (che sembra stiano andando particolarmente bene, secondo una delle storie di successo delle quali non si parla della riforma di Obama), ciò per cui ha ripetutamente fatto pressioni sono cose come l’elevamento dell’età di ingresso in Medicare. Queste sono il genere di cose che sono considerate serie nella Capitale. E come vi potete immaginare, il Post è andato su tutte le furie a proposito delle recenti indicazioni secondo le quali la Previdenza sociale dovrebbe essere estesa, non tagliata.
Ma la serietà immaginaria non è la stessa cosa della serietà effettiva, la quale dipende dai fatti. Noi adesso sappiamo che elevare l’età di ingresso a Medicare sarebbe davvero stata un’idea terribile, che avrebbe creato un mucchio di difficoltà nel mentre non avrebbe nemmeno scalfito il deficit di bilancio. E la premessa centrale dell’ultimo editoriale – che gli anziani se la stanno passando bene – è proprio falsa.
Scrive il Post:
“Gli autori della proposta di legge mettono in guardia su una incombente “crisi pensionistica” a causa dei bassi tassi di risparmio e delle pensioni del settore privato che stanno scomparendo. Di fatto, il tasso di povertà tra gli anziani è il 9,1 per cento, più basso di quello dell’intera nazione che è del 15 per cento – e molto più basso del tasso del 21,8 per cento tra i bambini.
Questo indica che la Previdenza Sociale sta facendo un buon lavoro nel combattere la povertà per quello che è e che quei guadagni dovrebbero essere preservati in un qualche tentativo di dare un taglio al programma.”
Signori, in questo caso dovreste aggiornarvi. E’ assai noto che la misura ufficiale della povertà è abbastanza difettosa, per una varietà di ragioni – ed è specialmente difettosa quando si passa agli anziani, che – persino con Medicare – tendono ad avere una quantità di spese mediche, ed in vari altri sensi non sono così benestanti come indicano i dati ufficiali. La Stima supplementare della povertà del Censimento colloca la povertà degli anziani al 14,8 per cento, solo di poco più bassa della percentuale degli adulti più giovani.
Ed alcuni degli anziani odierni stanno ancora beneficiando dei tradizionali programmi pensionistici a “trattamento definito” [2]. Nel futuro, il reddito oltre che dalla Previdenza Sociale dipenderà quasi interamente da programmi a “contribuzione definita” – noti nella contabilità statale come “401 (k)s”. Ed i 401 (k)s sono un esperimento che è fallito, ad eccezione di coloro che sono già benestanti.
Si può non credere che il fallimento dei programmi a contribuzione-definita sia una ragione per estendere l’unico importante programma a trattamento-definito che abbiamo, vale a dire la Previdenza Sociale. Ma non si avanzi quell’argomento per sostenere che tutto sta andando bene agli americani anziani. Ai vecchi non va benissimo.
[1] Per “Social Security”, la sua storia e la ragione per cui traduciamo con ‘previdenza’, si vedano le note sulla traduzione.
[2] Un “programma pensionistico a trattamento definito” è quello nel quale il trattamento pensionistico viene stabilito sulla base di una formula nota in anticipo, e non sulla base del rendimento dei suoi accantonamenti. Quello più frequente, si basa su una formula derivante dall’ultimo periodo degli stipendi percepiti. Diversamente dai “defined-benefit retirement plans”, i “defined-contribution retirement plans” sono invece i programmi nei quali sono definiti e noti in anticipo i ‘contributi’ , ma non i trattamenti finali; questi ultimi programmi saranno generalizzati in un futuro prossimo.
novembre 18, 2013
November 18, 2013, 12:36 pm
This seems to be wonk Monday. But anyway, one commenter raised what may have been a complaint about my tendency to do New Keynesian models that say they have infinite horizons, but whose analysis always seems to boil down to just two periods, “now” and “forever after”.
Just in case you’re wondering, that’s not because I can’t do fancier dynamics. At the beginning of my Mundell-Fleming lecture, Olivier Blanchard fondly reminisced about how the two of us, back in grad school, figured out how to do anticipated shocks in saddle-path diagrams; I think we may have been the first, and we were certainly inventing the technique for what was for us the first time.
But when you’re using models to think through the fundamental logic of something, you always want the simplest model possible, with as few moving parts as you can manage,so that the essence of the story comes through. On intertemporal dynamics, that simplest possible model is often one in which everything is in a steady state from period 2 onward, so that all the action takes place in period 1. And in that case all the intertemporal optimization boils down to first-order conditions relating period-1 values to the steady-state values prevailing from period 2 onwards.
If this strikes you as too easy, and you think that real economics should involve harder math, well, I feel sorry for you — you just don’t get what it’s all about. (You’re what Rudi Dornbusch used to call a “fearful plumber”). And by the way, coming up with a really simple formulation of what seems at first like a very hard problem can take a lot of work. It sure did in the case of the MF lecture, where I actually did start with a really ugly saddle-path thingie until I realized that formulating the sudden stop the right way would make all of that go away.
Simple doesn’t mean stupid. Thinking that it does, does.
Il potere dei due [1](per extraesperti)
Questo sembra un lunedì di intelligentoni. Ma in ogni modo, un commentatore ha avanzato quella che parrebbe una lamentela sulla mia tendenza a procedere con modelli neokeynesiani che dicono di avere infiniti orizzonti, ma la cui analisi sembra sempre ridursi a due periodi, l’“ora” ed il “per sempre”.
Proprio nel caso ve lo stiate chiedendo, non è che io non possa realizzare dinamiche più fantasiose. All’inizio della mia relazione in onore di Mundell-Fleming [2], Olivier Blanchard [3] affettuosamente si è ricordato di come noi due, ai tempi degli studi universitari, ci immaginavamo come prevedere gli shocks in diagrammi a forma di sella [4]; penso che fossimo i primi, e stavamo certamente inventando la tecnica per quella che era per noi la prima volta.
Ma quando state utilizzando modelli per riflettere bene sulla logica fondamentale di qualcosa, dovete sempre usare il più semplice modello possibile, con parti in movimento ridotte al minimo di modo che possiate agevolmente gestirle, così da fare emergere la sostanza della storia. A proposito delle dinamiche intertemporali, il modello più semplice possibile è di solito quello nel quale ogni cosa sia in uno stato stazionario dal secondo periodo in avanti, in modo tale che tutta la azione si svolga nel primo periodo. E in quel caso tutta la ottimizzazione intertemporale si riduce alle condizioni principali relative ai valori del primo periodo nei confronti dei valori di stato stazionario prevalenti dal secondo periodo in avanti.
Se questo vi colpisce per la sua semplicità, e pensate che l’economia reale dovrebbe riguardare una matematica più complessa, sono dispiaciuto per voi – semplicemente non capite di cosa si tratta (voi siete come quelli che Dornbusch era solito chiamare gli “idraulici timorosi”). E, per inciso, venirsene fuori con una formulazione davvero semplice di quello che a prima vista sembra un problema molto arduo, può richiedere una grande quantità di lavoro. E’ stato sicuramente il caso della mia conferenza alla Mundell-Fleming, dove per la verità ero partito da un dispositivo davvero sgradevole “a forma di sella”, sinché non ho compreso che formulare il “blocco improvviso” [5] nel giusto modo avrebbe reso superfluo il tutto.
Semplice non significa stupido. Pensarlo, invece, lo significa.
[1] Non capisco bene a che cosa si riferisce il “due” che, nel titolo, ha potere. Probabilmente si riferisce alla forza di un modello semplificato in soli due passaggi temporali ….
[2] Se ho ben capito, la conferenza di studi era dedicata ai due economisti. Robert Mundell, nato nel 1934, è un economista canadese che vinse il Nobel nel 1999 «per la sua analisi della politica fiscale e monetaria in presenza di diversi regimi di cambio e per la sua analisi delle aree valutarie ottimali». Marcus Fleming era un economista scozzese, che per anni fu direttore del Dipartimento di ricerche del FMI. Praticamente nello stesso periodo nel quale Mundell presentava i suoi principali lavori, lo stesso faceva Fleming, cosicché i loro risultati vennero in seguito presentati come il “modello Mundell-Fleming”, anche se il contributo del primo fu considerato quello principale.
[3] Il Direttore del FMI che ha ‘ospitato’ Krugman alla recente conferenza di ricerca del Fondo. Economista di orientamento keynesiano e figura piuttosto importante, se si considera che verosimilmente gli orientamenti e lo stile nuovo che il Fondo ha espresso negli ultimi mesi (dalle ammissioni sugli errori sul valore del ‘moltiplicatore’, alle ammissioni sugli errori nella conduzione della vicenda greca da parte della ‘troika’, allo stesso invito a Krugman al recente convegno per la ‘lecture’ principale) dipendono soprattutto dal suo ruolo.
[5] Per “blocco improvviso” si intende una situazione nella quale flussi elevati di capitali in un determinato paese, o gruppo di paesi, si interrompono improvvisamente, facendo passare quei paesi da una situazione di forte deficit nel conto corrente ad una situazione di improvviso surplus. L’espressione venne coniata dall’economista Guillermo Calvo a proposito della crisi dei paesi asiatici sulla fine degli anni ’90, ed era un tema della recente conferenza di Krugman al FMI.
novembre 18, 2013
November 18, 2013, 9:49 am
It’s been a bit funny on the academic front being a Keynesian during a Keynesian crisis. Much of the academic profession decided more than 30 years ago that the whole thing was nonsense and what we needed was an equilibrium model of the business cycle. By the time the utter failure of the equilibrium project became apparent, you had a whole generation of economists who knew that Keynesianism of any form was nonsense based on what they had heard somewhere, so they didn’t read any of the stuff, old or new — and were flabbergasted to learn that there was in fact an extensive New Keynesian literature that provided a justification for fiscal policy at the zero lower bound.
So some props to John Cochrane for at least trying to catch up. Unfortunately, he’s still working from the baseline assumption that people like me (and Mike Woodford, whom he really should be reading) must be kind of stupid, and so he can’t be bothered to actually figure out how the models work. At least I think that’s what’s happening.
As Robert Waldmann says, Cochrane’s latest seems to be driven by a confusion between the effect of fiscal expansion on GDP — which is positive in just about any NK model — and the effect on consumption, which isn’t at all the same thing. I won’t try to figure out the roots of this failure of reading comprehension; let me instead try to explain what’s really going on.
In the simplest NK models of fiscal policy, we think of an economy that faces an adverse shock in the current period, but will return to a steady state thereafter. (Maybe not in reality, but that’s another topic.) Given this setup, consumption in the current period is tied down by an Euler condition:
Marginal utility of consumption in period 1 / Marginal utility in period 2 = (1+r)/(1+d)
where r is the real interest rate and d the rate of time preference. If we’re up against the zero lower bound and prices are sticky, this means that r doesn’t change, so we can take first-period consumption as fixed.
But now suppose that the government expands its purchases of goods and services. Consumption is fixed, so there is no crowding out; the increase in G leads to a one-for-one expansion in real GDP. The multiplier is 1.
That looks a lot like old Keynesianism to me — an increase in government spending leads to a rise in output. Inflation has nothing to do with it.
Now, is there a way to get a rise in consumption, and a multiplier bigger than 1? Yes. That Euler condition is based on the assumption that people have perfect access to capital markets, so that they can borrow and lend at the same rate. If some of them are instead liquidity-constrained, the increase in income from the rise in G will lead to some increase in C as well, and we have a story that is even closer to the old Keynesian version.
This isn’t hard — at least it shouldn’t be for anyone with a graduate training in economics. Just try actually reading what New Keynesians write.
La tesi neokeynesiana per la politica della finanza pubblica (per esperti)
E’ stato un po’ buffo essere keynesiani durante la crisi keynesiana, nell’ambiente accademico. Più di trenta anni orsono, gran parte della disciplina negli ambienti universitari aveva deciso che l’intera faccenda fosse priva di senso e che quello di cui avevamo bisogno fosse un modello dell’equilibrio del ciclo economico. A quel tempo il completo fallimento di un progetto di equilibrio sembrava chiaro, avevamo avuto una intera generazione di economisti che sapevano che il keynesismo in qualsiasi forma era privo di senso, basandosi su ciò che avevano sentito dire da qualche parte, cosicché di quella roba non leggevano niente, che fosse vecchio o nuovo – e si restava stupefatti ad apprendere che c’era una vasta letteratura neokeynesiana che forniva una giustificazione per la politica della finanza pubblica nelle condizioni del limite inferiore dello zero.
Dunque va dato qualche riconoscimento a John Cochrane almeno per aver tentato di aggiornarsi. Sfortunatamente, egli sta ancora lavorando sulla base dell’assunto che persone come me (e come Mike Woodford, che egli dovrebbe proprio star leggendo) devono essere un po’ stupide, e dunque non può davvero preoccuparsi di immaginare come i modelli funzionino. Almeno penso che sia quello che sta accadendo.
Come dice Robert Waldmann, la posizione più recente di Cochrane sembra provocata da una confusione tra l’effetto di una espansione della finanza pubblica sul PIL – che è positivo proprio per tutti i modelli neokeynesiani – e l’effetto sui consumi, che non è affatto la stessa cosa. Non mi sforzerò di comprendere le radici di questa incapacità di comprensione di ciò che si legge; consentitemi piuttosto di spiegare come le cose in realtà procedono.
Nei più semplici modelli neokeynesiani di politica della finanza pubblica, si pensa ad una economia che fa fronte ad uno shock negativo nel momento attuale, ma che tornerà successivamente in una condizione regolare (in realtà, può darsi che non avvenga [1], ma questa è un’altra faccenda). Data questa configurazione, il consumo nel periodo corrente è tenuto assieme da una condizione di Eulero:
Utilità marginale del consumo nel periodo 1/ utilità marginale nel periodo 2 = (1+r)/1+d)
Dove r è il tasso di interesse reale e d il tasso di preferenza nel tempo [2]. Se si è a fronte del limite inferiore dello zero e i prezzi sono rigidi, questo significa che r non cambia, cosicché possiamo assumere il consumo del primo periodo come fisso.
Ma ora supponiamo che il governo espanda i suoi acquisti di beni e servizi. Il consumo è fisso, dunque non c’è alcun fenomeno di ‘spiazzamento’ [3]; l’incremento di G [4]porta ad una espansione del PIL di uno ad uno. Ovvero, il moltiplicatore è 1.
Questo secondo me assomiglia molto al vecchio keynesismo – un aumento nella spesa pubblica provoca una crescita nel prodotto. L’inflazione non ha alcun ruolo.
Ora, esiste un modo per ottenere una crescita nel consumo, ed un moltiplicatore più grande di 1? Si. La condizione di Eulero è basata sull’assunto che le persone hanno un accesso perfetto ai mercati di capitali, cosicché essi possono prendere debito e concedere crediti allo stesso tasso. Se alcuni di loro sono invece limitati dalla liquidità, l’incremento del reddito derivante dalla crescita di G porterà anche ad un qualche incremento di C [5], ed abbiamo così una storia che è anche più vicina alla vecchia versione keynesiana.
Questo non è difficile – almeno non dovrebbe esserlo per chiunque abbia una qualche esercitazione in economia di livello universitario. Basta solo provare a leggere quello che i neokeynesiani scrivono.
[1] La connessione è con il recente post di Krugman stesso relativo all’intervento di Summers al FMI.
[2] In economia il tasso di preferenza nel tempo (anche “discounting”) è la valutazione di un bene in una data iniziale comparata con la stessa valutazione in una data successiva.
[3] Ovvero, non c’è alcun effetto per il quale la crescita della spesa pubblica vada a detrimento del consumo e dell’investimento privato.
[4] “G” significa “spesa pubblica” (“government spending”).
[5] “C” sta per “consumo” (“consumption”).
novembre 17, 2013
November 17, 2013, 1:08 pm
Barry Ritholtz reminds us that we’ve just passed the third anniversary of the debasement-and-inflation letter — the one in which a who’s who of right-wing econopundits warned that quantitative easing would have dire consequences. As Ritholtz notes, they were utterly wrong. Also, rereading the letter now, you have to wonder what kind of economic model they had in mind. They asserted that
The planned asset purchases risk currency debasement and inflation, and we do not think they will achieve the Fed’s objective of promoting employment.
So they’d be inflationary without being expansionary? How was that supposed to work? There were a few actual economists in the group; do they subscribe to the doctrine of immaculate inflation?
Ritholtz takes the wrongness as a reason not to listen to these people, and it’s certainly a warning sign. My view, however, is that you don’t just want to look at whether people have been wrong; you want to ask how they respond when events don’t go the way they predicted.
After all, if you write about current affairs and you’re never wrong, you just aren’t sticking your neck out enough. Stuff happens, and sometimes it’s not the stuff you thought would happen.
So what do you do then? Do you claim that you never said what you said? Do you lash out at your critics and play victim? Or do you try to figure out what you got wrong and why, and revise your thinking accordingly?
I’ve been wrong many times over the years, usually on minor things but sometimes on big ones. Before 1998 I didn’t think the liquidity trap was a serious concern; the example of Japan suggested that I was wrong, and I eventually concluded that it was a big concern indeed. In 2003 I thought the US was potentially vulnerable to an Asian-crisis-style loss of confidence; when it didn’t happen I rethought my models, realized that foreign-currency debt was crucial, and changed my view.
The case of the euro is a bit different: I was very pessimistic about the strategy of austerity and internal devaluation, which I thought would have a terrible cost — and I was completely right about that. I also guessed that this cost would prove politically unsustainable, leading to a crisis for the euro itself; so far, at least, I have been wrong. My economic model worked fine, my implicit political model didn’t; OK, so it goes.
Now, learning from your mistakes can cause trouble, especially on TV, where people use “In 1996 you said A, and now in 2013 you say B. Gotcha!” as a substitute for substantive discussion. But it’s what you’re supposed to do.
So, have any of the signatories to that 2010 letter admitted being wrong and explained why they were wrong? I mean *any* of them. Not as far as I know.
And at that point this becomes more than an intellectual issue. It becomes a test of character.
Cosa fare quando si ha torto
Barry Ritholtz ci ricorda che è appena trascorso il terzo anniversario di una lettera sulla svalutazione e sulla inflazione – quella nella quale i massimi esperti della destra mettevano in guardia sul fatto che la ‘facilitazione quantitativa’ [1] avrebbe avuto conseguenze terribili. Come nota Ritholtz, avevano completamente torto. Inoltre, rileggendo quella lettera oggi, ci si deve chiedere quale genere di modello economico essi avessero in mente. Essi sostenevano che:
“I previsti acquisti di attivi rischiano di provocare una svalutazione della valuta e l’inflazione, e non pensiamo che raggiungeranno l’obbiettivo della FED di promuovere l’occupazione”.
Dunque, essi sarebbero stati inflazionistici senza avere effetti espansivi? Come si pensava che funzionasse? C’era un certo numero di veri e propri economisti nel gruppo; sottoscrivevano la dottrina della ‘immacolata inflazione’ [2]?
Ritholtz considera lo sbaglio come una ragione per non dare ascolto a queste persone, ed esso è certamente un segno di ammonimento. La mia opinione, tuttavia, e che non si debba prestare attenzione al fatto che alcune persone abbiano avuto torto; ci si deve chiedere come hanno risposto una volta che i fatti non sono andati nella direzione che avevano previsto.
Dopo tutto, se scrivete di cose contemporanee e non avete mai torto, vuol dire proprio che non state rischiando niente. Le cose succedono, e qualche volta non sono le cose che avevate pensato succedessero.
Cosa fate dunque a quel punto? Sostenete che non avevate mai detto quello che avete detto? Ve la prendete con i vostri critici ed assumete il ruolo delle vittime? Oppure provate a comprendere in cosa avete avuto torto e perché, e conseguentemente modificate il vostro modo di pensare?
Nel corso degli anni io ho avuto torto molte volte, di solito su cose minori ma talvolta su cose importanti. Prima del 1998 io non pensavo che la trappola di liquidità fosse una preoccupazione seria; l’esempio del Giappone mi mostrò che avevo torto, ed alla fine conclusi che in effetti era una grande preoccupazione. Nel 2003 pensavo che gli Stati Uniti fossero potenzialmente vulnerabili ad una crisi di fiducia del genere della crisi asiatica [3]; quando non accadde ripensai i miei modelli, compresi che l’indebitamento in valute straniere era stato cruciale e cambiai il mio punto di vista.
Il caso dell’euro è un po’ diverso: io ero molto pessimista sulla strategia dell’austerità e della svalutazione interna, che pensavo avrebbe avuto un costo terribile – a quel proposito avevo completamente ragione. Mi immaginavo anche che quel costo sarebbe stato politicamente insostenibile, portando ad una crisi dello stesso euro; almeno sinora ho avuto torto. Il mio modello economico ha funzionato egregiamente, non così il mio implicito modello politico; va bene, le cose vanno in tal modo.
Ora, imparare dai propri errori può provocare problemi, specialmente alla televisione, dove la gente utilizza ragionamenti come “Nel 1996 dicevi A, ora nel 2013 dici B. T’ho preso in castagna!”, al posto di discussioni di sostanza. Eppure è quello che si suppone che facciate.
Dunque, qualcuno dei firmatari della lettera del 2010 ha mai ammesso di aver sbagliato ed ha mai spiegato perché ha avuto torto? Voglio dire solo qualcuno di loro? No, per quanto ne so.
E a questo punto è più che una questione intellettuale. Diventa una prova del carattere.
[1] Ovvero, la politica monetaria della Fed consistente nell’acquisto di obbligazioni a breve ed a lungo termine, e dunque in una espansione della base monetaria. Vedi le note sulla traduzione.
[2] Espressione leggermente blasfema, per la quale immaginare una inflazione senza espansione è un po’ la stessa cosa che immaginare una concezione senza il consueto atto del concepire.
[3] La crisi di vari paesi asiatici sulla fine degli anni ’90 che in Tailandia ebbe gli effetti più gravi.
novembre 16, 2013
November 16, 2013, 3:47 pm
I’m pretty annoyed with Larry Summers right now. His presentation at the IMF Research Conference is, justifiably, getting a lot of attention. And here’s the thing: I’ve been thinking along the same lines, and have, I think, hinted at this analysis in various writings. But Larry’s formulation is much clearer and more forceful, and altogether better, than anything I’ve done. Curse you, Red Baron Larry Summers!
OK, with professional jealousy out of the way, let me try to enlarge on Larry’s theme.
1. When prudence is folly
Larry’s formulation of our current economic situation is the same as my own. Although he doesn’t use the words “liquidity trap”, he works from the understanding that we are an economy in which monetary policy is de facto constrained by the zero lower bound (even if you think central banks could be doing more), and that this corresponds to a situation in which the “natural” rate of interest – the rate at which desired savings and desired investment would be equal at full employment – is negative.
And as he also notes, in this situation the normal rules of economic policy don’t apply. As I like to put it, virtue becomes vice and prudence becomes folly. Saving hurts the economy – it even hurts investment, thanks to the paradox of thrift. Fixating on debt and deficits deepens the depression. And so on down the line.
This is the kind of environment in which Keynes’s hypothetical policy of burying currency in coalmines and letting the private sector dig it up – or my version, which involves faking a threat from nonexistent space aliens – becomes a good thing; spending is good, and while productive spending is best, unproductive spending is still better than nothing.
Larry also indirectly states an important corollary: this isn’t just true of public spending. Private spending that is wholly or partially wasteful is also a good thing, unless it somehow stores up trouble for the future. That last bit is an important qualification. But suppose that U.S. corporations, which are currently sitting on a huge hoard of cash, were somehow to become convinced that it would be a great idea to fit out all their employees as cyborgs, with Google Glass and smart wristwatches everywhere. And suppose that three years later they realized that there wasn’t really much payoff to all that spending. Nonetheless, the resulting investment boom would have given us several years of much higher employment, with no real waste, since the resources employed would otherwise have been idle.
OK, this is still mostly standard, although a lot of people hate, just hate, this kind of logic – they want economics to be a morality play, and they don’t care how many people have to suffer in the process.
But now comes the radical part of Larry’s presentation: his suggestion that this may not be a temporary state of affairs.
2. An economy that needs bubbles?
We now know that the economic expansion of 2003-2007 was driven by a bubble. You can say the same about the latter part of the 90s expansion; and you can in fact say the same about the later years of the Reagan expansion, which was driven at that point by runaway thrift institutions and a large bubble in commercial real estate.
So you might be tempted to say that monetary policy has consistently been too loose. After all, haven’t low interest rates been encouraging repeated bubbles?
But as Larry emphasizes, there’s a big problem with the claim that monetary policy has been too loose: where’s the inflation? Where has the overheated economy been visible?
So how can you reconcile repeated bubbles with an economy showing no sign of inflationary pressures? Summers’s answer is that we may be an economy that needs bubbles just to achieve something near full employment – that in the absence of bubbles the economy has a negative natural rate of interest. And this hasn’t just been true since the 2008 financial crisis; it has arguably been true, although perhaps with increasing severity, since the 1980s.
One way to quantify this is, I think, to look at household debt. Here’s the ratio of household debt to GDP since the 50s:
Ratio of household debt to GDP
There was a sharp increase in the ratio after World War II, but from a low base, as families moved to the suburbs and all that. Then there were about 25 years of rough stability, from 1960 to around 1985. After that, however, household debt rose rapidly and inexorably, until the crisis struck.
So with all that household borrowing, you might have expected the period 1985-2007 to be one of strong inflationary pressure, high interest rates, or both. In fact, you see neither – this was the era of the Great Moderation, a time of low inflation and generally low interest rates. Without all that increase in household debt, interest rates would presumably have to have been considerably lower – maybe negative. In other words, you can argue that our economy has been trying to get into the liquidity trap for a number of years, and that it only avoided the trap for a while thanks to successive bubbles.
And if that’s how you see things, when looking forward you have to regard the liquidity trap not as an exceptional state of affairs but as the new normal.
3. Secular stagnation?
How did this happen? Larry explicitly invokes the notion of secular stagnation, associated in particular with Alvin Hansen (pdf). He doesn’t say why this might be happening to us now, but it’s not hard to think of possible reasons.
Back in the day, Hansen stressed demographic factors: he thought slowing population growth would mean low investment demand. Then came the baby boom. But this time around the slowdown is here, and looks real.
Think of it this way: during the period 1960-85, when the U.S. economy seemed able to achieve full employment without bubbles, our labor force grew an average 2.1 percent annually. In part this reflected the maturing of the baby boomers, in part the move of women into the labor force.
This growth made sustaining investment fairly easy: the business of providing Americans with new houses, new offices, and so on easily absorbed a fairly high fraction of GDP.
Now look forward. The Census projects that the population aged 18 to 64 will grow at an annual rate of only 0.2 percent between 2015 and 2025. Unless labor force participation not only stops declining but starts rising rapidly again, this means a slower-growth economy, and thanks to the accelerator effect, lower investment demand.
By the way, in a Samuelson consumption-loan model, the natural rate of interest equals the rate of population growth. Reality is a lot more complicated than that, but I don’t think it’s foolish to guess that the decline in population growth has reduced the natural real rate of interest by something like an equal amount (and to note that Japan’s shrinking working-age population is probably a major factor in its secular stagnation.)
There may be other factors – a Bob Gordonesque decline in innovation, etc.. The point is that it’s not hard to think of reasons why the liquidity trap could be a lot more persistent than anyone currently wants to admit.
4. Destructive virtue
If you take a secular stagnation view seriously, it has some radical implications – and Larry goes there.
Currently, even policymakers who are willing to concede that the liquidity trap makes nonsense of conventional notions of policy prudence are busy preparing for the time when normality returns. This means that they are preoccupied with the idea that they must act now to head off future crises. Yet this crisis isn’t over – and as Larry says, “Most of what would be done under the aegis of preventing a future crisis would be counterproductive.”
He goes on to say that the officially respectable policy agenda involves “doing less with monetary policy than was done before and doing less with fiscal policy than was done before,” even though the economy remains deeply depressed. And he says, a bit fuzzily but bravely all the same, that even improved financial regulation is not necessarily a good thing – that it may discourage irresponsible lending and borrowing at a time when more spending of any kind is good for the economy.
Amazing stuff – and if we really are looking at secular stagnation, he’s right.
Of course, the underlying problem in all of this is simply that real interest rates are too high. But, you say, they’re negative – zero nominal rates minus at least some expected inflation. To which the answer is, so? If the market wants a strongly negative real interest rate, we’ll have persistent problems until we find a way to deliver such a rate.
One way to get there would be to reconstruct our whole monetary system – say, eliminate paper money and pay negative interest rates on deposits. Another way would be to take advantage of the next boom – whether it’s a bubble or driven by expansionary fiscal policy – to push inflation substantially higher, and keep it there. Or maybe, possibly, we could go the Krugman 1998/Abe 2013 route of pushing up inflation through the sheer power of self-fulfilling expectations.
Any such suggestions are, of course, met with outrage. How dare anyone suggest that virtuous individuals, people who are prudent and save for the future, face expropriation? How can you suggest steadily eroding their savings either through inflation or through negative interest rates? It’s tyranny!
But in a liquidity trap saving may be a personal virtue, but it’s a social vice. And in an economy facing secular stagnation, this isn’t just a temporary state of affairs, it’s the norm. Assuring people that they can get a positive rate of return on safe assets means promising them something the market doesn’t want to deliver – it’s like farm price supports, except for rentiers.
Oh, and one last point. If we’re going to have persistently negative real interest rates along with at least somewhat positive overall economic growth, the panic over public debt looks even more foolish than people like me have been saying: servicing the debt in the sense of stabilizing the ratio of debt to GDP has no cost, in fact negative cost.
I could go on, but by now I hope you’ve gotten the point. What Larry did at the IMF wasn’t just give an interesting speech. He laid down what amounts to a very radical manifesto. And I very much fear that he may be right.
Stagnazione secolare, miniere di carbone, bolle e Larry Summers.
A questo punto sono piuttosto arrabbiato con Larry Summers. La sua presentazione alla Conferenza di ricerca del FMI sta ottenendo, comprensibilmente, molta attenzione. E la questione è questa: io stavo ragionando sugli stessi temi e mi ero riferito a questa analisi in vari scritti. Ma la formulazione di Larry è molto più chiara e molto più efficace, e nel complesso migliore, di tutto quello che ho scritto. Accidenti a te, Barone Rosso Larry Summers!
Va bene, mettendo da parte la gelosia professionale, consentitemi di dilungarmi sul tema di Larry.
La formulazione da parte di Larry della attuale situazione economica è la stessa del sottoscritto. Sebbene egli non usi le parole “trappola di liquidità”, ragiona partendo dalla comprensione che siamo in un’economia nella quale la politica monetaria è di fatto limitata dal limite inferiore di zero [1] (anche se pensate che le banche centrali potrebbero fare di più), e questo corrisponde ad una situazione nella quale il tasso “naturale” di interesse – il tasso al quale, in condizioni di piena occupazione, i risparmi attesi e gli investimenti attesi sarebbero eguali – è negativo.
E come anche lui osserva, in questa situazione le normali regole della politica economica non si applicano. Come sono solito dire, la virtù diventa vizio e la prudenza diventa follia. I risparmi danneggiano l’economia – danneggiano pure gli investimenti, grazie allo stesso paradosso del risparmio [2]. Intestardirsi sul debito e sui deficit approfondisce la depressione. E così a seguire.
E’ questo il genere di contesto nel quale la politica paradossalmente ipotizzata da Keynes del sotterrare soldi nelle miniere di carbone e consentire al settore privato di disseppellirli – oppure la mia versione, che si riferisce al simulare una minaccia dallo spazio di inesistenti alieni – diventano una buona cosa; la spesa pubblica è positiva, e se la spesa pubblica produttiva è la cosa migliore, quella improduttiva è comunque meglio di nulla.
Larry stabilisce anche indirettamente un corollario importante: questo non è solo vero per la spesa pubblica. Anche la spesa privata che sia totalmente o parzialmente uno spreco è una cosa positiva, senza che ciò in qualche modo comporti un fare provvista di guai per il futuro. Questa ultima aggiunta è una specificazione importante. Supponiamo proprio che la grandi imprese statunitensi, che attualmente sono sdraiate su vasti quantitativi di contante, in qualche modo arrivino a convincersi che sarebbe una grande idea armare i loro impiegati come cyborg [3], con Google Glass [4] e orologi intelligenti da polso dappertutto. E supponiamo che tre anni dopo comprendano che non c’è stato in realtà un gran risultato finale da tutta quella spesa. Nondimeno, l’investimento risultante ci avrebbe dato alcuni anni di occupazione molto più alta, senza alcuno spreco, dal momento che le risorse impiegate sarebbe altrimenti rimaste inutilizzate.
Va bene, questi sono ancora per lo più ragionamenti comuni, sebbene molte persone abbiano ripulsa, proprio ripulsa, per questo tipo di logica – essi vogliono che l’economia sia un racconto morale, e non sono interessati al fatto che tanta gente debba soffrire in quel processo.
Ma arriva adesso la parte radicale della presentazione di Larry: la sua intuizione che questa potrebbe non essere una condizione provvisoria.
2. Una economia che ha bisogno di bolle?
Noi sappiamo che l’espansione economica del 2003-2007 fu guidata da una bolla. Si può dire lo stesso a proposito dell’ultima parte della espansione degli anni ’90; e di fatto si può dire lo stesso a proposito degli ultimi anni della espansione di Reagan, che a quel punto era spinta da istituti di risparmio fuori controllo e da un’ampia bolla immobiliare nel settore dei centri commerciali.
Si sarebbe dunque tentati di dire che la politica monetaria sia stata stabilmente troppo dissoluta. Dopo tutto, non hanno i bassi tassi di interesse incoraggiato bolle a ripetizione?
Ma, come Larry sottolinea, c’è un grande problema con l’argomento secondo il quale la politica monetaria è stata troppo accomodante: dove sarebbe finita l’inflazione? Dove erano i segni visibili di una economia surriscaldata?
Dunque, come conciliare bolle continue con una economia che non mostra segno di spinte inflazionistiche? Summers risponde che abbiamo bisogno di bolle proprio per ottenere qualcosa che si avvicini alla piena occupazione – che in assenza di bolle l’economia avrebbe un tasso di interesse negativo. E questo non è stato vero solo a partire dalla crisi finanziaria del 2008; è stato probabilmente vero, seppure forse con una gravità crescente, a partire dagli anni ’80.
Un modo per quantificarlo, credo, sia osservare il debito delle famiglie. Ecco la percentuale del debito delle famiglie sul PIL a partire dagli anni ’50:
C’è stato un brusco incremento della percentuale dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma a partire da un valore basso, quando le famiglie si sono spostate nelle periferie, e tutto il resto. Da allora ci sono stati 25 anni grosso modo di stabilità, dal 1960 sino a circa il 1985. Dopo di ciò, tuttavia, il debito delle famiglie è cresciuto rapidamente ed inesorabilmente, sino a che non è arrivato il colpo della crisi.
Così, con tutto quel debito delle famiglie, ci si sarebbe aspettati che il periodo 1985-2007 fosse un’epoca di forte spinta inflattiva, di alti interessi, o di entrambe le cose. Di fatto, non si sono viste né l’una né gli altri – è stata l’epoca della Grande Moderazione, un periodo di bassa inflazione e di tassi di interesse generalmente bassi. Senza tutto quell’incremento nel debito delle famiglie, i tassi di interesse sarebbero presumibilmente stati considerevolmente più bassi – forse negativi. In altre parole, si può sostenere che la nostra economia sia stata vicina ad infilarsi nella trappola di liquidità per un certo numero di anni, e che abbia evitato tale trappola solo grazie a bolle successive.
E se questo è il modo in cui si giudica la situazione, allora, guardando avanti, si deve considerare la trappola di liquidità non come una condizione eccezionale, bensì come la nuova norma.
3. Stagnazione secolare?
Come è accaduto tutto questo? Larry fa appello esplicitamente al concetto di stagnazione secolare, in relazione in particolare agli studi di Alvin Hansen (disponibile in pdf) [5]. Egli non ci dice perché stia succedendo oggi tutto questo, ma non è difficile pensare alle ragioni possibili.
Ai suoi tempi, Hansen aveva sottolineato i fattori demografici: egli pensava che la diminuita crescita della popolazione avrebbe significato una minore domanda di investimenti. Poi venne il boom delle nascite. Ma questa volta il rallentamento è qua, e sembra reale.
Si può considerare la cosa in questi termini: durante il periodo 1960-85, quando l’economia statunitense pareva nella condizioni di ottenere la piena occupazione senza bolle, la nostra forza lavoro cresceva ad una media del 2,1 per cento all’anno. In parte questo rifletteva l’entrata in scena dei baby boomers [6], in parte l’ingresso delle donne nella forza lavoro.
Questa crescita rese abbastanza semplice investimenti prolungati: l’impresa di fornire agli americani nuove case, nuovi uffici e tutto il resto assorbì una frazione di PIL discretamente elevata.
Guardiamo ora in avanti. Il Censimento prevede che la popolazione tra i 18 ed i 64 anni cresca ad un ritmo del solo 0,2 per cento tra il 2015 ed il 2025. Se la partecipazione alla forza lavoro non solo non interrompe il suo declino ma non comincia a crescere nuovamente in modo rapido, questo significa una crescita economica più lenta, e grazie all’effetto dell’acceleratore, una domanda di investimenti più bassa.
Tra parentesi, nel modello del consumo a prestito di Samuelson, il tasso naturale dell’interesse corrisponde al tasso di crescita della popolazione. La realtà è molto più complicata di quella, ma io non penso sia sciocco supporre che il declino nella crescita della popolazione abbia ridotto il tasso naturale reale di interesse di qualcosa pari ad una quantità analoga (e si noti che la restrizione della popolazione in età lavorativa del Giappone è probabilmente un importante fattore della sua stagnazione secolare).
Ci possono essere altri fattori – un declino nella innovazione quale quello analizzato da Bob Gordon [7] etc. Il punto è che non è difficile pensare alle ragioni per le quali la trappola di liquidità potrebbe essere assai più persistente di quanto tutti attualmente vogliano ammettere.
4. Virtù distruttiva.
Se prendete sul serio il punto di vista della stagnazione secolare, esso ha alcune implicazioni radicali – e Larry vi fa riferimento.
Attualmente, persino gli operatori politici che sono disponibili ad ammettere che la trappola di liquidità rende insensati i concetti tradizionali di prudenza politica, sono occupati a prepararsi ai tempi nei quali si tornerà alla normalità. Questo significa che sono preoccupati dall’idea di dover agire adesso per sbarrare la strada a crisi future. Tuttavia, questa crisi non è trascorsa – e come dice Larry: “gran parte di quello che si dovrebbe fare all’insegna del prevenire una crisi futura sarebbe controproducente”.
Egli prosegue affermando che la agenda politica ufficialmente irreprensibile include “fare meno di quello che si faceva in precedenza con la politica monetaria ed anche con la politica della finanza pubblica”, anche se l’economia resta profondamente depressa. Ed afferma, in modo un po’ vago ma al tempo stesso audace, che persino migliorare i regolamenti finanziari non è necessariamente una buona cosa – giacché può scoraggiare il credito irresponsabile e l’indebitamento in un momento nel quale una maggiore spesa di ogni genere è positiva per l’economia.
Roba sorprendente – e se veramente stiamo convivendo con una stagnazione secolare, egli ha ragione.
Naturalmente, il problema sottostante a tutto questo è semplicemente che i tassi di interesse reali sono troppo alti. Ma, come sapete, essi sono negativi – tassi di interesse nominali pari a zero meno almeno un po’ di inflazione attesa. A cosa si dà risposta, in tal modo? Se il mercato vuole un tasso di interesse reale negativo, i problemi continueranno sinché non troveremo il modo di deliberare un tasso del genere.
Un modo per arrivarci sarebbe la ricostruzione dell’intero nostra sistema monetario – diciamo, eliminare le banconote e pagare tassi di interesse negativi sui depositi. Un altro sarebbe il trarre vantaggio dalla prossima espansione – sia che si tratti di una bolla che sia provocata da una politica della finanza pubblica espansiva – per spingere l’inflazione sostanzialmente più in alto, e tenerla a quel livello. O forse, magari, potremmo indirizzarci sulla strada analizzata da Krugman nel 1998, e dal Primo Ministro del Giappone nel 2013, spingendo in alto l’inflazione attraverso il puro e semplice potere delle aspettative che si autoavverano.
Ogni suggerimento di tale natura viene accolto, naturalmente, con indignazione. Come si può osare suggerire che persone virtuose, individui che sono prudenti e risparmiano per il futuro, siano messi di fronte ad un esproprio? Come si può costantemente erodere i loro risparmi, sia attraverso l’inflazione che attraverso tassi di interesse negativi? E’ una tirannide!
Ma in una trappola di liquidità risparmiare può essere una virtù personale, ma un vizio sociale. E in una economia che è di fronte ad una stagnazione secolare, questa non è solo una condizione temporanea, è la norma. Assicurare le persone di poter ottenere un tasso di rendimento positivo su assets sicuri significa promettere loro qualcosa che il mercato non è nelle condizioni di eseguire – è come per i sostegni ai prezzi nella agricoltura, fatta eccezione di chi ci specula sopra.
Infine, un ultimo punto. Se siamo destinati ad avere persistenti tassi di interesse reali negativi assieme almeno ad una qualche positiva crescita economica generale, il panico sul debito pubblico sembra ancora più insensato di quanto quelli come me stavano sostenendo: il servizio del debito nel senso della stabilizzazione del rapporto tra debito e PIL non ha alcun costo, di fatto ha un costo negativo.
Potrei proseguire, ma a questo punto spero che abbiate compreso il punto. Quello che Larry ha fatto al FMI non è stato solo un interessante discorso. Egli ha steso qualcosa che corrisponde ad un manifesto estremamente radicale. Ed io ho una gran paura che abbia ragione.
[1] Per “zero lower bound” vedi le note sulla traduzione.
[2] Il paradosso del risparmio fu un argomento utilizzato polemicamente da Keynes per dimostrare come un aumento del risparmio, lungi dal costituire una virtù nazionale, può determinare una riduzione del reddito nazionale.
Se, infatti, le famiglie decidono di destinare una quota maggiore del loro reddito al risparmio, questo sarà sottratto all’acquisto (consumo) di beni e servizi. Le imprese, a fronte di una riduzione nel livello dei consumi, dovranno necessariamente diminuire la loro produzione, determinando una prima riduzione del livello di equilibrio del PIL.
Gli effetti negativi di un aumento del risparmio si ripercuoteranno anche sugli investimenti. Le imprese, infatti, in presenza di una riduzione dei consumi, tenderanno a rallentare o diminuire il ritmo dei loro investimenti futuri, generando, mediante gli effetti del moltiplicatore un’ulteriore riduzione del livello di equilibrio del reddito nazionale.
[3] Il termine cyborg o organismo cibernetico (anche organismo bionico) indica l’unione omeostatica costituita da elementi artificiali e un organismo biologico. Nasce dalla contrazione dell’inglese cybernetic organism, per l’appunto organismo cibernetico.
[4] Google Glass, i famosi occhiali creati da Google sono un computer indossabile, con un display ottico montato sulla testa.
[5] Alvin Harvey Hansen (nato a Viborg – Sud Dakota – da genitori danesi il 23 agosto 1887 e morto ad Alexandria, il 6 giugno 1975) è stato un economista statunitense, uno dei principali studiosi, nel suo paese, della teoria economica di John Maynard Keynes. Hansen, inizialmente (per la precisione, quando iniziò ad insegnare a Harvard, nel 1937) era un sostenitore della teoria ortodossa pre-keynesiana e criticava duramente la teoria dell’economista britannico. In realtà, aveva già cambiato opinione nel 1938, in occasione del suo discorso come Presidente della Associazione degli Economisti americani. Il famoso modello IS-LM, generalmente attribuito ad Hicks, fu elaborato da Hicks ed Hansen. Tra gli economisti che si formarono alle sue lezioni universitarie, ci furono anche Samuelson e Tobin. Nei tardi anni ’30 formulò il concetto della “stagnazione secolare”, sostenendo che l’America non sarebbe tornata a crescere rapidamente come in precedenza, anche per l’esaurimento di alcuni ingredienti di quella crescita, inclusa la innovazione tecnologica e la crescita della popolazione. Nel 1953 scrisse un libro (“Guida a Keynes”) che ebbe un grande successo, come il contemporaneo libro di testo di Samuelson, nel diffondere la conoscenza delle teorie keynesiane.
[6] Ovvero, della generazione caratterizzata dall’incremento di natalità successivamente alla seconda Guerra Mondiale.
[7] Economista americano nato nel 1940 e docente di Scienze Sociali alla Northwestern University.
novembre 15, 2013
November 15, 2013, 4:52 pm
In my last post, I showed that Europe is at this point doing worse — at least as measured by industrial production, and probably in terms of overall output — than it did in the Great Depression.
The response I get from a lot of people is that things were different then, because Europe was rearming.
Um, and your point is?
There’s nothing special that makes military spending a better stimulus than other kinds of spending — actually the reverse, because spending on useful stuff can enhance the economy’s long-run potential as well as giving it a short-term boost. So when you attribute European recovery in the 30s to military spending, you’re saying that what the economy needed back then was expansionary fiscal policy — and it needed it so badly that even destructive spending had a positive effect.
This time around, the good news is that we have peace. The bad news is that Europe’s leaders, lacking the incentive to build up their armies, have listened to prophets of austerity, and cut spending when it should have been going up. And the result is a depression that is well on track to be worse than the 1930s.
Il keynesismo degli armamenti, versione storica
Nel mio ultimo post ho mostrato che a questo punto l’Europa sta facendo peggio – almeno nella misura della produzione industriale e probabilmente in termini di produzione generale – di come fece durante la Grande Depressione.
La risposta che in molti mi hanno dato è che le cose sono diverse, perché l’Europa si stava riarmando.
Ah, e in che senso?
Non c’è niente di speciale che renda la spesa militare una migliore misura di sostegno rispetto ad altri tipi di spesa – semmai il contrario, perché la spesa in cose utili può aumentare il potenziale di lungo periodo dell’economia, pur dando una spinta nel breve periodo. Dunque, quando si attribuisce la ripresa degli anni ’30 alla spesa militare, è come se si dicesse che l’economia aveva bisogno prima di allora di una politica della finanza pubblica espansiva – e ne aveva un bisogno così estremo che persino una spesa pubblica distruttiva ebbe un effetto positivo.
Di questi tempi, la buona notizia è che abbiamo la pace. La cattiva notizia è che i dirigenti europei, mancando dell’incentivo di rimettere su i loro eserciti, hanno dato retta ai profeti dell’austerità, e tagliato la spesa quando essa avrebbe dovuto crescere. E il risultato è una depressione che è procede peggio che negli anni ’30.
novembre 14, 2013
November 14, 2013, 7:25 pm
After sort-of decent growth in the second quarter, Europe’s austerity advocates rushed to proclaim that their policies were bearing fruit. After the latest numbers, which show growth stalling, not so much.
And bear in mind that we are now closing in on the 6th anniversary of the start of Europe’s recession.
Here’s what I find amazing. Compare industrial production with data from the 1930s, which can be found here. When I compare the Eurozone now with Europe then, I get this chart:
My joke slogan for Obama has been, “It’s not as bad as the Great Depression!” But Europe can’t even claim that. At this point it’s just as bad as the Great Depression — and where European economies were recovering strongly by this point in the 30s, they’re stalling now.
Doing worse than the 30s; that’s a remarkable achievement.
Considerevole risultato dell’Europa
Dopo in qualche modo una decente crescita nel secondo trimestre, i sostenitori della austerità europea sono corsi a dichiarare che le loro politiche stavano portando frutti. Dopo gli ultimi dati, che mostrano una crescita in stallo, non sembra più tanto.
E si tenga a mente che ci stiamo avvicinando al sesto anniversario dell’inizio della recessione europea.
Ecco quello che io trovo incredibile. Si confronti la produzione industriale con i dati degli anni ’30, che possono essere ricavati da questa connessione. Quando faccio un paragone tra l’attuale eurozona e l’Europa di allora, ottengo questa diagramma:
Il mio scherzoso slogan per Obama è stato: “Non è così male come la Grande Depressione!” Ma l’Europa non può pretendere neppure quello. A questo punto è solo proprio brutta come la Grande Depressione – e al punto in cui le economie europee negli anni ’30 si stavano riprendendo fortemente, oggi sono ancora ferme.
Fare peggio degli anni ’30 è un notevole risultato.
novembre 13, 2013
November 13, 2013, 9:15 pm
Just a quick chart that I think illustrates the problem of German non-reciprocity especially clearly.
Remember, during the years before 2007, we saw immense imbalances emerge within Europe, with Germany moving into massive surplus while Spain and others moved into massive deficit. Then it became necessary to unwind these imbalances, with much moralizing from the Germans to the effect that others should be able to do what they did.
But Germany operated in a highly favorable external environment, with fairly high inflation in southern Europe allowing it to make big gains in competitiveness — in effect, internal devaluation — without needing deflation. Unfortunately, Spain isn’t being offered the same kind of chance. Here’s inflation rates in two periods, as measured by GDP deflators (I chose that because it was easiest to pull up from the IMF database; it won’t matter much if you use another measure):
Spain has actually had lower inflation post-crisis than Germany did pre-crisis — but it hasn’t achieved much gain in competitiveness, because German and overall Eurozone inflation have been so low.
This is a huge failure of policy.
Il problema della (bassa) inflazione europea
Solo un rapido diagramma che io penso illustri in modo particolarmente chiaro il problema della non reciprocità della Germania.
Si ricordi come negli anni precedenti il 2007 assistemmo all’emergere di immensi squilibri all’interno dell’Europa, con la Germania che si spostava ad un massiccio surplus mentre la Spagna e gli altri si spostavano verso massicci deficit. Divenne poi necessario attenuare questi squilibri, con molto moralismo da parte dei tedeschi sul fatto che gli altri avrebbero dovuto essere capaci di fare quello che loro avevano fatto.
Ma la Germania operò in un contesto esterno altamente favorevole, con una inflazione abbastanza elevata nell’Europa del Sud che consentiva loro grandi vantaggi nella competitività – in sostanza, svalutazione interna – senza aver bisogno di deflazione. Sfortunatamente, alla Spagna non viene offerta lo stesso tipo di opportunità. Ecco i tassi di inflazione nei due periodi, come misurati per effetto dei deflatori del PIL (li ho scelti perché era più facile estrarli dal database del FMI; non farà molta differenza se usate un altro metro di misura):
La Spagna ha avuto affettivamente una inflazione dopo la crisi più bassa di quella della Germania prima della crisi – ma non ha ricevuto grandi vantaggi in termini di competitività, perché l’inflazione in Germania ed in generale nell’eurozona è stata così bassa.
E’ questo il grande fallimento della politica.
novembre 13, 2013
November 13, 2013, 5:07 pm
Brad DeLong takes on John Cochrane again; I don’t have the heart or the time to do a full takedown myself. But I do want to make five points.
The first is the remarkable extent to which the anti-Keynesians remain addicted to arguments from authority, as opposed to arguments from evidence. We now have more than five years of experience with fiscal and monetary policy under zero-lower-bound conditions, and a large empirical literature studying that experience. Surely at this point you shouldn’t be responding to claims about policy by asserting “nobody has believed that since the 1970s” — what do smart people doing research on this massive natural experiment say now? (Hint: Keynes is looking pretty good.)
Second, it’s curious how the ground has shifted. Back in 2009 it was “nobody believes that fiscal policy can be expansionary”. Then people like Cochrane learned that there was a large New Keynesian literature, of which they had clearly been unaware; so it shifted to “nobody believes in the multiplier story in which spending raises incomes, which leads to further spending etc”. But even if it were true that nobody believed in that story, the New Keynesian model — in which government spending in a depressed economy puts idle resources to work — would still be enough to make the case for stimulus and against austerity.
Third, as Brad says, the reason the classic Keynesian multiplier isn’t in NK models is not because it has been disproved, but because such models deliberately give hostages — they show that Keynesian outcomes can emerge even if you assume rational expectations and intertemporal blah blah. Many people who do such models consider this a useful strategy, but remain open to the possibility that given real-world imperfections the classic story also has explanatory power — especially since empirical multipliers do seem to be more than 1.
In fact — well, let me quote from a paper that both offers an example of how this can work and refutes the claim that nothing like this is publishable in an economics journal:
Finally, we turn to the role of monetary and fiscal policy, where we find, as already indicated, that more debt can be the solution to a debt-induced slump. We also point out a possibly surprising implication of any story that attributes the slump to excess debt: precisely because some agents are debt-constrained, Ricardian equivalence breaks down, and old-fashioned Keynesian-type multipliers in which current consumption depends on current income reemerge.
Ahem.
Finally, it is true that there has been a divergence between what gets published in the journals and what people in policy-related positions believe. Keynesian models — even New Keynesian models — remain hard to get past referees. Meanwhile, places like the Federal Reserve and the International Monetary Fund continue to do economic analysis with a strong Keynesian flavor. (There was plenty of Keynesian storytelling at last week’s big IMF event, and I did not exactly get laughed out of the room …)
But look at who we’re talking about here. We’re not talking about dumb politicians who still do sort of Keynesian stuff. We’re talking about people like Olivier Blanchard and Janet Yellen — smart economists with plenty of technical knowledge and credentials, who continue to find Keynesian concepts useful even as such concepts are rarely published in academic journals. And it’s not just the people at the top: there’s a lot of Keynesian stuff going on in the research departments of these institutions.
So consider two hypotheses. One — which Cochrane appears to believe — is that being inside the Beltway has rotted Janet’s and Olivier’s brains, not to mention that of all their researchers, causing them to revert to primitive concepts that “everyone” knows are false. The other — which is what I hear from young economists — is that there is an equilibrium business cycle claque in academic macroeconomics that has in effect blockaded the journals to anyone trying to publish models and evidence that stress the demand side.
Obviously you know which story I believe. The main point, though, is that trying to argue from authority is even sillier here than in most situations. There’s a huge difference between “nobody believes that” and “none of my friends will let that get published in the journals they control”.
L’economia keynesiana e le riviste di economia
Brad DeLong sfida ancora una volta John Cochrane: non ho né l’animo né il tempo di procedere per mio conto ad una completa demolizione. Ma voglio proprio mettere in chiaro cinque punti.
Il primo è il fatto che gli antikeynesiani restano in gran misura dipendenti dagli argomenti che derivano dall’autorità, piuttosto che da quelli che derivano dai fatti. Sono passati più di cinque anni di esperienza di una politica monetaria e della finanza pubblica nelle condizioni del limite inferiore di zero [1] e di una ampia letteratura empirica che studia tale esperienza. Sicuramente a questo punto non dovreste sentirvi rispondere ad argomenti su tale politica con l’asserzione secondo la quale “è dagli anni ‘70 che nessuno ci ha più creduto” – quali ricerche stanno facendo su quello che ci dice questo massiccio esperimento naturale in questo momento, quelle persone argute (un suggerimento: Keynes pare se la cavi piuttosto bene)?
Il secondo: è curioso come si sia spostato il terreno. Nel passato 2009 esso era “nessuno crede che la politica della finanza pubblica possa essere espansiva”. Poi individui come Cochrane hanno appreso che c’era un vasta letteratura neokeynesiana, della quale erano stati chiaramente inconsapevoli; cosicché si sono spostati a “nessuno crede alla storia del moltiplicatore [2] per la quale la spesa pubblica aumenta i redditi, che portano ad ulteriore spesa etc.”. Ma persino se fosse vero che nessuno crede in quella storia, il modello neokeynesiano – secondo il quale la spesa pubblica in una economia depressa mette risorse inutilizzate all’opera – sarebbe ancora sufficiente a sostenere la tesi favorevole al sostegno pubblico e contraria alla austerità.
Terzo, come dice Brad, la ragione per la quale il classico moltiplicatore keynesiano non è nel modello neokeynesiano non deriva dal fatto che esso sia stato confutato, ma dal fatto che tali modelli li hanno deliberatamente abbandonati – essi mostrano che i risultati keynesiani possono venir fuori anche se si assumono i concetti delle aspettative razionali e della inter temporalità etc. etc. Molte persone che operano con tali modelli considerano questa una strategia utile, ma restano aperti alla possibilità che date le imperfezioni del mondo reale il racconto classico mantenga un potere esplicativo – specialmente considerato che i moltiplicatori sembrano avere un valore maggiore di 1 [3].
Di fatto … ebbene, consentitemi di trarre una citazione da uno studio che offre un esempio su come questo può funzionare e che smentisce la tesi secondo la quale niente di questo genere è pubblicabile sulle riviste economiche:
“Infine, volgiamoci al ruolo della politica monetaria e della finanza pubblica, dove scopriamo, come già indicato, che un debito maggiore può essere la soluzione per una crisi indotta dal debito. Facciamo anche notare una possibile sorprendente implicazione di ogni racconto che attribuisca la recessione all’eccesso di debito: proprio perché alcuni attori sono limitati dal debito, cade l’equivalenza ricardiana [4] e riemergono i moltiplicatori di tipo keynesiano una volta di moda, secondi i quali il consumo attuale dipende dal reddito attuale.”
Ma guarda!
Infine, è vero che c’è stato un divario tra quello che viene pubblicato sulle riviste e quello che credono le persone impegnate in ruoli politici. E’ ancora difficile che modelli keynesiani – ed anche quelli neokeynesiani – si avvalgano degli arbitri che avevano nel passato. Nel frattempo, luoghi come la Federal Reserve ed il Fondo Monetario Internazionale continuano a fare analisi economica a forte impronta keynesiana (c’era una gran quantità di argomenti della narrativa keynesiana al grande evento del FMI della settimana scorsa, e non mi sono preso precisamente risate fragorose fuori dalla stanza della conferenza ….)
Ma vediamo meglio di chi in questo caso stiamo parlando. Non stiamo parlando di ottusi politicanti che ancora maneggiano ricette keynesiane. Stiamo parlando di persone come Olivier Blanchard e Janet Yellen – acuti economisti con una quantità di competenze tecniche e di credenziali, che continuano a trovare i concetti keynesiani utili anche se tali concetti sono raramente pubblicati nelle riviste accademiche. E non si tratta solo di persone che stanno ai vertici: c’è una quantità di materiale keynesiano che va avanti nei dipartimenti di ricerca d queste istituzioni.
Si considerino due ipotesi. La prima – che sembra fatta propria da Cochrane – è che lo stare dentro l’ambiente della Capitale abbia guastato i cervelli di Janet e di Olivier, per non dire quelli di tutti i loro ricercatori, provocando loro una regressione ai concetti primitivi che “tutti” sanno essere falsi. L’altra – che è quello che sento dire da giovani economisti – è che c’è una claque della teoria del ciclo economico in equilibrio nella disciplina macroeconomica che sostanzialmente impedisce l’accesso alle riviste a tutti quelli che cercano di pubblicare modelli e testimonianze che mettono in difficoltà le teorie dal lato della domanda.
Ovviamente sapete a quale storia io creda. Il punto principale, tuttavia, è che cercare di argomentare sulla base della autorevolezza accademica è oggi più stupido che mai. C’è una grande differenza tra il dire “nessuno ci crede” ed il dire “nessuno dei miei amici consentirà che una tal cosa sia pubblicata nelle riviste che essi controllano”.
[1] Per “zero lower bound” vedi le note sulla traduzione.
[2] Per “multiplier” vedi le note sulla traduzione.
[3] Ci si riferisce al recente dibattito sul valore del moltiplicatore nelle attuali politiche di austerità (in questo caso negativo, o per meglio dire consistente nel fatto che una riduzione di 1 nella spesa pubblica comporta un negativo effetto superiore ad 1 nei redditi, nella domanda e nella occupazione). Questa “scoperta” è stata ammessa dal FMI di recente, con implicazioni sconcertanti, ad esempio, nel caso della vicenda economica della austerità in Grecia.
[4] Vedi a “ricardian equivalence” nella note sulla traduzione. Semplicisticamente, credo che si potrebbe dire così: secondo l’equivalenza ricardiana una maggiore spesa pubblica nel presente non produrrebbe effetti rilevanti nei consumatori, giacché essi si aspetterebbero che le convenienze attuali a spendere fossero successivamente contraddette dalla tassazione più elevata alla quale uno Stato dovrebbe ricorrere per coprire gli attuali eccessi di spesa in debito. Ma, osserva l’anonimo giornalista citato, proprio il fatto che vari soggetti siano al presente gravati da debiti eccessivi potrebbe indurli a sfruttare l’occasione. C’è anche da dire che lo stesso Ricardo era molto dubbioso sulla giustezza pratica della sua legge; successivamente avanzò l’opinione che se le persone avessero aspettative razionali sarebbero indifferenti di fronte ai due sistemi (avvantaggiarsi oggi per pagare tasse maggiori domani), siccome però non le hanno, sono vittime di un’illusione finanziaria che condiziona le loro decisioni.
novembre 12, 2013
November 12, 2013, 1:26 am
Huge tensions over the ECB rate cut, with a split on the board and many German economists protesting. As usual, a lot of it is about the perception that those lazy southern Europeans are getting a free ride:
A commentary by the chief economist of the financial weekly Wirtschaftswoche called the decision a “diktat from a new Banca d’Italia, based in Frankfurt”.
Why can’t those Italians etc. pull up their socks the way we did?
What Germans — economists as well as the general public — still don’t seem to get is how much Germany’s success at emerging from its late-90s doldrums depended on a somewhat inflationary boom in southern Europe. And they therefore also don’t realize how much damage Germany is imposing by refusing to allow higher eurozone inflation.
Here’s core inflation since the euro’s creation:
Eurostat
Germany was able to achieve large gains in competitiveness without deflation, because Spain and others were willing to accept inflation well above 2 percent. But now the eurozone has overall core inflation below 1 percent, which means that Spain can only achieve internal devaluation through crippling deflation:
The Germans, in other words, aren’t asking the southern Europeans to emulate them; they’re demanding that they accomplish a feat Germany never had to manage, and which hardly anyone has ever managed.
La mancanza di reciprocità della Germania
Grandi tensioni sul taglio dei tassi da parte della BCE, con una spaccatura nel Consiglio e molti economisti tedeschi che protestano. Come al solito, molto di questo ha a che fare con la percezione che quei vagabondi degli europei del sud vogliano farsi un giro gratis:
“Un commento da parte dell’economista capo del settimane finanziario ‘Wirtschaftwoche’ ha definito la decisione “un diktat della Banca d’Italia, sede in Francoforte”.
Perché quegli italiani non possono mettersi al passo come abbiamo fatto noi?
Quello che i tedeschi – economisti come opinione pubblica – ancora non sembrano capire è che il successo della Germania nel venire fuori dalla sua depressione degli ultimi anni ’90 sia in notevole misura dipeso dal boom inflazionistico dell’Europa meridionale. E di conseguenza non si rendono conto di quanto danno la Germania sta provocando rifiutandosi di consentire all’eurozona una inflazione più elevata.
Ecco i dati sulla inflazione sostanziale [1] dal momento della creazione dell’euro:
Eurostat
La Germania fu capace di ottenere grandi vantaggi di competitività senza deflazione, perché la Spagna e gli altri furono disponibili ad accettare una inflazione ben superiore al 2 per cento. Ma ora l’eurozona ha una generale inflazione sostanziale al di sotto dell’1 per cento, il che significa che la Spagna può ottenere una svalutazione interna solo attraverso una deflazione devastante:
I tedeschi, in altre parole, non stanno chiedendo agli europei del sud di emularli; stanno chiedendo loro di compiere una impresa che la Germania non ha mai realizzato, e che probabilmente nessuno ha mai realizzato.