November 1, 2013, 11:41 am
The Germans are outraged, outraged at the U.S. Treasury department, whose Semiannual Report On International Economic And Exchange Rate Policies says some negative things about how German macroeconomic policy is affecting the world economy. German officials say that the report’s conclusions are “incomprehensible” — which is just bizarre, because they’re absolutely straightforward.
Oh, and yes, the US inexcusably spied on Angela Merkel — but that has nothing to do with this, and anyone bringing it into this conversation thereby demonstrates his or her intellectual bankruptcy. Also, frank talk about German economic policies doesn’t make you anti-German or anti-European; again, anyone trying to evade the substance by bringing that kind of accusation in has in effect conceded the argument.
So, about the argument. Here’s a brief history of the euro zone, told through one number for two countries, Germany and Spain:
The creation of the euro was followed by the emergence of huge imbalances, with vast amounts of capital flowing from the core to the periphery. Then came a “sudden stop” of private capital flows, forcing the peripheral nations to eliminate their current account deficits, albeit with the process slowed by the provision of official loans, mainly through loans among central banks. The really bad news for the periphery is that so far the adjustment has taken place mainly through depressed economies rather than regained competitiveness; so the counterpart of that “improvement” for Spain is 25 percent unemployment.
Normally you would and should expect the adjustment to be more or less symmetrical, with surplus countries reducing their surpluses as deficit countries reduced their deficits. But that hasn’t happened. Germany hasn’t adjusted at all; all of the rise in peripheral European current accounts has taken place at the expense of the rest of the world.
And that’s a very bad thing. We are still in a world ruled by inadequate demand, and very much subject to the paradox of thrift. By running inappropriate large surpluses, Germany is hurting growth and employment in the world at large. Germans may find this incomprehensible, but it’s just macroeconomics 101.
You might argue that it’s not the German government’s fault that it runs surpluses — but you’d be wrong. (I’ve fallen into this trap, but acknowledged the error.) For one thing, Germany has pursued fiscal austerity despite its creditor status, contributing to an overall tightening of policy in the eurozone. And one way to think about Germany’s role within the euro is that it is in effect engaging in huge foreign exchange intervention via Target 2, which holds down the “shadow Deutche Mark”:
Of course, I don’t expect German officials to admit that there’s anything to what Treasury says. They’re not big on macroeconomics as we understand it; actually, they’re not big on accounting identities, since their view seems to be that everyone should be like Germany, and run huge trade surpluses.
But Treasury just stated the obvious and true.
Il danno che fa la Germania
I tedeschi si sentono insultati, proprio insultati, dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, il cui Rapporto semestrale sulle politiche economiche internazionali ed i tassi di cambio dice alcune cose negative su come la politica macroeconomica tedesca sta influenzando l’economia mondiale. Dirigenti tedeschi affermano che le conclusioni del rapporto sono “incomprensibili” – il che è proprio strano, considerato che sono completamente lineari.
E poi, proprio così, gli Stati Uniti hanno spiato senza alcuna scusa Angela Merkel – ma questo non c’entra nulla, e chiunque voglia inserirlo nel dibattito mostra con ciò stesso il proprio sbandamento intellettuale. Inoltre, parlare con franchezza delle politiche economiche della Germania non significa essere anti-tedeschi o antieuropei; e ancora, chiunque cerchi di eludere la sostanza avanzando quel genere di accusa di fatto è come se ammettesse la fondatezza degli argomenti altrui.
Dunque, a proposito di tali argomenti. Ecco una breve storia dell’eurozona, raccontata attraverso i dati di due paesi, Germania e Spagna:
La creazione dell’euro fu seguita dall’emergere di gravi squilibri, con ampi flussi di capitali che scorrevano dal centro alla periferia. Poi venne il “blocco improvviso” dei flussi dei capitali privati, costringendo i paesi periferici ad eliminare i loro deficit di conto corrente [1], anche se entro un processo rallentato dalla fornitura di prestiti ufficiali, principalmente attraverso le banche centrali. La notizia davvero negativa per la periferia è che sinora la correzione si è manifestata attraverso la depressione delle economie e non una recuperata competitività; cosicché per la Spagna la conseguenza di quel “miglioramento” è il 25 per cento di disoccupazione.
Normalmente ci si dovrebbe aspettare che la correzione sia più o meno simmetrica, con i paesi in avanzo che riducono i loro surplus e quelli in deficit che riducono le loro perdite. Ma non è quello che è accaduto. La Germania non ha corretto un bel niente; tutta la crescita di conto corrente nella periferia europea è avvenuta a spese del resto del mondo.
E questo è davvero negativo. Siamo ancora in un mondo dominato dall’inadeguatezza della domanda, e soggetto moltissimo al cosiddetto paradosso del risparmio. Realizzando ampi surplus inappropriati , la Germania danneggia la crescita e l’occupazione in generale nel mondo. I tedeschi lo possono trovare incomprensibile, ma è solo macroeconomia da libri di testo universitari.
Si potrebbe sostenere che non è del Governo tedesco la responsabilità se realizza avanzi – ma si sbaglierebbe (io sono cascato in questo trabocchetto, ma ho riconosciuto l’errore). Innanzi tutto, la Germania ha perseguito una austerità della finanza pubblica nonostante il suo status di paese creditore, contribuendo ad una stretta generale nell’eurozona. E un modo per rappresentare il ruolo della Germania all’interno dell’euro è che essa si stia in sostanza impegnando in un vasto intervento sui cambi attraverso il cosiddetto “Target 2” [2]; attraverso il quale si conserva un “Marco Tedesco ombra”.
Naturalmente, non mi aspetto che i dirigenti tedeschi ammettano che c’è del vero in quello che dice il Tesoro americano. Non sono così forti in macroeconomia per come noi la conosciamo; per la verità, non sono forti nelle identità contabili [3], considerato che la loro opinione pare essere quella per cui tutto dovrebbero essere come la Germania, e gestire ampi surplus commerciali.
Ma il Tesoro ha semplicemente detto quello che è vero ed ovvio.
[1] Vedi note sulla traduzione.
[2] L’avvio dell’Unione monetaria europea nel 1999 ha richiesto la realizzazione del sistema TARGET (Trans-European Automated Real-Time Gross Settlement Express Transfer System) composto dai sistemi di regolamento lordo dei 17 Stati membri dell’UE e della Banca Centrale Europea, tra loro collegati. La disponibilità di TARGET in grado di dare esecuzione ai pagamenti interbancari nell’area dell’euro in condizioni di sicurezza, affidabilità ed efficienza ha reso possibile la conduzione efficace della politica monetaria unica all’interno dell’area e, al tempo stesso, ha dato rilevante impulso al processo di intergrazione finanziaria e commerciale tra i paesi partecipanti.
Il 19 novembre 2007 è stato avviato con gradualità il sistema Target 2 che sostituisce il precedente sistema TARGET e si avvale di una piattaforma unica condivisa (Single Shared Platform, SSP) realizzata e gestita dalla Banca d’Italia, dalla Deutsche Bundesbank e dalla Banque de France a beneficio dei sistemi finanziari europei, che peraltro, sul piano operativo e giuridico, fanno riferimento alle rispettive banche centrali, sulla base di norme armonizzate. (Banca d’Italia)
[3] In contabilità, nella finanza e nell’economia una identità contabile è una eguaglianza che deve essere vera a prescindere dal valore delle sue variabili. In questo caso l’identità contabile che i tedeschi vorrebbero negare, è data dalla obbligatoria corrispondenza di surplus e di deficit di conto corrente: è impossibile che tutti gestiscano vasti surplus commerciali.
ottobre 30, 2013
October 30, 2013, 2:57 pm
Has anyone else noticed how much the GOP position on Obamacare resembles the classic borscht belt joke about the two ladies at a Catskills resort? Lady #1: “The food here is so terrible, it’s inedible!” Lady #2: “And the portions are so small!” Republican #1: “Obamacare is slavery!” Republican #2: “And it’s so hard to sign up!”
Repubblicani della “Borscht Belt” [1]
Qualcuno oltre a me ha notato che la posizione del Partito Repubblicano sulla riforma sanitaria di Obama assomiglia alla barzelletta della “borscht belt” sulle due signore in un villaggio turistico delle Catskill?
Signora numero 1: “Il cibo qua è così cattivo, è immangiabile!”
Signora numero 2: “E le porzioni sono così piccole!”
Repubblicano numero 1: “La riforma di Obama è la schiavitù!”.
Repubblicano numero 2: “Ed è così difficile iscriversi!”.
[1] “ Borscht Belt” è una buffa espressione geografica, che indica l’area non lontana da New York delle Montagne Catskill, dove dagli anni ’20 agli anni ’70 i newyorkesi andavano a fare vacanze popolari nei bungalows e nei villaggi turistici. L’area era anche chiamata “Jewish Alps”, Alpi Ebraiche, ad indicare che era una meta turistica prediletta dalle famiglie ebraiche. In effetti in termine “Borscht Belt” ha quella origine; “borscht” è una zuppa con latte acido di origine russa che veniva consumata dagli immigrati ebrei di provenienza orientale (ashkenaziti), mentre “belt” significa “cintura”, nel senso anche di ampio comprensorio geografico. Ora, una vasta area degli Stati Uniti – indicata nella cartina dall’Arkansas alla Florida – veniva anche chiamata “Bible Belt”, per indicare una forte concentrazione di protestanti evangelici. Il comprensorio della ‘zuppa al latte acido’, ironicamente indicava invece la predilezione per i Monti Catskill degli ebrei newyorkesi nelle loro modeste vacanze. E questi sono i due comprensori:
ottobre 30, 2013
October 30, 2013, 11:36 am
John Taylor has accomplished something sort of amazing: he has managed to write the two worst paragraphs I’ve read this week. Here they are:
Federal debt held by the public has increased to 73% of GDP this year from 41% in 2008—and according to the Congressional Budget Office, it will rise to more than 250% without a change in policy. This raises uncertainty about how the debt can be brought under control.
Despite a massive onslaught of legislation and regulation designed to foster prosperity, economic growth remains low and unemployment remains high. Rhetoric aside, many both inside and outside the government quite reasonably seek to return to the kinds of policies that worked well in the not-so-distant past. Claiming that one political party has been hijacked by extremists misses this key point, and prevents a serious discussion of the fundamental changes in economic policies in recent years, and their effects.
Start with the first paragraph, and notice the lack of a time frame. When, exactly, does CBO think the debt will rise to 250%?
Actually, I’m not sure where Taylor gets that number from; CBO has stopped doing ultra-long-run projections in its long-run budget outlook, on the grounds that we really have no idea what the world will look like in 50 or 75 years. What it does do is 25-year projections, which look like this:
Not great, but even a quarter-century out CBO is projecting a debt level well within historical experience for advanced nations. By conveying the impression that explosive debt growth is just around the corner, Taylor is actively and deliberately misleading his readers.
But what I really found noteworthy is Taylor’s declaration that we must not say that the GOP has been taken over by extremists, because it prevents a serious discussion. Suppose we just posit the possibility that the GOP really has been taken over by extremists; are supposed to pretend otherwise, for the sake of discussion? When does it become OK to acknowledge reality?
And of course the GOP really has been taken over by extremists. Normal political parties don’t shut down the government and threaten to push us into default in an attempt to derail legislation that has been duly enacted by Congress, and they lack the votes to repeal. Sorry, but that’s just not something one can pretend not to notice.
Anyway, congratulations to Taylor, who wins some sort of prize this week.
Paragrafi che meritano un premio
John Taylor ha compiuto qualcosa di sorprendente: è riuscito a scrivere i due peggiori paragrafi tra quelli che ho letto in questa settimana. Eccoli:
“Il debito federale detenuto dalle istituzioni pubbliche [1] è cresciuto dal 41 % del PIL del 2008 al 73% di quest’anno – e, secondo il Congressional Budget Office [2], salirà a più del 250% senza cambiamenti nella politica. Questo fa salire l’incertezza su come il debito possa essere messo sotto controllo.
Nonostante una offensiva massiccia della legislazione e dei regolamenti finalizzata ad incoraggiare la prosperità, la crescita economica resta bassa e la disoccupazione resta elevata. A parte la propaganda, in molti, sia dentro che fuori il Governo, abbastanza ragionevolmente cercano di tornare al genere di politiche che funzionavano egregiamente in un non lontano passato. Sostenere che un partito politico è stato preso in ostaggio dagli estremisti significa non vedere la cosa principale, ed impedisce un serio dibattito sulle fondamentali modifiche delle politiche economiche degli anni recenti e sui loro effetti.”
Cominciamo dal primo paragrafo, e si noti l’assenza di una cornice temporale. Quando esattamente il CBO pensa che il debito salirà al 250%?
Per la verità non sono sicuro da dove Taylor prenda il suo dato; il CBO ha smesso di fare le sue proiezioni di lunghissimo periodo nelle sue prospettive di bilancio a lungo termine, sulla base della considerazione che non abbiamo nessuna idea di quello che saremo tra 50 o 75 anni. Ciò che fa sono previsioni a 25 anni, che appaiono in questo modo:
Non è granché, ma persino a un quarto di secolo il CBO prevede un livello di debito del tutto nell’ambito della esperienza delle nazioni avanzate. Per trasmettere l’impressione che quella esplosiva crescita del debito sia proprio dietro l’angolo, Taylor inganna i propri lettori con molto impegno e deliberatamente.
Ma quello che ho davvero trovato degno di interesse è la dichiarazione di Taylor secondo la quale non dovremmo dire che gli estremisti si sono impossessati del Partito Repubblicano, perché ciò impedisce una discussione seria. Supponiamo che si ipotizzi davvero la possibilità che il Partito repubblicano sia finito in mano di estremisti; dovremmo fingere qualcos’altro, nell’interesse del dibattito? Quando mai è il momento di guardare alle cose per quello che sono?
E, come si sa, gli estremisti si sono impossessati per davvero del Partito Repubblicano. I normali partiti politici non interrompono le attività di governo e non minacciano di spingerci al default nel tentativo di deragliare la legislazione che è stata a pieno diritto deliberata dal Congresso, che non hanno voti sufficienti per abrogare. Spiacente, ma non sono cose che si possa fingere di non notare.
In ogni caso, congratulazioni a Taylor che per questa settimana vince questa specie di premio.
ottobre 30, 2013
October 30, 2013, 11:21 am
Bill Gross is at it again, coming up with yet another reason for the Fed to tighten despite a still-depressed economy and inflation falling well below target. He is, of course, not alone — it has actually been amazing how wide a variety of reasons people in or close to the financial industry have come up for tight money in an economy that seems to need to opposite. Many of the people making these arguments started with dire warnings about runaway inflation; but when inflation failed to materialize, they didn’t change their policy views, they came up with new rationales for doing exactly the same thing.
This kind of behavior — ever-shifting rationales for an unchanging policy (see: Bush tax cuts, invasion of Iraq, etc.) — is a “tell”. It says that something else is really motivating the policy advocacy. So what is going on here? When I read Gross and others, what I think is lurking underneath is a belief that capitalists are entitled to good returns on their capital, even if it’s just parked in safe assets. It’s about defending the privileges of the rentiers, who are assumed to be central to everything; the specific stories are just attempts to rationalize the unchanging goal.
The thing to realize here, then, is that nothing about our current situation says that rentiers are entitled to their rent. And it’s a perversion of alleged free-market thinking to suggest otherwise.
Bear in mind where we are, economically: we are still in a liquidity trap, and we are very much in a paradox of thrift world, where hoarding — not spending — is a positive social evil.
What is the role of interest in this world? Interest, classically (and I do mean classically, as in Mr. Keynes and the), is the reward for waiting: there’s supposedly a social function to interest because it rewards people for saving rather than spending. But right now we’re awash in excess savings with nowhere to go, and the marginal social value of a dollar of savings is negative. So real interest rates should be negative too, if they’re supposed to reflect social payoffs.
This really isn’t at all exotic — but obviously it’s a point wealth-owners don’t want to hear. Hence the constant agitation for monetary tightening.
And this agitation does real harm. Think about the Fed’s taper talk: ultimately, I think it’s clear that it was an attempt to throw a bone to the tight-money crowd, in a way the Fed hoped wouldn’t do real harm. But it did do harm: long-term rates popped up, and are a significant factor in slowing our economy.
So add the rentiers’ sense of entitlement to the reasons we have made such a botch of macroeconomic policy.
Redditieri, diritti sociali e politica monetaria
Bill Gross ci torna sopra, venendo fuori con un’altra ragione per la quale la Fed dovrebbe decidere una stretta nonostante una economia ancora depressa ed una inflazione che scende ben al di sotto dell’obbiettivo. Non è il solo, naturalmente – per la verità è stato sorprendente con quale ampia varietà di ragioni le persone dall’interno o vicine al sistema finanziario si sono pronunciate per una restrizione monetaria, in un’economia che pare aver bisogno dell’opposto. Molte delle persone che avanzano tali argomenti hanno cominciato con terribili ammonimenti su una inflazione fuori controllo; ma quando l’inflazione non si è materializzata, non hanno mutato i loro punti di vista politici, sono venuti fuori con nuove tesi, pur di fare esattamente la stessa cosa.
Questo genere di condotta – argomenti che cambiano in continuazione per una politica immutabile (si vedano: gli sgravi fiscali di Bush, l’invasione dell’Iraq etc.) – è come un “cumulo di strati [1]”. Essa afferma che qualcosa d’altro sta davvero alla base del sostegno ad una politica. Dunque, come si procede in questo caso? Quando leggo Gross e gli altri, quello che io penso sia nascosto sotto l’apparenza è il convincimento che i capitalisti abbiano diritto ad un buon rendimento del loro capitale, anche se esso è semplicemente parcheggiato in assets sicuri. Questo riguarda la difesa dei privilegi dei redditieri, che si è supposto sia centrale per ogni cosa; le storie specifiche sono soltanto tentativi di razionalizzare l’obbiettivo immutabile.
La cosa da comprendere in questo caso, poi, è che niente della situazione attuale ci dice che i redditieri abbiano diritto alla loro rendita. Ed è una perversione della teoria del supposto libero mercato indicare diversamente.
Si tenga a mente dove ci troviamo, dal punto di vista economico: siamo ancora in una trappola di liquidità, e siamo anche molto nel mondo del paradosso del risparmio, dove l’accumulare, anziché lo spendere, è un male sociale positivo.
Quale è il ruolo dell’interesse in un mondo del genere? L’interesse, classicamente (ed intendo per davvero classicamente, come in Keynes e in altri) è il premio alla attesa: si immagina che ci sia una funzione sociale dell’interesse perché esso premia la gente per risparmiare anziché per spendere. Ma in questo momento noi siamo inondati da risparmi in eccesso che non sanno dove andare, ed il valore sociale marginale di un dollaro di risparmi è negativo. Dunque, anche i tassi di interesse reali dovrebbero essere negativi, se si suppone che essi riflettano i ricavi sociali.
Questo non è poi così insolito – ma naturalmente questo è un punto che i possessori di ricchezza non vogliono sentirsi dire. Da qua la loro costante agitazione per una restrizione monetaria.
E questa agitazione è realmente dannosa. Si pensi alle voci di restrizione da parte della Fed: in conclusione, penso sia chiaro che si sia trattato di un tentativo di gettare un osso alla turba della restrizione monetaria, in un modo che la Fed sperava non facesse un danno reale. Ma il danno l’ha fatto: i tassi di interesse a lungo termine sono saliti e costituiscono un fattore significativo di rallentamento della nostra economia.
Aggiungiamo dunque la percezione dei propri diritti da parte dei redditieri tra le ragioni per le quali abbiamo realizzato un tale pasticcio di politica macroeconomica.
[1] Trovo (WordReference, English definition) che “tell” come sostantivo può significare un accumulo di rifiuti in un sito da molto tempo utilizzato a tal fine, specialmente di materiale di costruzione di edifici. E si aggiunge stranamente che è una espressione in particolare utilizzata per cose del genere nel Medio Oriente. Del resto, l’espressione deve essere piuttosto singolare, perchè viene scritta tra virgolette. E sembra adatto …
ottobre 29, 2013
October 29, 2013, 2:27 pm
Suppose that healthcare.gov isn’t fixed by the end of next month. How bad is it for Obamacare? Would the program be doomed?
No, says Jonathan Cohn, because there are two layers of protection against poor signup. First, there is a system of cross-subsidies to insurance companies that was intended to prevent companies from surreptitiously gaining an advantage by only signing up healthy people (hey, our policy is available to anyone — but you have to sign up in our sixth-floor walkup office.) As it turns out, this system would end up compensating insurance companies in general if the risk pool is worse than expected. Second, the subsidies to individuals are designed to hold health costs down to 8 percent of income, which means that they will rise if costs are higher than expected.
Neither of these would be a good thing, since they would increase the budget cost, but they do mean that Obamacare’s survival probably isn’t on the line.
Actually, the biggest reason Obama and co. should be anxious to fix these things now, I’d argue, isn’t the fate of the program itself, which can survive even large early wobbles, but the midterm elections. If Obamacare is fixed, Republicans will be in the position of attacking a program that is benefiting millions of Americans; if it isn’t, they can still run against the legend, not the fact.
So a lot is riding on fixing the technological botch — but not in quite the way people imagine.
Valium a coloro che sono ansiosi per la legge di riforma sanitaria di Obama
Supponiamo che il sito healthcare.gov non sia riparato per la fine del prossimo mese. Che guaio sarebbe per la riforma di Obama? Sarebbe una condanna per quel programma?
No, dice Jonathan Cohn, perché ci sono due livelli di protezione per l’iscrizione da parte dei poveri. Il primo, c’è un sistema di sussidi trasversali alle compagnie assicuratrici che ha lo scopo di impedire che le compagnie stesse surrettiziamente ottengano un guadagno iscrivendo soltanto le persone in buona salute (“Ehi, le nostre polizze sono disponibili per tutti, ma per iscrivervi dovete andare al nostro ufficio al sesto piano senza ascensore” [1]). Si scopre che questo sistema finirebbe col favorire in termini generali le compagnie assicuratrici nelle quali la composizione aggregata del rischio fosse peggiore di quanto atteso. Il secondo, i sussidi alle persone hanno lo scopo di tenere i costi sanitari al di sotto dell’otto per cento del reddito, il che significa che essi cresceranno se i costi sono superiori a quello che ci si aspetta.
Nessuna di queste cose sarebbe positiva, dal momento che esse incrementerebbero il costo di bilancio, ma esse significano che la sopravvivenza della riforma sanitaria non è a rischio.
In effetti, la ragione principale per la quale Obama e compagnia dovrebbero aver l’ansia di rimediare immediatamente a queste cose, per quanto posso supporre, non è il destino in se stesso del programma, che può sopravvivere persino a vasti iniziali ondeggiamenti, ma le elezioni di medio termine. Se la riforma di Obama è messa nelle condizioni di partire, i repubblicani saranno nella situazione di attaccare un programma che sta fornendo benefici a milioni di persone; se non sarà così essi potranno ancora prendersela contro un mito, non contro una realtà di fatto.
Dunque ci sono molte ragioni per darsi da fare per rimediare al lavoro tecnologicamente malfatto – ma non esattamente nel senso in cui molta gente si immagina.
[1] E’ ovvio, ma lo chiarisco, che con una tecnica del genere obesi, cardiopatici asmatici e in genere fumatori accaniti verosimilmente non si iscriverebbero.
ottobre 28, 2013
October 28, 2013, 5:53 pm
A non-economics, non-policy post; I just want to give a shoutout to a book I’m reading, and really enjoying: Tom Standage’s Writing on the Wall: Social Media — The First 2,000 Years. I’ve been a big fan of Standage’s ever since his book The Victorian Internet, about the rise of the telegraph, which shed a lot of light on network technologies while also being great fun. Now he’s done it again.
Standage’s argument is that the essential aspects of social media — exchange of information that runs horizontally, among people who are affiliated in some way, rather than top-down from centralized sources — have been pervasive through history, with the industrial age’s news media only a temporary episode of disruption. As he shows, Cicero didn’t get his news from Rome Today or Rupertus Murdochus — he got it through constant exchanges of letters with people he knew, letters that were often both passed on to multiple readers and copied, much like tweets being retweeted.
Even more interesting is his discussion of the Tudor court, where a lot of the communication among insiders took place through the exchange of … poetry, which allowed people both to discuss sensitive topics elliptically and to demonstrate their cleverness. You could even build a career through poetry, not by selling it, but by using your poems to build a reputation, which could translate into royal favor and high office — sort of the way some people use their blogs to build influence that eventually leads to paying gigs of one kind or another. The tale of John Harington — of the famous “treason never prospers” line — is fascinating.
Incidentally, when and why did we stop reading poetry? Educated people used to read it all the time, or at least pretend to; that’s no longer the case. Frankly, I don’t read poetry except on very rare occasions. What happened?
Anyway, interesting stuff. And since I don’t think Standage is likely to get favors showered on him by our latter-day Queen Elizabeth, buy his book!
Poesia e blog
Un post che non ha niente a che fare con l’economia e con la politica; voglio solo esprimere il mio pubblico ringraziamento per un libro che sto leggendo e che mi sta procurando un vivo piacere: “Scrivere sul muro: i primi 2.000 anni dei ‘social media’ [1]” di Tom Standage. Sono stato un grande cultore di Standage sin dal suo primo libro “L’Internet vittoriano”, sull’avvento del telegrafo, che fece molta luce sulle tecnologie dei rete riuscendo altresì ad essere del tutto piacevole. Ora si è ripetuto.
La tesi di Standage è che gli aspetti essenziali dei social media – scambio di informazioni che corrono orizzontalmente, tra persone che sono in qualche modo associate, piuttosto che dall’alto al basso da fonti centralizzate – hanno pervaso il corso della storia, laddove i mezzi di informazione dell’età industriale sono stati soltanto un episodio temporaneo di perturbazione. Come egli mostra, Cicerone non aveva le notizie da “Roma Oggi” oppure da “Rupertus Murdochus” [2] – le otteneva attraverso costanti scambi di lettere con persone di sua conoscenza, lettere che spesso venivano trasmesse ad una molteplicità di lettori e copiate, con molta somiglianza con i tweet che vengono retweettati.
Ancora più interessante è la sua trattazione della corte dei Tudor, dove gran parte della comunicazione tra gli addetti ai lavori avveniva attraverso lo scambio di … poesie, il che consentiva alle persone sia di dibattere in modo criptico i temi delicati che di dimostrare la propria acutezza. Si poteva persino costruire una carriera tramite la poesia, non vendendola, ma utilizzando i propri scritti per dar vita ad una reputazione, che si sarebbe potuta tradurre in favore da parte della corte e in alti incarichi – in un modo in un certo senso simile a quello che qualcuno usa per dare vita, tramite il proprio blog, ad una influenza che alla fine, in un modo o nell’altro, porta a forme di compenso per i propri servizi. Il racconto di John Harington [3] – autore della famosa frase “il tradimento non ha mai successo” [4] – è affascinante.
Per inciso, quando e perché abbiamo smesso di leggere poesie? Le persone istruite erano solite leggerle in ogni momento, o almeno facevano finta; oggi non è più così. Onestamente, io non leggo poesie se non in rare occasioni. Cosa è successo?
In ogni modo, sono cose interessanti. E dato che non penso che sia probabile che Standage goda dei favori della Regina Elisabetta dei giorni nostri, comperate questo libro!
[1] Espressione inflazionata, che ha propriamente questo significato: “Social media, in italiano media sociali, è un termine generico che indica tecnologie e pratiche online che le persone adottano per condividere contenuti testuali, immagini, video e audio. I professori Andreas Kaplan e Michael Haenlein hanno definito i media sociali come un gruppo di applicazioni Internet basate sui presupposti ideologici e tecnologici del Web 2.0, che consentono la creazione e lo scambio di contenuti generati dagli utenti. I social media rappresentano fondamentalmente un cambiamento nel modo in cui la gente apprende, legge e condivide informazioni e contenuti. In essi si verifica una fusione tra sociologia e tecnologia che trasforma il monologo (da uno a molti) in dialogo (da molti a molti) e ha luogo una democratizzazione dell’informazione che trasforma le persone da fruitori di contenuti ad editori. Sono diventati molto popolari perché permettono alle persone di utilizzare il web per stabilire relazioni di tipo personale o lavorativo. I social media vengono definiti anche user-generated content (UGC) o consumer-generated media (CGM)”. (Wikipedia)
[2] Un inesistente antenato latino di Keith Rupert Dylan Murdoch (Melbourne, 11 marzo 1931); odierno editore, imprenditore e produttore televisivo australiano naturalizzato statunitense.
[3] John Harington (o Harrington; Kelston, 4 agosto 1561 – 20 novembre 1612) è stato un inventore, poeta e scrittore inglese.
È considerato l’ideatore della moderna toilette, che ha descritto nelle Metamorfosi di Ajax. Nel 1608 tradusse in inglese il celebre Regimen Sanitatis Salernitanum. Fu un esponente importante della Corte della regina Elisabetta, e veniva definito come un suo “figlioccio impertinente”. In realtà le “Metamorfosi di Ajax” erano una allegoria politica ed anche un attacco in linguaggio cifrato alla monarchia; ma contenevano anche la descrizione di un bagno, provvisto di sciacquone, che era stato installato nella sua casa a Kelston.
[4] Sembra che l’intero epigramma di Harington fosse: “Il tradimento non ha mai successo, Per quale ragione? Perché se avesse successo, nessuno oserebbe definirlo tradimento.”
ottobre 28, 2013
October 28, 2013, 5:32 pm
Aha — somehow I didn’t know this existed. The Bank of England has produced some very, very long-term series; spreadsheet can be downloaded here. Here’s debt and interest rates since the Bank was founded:
The print is a bit small, but the blue line is the ratio of public debt to GDP, measured on the right axis, and the red line is the yield on long-term government debt, measured on the left.
You might think that these data, and the relationship they show — or, actually, don’t show — should have some impact on our current debate, especially given the tendency of many players to reject modeling and appeal to what they claim are the lessons of history.
Or are they claiming that this time is different?
Tre secoli di debito e di tassi di interesse
Ah, per qualche motivo non sapevo che questo esistesse. La Banca di Inghilterra ha prodotto alcune serie davvero da molto lontano nel tempo: il foglio di calcolo può essere scaricato da questa connessione. Ecco il debito ed i tassi di interesse dal momento in cui la Banca fu fondata [1]:
I caratteri sono un po’ piccoli, ma la linea blu indica il rapporto tra il debito pubblico ed il PIL, misurato sull’asse a destra, e la linea rossa è il rendimento delle obbligazioni sul debito governativo a lungo termine, misurato sulla sinistra.
Potreste pensare che questi dati, e le relazioni che mostrano – o non mostrano – dovrebbero avere un qualche impatto sul nostro dibattito attuale, considerata specialmente la tendenza di molti protagonisti a rigettare i modelli ed a fare appello a quelle che sostengono essere le lezioni della storia.
Oppure stanno sostenendo che questa volta sia diverso? [2]
[1] Ovvero dal 1700.
[2] La conclusione è una evidente polemica nei confronti di Rogoff, il titolo del cui libro era appunto “Questa volta è diverso”.
ottobre 28, 2013
October 28, 2013, 9:37 am
It’s kind of sad, but I suspect that half a century from now the main thing people will remember me for — if they remember anything — is the confidence fairy. So maybe I can somewhat package my attempts to debunk the Hellenization of our discourse (pdf) by pointing out that the scare stories seem to involve invoking a related set of characters, the confidence gnomes. (They’re also related to these guys.)
The popular story — put out by everyone from Alan Greenspan to Erskine Bowles — runs like this:
1. Loss of investor confidence
2. ??????
3. Greece!
What I keep asking is for someone to explain step 2 in a way that’s consistent with the fact that America, Britain, and Japan — unlike Greece — have their own currencies, and central banks that control short-term interest rates. Are you saying that they will raise these rates, and if so, why? Are you saying that long rates will become delinked from short rates? Why, and why can’t central banks prevent this just by buying long-term debt?
So far, nobody has answered this challenge clearly. They simply assert that this is how it will happen, or they switch arguments in midstream, suddenly bringing in the specter of bank collapse or something else. Just tell me what’s supposed to be happening to monetary policy!
And don’t tell me that this is what experience shows. There simply aren’t historical precedents for the claimed crisis — a debt crisis in a country that has its own currency and borrows in that currency. France in the 20s comes closest, but it didn’t play out anything like modern Greece. Japan right now is, in effect, an example of a country benefiting by reducing confidence in the future real value of its debt. (Before commenting on these assertions, read the paper.)
What’s more, we have a clear recent example of just how important it is to think these things through. Remember that people like Greenspan insisted that budget deficits would lead to soaring rates and inflation. But they never explained how this was supposed to happen in a depressed economy with zero short-term rates. Again, their logic was more or less
1. Deficits
2. ?????
3. Zimbabwe!
Meanwhile, those of us who tried to think it through concluded that nothing of the sort would happen — and it didn’t.
Count me as someone who believes that macroeconomics — at least of the Keynesian variety — has actually worked pretty well these past five years. The problem is that so few economists have been willing to use their own models, and so few influential people have understood that gut feelings are no way to deal with a once-in-three-generations economic crisis.
Gli gnomi della fiducia
E’ un po’ triste, ma ho il sospetto che tra mezzo secolo la cosa principale per la quale le persone mi ricorderanno – ammesso che ricorderanno qualcosa – sarà la ‘fata della fiducia’. Dunque, in qualche modo forse posso impacchettare i miei tentativi di demistificare la “ellenizzazione” del nostro dibattito (disponibile in pdf) per mettere in evidenza che le storie terrificanti sembrano comportare l’invocazione di una determinata tipologia di caratteri, gli gnomi della fiducia (i quali a loro volta sono in connessione con questi altri personaggi [1]).
La storia popolare – messa in circolazione per tutti da Alan Greenspan ed Erskine Bowles – si svolge in questo modo:
1 – Perdita della fiducia da parte degli investitori (cioè, cosa devo recuperare?).
2 – ???????? (cioè, perché devo recuperarlo?)
3 – Grecia! (cioè, mi serve ad evitare di finire come la Grecia!)
Ciò che io continuo a domandare a chiunque è lo spiegare il passaggio numero 2 in un modo che sia coerente con il fatto che l’America, il Regno Unito ed il Giappone- diversamente dalla Grecia – hanno le loro valute e banche centrali che controllano i tassi di interesse a breve termine. State dicendo che innalzeranno questi tassi, e se è così, per quale ragione? State dicendo che i tassi di interesse a lungo termine finiranno con l’essere sconnessi da quelli a breve termine? Perché, e perché le banche centrali non potranno impedirlo semplicemente acquistando obbligazioni sul debito [2] a breve termine? [3]
Sino a questo punto, nessuno ha risposto a questa sfida chiaramente. Semplicemente si asserisce che questo è quanto accadrà, oppure si cambiano gli argomenti a mezza strada, improvvisamente facendo comparire lo spettro di una collasso bancario o di qualcos’altro. Raccontatemi solamente quello che pensate avvenga alla politica monetaria!
E non ditemi che questo è quanto mostra l’esperienza. Non ci sono precedenti storici per una analoga pretesa crisi – una crisi di debito in un paese che abbia la propria valuta e che si indebiti in quella valuta. La Francia negli anni ’20 è quella che più si avvicina, ma non portò a termine niente che assomigli alla Grecia moderna. Il Giappone, in questo momento, è in effetti l’esempio di un paese che beneficia della riduzione della fiducia nel futuro valore reale delle obbligazioni sul suo debito (prima di commentare queste asserzioni, si legga lo studio).
Quello che c’è in più è che abbiamo un chiaro recente esempio di come sia importante riflettere su queste cose. Si ricordi che persone come Greenspan hanno insistito che i deficit di bilancio avrebbero portato i tassi e l’inflazione alle stelle. Ma non hanno mai spiegato come si pensava che questo avvenisse in una economia depressa e con tassi di interesse a zero. Ancora una volta, più o meno la loro logica era:
Nel frattempo, coloro tra di noi che hanno cercato di riflettere hanno concluso che non sarebbe successo niente del genere – e non è successo.
Mettetemi pure tra coloro che credono che la macroeconomia – almeno nella sua versione keynesiana – in questi ultimi cinque anni ha effettivamente funzionato abbastanza bene. Il problema è che così pochi economisti hanno avuto voglia di utilizzare i loro propri modelli, e che così poche persone influenti hanno compreso che le sensazioni istintive non sono un modo per fare i conti con una crisi economica unica da tre generazioni.
[1] Umorismo americano, non facile da apprezzare …. Il link è con una voce di Urban Dictionary relativa ad una particolare categoria di gnomi (“Underpants gnomes, gli gnomi delle mutande) che ho compreso in questo modo: costoro sono individui della serie South Park che passano la nottata a cercare mutande, necessarie per andare al lavoro. Perché lo fanno? Per loro convenienza, naturalmente, perché lavorare gli procura un profitto. Ma il problema – se ho ben capito – è che nella sequenza logica: “1 – Di cosa ho bisogno? 2 – Perché ho bisogno proprio di quello? 3 – A cosa mi servirà?”, quei piccoli personaggi non riescono a rispondere alla domanda numero 2. Hanno bisogno di mutande, gli servono a fare un guadagno, ma perché le mutande? Sono come ipnotizzati dalla incapacità di rispondere alla domanda intermedia, e continuano a fare per tutta la notte qualcosa che non riescono ad inquadrare. Se la spiegazione è corretta, si può ammettere che nella vita talvolta capiti di dover assolutamente fare qualcosa che non si capisce più perché deve essere fatto. Questa sarebbe la situazione degli “gnomi delle mutande”, nonché di Alan Greenspan ed Erskine Bowles, e la somiglianza è spiegata dal post …
[2] Tutte le volte che incontro l’espressione “acquistare il debito”, normale nel linguaggio economico angloamericano, per migliore comprensione traduco con “acquistare le obbligazioni sul debito”, che è quanto si intende, giacché il debito si ‘acquista’ attraverso i bonds.
[3] Come si è capito, questi sono gli stessi temi della polemica delle scorso settimane con Kenneth Rogoff. Sono anche i temi della lunga relazione di Krugman alla recente iniziativa del Fondo Monetario Internazionale, che conterei di tradurre prossimamente).
ottobre 28, 2013
October 28, 2013, 6:43 am
Joe Weisenthal tells us who’s buying all those incredibly expensive London residences. It’s not the locals:
New York is experiencing a similar transformation into a global rentier city, although my sense is that it hasn’t gone nearly as far down that road.
It’s going to present an interesting conundrum for Bill de Blasio: He seems set to win the mayor’s race by a huge margin of New Yorkers, but he’s be governing a city where a lot of the wealth was generated somewhere else and resides in NYC for the amenities (which include the ability to rub shoulders with other rentiers.) So he needs to milk these people, but not too hard.
I guess it’s better than being Detroit.
Sceicchi, principini e affaristi russi [1], oddio!
Joe Weisenthal ci racconta chi sta comprando tutte quelle incredibilmente costose residenze londinesi. Non sono persone del luogo:
New York sta vivendo una esperienza simile, la trasformazione in una città globale di redditieri, sebbene la mia sensazione è che, in quella direzione, sia ancora piuttosto indietro.
Questo costituirà un interessante rompicapo per Bill de Blasio [2]: egli sembra destinato a vincere la corsa a Sindaco dei newyorchesi con un vasto margine, ma dovrà governare una città nella quale una gran quantità di ricchi è stata generata altrove e risiede in New York City per i suoi comforts (il che include la possibilità di socializzare con altri redditieri). Dunque avrà bisogno di mungere questa gente, ma non in modo troppo pesante.
Suppongo sia meglio che stare a Detroit.
[1] Come si vede dalla tabella, tanto più crescono i valori delle residenze, tanto più diminuisce la percentuale viola scuro dei locali, ed aumenta quella viola chiaro dei provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa e del viola ancora più chiaro dei provenienti dall’Europa dell’Est e dalla Confederazione degli Stati Indipendenti o Russia. Dunque: sceicchi, principini e “beeznessmen” che dovrebbe essere un storpiatura della pronuncia di “businessmen” che Krugman attribuisce ai russi.
[2] Il già famoso e favorito candidato democratico nelle elezioni a Sindaco di New York, di origine italoamericana.
ottobre 27, 2013
October 27, 2013, 10:27 am
I’m doing a bit of work on Abenomics, which will surface in a week or so. One thing I discovered along the way is that nobody much likes any of the existing measures of inflation expectations, as this New York Fed post by Mandel and Barnes explains. In particular, the Japanese market in inflation-protected securities is considered too thin to rely on.
Mandel and Barnes, building off work by Goldman Sachs, suggest an ingenious workaround: they use inflation expectations inferred from US TIPS, then adjust by the forward exchange rate. The idea is that relative purchasing power parity more or less holds in the long run, so you can assume that Japanese inflation equals US inflation plus change in the exchange rate. And since the forward premium is basically equal to the interest-rate differential, this in turn means inferring Japanese inflation expectations as equal to the US TIPS spread minus the difference between US and Japanese rates.
It’s a clever idea, but I think incomplete. There is strong evidence that real exchange rates are mean-reverting (pdf), and you should take that into account too. Estimating the rate of mean-reversion is tricky, but we can more or less sidestep this by looking at long-term expectations: after a decade, we can expect the bulk of any deviation from the norm to be eliminated.
You may ask, what is the long-run equilibrium real exchange rate? Interesting question, but not one we need to answer if we’re just trying to assess the impact of Abenomics, where what matters is the change in inflation expectations on Abe’s watch.
So here’s what I did: I took the implied 10-year breakeven inflation rate from US TIPS, minus the 10-year interest rate differential, plus the real appreciation Japan would experience if the real exchange rate against the dollar 10 years from now were to return to its level in January 2010. You can adjust this as you like with whatever your estimate of the difference between the 1-2010 rate and the equilibrium rate is; it will just shift the line up or down. Here’s the result:
I have my doubts about the apparent decline in recent months. It’s being driven not by events in Japan but by the taper scare, which drove up US rates. There is a question about why that rise in US rates didn’t produce a lot more yen depreciation, but something seems off here.
The main point, however, is that this measure does suggest a substantial rise in expected inflation since Abenomics began, which is good news.
Parità dei poteri di acquisto [1] e aspettative di inflazione giapponesi (estremamente specialistico)
Sto facendo un po’ di lavoro sulla politica economica di Abe, che verrà in evidenza circa tra una settimana. Una cosa che ho scoperto strada facendo è che nessuno gradisce granché le misure esistenti sulle aspettative di inflazione, come il post sul blog della Fed di New York a cura di Mandel e Barnes spiega. In particolare, il mercato giapponese dei titoli indicizzati dall’inflazione è considerato troppo esile per essere un riferimento affidabile.
Mandel e Barnes, che realizzano lo studio per conto di Goldman Sachs, suggeriscono un modo ingegnoso di aggirare il problema: utilizzano le aspettative di inflazione derivanti dai TIPS [2] statunitensi, poi le correggono sulla base del tasso di cambio in divenire. L’idea è che nel lungo periodo la relativa parità del potere di acquisto più o meno si mantenga, cosicché si può assumere che l’inflazione giapponese eguagli quella statunitense, con l’aggiunta del mutamento nel tasso di cambio. E dato che il premio a venire è fondamentalmente eguale al differenziale del tasso di interesse, questo a sua volta significa che le aspettative di inflazione giapponesi sono uguali allo spread verso i TIPS statunitensi meno la differenza tra i tassi degli Stati Uniti e del Giappone.
E’ un’idea intelligente, ma penso incompleta. C’è un evidenza forte che i tassi di cambio reali tendano a tornare su valori medi (disponibile in pdf), e anche quello dovrebbe essere messo nel conto. Stimare il tasso del ritorno su valori medi è complicato, ma è un aspetto che possiamo più o meno schivare osservando le aspettative a lungo termine: dopo un decennio, possiamo aspettarci che il grosso di qualsiasi deviazione dalla norma sia stato eliminato.
Si può chiedere, cosa è il tasso di cambio reale di equilibrio? E’ una domanda interessante, ma non abbiamo bisogno di rispondere se stiamo solo cercando di valutare l’impatto della politica economica di Abe, dove quello che conta è il mutamento delle aspettative di inflazione dal punto di osservazione di Abe.
Ecco dunque cosa ho fatto: ho preso il tasso di inflazione contenuto nel breakeven [3] decennale dei TIPS statunitensi, meno il differenziale del tasso di interesse decennale, più la rivalutazione reale che il Giappone conoscerebbe se il tasso di cambio reale con il dollaro nei dieci anni a venire tornasse al suo livello del gennaio 2010. Potete correggere come vi pare questo schema, con una vostra stima qualsiasi della differenza tra il tasso a gennaio del 2010 ed il tasso di equilibrio; ciò sposterà semplicemente la linea in alto o in basso. Ecco il risultato:
Ho i miei dubbi sul declino apparente nei mesi recenti. Esso non è guidato dagli eventi giapponesi, ma dalla paura per la “stretta” che ha spinto in alto i tassi degli Stati Uniti. C’è un quesito sulla ragione per la quale la crescita nei tassi statunitensi non abbia prodotto una svalutazione un bel po’ superiore dello yen, ma è qualcosa che sembra estraneo a questo ragionamento.
Il punto principale, tuttavia, è che questo criterio di misura suggerisce davvero una crescita sostanziale nella inflazione attesa dal momento in cui la politica economica di Abe [4] ha avuto inizio, che è una buona notizia.
[1] La teoria della parità dei poteri di acquisto (PPA, PPP in inglese), in economia, introduce una relazione tra i prezzi e il tasso di cambio. Per la versione assoluta della PPA, i livelli generali dei prezzi di due paesi non possono differire quando vengono raffrontati dopo averli convertiti nella medesima valuta.
[3] “Breakeven” – in termini generali ed in economia – è il punto di equilibrio di profitti e perdite. Più precisamente, in economia aziendale, il punto di pareggio (break even point o break even, abbreviato in BEP) è un valore che indica la quantità, espressa in volumi di produzione o fatturato, di prodotto venduto necessaria per coprire i costi precedentemente sostenuti, al fine dunque di chiudere il periodo di riferimento senza profitti né perdite.
[4] Come si vede le aspettative di inflazione sino ad ottobre del 2011 erano negative, ovvero c’era un pur minima aspettativa di deflazione, ed erano ancora tra 0,5 ed 1 per cento nel gennaio 2012; sono poi cresciute sino ad un massimo di quasi il 3 per cento nell’aprile del 2013. Shinzo Abe è stato rieletto Primo Ministro dalla Dieta del Giappone nel dicembre del 2012.
ottobre 26, 2013
October 26, 2013, 9:43 am
John Quiggin has a fun post debunking the notion, all too common among economists, that macroeconomics — the study of inflation, depressions, and all that — is somehow flaky and unworthy of the field’s grandeur, that only microeconomics, derived rigorously from rational behavior, is real science. Keynesian macro, in particular, is often regarded with intense distaste, and a lot of economists would like to ban it from the field.
Quiggin points out, rightly, that almost all microeconomics depends crucially on the assumption that the economy is at full employment; this assumption is false, but what makes it not too false in normal times is the existence of stabilization policies, monetary and fiscal, that usually produce fairly quick recoveries from slumps. Macro is what makes micro work, to the extent that it does.
I would add that macro is the only reason anyone listens to all those microeconomists who think they’re being rigorous. To see why, we need to think about the history of thought.
If you go back to the state of American economics in the 1930s and even into the 1940s, it was not at all the model-oriented, mathematical field it later became. Institutional economics was still a powerful force, and many senior economists disliked mathematical modeling. When Paul Samuelson published Foundations of Economic Analysis in 1947, the chairman of Harvard’s economics department tried to limit the print run to 500, grudgingly accepted a run of 750, and ordered the mathematical type broken up immediately.
So why did model-oriented, math-heavy economics triumph? It wasn’t because general-equilibrium models of perfect competition had overwhelming empirical success. What happened, I’d argue, was Keynesian macroeconomics.
Think about it: In the 1930s you had a catastrophe, and if you were a public official or even just a layman looking for guidance and understanding, what did you get from institutionalists? Caricaturing, but only slightly, you got long, elliptical explanations that it all had deep historical roots and clearly there was no quick fix. Meanwhile, along came the Keynesians, who were model-oriented, and who basically said “Push this button”– increase G, and all will be well. And the experience of the wartime boom seemed to demonstrate that demand-side expansion did indeed work the way the Keynesians said it did.
It’s not an accident that Samuelson, even as he was raising the math level of microeconomics, was a key figure in the triumph of Keynesian economics. Nor was it at all an accident that his intro textbook, in its 1948 edition and for a long time thereafter, started with macro, and only got to micro later. The perceived success of macroeconomics did double duty, establishing the bona fides of a model-oriented approach and also suggesting that full employment was not too bad an assumption — given the right monetary and fiscal policies.
Oh, and economists who are upset that the public seems to judge the profession by its success at macro diagnosis and prediction are missing the point: it has always been thus, and purists who disdain macro are making mock of the only reason anyone takes them at all seriously.
The academic enterprise of economics as we know it, in other words, rests on a macro foundation, and in fact a Keynesian foundation — and economists who denounce all of that as witchcraft are busily sawing off the branch they’re sitting on.
Fondamenti micro (per esperti)
John Quiggin pubblica un post divertente per sfatare il concetto, fin troppo comune tra gli economisti, secondo il quale la macroeconomia – lo studio dell’inflazione, delle depressioni e di tutto il resto – sia in qualche modo inaffidabile ed immeritevole del prestigio della disciplina, che solo la microeconomia, derivata rigorosamente dal comportamento razionale, sia un scienza vera. In particolare, la macroeconomia keynesiana è spesso considerata con intensa avversione, e a molti economisti non dispiacerebbe metterla al bando.
Quiggin sottolinea che quasi tutta la microeconomia dipende in modo cruciale dall’assunto che l’economia sia in condizioni di piena occupazione; questo assunto è falso, ma ciò che lo rende non troppo falso in tempi normali è l’esistenza di politiche di stabilizzazione, monetarie e della finanza pubblica, che di solito producono riprese abbastanza veloci dalle crisi. La macro è ciò che consente alla micro di lavorare, nella misura in cui lo fa.
Vorrei aggiungere che la macro è l’unica ragione per la quale ciascuno ascolta tutti quegli economisti che pensano di essere rigorosi. Per comprendere in che senso, abbiamo bisogno di riflettere sulla storia del pensiero.
Se tornate alla condizione della teoria economica americana negli anni Trenta e persino dentro gli anni Quaranta, essa non era interamente orientata sui modelli, il campo della matematica venne successivamente. La teoria economica istituzionale era ancora una forza potente e molti economisti anziani non gradivano i modelli matematici. Quando Paul Samuelson pubblicò Fondamenti di Analisi Economica, il Presidente del Dipartimento di Economia di Harvard cercò di limitare la stampa a 500 copie, a denti stretti accettò una tiratura di 750 copie, e ordinò che i caratteri matematici venissero immediatamente distrutti.
Perché, dunque, trionfa l’economia orientata ai modelli e densa di matematica? Non è dipeso dal fatto che i modelli dell’equilibrio generale della competizione perfetta abbiano avuto un successo pratico empirico schiacciante. Direi che quello che è accaduto è stato l’ingresso della macroeconomia keynesiana.
Si pensi a questo: negli anni Trenta si ebbe una catastrofe e se si era un dirigente pubblico o anche soltanto un principiante in cerca di orientamento e di comprensione, cosa si poteva avere dagli ‘istituzionalisti’? In modo solo leggermente caricaturale, si potevano avere spiegazioni ellittiche secondo le quali tutto quanto accadeva aveva profonde radici storiche e chiaramente non c’era alcun rimedio rapido. Nel frattempo arrivarono i keynesiani, che erano orientati ai modelli, e che fondamentalmente dissero “Pigiate questo bottone” – aumentate la spesa pubblica [1] e tutto andrà a posto. E l’esperienza della espansione dei tempi di guerra dimostrò che l’espansione dal lato della domanda in effetti aveva funzionato nel modo in cui i keynesiani avevano previsto.
Non è un caso che Samuelson, anche mentre stava elevando il livello matematico della microeconomia, fu la figura chiave del trionfo dell’economia keynesiana. Né fu affatto un caso che la sua introduzione al libro di testo, nella sua edizione del 1948 e per molto tempo successivamente, partiva con la macro e solo dopo giungeva alla micro. La percezione di successo della macroeconomia fece un doppio servizio, stabilì la affidabilità di un approccio orientato ai modelli ed anche suggerì che la piena occupazione non era un assunto così negativo – date le politiche monetarie e di finanza pubblica corrette.
Infine, agli economisti che sono turbati dal fatto che l’opinione pubblica sembra giudicare la professione dal suo successo nella diagnosi e nella previsione macroeconomica sfugge un aspetto: è sempre stato così ed i puristi che disdegnano la macro si stanno prendendo gioco dell’unica ragione per la quale tutti li prendono sul serio.
In altre parole, l’attività accademica dell’economia per come la conosciamo si basa su fondamenti macro, in sostanza su fondamenti keynesiani – e gli economisti che denunciano tutto questo come una stregoneria stanno alacremente segando il ramo su cui sono seduti.
ottobre 25, 2013
October 25, 2013, 7:48 am
Back in 2011, we almost had a “grand bargain” whose centerpiece would have been a rise in the Medicare eligibility age. Liberals were horrified, but it actually would have happened if Republicans hadn’t balked at the idea of any revenue increases at all.
Now we learn that it would have been not just cruel and a betrayal of promises, but bone-stupid too. Many of us pointed out that raising the Medicare age would actually raise the cost of health care, that any apparent savings to the Federal government would result simply from shifting costs onto others — and because Medicare has lower costs than private insurance, this would result in a net loss. But now CBO has redone its analysis, and finds that raising the Medicare age would barely reduce federal spending.
The basic reason is selection bias: many seniors get Medicare before 65 because of disability or specific medical conditions. The ones who have to wait until the headline age are, on average, relatively healthy and hence relatively cheap.
So here’s my question: will people stop talking about raising the Medicare age? My prediction is that they won’t — because it wasn’t really about saving money in the first place. Degrading the safety net and pushing people into more expensive private insurance weren’t bugs, they were features. The usual suspects, I predict, will just keep pushing for the same thing, and dismiss the evidence.
Elevare l’età di ammissione a Medicaid, una rivisitazione
Nel passato 2011, avemmo quasi una “grande intesa” il cui pezzo forte avrebbe potuto essere un incremento dell’età di ammissione a Medicare. I progressisti erano inorriditi, ma sarebbe successo se i repubblicani non si fossero tirati indietro dinanzi all’idea che ci sarebbero stati comunque incrementi delle entrate.
Apprendiamo ora che non solo sarebbe stato un crudele tradimento delle promesse, ma anche stupidissimo. Molti di noi avevano messo in evidenza come elevando l’età di ammissione a Medicare si sarebbe in effetti aumentato il costo della assistenza sanitaria, ogni apparente risparmio del governo federale sarebbe risultato semplicemente da un trasferimento di costi su altri – e poiché Medicare ha costi più contenuti della assicurazione privata, il risultato sarebbe stato una perdita netta. Ma ora il Congressional Budget Office ha rifatto la sua analisi, ed ha scoperto che elevare l’età per Medicare ridurrebbe a malapena la spesa federale.
La ragione fondamentale è l’influenza della selezione: molti anziani ottengono Medicare prima dei 65 anni in conseguenza di disabilità o di specifiche condizioni sanitarie. Quelli che devono attendere di raggiungere l’età definitiva sono, in media, relativamente in buona salute e di conseguenza relativamente economici.
Ecco dunque la mia domanda: si smetterà di parlare dell’innalzamento dell’età di ammissione a Medicare? La mia previsione è che non accadrà – perché sin dall’inizio in realtà la cosa non riguardava il risparmiare soldi. Peggiorare i sistemi della sicurezza sociale e spingere la gente verso la più costosa assicurazione privata non erano disfunzioni, erano gli aspetti peculiari. I soliti noti, prevedo, continueranno a spingere per la stessa cosa, trascurando ogni prova.
ottobre 24, 2013
October 24, 2013, 3:54 pm
Sorry about radio silence — family stuff and textbook deadlines fell in on me. But I would like to get in something about Greenspan’s new book.
It is, you won’t be surprised to learn, a really terrible book on multiple levels. No acceptance of responsibility for anything; he retails the same old Big Lie about how Fannie and Freddie somehow coerced Wall Street into making bad loans; etc., etc..
But I wanted to take on one point in particular: Greenspan thinks he has discovered a new law: transfers to individuals, even if fully paid for with taxes, reduce national savings one for one. You can bet that this claim will soon be popping up on the right as an established fact.
What drives Greenspan’s conclusion is mainly the sharp drop in overall saving during the Great Recession, combined with a temporary spike in transfers as a share of GDP, partly because of unemployment and food stamps, partly because GDP fell. But he wants us to see it as a long-term phenomenon, and of course as a reason to weaken the safety net.
The obvious answer is to look cross-country: European nations have much bigger welfare states than we do; do they have lower savings? No.
A quick-and-dirty version: I compare social expenditures as a share of GDP (from the OECD Factbook) with national savings rates for 2010 (from the IMF WEO database). It looks like this:
Strange to say, countries like Germany, Sweden, and France, with their big welfare states, actually save more than we do.
Greenspan: non c’è salvezza
Spiacente per il silenzio radio – questioni familiari e le scadenze del libro di testo mi sono cascate addosso. Ma vorrei dire qualcosa sul nuovo libro di Greenspan.
Non sarete sorpresi di apprendere che si tratta davvero di un libro terribile, da molti punti di vista. Nessuna ammissione di responsabilità su niente; rimette in circolazione la solita vecchia bugia su come Fannie e Freddie [1] in qualche modo costrinsero Wall Street a concedere cattivi prestiti etc. etc.
Ma intendevo affrontare un punto in particolare: Greenspan pensa di aver scoperto una nuova legge: i trasferimenti finanziari alle persone, anche se interamente coperti dalle tasse, riducono in pari misura il risparmio nazionale. Potete scommettere che questa pretesa ben presto salterà fuori a destra come un fatto stabilito.
Quello che spinge alla conclusione di Greenspan è principalmente la brusca caduta generale del risparmio durante la Grande Recessione, connessa con un picco temporaneo nei trasferimenti finanziari come parte del PIL, in parte a causa della disoccupazione e dei buoni alimentari, in parte perché il PIL calò. Ma lui vuole che lo consideriamo come un fenomeno di lungo periodo, ed ovviamente come un motivo per indebolire lo stato sociale.
La risposta ovvia è osservare in giro: le nazioni europee hanno stati sociali molto più forti del nostro; hanno anche risparmi minori? No.
Una versione approssimativa: confronto le spese sociali come percentuale del PIL (prendo i dati su OECD Factbook) con i tassi di risparmio nazionali (dal database di World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale). Ecco cosa appare:
Strano a dirsi, paesi come la Germania, la Svezia e la Francia, con i loro grandi stati sociali, effettivamente risparmiano più di noi [2].
[1] Il nome di due agenzie partecipate dal Governo federale che operano per la facilitazione dell’accesso alla proprietà della casa. I conservatori in questi anni hanno preteso che la responsabilità della crisi finanziaria fosse prevalentemente loro.
[2] E’ un dato abbastanza noto che anche l’Italia ha tassi di risparmio non trascurabili. Come si vede, siamo in linea con la Francia, un po’ sotto la Germania e l’Europa del Nord, meglio del Regno Unito e degli USA.
ottobre 22, 2013
October 22, 2013, 10:58 am
Oh, dear. I’m starting to notice a shift in the scare talk. Cries that we’re about to turn into Greece, Greece I tell you are getting a bit fainter, maybe because of what I’ve been writing. But taking their place are dire warnings that we’re endangering the dollar’s role as a reserve currency.
Urk. People who talk like this generally have no idea what they mean — that is, they have no idea what the dollar’s role really is, what might endanger that role, and why it matters (to the extent it does). In fact, I’d suggest that there’s almost a Godwin-like principle here, which is that any extended economic discussion ends up with people invoking the need to defend the dollar’s international role — which is in effect a concession that they’ve lost the rest of the argument.
So, what is the dollar’s international role? It is, in a sense, to other currencies the way money is to other assets, filling to some extent the classic three functions of medium of exchange, unit of account, and store of value. In talking about these roles you also want to distinguish between the role in private decisions and the role in official actions. So you get a matrix that looks like this:
Roles of the dollar
The dollar is, first of all, a vehicle currency (mainly in the interbank market) thanks to thick markets: if a bank wants to convert bolivars into zlotys, it will generally trade the bolivars for dollars, then the dollars for zlotys, rather than try to find someone wanting to make the reverse trade. It is the currency many though by no means all international transactions are invoiced in. And to some extent people hold dollars or dollar-denominated assets because the dollar is more liquid than other currencies.
Meanwhile, governments trying to prop their currencies up or hold them down often do so with trades against the dollar, even if they’re trying to affect some other exchange rate, again because of those thick markets. Some countries peg to the dollar, although not too many these days. And governments hold dollar-denominated reserves.
To some extent the dollar’s role here reflects self-sustaining increasing returns: people use dollars because the markets are thicker and more liquid, and the markets are thicker and more liquid because people use dollars. This circular nature of the position also arguably means that historical accident matters: the pound remained the world’s leading currency long after Britain had ceased to be the world’s leading economy (although Britain did do a lot of trade, so the case isn’t actually all that clear.) The same factor suggests that a temporary period of inflation or instability could dethrone the dollar more or less permanently.
But is this something we should worry about? First of all, it’s hard to see who really poses a threat to the dollar. You need free movement of capital, which rules out China for now, and deep financial markets; the euro used to look like a viable alternative, but its bond markets are now fragmented along national lines, which makes it much less plausible.
And even if the dollar loses some of its dominance, why should we get bent out of shape? There is no evidence that America is able to borrow dramatically more cheaply because of the dollar’s role (and anyway more foreign borrowing is not necessarily a good thing.) You often hear claims that we’ve only been able to run persistent trade deficits because of the special role of the dollar; this is just false, since other countries like Britain and Australia have been able to do the same thing.
What is true is that the large holdings of US currency outside the United States — largely in the form of $100 bills, held for obvious reasons — represent, in effect, a roughly $500 billion zero-interest loan to America. That’s nice, but even in normal times it’s only worth around $20 billion a year, or roughly 0.15 percent of GDP. And anyway, the euro has done well on that front too. If you like, South American drug lords hold dollars, Russian beeznessmen hold euros, and in both cases it’s a trivial subsidy to rich, huge economies.
The bottom line is that while saying “the international role of the dollar” sounds very sophisticated and important, the more you know about all this the less you care. This is simply not a big deal.
Godwin e il dollaro USA
Oddio! Sto cominciando a notare uno spostamento nei dibattiti che fanno paura. Gli strepiti sul fatto che siamo destinati a finire come la Grecia, nientedimeno, si attenuano un po’, forse per effetto di quello che scrivo. Ma ammonimenti terribili sul fatto che staremmo mettendo in pericolo il ruolo del dollaro come valuta di riserva stanno prendendo il loro posto.
Per la miseria! Le persone che dicono una cosa del genere in genere non hanno alcuna idea di cosa intendono – cioè, non hanno alcuna idea di cosa sia il dollaro realmente, di cosa possa mettere in pericolo il suo ruolo e del perché ciò sia importante (ammesso che lo sia). In pratica, io suggerirei che il questo caso ci sia quasi un principio simile a quello di Godwin [1], secondo il quale ogni prolungato dibattito economico finisce con persone che invocano il bisogno di difendere il ruolo internazionale del dollaro – che in effetti è come la ammissione di aver perso ogni residuo argomento.
Dunque, cosa è il ruolo internazionale del dollaro? In un certo senso, verso le altre valute, è quello che il denaro è nei confronti degli altri assets, ricoprendo in qualche misura le tre funzioni classiche di mezzo di scambio, di unità di conto e di riserva di valore. Nel parlare di questi ruoli, potete anche distinguere tra il ruolo nelle decisioni private e quello nelle azioni pubbliche. Avrete così una matrice che appare nel modo seguente:
Mezzo di scambio | Unità di conto | Riserva di valore | |
privato | veicolo | fattura | investimento |
pubblico | intervento | ancoraggio | riserva |
Funzioni del dollaro
Il dollaro, prima di tutto, è una valuta veicolo (principalmente nel mercato interbancario) grazie ai mercati ‘densi’ [2]; se una banca vuole convertire bolivars in zloti , generalmente scambierà i bolivars con dollari, poi i dollari in zloti, piuttosto che cercare qualcuno che voglia fare lo scambio inverso. E’ la moneta nella quale vengono fatturate molte anche se non tutte le transazioni internazionali. E in qualche misura le persone detengono dollari o assets espressi in dollari perché il dollaro è più liquido delle altre valute.
Contemporaneamente, i Governi nel cercare di sostenere le loro valute o di tenerle a freno lo fanno attraverso scambi con il dollaro, persino se stanno cercando di coinvolgere qualche altro tasso di cambio, ancora per le stesse ragioni di quei mercati densi. Alcuni paesi sono ancorati al dollaro, sebbene di questi tempi non così tanti. Ed i Governi detengono riserve espresse in dollari.
In questi casi in qualche misura il ruolo del dollaro riflette rendimenti crescenti che si auto sostengono: le persone usano i dollari perché i mercati sono più ‘densi’ e più liquidi perché le persone usano i dollari. Questa natura circolare della posizione significa anche probabilmente che i casi della storia sono importanti; la sterlina rimase la valuta guida del mondo molto tempo dopo che la Gran Bretagna aveva cessato di essere l’economia guida del mondo (sebbene la Gran Bretagna non avesse una corrispondente quantità di commerci, cosicché l’esempio effettivamente non è così chiaro). Lo stesso fattore suggerisce che un periodo provvisorio di inflazione o di instabilità potrebbe detronizzare il dollaro più o meno permanentemente.
Ma dovremmo preoccuparci per questo? Prima di tutto, è difficile vedere che cosa costituisca per davvero una minaccia per il dollaro. C’è bisogno di un movimento libero dei capitali, la qualcosa per il momento esclude la Cina ed i mercati finanziari ‘profondi’ [3]; si era soliti considerare l’euro come una alternativa praticabile, ma i suoi mercati obbligazionari sono ora segmentati per linee nazionali, il che lo rende molto meno plausibile.
E persino se il dollaro perdesse un po’ del suo dominio, perché dovremmo inquietarci? Non c’è alcuna prova che l’America sia capace di indebitarsi in modo spettacolarmente più conveniente per il ruolo del dollaro (e in ogni caso indebitarsi in una valuta straniera non è necessariamente una cosa positiva). Si sente spesso sostenere che saremmo stati nelle condizioni di gestire durevoli deficit commerciali in conseguenza del ruolo speciale del dollaro; questo è proprio falso, dal momento che altri paesi come il Regno Unito e l’Australia sono stati capaci di fare altrettanto.
Quello che è vero è che le grandi proprietà di valuta statunitense fuori dagli Stati Uniti – in gran parte nella forma di banconote da 100 dollari, detenuti per ragioni evidenti – rappresenti, in sostanza, approssimativamente 500 miliardi di dollari di prestito ad interesse zero per l’America. Si tratta di una circostanza piacevole, ma anche in tempi normali ha un valore soltanto di circa 20 miliardi all’anno, ovvero grosso modo dello 0,15 per cento del PIL. E in ogni caso anche l’euro ha avuto su quel fronte un beneficio analogo. Per dirla altrimenti, i signori della droga sudamericani detengono dollari, gli affaristi russi detengono gli euro, ed in entrambi i casi si tratta di un sussidio insignificante per le grandi economie ricche.
Morale della favola: se dire “il ruolo internazionale del dollaro” sembra una cosa davvero sofisticata ed importante, più che ne sapete di questa faccenda e meno che vi interessa. Semplicemente non è una questione rilevante.
[1] Michael Wayne “Mike” Godwin (nato il 1956), avvocato e scrittore americano, nel 1990 stabilì una regola, secondo la quale “nei dibattiti on-line, come diventano un po’ più lunghi, la probabilità che comincino ad apparire espressioni relative al nazismo o ad Hitler si avvicina alla unità”. Questo è diventato una specie di adagio di Internet, al punto che un accenno a cose del genere viene talora considerato come una fine della discussione, come arenatasi in una stupidità.
[2] Si definisce la crescita della densità di un mercato ogni incremento del numero effettivo di imprese in un dato mercato, nel senso che c’è un aumento della probabilità che ogni attore potrà, in un periodo di tempo dato, trovare un attore corrispondente con il quale realizzare guadagni dal commercio. E’ invece “sottile” (“thin”) un mercato con un basso numero di compratori e venditori; in un mercato “sottile” i prezzi sono spesso più volatili e gli assets meno liquidi.
[3] Si definisce ‘profondo’ un mercato – ad esempio un mercato azionario – nel quale la vendita e l’acquisto di un gran numero di quote non influenza drasticamente il prezzo.
ottobre 22, 2013
October 22, 2013, 8:00 am
The two Nicks, Crafts and Wolf, have a piece right up my alley: they argue that the cutting edge of Britain’s Industrial Revolution, the cotton textile industry, benefited hugely from agglomeration. Indeed, it was very concentrated in a small area:
What’s great about this, aside from the fact that I heart economic geography, is that the classic story of comparative advantage in trade is Ricardo’s example of English cloth being traded for Portuguese wine; now Crafts and Wolf suggest, in effect, that at least some of England’s comparative advantage in cloth came from external economies, not underlying national characteristics.
I think you would probably want to argue that increasing returns played only a limited role here in shaping the pattern of international trade, as opposed to the location of industry within Britain. That is, it’s a case of what I call increasing returns in a comparative advantage world. But it’s interesting to at least contemplate the possibility that but for the accidents of history, cotton cloth might have been made by the banks of the Tagus rather than in the region of the Mersey.
L’agglomerarsi di una rivoluzione
I due Nicks, Crafts e Wolf [1], scrivono un articolo su un tema che è nelle mie corde [2]: sostengono che il crinale divisorio della Rivoluzione Industriale britannica, l’industria tessile cotoniera, beneficiò largamente dai fenomeni di agglomerazione. In effetti essa fu concentrata in un’area piccola:
Ciò che è rilevante in questo, a parte il fatto che io ho a cuore la geografia economica, è che il classico racconto del vantaggio comparativo nel commercio è l’esempio di Ricardo dei tessuti inglesi che vengono scambiati con vino del Portogallo; ed ora Crafts e Wolf indicano che, in effetti, almeno qualche vantaggio comparativo nei tessuti venne da economie esterne, non da sottostanti caratteristiche nazionali.
Penso che si dovrebbe probabilmente sostenere che i rendimenti crescenti giocarono in questo caso soltanto un ruolo limitato nel dare forma allo schema del commercio internazionale, diversamente dalla localizzazione delle industrie in Gran Bretagna. Ovvero, questo è un caso di ciò che io definisco rendimenti crescenti in un mondo di vantaggi comparativi [3]. Ma è interessante per prendere almeno in considerazione la possibilità che non fosse stato per i casi della storia, i tessuti di cotone avrebbero potuto essere realizzati sulle sponde del Tago anziché nella regione del Mersey.
[1] Si tratta di due economisti, Nicholas Crafts (docente di economia e di storia economica all’Università di Warwick) e Nikolaus Wolf della Humboldt University di Berlino.
[2] “Right up may alley” può avere il significato di qualcosa che è alla propria altezza, che si è capaci di fare, o anche che è di mio gradimento. In questo caso, considerato che Krugman ha ricevuto il Premio Nobel per ricerche anche attinenti alla geografia economica, scelgo la soluzione che mi pare più adatta.
[3] Sia il vantaggio comparativo (o comparato) che i rendimenti crescenti sono due concetti economici particolarmente utilizzati nell’economia del commercio internazionale.
Iniziamo dal secondo, utilizzando la spiegazione di Krugman nel libro di testo di macroeconomia suo e di Robin Wells (che, per inciso, è anche sua moglie). Immaginiamo due individui naufragati in una stessa isola deserta, ed immaginiamo che uno dei due abbia una discreta abilità sia nel pescare che nel raccogliere noci di cocco – per combinazione, nella sua vita precedente era un agricoltore-pescatore; mentre l’altro non abbia alcuna abilità in nessuna delle due funzioni – nella sua vita precedente era, diciamo, un funzionario di partito. Se fossero stati entrambi abili in una delle due diverse attività – se uno fosse stato un ottimo pescatore e l’altro un ottimo raccoglitore – avrebbe potuto accordarsi in modo molto semplice: ognuno avrebbe fatto la attività nella quale eccelleva ed avrebbero potuto scambiarsi i prodotti in eccesso con evidente reciproca convenienza. Ma, come si è detto, il nostro caso è diverso: uno è abile in entrambe le cose, l’altro è poco adatto per entrambe. C’è qualche possibilità di un accordo conveniente per tutti e due?
La risposta è affermativa. Per comprenderlo, occorre avere in testa uno schema delle loro possibilità, considerando che ognuno di loro, a prescindere dalla sua abilità, avrà bisogno di tempo per fare entrambi i lavori, ed il tempo che dedica ad una lavoro non può dedicarlo all’altro. In altri termini: se mi dedico alle noci di cocco, in quel tempo rinuncio a dedicarmi ai pesci (ogni attività, cioè, ha quello che si definisce un suo “costo-opportunità”).
Ecco lo schema che spiega perché può intervenire tra i due soggetti un accordo soddisfacente per entrambi.
In assenza di scambio | In presenza di scambio | |||||
produzione | consumo | produzione | consumo | Benefici dello scambio | ||
Naufrago 1 | Pesce | 28 | 28 | 40 | 30 | + 2 |
Cocco | 9 | 9 | 0 | 10 | + 1 | |
Naufrago 2 | Pesce | 6 | 6 | 0 | 10 | + 4 |
cocco | 8 | 8 | 20 | 10 | + 2 |
Come si vede, in condizioni di assenza di scambio, si ipotizza che entrambi i naufraghi consumino quello che sono in grado di produrre; il naufrago 1, per effetto della sua maggiore abilità, produce di più e consuma di più. Ora, anche se il naufrago 2 è meno abile in entrambe le attività, come si vede sotto la voce “In presenza di scambio” è possibile una soluzione conveniente per entrambi. Il secondo naufrago spenderà tutto il suo tempo a raccogliere noci di cocco, passando da una produzione di 8 ad una produzione di 20. Il primo, invece, si dedicherà soltanto ai pesci, passando da una produzione di 28 ad una produzione di 40. Nell’ultima tabella si vede che ci sono benefici per entrambi. E questo è quello che si chiama vantaggio comparativo.
L’economista David Ricardo aveva introdotto questi concetti facendo gli esempi della produzione di cotone e di vino tra due paesi, la Gran Bretagna e il Portogallo. In quel caso, un ragionamento analogo doveva fare i conti con più fattori che nel caso precedente sono stati tutti riassunti nella abilità dei due soggetti: ad esempio, il clima, la produttività del lavoro e le tecnologie etc.
I rendimenti crescenti sono una altra causa che la teoria economica ha scoperto alla base del commercio internazionale. In questo caso citiamo per intero la spiegazione di Krugman-Wells: “La produzione di un bene è caratterizzata da rendimenti crescenti se la produttività del lavoro e di altre risorse aumenta all’aumentare della produzione. Per esempio, in un settore nel quale sono presenti rendimenti crescenti, un aumento della produzione del 10% potrebbe richiedere soltanto un 9% in più di lavoro ed un 9% in più di materie prime …. I rendimenti crescenti possono stimolare anche gli scambi internazionali. Se la produzione di un bene è soggetta a rendimenti crescenti, è ragionevole concentrare la produzione in pochi siti, ciascuno dei quali possa produrre in volumi elevati. Ma questo comporta anche che il bene sia prodotto solo in un piccolo numero di paesi, che poi esportano ad altri …”
E’ chiaro in che senso la concentrazione delle industrie in alcuni territori è un fattore fondamentale di rendimenti crescenti: tale concentrazione – o ‘agglomerazione’ – può consentire varie facilitazioni (nella logistica delle scorte e dei trasporti, nella formazione del lavoro, nella presenza di lavoro specializzato, nella consorziazione delle imprese, addirittura nella ideazione e sperimentazione di nuove soluzioni produttive derivante dalla concentrazione di attività etc).
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