October 21, 2013, 6:44 pm
Hmmm:
NPR media reporter David Folkenflik writes in his forthcoming book Murdoch’s World that Fox News’ public relations staffers used an elaborate series of dummy accounts to fill the comments sections of critical blog posts with pro-Fox arguments.
In a chapter focusing on how Fox utilized its notoriously ruthless public relations department in the mid-to-late 00’s, Folkenflik reports that Fox’s PR staffers would “post pro-Fox rants” in the comments sections of “negative and even neutral” blog posts written about the network. According to Folkenflik, the staffers used various tactics to cover their tracks, including setting up wireless broadband connections that “could not be traced back” to the network.
I think one can safely assume that Fox News wasn’t the only organization employing sock puppets. Some commenters on various blogs, including this one, are pretty obviously professional trolls. I’ve banned some of them — and banned what were obviously the same people coming back under a variety of names.
In general, if your reaction to some comments is that nobody could really be that stupid, it may be that you are just underestimating the power of stupidity — but it may also be that nobody is, in fact, that stupid, but that someone has been employed to play stupid for fun and profit.
L’attacco dei cloni [1]
Ma guarda!
“Il giornalista della emittente radiofonica NPR [2] David Folkenflik scrive nel suo libro di prossima pubblicazione ‘Il mondo di Murdoch’, che i redattori di Fox News addetti alle pubbliche relazioni erano soliti sviluppare una serie di posizioni fittizie per riempire le sezioni dei commenti di corrispondenza critica verso il blog di argomenti pro-Fox.
In un capitolo che mette a fuoco come la Fox utilizzava il suo notoriamente privo di scrupoli dipartimento delle pubbliche relazioni nel periodo dalla metà alla fine degli anni 2000, Folkenflik racconta che gli addetti alle pubbliche relazioni di Fox volevano “tirate favorevoli alla Fox” nella sezione commenti della corrispondenza dei blog che si occupavano della rete in modo “critico ed anche neutrale”. Secondo Folkenflik i redattori usavano varie tattiche per coprire le loro tracce, compresa la realizzazione di connessioni in rete senza fili in banda larga [3] “che non potevano essere rintracciate”.
Penso che si possa tranquillamente considerare che Fox News non fosse l’unica organizzazione ad utilizzare cloni. Alcuni commentatori su vari blog, compreso il presente, sono abbastanza chiaramente professionisti della provocazione [4]. Ne ho scacciati alcuni – ed ho scacciato coloro che erano evidentemente le stesse persone che si ripresentavano sotto vari nomi.
In generale, se la vostra reazione a qualche commento è che nessuno potrebbe realmente essere così stupido, può darsi che stiate soltanto sottostimando il potere della stupidità – ma può anche darsi che, pur non essendo nessuno così stupido, c’è qualcuno che lo ha impiegato per fare lo stupido per spasso e per profitto.
[1] Il termine sockpuppet (proveniente dalla lingua inglese, la cui traduzione letterale è calzino fantoccio, in italiano reso a volte con fantasmino o clone) nel gergo di internet, si riferisce ad un account aggiuntivo creato da un membro già iscritto ad una comunità di Internet.
[2] Ovvero: National Public Radio.
[3] Il termine è verificato. Mi pare dovrebbe significare che in corrispondenza di una rete a banda larga possono agire connessioni “wireless”. Ma il “network” finale dovrebbe essere Fox News medesimo, se non sbaglio.
[4] “Troll” è un termine, mi pare, di non semplice traduzione, ma sta a significare precisamente, almeno nel linguaggio informatico, coloro che si dedicano ad azioni di disturbo.
ottobre 21, 2013
October 21, 2013, 2:02 pm
Raj Chetty stands up valiantly for the honor of his and my profession, arguing that economics is too a science in which careful research is used to falsify some hypotheses and lend credibility to others. And in many ways I agree: there is a lot of good research in economics, maybe more than ever as the focus has shifted somewhat from theoretical models loosely inspired by observation — which, as he suggests, was my forte — to nitty-gritty empirical work.
But while there are clearly scientific elements in economics, a lot of economists aren’t behaving like scientists. Look at Chetty’s examples of scientific work that informs current policy debates:
Consider the politically charged question of whether extending unemployment benefits increases unemployment rates by reducing workers’ incentives to return to work. Nearly a dozen economic studies have analyzed this question by comparing unemployment rates in states that have extended unemployment benefits with those in states that do not. These studies approximate medical experiments in which some groups receive a treatment — in this case, extended unemployment benefits — while “control” groups don’t.
These studies have uniformly found that a 10-week extension in unemployment benefits raises the average amount of time people spend out of work by at most one week. This simple, unassailable finding implies that policy makers can extend unemployment benefits to provide assistance to those out of work without substantially increasing unemployment rates.
Other economic studies have taken advantage of the constraints inherent in a particular policy to obtain scientific evidence. An excellent recent example concerned health insurance in Oregon. In 2008, the state of Oregon decided to expand its state health insurance program to cover additional low-income individuals, but it had funding to cover only a small fraction of the eligible families. In collaboration with economics researchers, the state designed a lottery procedure by which individuals who received the insurance could be compared with those who did not, creating in effect a first-rate randomized experiment.
The study found that getting insurance coverage increased the use of health care, reduced financial strain and improved well-being — results that now provide invaluable guidance in understanding what we should expect from the Affordable Care Act.
OK, he’s right that these two examples show how evidence could be used to inform policy debate (although understanding the effects of unemployment insurance, I would argue, requires embedding it in a macro story about how the number of jobs is determined.) But are such results actually being used to inform policy debate? Have conservative economists like Casey Mulligan said “OK, we were wrong to argue that extended unemployment benefits are the cause of high unemployment”? Have economists who oppose Obamacare said, “OK, we were wrong to say that Medicaid hurts its recipients?”
You know the answer.
And it’s not just policy debates. Whole subfields of economics, notably but not only business-cycle macro, have spent decades chasing their own tails because too many economists refuse to accept empirical evidence that rejects their approach.
The point is that while Chetty is right that economics can be and sometimes is a scientific field in the sense that theories are testable and there are researchers doing the testing, all too many economists treat their field as a form of theology instead.
Forse l’economia è una scienza, ma molti economisti non sono scienziati
Ray Chetty prende posizione con vigore a favore della sua e della mia disciplina, sostenendo che anche l’economia è una scienza nella quale si può utilizzare una ricerca scrupolosa per smascherare alcune ipotesi e dare credibilità ad altre. Sono d’accordo in molti sensi: in economia ci sono una quantità di buone ricerche, forse più che mai in precedenza, dal momento in cui l’attenzione si è spostata dai modelli teorici genericamente ispirati dall’osservazione – che, come lui dice, era il mio cavallo di battaglia – alla sostanza del lavoro empirico.
Ma se ci sono chiaramente elementi scientifici in economia, un buon numero di economisti non si stanno comportando come scienziati. Si vedano gli esempi di Chetty sul lavoro scientifico che orienta gli attuali dibattiti politici:
“Si consideri la domanda politicamente rilevante se estendere i sussidi di disoccupazione accresca i tassi di disoccupazione riducendo gli incentivi a tornare al lavoro. Pressoché una dozzina di studi hanno analizzato questa domanda confrontando i tassi di disoccupazione negli Stati che hanno esteso i sussidi di disoccupazione con quelli che non l’hanno fatto. Questi studi assomigliano agli esperimenti sanitari nei quali alcuni gruppi ricevono un trattamento – in questo caso la prosecuzione dei sussidi di disoccupazione – mentre i gruppi “di controllo” non li ricevono.
Questi studi hanno uniformemente scoperto che una proroga di dieci settimane nei sussidi di disoccupazione accresce la quantità media di tempo che le persone passano fuori dal lavoro al massimo di una settimana. Questa scoperta, semplice ed incontestabile, comporta che gli operatori politici possono prorogare i sussidi di disoccupazione per fornire assistenza a coloro che sono fuori dal lavoro senza accrescere sostanzialmente i tassi di disoccupazione.
Altri studi economici hanno fatto uso delle limitazioni derivanti da una particolare politica per ottenere prove scientifiche. Un recente eccellente esempio riguarda la assicurazione sanitaria in Oregon. Nel 2008 lo Stato dell’Oregon decise di ampliare il suo programma statale di assicurazione sanitaria per coprire un numero maggiore di persone a basso reddito, ma aveva finanziamenti sufficienti a coprire solo una piccola frazione delle famiglie che ne avevano diritto. In collaborazione con ricercatori economici, lo Stato stabilì una procedura del genere di una lotteria, secondo la quale coloro che ricevevano l’assicurazione potevano essere confrontati con quelli che non la ricevevano, determinando in effetti un esperimento random di prima qualità.
Lo studio scoprì che l’ottenimento della copertura assicurativa incrementava l’uso della assistenza sanitaria, riduceva lo sforzo finanziario e migliorava il benessere – risultati che ora forniscono una guida di valore inestimabile nel comprendere quello che ci si dovrebbe attendere dalla ‘Legge sulla Assistenza Sostenibile’.
E’ vero, Chetty ha ragione nel dire che questi due esempi mostrano come le prove potrebbero essere utilizzate per orientare il dibattito politico (sebbene riterrei che la comprensione degli effetti della assicurazione di disoccupazione richieda di essere inserita entro una macro storia su come viene determinato il numero dei posti di lavoro). Ma tali risultati sono effettivamente utilizzati per orientare il dibattito politico? Economisti conservatori come Casey Mulligan hanno detto “Va bene, abbiamo sbagliato a sostenere che la proroga dei sussidi di disoccupazione è causa delle elevata disoccupazione”? Gli economisti che si oppongono alla riforma sanitaria di Obama hanno detto “E’ vero, abbiamo sbagliato a dire che Medicaid danneggia i beneficiari del programma?”
Sapete la risposta.
E non si tratta soltanto dei dibattiti politici. Interi sottosettori dell’economia, in particolare ma non soltanto la macroeconomia dei cicli economici, hanno speso decenni nel girare su se stessi perché troppi economisti rifiutano di accettare le prove empiriche che contestano il loro approccio.
Il punto è che mentre Chetty ha ragione nel dire che l’economia può essere e talvolta è una disciplina scientifica, nel senso che le teorie sono verificabili ed esistono ricercatori che fanno quelle verifiche, anche troppi economisti trattano piuttosto la loro disciplina come una sorta di teologia.
ottobre 21, 2013
October 21, 2013, 1:33 pm
As some readers may have guessed, a number of my recent blog posts have in effect been notes on the way toward my paper and presentation here. I have gotten somewhat obsessed with the question of whether a Greek-style crisis is possible for a country like the United States, and with the amazing way that the conviction that it is has taken root among policy elites without, as far as I can tell, any attempt to explain the actual mechanism.
And by the way: yes, a decade ago I expressed similar worries. But when I learn new things, I change my views. What do you do?
So let me add another piece, partly as a way to make sure that I don’t forget about it in my own writing, and let’s talk about contemporary Japan.
First of all, compare and contrast. Here, again, is Erskine Bowles warning, in March 2011, that terrible things will happen if China stops buying our bonds:
[T]his is a problem we’re going to have to face up to. It may be two years, you know, maybe a little less, maybe a little more. But if our bankers over there in Asia begin to believe that we’re not going to be solid on our debt, that we’re not going to be able to meet our obligations, just stop and think for a minute what happens if they just stop buying our debt.
But just a few months earlier Japan was also worried about Chinese purchases of their debt — worried not that China would stop buying, but about the effects of China starting to buy:
Japan’s government said it will seek discussions with China over the nation’s record purchases of Japanese bonds as an appreciating yen threatens to undermine an economic recovery.
Japan is closely watching the transactions and will seek to maintain close contact with Chinese authorities on the issue, Vice Finance Minister Naoki Minezaki told lawmakers in Tokyo. Finance Minister Yoshihiko Noda suggested at the same hearing that it’s inappropriate for China to buy Japan’s bonds without a reciprocal ability for Japanese to invest in China’s market.
Funny: Japan didn’t seem to think that China was doing it a favor by buying its debt, even though Japan has a much higher debt ratio than we do. And for these purposes, Japan looks a lot like us: it’s an advanced nation that borrows in its own currency and finds monetary policy constrained by the zero lower bound.
It’s instructive here to look at Japan’s real effective exchange rate since the beginning of the economic crisis:
Bank for International Settlements
You can see why Japan was complaining about the high value of the yen. What was causing that? Not so much Chinese purchases, I’d argue, as ingrained deflation. Once the whole advanced world found itself with zero nominal interest rates, Japan — where people had come to expect deflation at around 1 percent a year, compared with expectations of around 2 percent inflation in the US and elsewhere — was offering higher real interest rates than its counterparts. The result was a strong yen, which was exactly what a liquidity-trap economy didn’t need.
As you can see, however, more recently the yen has declined steeply. What’s that about? The answer is, Abenomics, which has successfully, at least for now, convinced investors that the Bank of Japan has changed its spots and will keep the pedal to the metal for a long time even after moderate inflation sets in.
And think about it: what Abenomics is trying to do, although it’s not stated that way, is reduce investor confidence in Japanese bonds — it’s trying to convince buyers of JGBs that the value of those bonds will in fact be eroded by inflation, not swelled by deflation. So far, it has succeeded.
So has this loss of confidence led to rising Japanese interest rates and a recession? Well, no:
So Japan has, in effect, engineered the very kind of loss in confidence that politicians in the US and the UK warn, in dire terms, will be our doom unless we cut social programs. And it has been an unambiguous good thing for the Japanese economy.
Now, I’m sure many people will argue that a Chinese loss of confidence in America would play out very differently. But why, exactly? Show me the model — and don’t tell me that it must be true because those great experts in open-economy macroeconomics Erskine Bowles or Admiral Mullen say so.
La politica economica di Bowles a confronto con quella di Abe
Come molti lettori hanno intuito un certo numero di miei recenti posts sono stati in effetti appunti nella prospettiva di un mio saggio e della sua presentazione in questa sede [1]. Mi sono un po’ fissato sul tema se una crisi di tipo greco sia possibile per un paese come gli Stati Uniti, e sul modo stupefacente nel quale tale convincimento ha preso piede nei gruppi dirigenti della politica senza che, per quanto ne so, ci sia stato nessun tentativo di spiegarne il meccanismo effettivo.
E, per inciso, è vero che un decennio orsono io espressi preoccupazioni simili. Ma quando imparo cose nuove, io cambio le mie opinioni. Voi che fate?
Consentitemi di aggiungere, dunque, un altro pezzo, in parte come modo per assicurami di non dimenticarlo nel mio scritto, e consentitemi di parlare del Giappone dei nostri giorni.
Prima di tutto, un confronto ed una opposizione. Ecco, nuovamente, l’ammonimento di Erskine Bowles nel marzo del 2011, secondo il quale cose terribili sarebbero accadute se la Cina avesse smesso di acquistare le nostre obbligazioni sul debito:
“Questo è un problema con il quale siamo destinati a fare i conti. Sarà tra un anno o due, sapete, forse un po’ di più, forse un po’ di meno. Ma se i nostri banchieri laggiù in Asia cominciano a credere che non saremo affidabili sul nostro debito, che non saremo capaci di far fronte alle nostre obbligazioni, fermatevi e pensate un istante a quello che accadrebbe se decidessero proprio di smettere di acquistare il nostro debito.”
Ma solo pochi mesi prima anche il Giappone di allora era preoccupato dell’acquisto delle proprie obbligazioni da parte dei cinesi – preoccupato non che la Cina smettesse di comperare, ma sugli effetti se avesse cominciato ad acquistarle:
“Il Governo del Giappone ha riferito che cercherà di confrontarsi con la Cina a proposito del livello record di quella nazione nell’acquisto di bonds giapponesi, in quanto minaccia di una rivalutazione dello yen che metterebbe a repentaglio una ripresa dell’economia.
Il Viceministro delle Finanze Naoki Minezaki ha riferito ai parlamentari a Tokio che i l Giappone sta seguendo da vicino le transazioni e cercherà di mantenere stretti contatti con le autorità cinesi su quel tema. Il ministro delle Finanze Yoshihiko Noda, nell’ambito della stessa audizione, ha indicato che sarebbe incongruo acquistare bonds giapponesi da parte della Cina senza una reciproca possibilità per i giapponesi di investire sul mercato cinese.”
Strano: il Giappone non sembra pensare che la Cina stia facendo un favore acquistando le sue obbligazioni sul debito, anche se il Giappone ha una percentuale di debito molto più elevata della nostra. E sotto questi aspetti, il Giappone ci assomiglia molto: è una nazione avanzata che si indebita nella sua propria valuta e si ritrova con una politica monetaria condizionata dal limite inferiore dello zero [2].
A questo proposito, è istruttivo osservare l’effettivo tasso di cambio reale del Giappone dal momento in cui la crisi economica è cominciata:
Banca dei Regolamenti Internazionali
Vi potete render conto del motivo per il quale il Giappone si stava lamentando per l’alto valore dello yen. Cosa stava provocando tutto ciò? Non erano tanto gli acquisti da parte dei cinesi, voglio supporre, data la deflazione cronica. Una volta che il mondo intero si era ritrovato con tassi di interesse nominali pari a zero, il Giappone – dove le persone sono arrivate ad aspettarsi una deflazione di circa l’1 per cento all’anno, a confronto di aspettative di circa il 2 per cento di inflazione negli Stati Uniti ed altrove – stava offrendo tassi di interesse reali più elevati delle sue controparti. Il risultato era uno yen più forte, ovvero esattamente quello di cui un’economia in trappola di liquidità non ha bisogno.
Come vi siete accorti, tuttavia, di recente lo yen è bruscamente calato di valore. Da cosa è dipeso? La risposta è: la politica economica di Abe [3],che ha convinto con successo gli investitori, almeno per ora, che la Banca del Giappone ha cambiato le sue abitudini e che spingerà sull’acceleratore per un tempo prolungato, anche dopo che una moderata inflazione avrà preso piede.
E pensate a questo: quello che sta cercando di fare la politica economica di Abe, per quanto essa non sia stata resa esplicita in quel modo, è ridurre la fiducia degli investitori nei bonds giapponesi – essa sta cercando di convincere gli acquirenti dei bonds del Governo del Giappone [4] che il valore di quei bonds sarà di fatto eroso dall’inflazione, non gonfiato dalla deflazione. Sinora essa ha avuto successo.
Così, questa perdita di fiducia ha portato ad una crescita dei tassi di interesse del Giappone ed a una recessione? Ebbene, no:
Dunque, il Giappone ha effettivamente congegnato quella vera e propria perdita di fiducia contro la quale gli uomini politici negli Stati Uniti e nel Regno Unito mettono in guardia, affermando, con espressioni tremende, che sarà la nostra rovina se non tagliamo i programmi della sicurezza sociale. E si è trattato senza tema di smentite di una ottima cosa per l’economia giapponese.
Ora, io sono certo che molte persone sosterranno che una perdita della fiducia dei cinesi sull’America funzionerebbe in modo molto diverso. Ma per quale ragione, esattamente? Mostratemi il modello – e non raccontatemi che deve essere vero perché lo dicono quei grandi esperti di teoria economica delle economie aperte che sono Erskine Bowles o l’Ammiraglio Mullen [5].
[1] Il link mostra il programma di una prossima iniziativa del Fondo Monetario Internazionale a Washington (14° Conferenza Annuale di Ricerca intitolata a Jacques Polak – un economista olandese deceduto nel 2010, che tra l’altro fu membro della delegazione olandese a Bretton Woods nel 1944, quando si decise la creazione del Fondo Monetario Internazionale). Il pomeriggio del 7 novembre in quella sede avrà luogo una conferenza di Paul Krugman, introdotta da Olivier Blanchard, Direttore del FMI. Oggetto: “Regimi valutari, flussi di capitali e crisi”.
[2] Per “zero lower bound” vedi le note sulla traduzione.
[3] Abenomics è il termine con il quale gli americani definiscono la politica economica di Shinzo Abe, il Primo Ministro del Giappone.
[4] JGB sta per “Japanese Government Bond”.
[5] Non so spiegare a che titolo l’Ammiraglio Mullen entri come esperto, sia pure discutibile, di cose economiche. E’ un ufficiale della Marina americana in pensione, che ha avuto notorietà sia mentre era in servizio che successivamente, per alcune opinioni espresse su tematiche della “sicurezza”. Però negli ultimi anni è entrato a far parte del Consiglio di Amministrazione della General Motors …
ottobre 20, 2013
October 20, 2013, 2:56 pm
Here’s Erskine Bowles in March 2011:
[T]his is a problem we’re going to have to face up to. It may be two years, you know, maybe a little less, maybe a little more. But if our bankers over there in Asia begin to believe that we’re not going to be solid on our debt, that we’re not going to be able to meet our obligations, just stop and think for a minute what happens if they just stop buying our debt.
Strange to say, however, neither Bowles nor anyone else of similar views has, as far as I can tell, actually done what he urged: “stop and think for a minute what happens if they just stop buying our debt.” They just assume that it would be catastrophic, without laying out any kind of model of how that would work.
I, on the other hand, have worked out two models, one ad hoc and the other a more buttoned-down New Keynesian-type model — and they just don’t support Bowles’s worries.
Some commenters here have declared it obvious that a cutoff of Chinese funds would drive up interest rates, saying that it’s just supply and demand. That struck me, because it’s exactly what George Will said when I tried to argue, back in 2009, that budget deficits need not lead to high interest rates when the economy is depressed. And in fact the argument that foreigners will reduce their lending to us, sending rates higher, and shrinking the economy even though we have our own currency and monetary policy is, when you think about it, more or less isomorphic to the famously wrong argument that fiscal expansion is contractionary, because it will drive up interest rates.
I am, by the way, grateful to those commenters — thinking about the equivalence of the China-debt and deficit-interest fallacies nudged me into a better, simpler formulation of my NK model, which I’ll say more about in a few days. And my model-building has, in turn, given me a new way to talk about what’s going on.
So, here we go. Start from the observation that the balance of payments always balances:
Capital account + Current account = 0
where the capital account is our sales of assets to foreigners minus our purchases of assets from foreigners, and the current account is our sales of goods and services (including the services of factors of production) minus our purchases of goods and services. So in the hypothetical case in which foreigners lose confidence and stop buying our assets, they’re pushing our capital account down; as a matter of accounting, then, our current account balance must rise.
But what’s the mechanism? (Remember the fallacy of immaculate causation.) The answer is, it depends on the currency regime.
If you’re Greece, the way it works is indeed that interest rates soar, depressing demand and compressing imports until the current account has risen enough; unfortunately, demand for domestic goods falls too, so you have a nasty slump.
But if you’re America or Britain, the central bank sets interest rates, and under current conditions that means holding them at zero. So what happens instead is that your currency depreciates, making exporters and import-competing industries more competitive. The effect on the economy as a whole is therefore expansionary, not contractionary.
Things might be different if the private sector had large debts in foreign currency, as was true in Asia in the 90s. But it doesn’t.
So the conventional wisdom about how we have to fear a Chinese bond-buying strike just doesn’t make sense — and in fact it falls down in exactly the same way as fallacious arguments about the harm done by fiscal deficits in a depressed economy; basically, Erskine Bowles is making the same error as whatshisname.
You may find it hard to believe that so many important and influential people could be dead wrong about the basic economics of our situation. But as far as I can tell, this is simply something “everyone knows”, and none of them have ever thought it through.
Preferenza per la liquidità, fondi mutuabili ed Erskine Bowles
Citazione da Erskine Bowles [1] del marzo del 2011:
“Questo è un problema con il quale siamo destinati a fare i conti. Sarà tra un anno o due, sapete, forse un po’ di più, forse un po’ di meno. Ma se i nostri banchieri laggiù in Asia cominciano a credere che non saremo affidabili sul nostro debito, che non saremo capaci di far fronte alle nostre obbligazioni, fermatevi e pensate un istante a quello che accadrebbe se decidessero proprio di smettere di acquistare il nostro debito.”
Strano a dirsi, tuttavia, né Bowles né chiunque altro con simili punti di vista, per quanto ne so, ha effettivamente fatto quello che sollecitavano a fare: fermarsi e riflettere per un istante a quello che sarebbe accaduto se i cinesi avessero smesso di acquistare il nostro debito. Hanno solo assunto che sarebbe stato catastrofico, senza tirar giù un modello qualsiasi su come avrebbe funzionato.
Io, per mio conto, ho lavorato su due modelli, uno ad hoc e l’altro un più tradizionalista modello di tipo neo keynesiano – ed essi proprio non confermano le preoccupazioni di Bowles.
Alcuni commentatori hanno dichiarato che in questo caso è evidente che un taglio dei finanziamenti cinesi avrebbe spinto in alto i tassi di interesse, dicendo che sarebbe stato niente altro che il meccanismo dell’offerta e della domanda. Questo mi ha colpito, perché è esattamente quello che disse George Will quando, nel passato 2009, cercai di argomentare che i deficit di bilancio non portano necessariamente ad alti tassi di interesse, quando l’economia è depressa. E di fatto l’argomento che gli stranieri ridurranno i loro prestiti verso di noi, spedendo i tassi più in alto, e restringendo l’economia anche se abbiamo la nostra valuta e la nostra politica monetaria è, se ci pensate, più o meno perfettamente sovrapponibile al notoriamente sbagliato argomento secondo il quale l’espansione della finanza pubblica è restrittiva, perché spinge in alto i tassi di interesse.
Per inciso, sono grato a quei commentatori – riflettere sulla equivalenza dell’errore sul debito cinese e di quello sul nesso tra deficit e interesse mi ha spinto ad una migliore e più semplice formulazione del mio modello neokeynesiano, della qualcosa dirò di più nei prossimi giorni. E il mio lavoro sui modelli, a sua volta, mi ha fornito un nuovo modo per descrivere cosa sta succedendo.
Dunque, procediamo. Partiamo dall’osservazione secondo la quale la bilancia dei pagamenti è sempre in equilibrio:
Conto capitale + Conto corrente = 0
dove il conto capitale sono le nostre vendite di assets agli stranieri meno i nostri acquisti di assets dagli stranieri, e il conto corrente sono le nostre vendite di beni e servizi (includendo i servizi dei fattori della produzione) meno i nostri acquisti di beni e servizi. Dunque, nel caso ipotetico che gli stranieri perdessero fiducia e smettessero di acquistare i nostri assets, essi spingerebbero verso il basso il nostro conto capitale; in termini di contabilità, dunque, il nostro conto corrente dovrebbe salire.
Ma in cosa consiste il meccanismo? (Si ricordi l’errore della ‘immacolata causalità’[2]) La risposta è: dipende dal regime valutario.
Se siete la Grecia, il modo in cui esso in effetti opera è che i tassi di interesse schizzano alle stelle, deprimendo la domanda e comprimendo le importazioni sinché il conto corrente non sia salito a sufficienza; sfortunatamente, cade anche la domanda di beni domestici, cosicché avete uno sgradevolissimo crollo.
Ma se siete l’America o il Regno Unito, la banca centrale fissa i tassi di interesse, e nelle attuali condizioni questo significa che li mantiene a zero. Quello che dunque accade è che piuttosto la vostra moneta si svaluta, rendendo gli esportatori e le industrie in competizione con l’import più competitive. L’effetto sull’economia è nel suo complesso, di conseguenza, espansivo e non restrittivo.
Le cose possono essere diverse se il settore privato ha larghi debiti in valuta straniera, come avvenne in Asia negli anni ’90. Ma non è questo il caso.
Dunque, il senso comune secondo il quale dobbiamo aver paura di uno sciopero dei cinesi nell’acquisto di obbligazioni non ha proprio senso – e di fatto viene meno esattamente nello stesso modo in cui vengono meno gli argomenti erronei sul danno che verrebbe dai deficit della finanza pubblica in una economia depressa; fondamentalmente, Erskine Bowles sta facendo lo stesso errore di “come-si-chiama” [3].
Potete trovare difficile credere che molte persone importanti ed influenti sbaglino in modo così plateale sugli aspetti economici di fondo della nostra situazione. Ma, per quanto posso dire, si tratta di cose che passano per essere ovvie, e nessuno di loro si è mai dato la pena di rifletterci.
[1] Democratico americano, già collaboratore di Clinton, Copresidente della Commissione sulla Responsabilità e la Riforma della Finanza Pubblica.
[2] Vedi post precedente del 16 ottobre.
[3] “Whatshisname” (come “whatshisface”) è una espressione che si usa quando non si ricorda il nome di qualcuno. Non è chiaro a chi si riferisca, perché colui che aveva sostenuto lo stesso argomento dell’aumento dei tassi di interesse era George Will, noto giornalista conservatore (negli anni ’80 definiti come il più importante negli Stati Uniti dal Wall Street Journal), ma lo ha appena citato sopra. A meno che … non si voglia riferire al nome stesso di Bowles – Erskine – che secondo UrbanDictionary è un “Tizio che sa come far ridere tutti in una festa, l’anima della festa”.
ottobre 19, 2013
October 19, 2013, 10:38 am
Antonio Fatas, citing new work by Andy Rose (pdf), suggests that currency regimes don’t really matter — in particular that membership in the euro has not really been a special problem for peripheral countries.
Challenging preconceptions is always good, and this is a serious debate. I am still, however, very much on the other side. I’d argue two points.
First, nominal wage stickiness — the key argument for the virtues of floating exchange rates — is an overwhelmingly demonstrated fact. Rose doesn’t offer reasons why this doesn’t matter; he just offers a reduced-form relationship between currency regimes and economic performance, and fails to find a significant effect. Is this because there really is no effect, or because his tests lack power?
Second, there is the very striking empirical observation that debt levels matter much less for countries with their own currency than for those without. Here’s one view of the relationship between debt levels and borrowing costs (data from Greenlaw et al):
And here’s another view of the same data, with euro members identified:
It sure looks as if debt matters only for those on the euro, doesn’t it? For what it’s worth, here’s a regression of interest rates on debt that uses a dummy for euro membership, and allows an interaction between that dummy and debt:
Indeed: debt only seems to matter for euro nations.
So I don’t buy the notion that the currency regime is irrelevant. But clearly the Rose results need to be taken seriously, and we have to figure out why he finds what he does.
I regimi valutari sono importanti?
Antonio Fatas, citando il nuovo lavoro di Andy Rose (disponibile in pdf), suggerisce che i regimi monetari in realtà non contino – in particolare che la partecipazione all’euro non sia stata un problema speciale per i paesi della periferia europea.
Sfidare i preconcetti è sempre bene, e questo è un dibattito serio. Tuttavia, io sono ancora in gran parte di una opinione diversa. Sosterrei due punti.
In primo luogo la rigidità dei salari nominali – l’argomento chiave sulle virtù dei tassi di cambio fluttuanti – è un fatto dimostrato in modo schiacciante. Rose non avanza ragioni per le quali questo non avrebbe importanza; offre soltanto una relazione in forma ridotta tra i regimi valutari e le prestazioni economiche, e non riesce a trovare un effetto significativo. Perché in realtà non c’è alcun effetto, o perché le sue prove difettano di forza persuasiva?
In secondo luogo, c’è una osservazione empirica assai impressionante per la quale i livelli del debito contano molto meno per i paesi che dispongono di valuta propria rispetto a quelli che ne sono privi. Ecco un punto di vista sulla relazione tra livelli del debito e costi dell’indebitamento (dati provenienti da Greenlaw ed altri):
Ed ecco un’altra versione degli stessi dati, nella quale i paesi membri dell’euro sono identificabili (pallini arancioni) [1]:
A quanto pare il debito è importante soltanto per coloro che sono nell’euro, non è così? Per quello che vale, c’è come una regressione dei tassi di interesse sul debito che utilizza una simulazione per la partecipazione all’euro, e consente una interazione tra quella simulazione e il debito [2]:
In effetti, il debito sembra conti esclusivamente per i paesi dell’euro.
Dunque, non accetto su due piedi che il regime valutario sia irrilevante. Ma chiaramente i risultati di Rose devono essere presi sul serio, e dobbiamo provare a immaginare perché egli trovi quello che dice.
[1] Sull’asse verticale i tassi di interesse sui bonds decennali; sull’asse orizzontale il rapporto tra debito e PIL.
[2] Forse vuol dire che appare un valore di riferimento per i paesi dell’euro, cui però si aggiunge una variazione che è determinata dalla distanza tra quel valore ed i livelli del debito effettivi dei vari paesi. “Dummy” sta anche per “facsimile”, “fantoccio”.
ottobre 19, 2013
October 19, 2013, 10:19 am
Yes — if back in 2007 you denied the existence of liquidity traps, that is, denied that the zero lower bound on short-term interest rates places limits on monetary policy, you should long since have acknowledged that you were very, very wrong:
Since late 2007 the monetary base has risen more than 300 percent, while GDP and consumer prices have risen less than 20 percent. And no, the disconnect is not all due to the 0.25 percent interest rate the Fed pays on reserves.
You can argue that the Fed could have done more — it could have expanded its balance sheet even further, and/or moved into riskier assets, and/or done more to change expectations. But I don’t see how you can deny that making monetary policy effective has been far harder since we hit the ZLB than it was before, and that this retroactively casts great doubt on Friedman’s claims that the Fed could easily have prevented the Great Depression.
Negazionismo del limite inferiore dello zero [1]
Sì – se nel passato 2007 si negava l’esistenza delle trappole di liquidità, ovvero si negava che il limite inferiore dello zero sui tassi di interesse a breve termine fissasse dei limiti alla politica monetaria, si dovrebbe aver riconosciuto da lungo tempo che si aveva davvero torto [2]:
A partire dal 2007 la base monetaria è cresciuta del 300 per cento, mentre il PIL ed i prezzi al consumo sono cresciuti meno del 20 per cento. E la disconnessione non deriva proprio dallo 0,25 per cento del tasso di interesse che la Fed paga sulle riserve [3].
Si può sostenere che la Fed potrebbe aver fatto di più – potrebbe aver ampliato i suoi equilibri patrimoniali persino ulteriormente, e/o essersi indirizzata verso assets più rischiosi, e/o aver fatto di più per modificare le aspettative. Ma non vedo come si possa negare che dare efficacia alla politica monetaria è stato di gran lunga più difficile dal momento in cui abbiamo sbattuto nel ‘limite inferiore dello zero’ e che, retrospettivamente, questo costituisce un gran dubbio sugli argomenti di Friedman secondo i quali la Fed avrebbe potuto prevenire la Grande Depressione .
[1] Per ‘zero lower bound’ vedi le note sulla traduzione.
[2] La tabella indica l’andamento, dal 2007 ad oggi, della basa monetaria (degli USA, linea blu), dei prezzi al consumo (linea arancione) e del PIL (linea verde).
[3] C’è stato che ha suggerito, tra i negazionisti della trappola di liquidità, persino questa spiegazione. E’ evidente che il fatto che la Fed abbia stabilito un interesse minimo per le proprie riserve è incommensurabile con le misure dei fenomeni indicati dalla tabella.
ottobre 18, 2013
October 18, 2013, 11:22 am
Matthew Yglesias notes an uptick in Very Serious People warning that China might lose confidence in America and start dumping our bonds. He focuses on China’s motives, which is useful. But the crucial point, which he touches on only briefly at the end, is that whatever China’s motives, the Chinese wouldn’t hurt us if they dumped our bonds — in fact, it would probably be good for America.
But, you say, wouldn’t China selling our bonds send interest rates up and depress the U.S. economy? I’ve been writing about this issue a lot in various guises, and have yet to see any coherent explanation of how it’s supposed to work.
Think about it: China selling our bonds wouldn’t drive up short-term interest rates, which are set by the Fed. It’s not clear why it would drive up long-term rates, either, since these mainly reflect expected short-term rates. And even if Chinese sales somehow put a squeeze on longer maturities, the Fed could just engage in more quantitative easing and buy those bonds up.
It’s true that China could, possibly, depress the value of the dollar. But that would be good for America! Think about Abenomics in Japan: its biggest success so far has been driving down the value of the yen, helping Japanese exporters.
But, you say, Greece. Well, Greece doesn’t have its own currency or monetary policy; capital flight there led to a fall in the money supply, which wouldn’t happen here.
The persistence of scaremongering about Chinese confidence is a remarkable thing: it continues to be what Very Serious People say, even though it literally makes no sense at all. As Dean Baker once put it, China has an empty water pistol pointed at our head.
La sindrome del debito della Cina
Matthew Yglesias nota un miglioramento nelle Persone Molto Serie che mettono in guardia sul fatto che la Cina potrebbe perdere fiducia sull’America e cominciare a scaricare i nostri bonds. Egli si concentra sui motivi della Cina, il che è utile. Ma il punto cruciale, su cui si sofferma solo brevemente ed alla fine, è che, qualsiasi siano i motivi della Cina, i cinesi non ci danneggerebbero se scaricassero i nostri bonds – di fatto, sarebbe probabilmente un bene per l’America.
Ma, voi dite, la vendita dei nostri bonds da parte della Cina non spedirebbe in alto i tassi di interesse e non deprimerebbe l’economia statunitense? Ho scritto molto e in varie forme su questo tema, e devo ancora vedere una spiegazione coerente su come si suppone che dovrebbe funzionare.
Si pensi a questo: la vendita dei nostri bonds da parte della Cina non spingerebbe in alto i tassi di interesse a breve termine, che sono decisi dalla Fed. Neppure è chiaro perché dovrebbe spingere in alto i tassi a lungo termine, dal momento che questi principalmente riflettono le aspettative sui tassi a breve termine. Ed anche se le vendite cinesi in qualche modo determinassero una stretta sulle più lunghe scadenze, la Fed potrebbe semplicemente impegnarsi in una maggiore ‘facilitazione quantitativa’ e fare incetta di quei bonds.
E’ vero che la Cina potrebbe, probabilmente, deprimere il valore del dollaro. Ma quello sarebbe un bene per l’America! Si pensi alla politica economica di Abe in Giappone: sino ad ora il suo più grande successo è stato quello di abbassare il valore dello yen, aiutando le esportazioni giapponesi.
Ma, voi dite, la Grecia. Ebbene, la Grecia non ha una propria valuta o una propria politica monetaria; in quel caso la fuga dei capitali ha portato ad una caduta nell’offerta di moneta, la qualcosa qua non accadrebbe.
La persistenza della diffusione di paure sulla fiducia cinese è un aspetto rilevante: continua a rappresentare quello che dicono le Persone Molto Serie, anche se esso non ha propriamente alcun senso. Come disse in una occasione Dean Baker, la Cina ha una pistola d’acqua scarica puntata contro la nostra testa.
ottobre 17, 2013
October 17, 2013, 7:59 am
As many people have been pointing out, the economic costs of GOP attempts to rule by extortion didn’t begin with the shutdown/debt crisis, and haven’t ended with the (temporary?) resolution of that crisis. The now widely-cited Macroeconomic Advisers report estimated the cost of crisis-driven fiscal policy at 1 percentage point off the growth rate for three years, or roughly 3 percent now. More than half of this estimated cost comes from the “fiscal drag” of falling discretionary spending, with the rest coming from a (shaky) estimate of the impacts of fiscal uncertainty on borrowing costs.
I’ve been looking a bit harder at that report, and while I am in broad agreement with its conclusion, I think it’s missing quite a lot. On balance, I’d argue that the negative effect of the crazies has been even worse than MA says.
OK, first thing: I’m not too happy with the report’s reliance on the Bloom et al uncertainty index to measure costs. As Mike Konczal pointed out a while back, that index is a strange creature, driven to an important extent by the number of times politicians talk about uncertainty. It’s really not something you want to lean on, and if you take it out, MA’s estimates of the Republican drag fall.
But we shouldn’t stop there, because there are two important aspects of the story that MA leaves out.
First, part of the fiscal cliff deal involved letting the Obama payroll tax cut — a significant, useful form of economic stimulus — expire. (Republicans only like tax cuts that go to people with high incomes.) This led to a surprisingly large tax hike in 2013, focused on workers:
Second, GOP opposition to unemployment insurance has been the biggest factor in a very rapid decline in unemployment benefits despite continuing weak job markets:
This hurts the unemployed a lot, but it also hurts the economy, because the unemployed are already living on the edge, and surely must have been forced into spending cuts as benefits expired.
The combination of the payroll take hike and the benefit cuts amounts to about $200 billion of fiscal contraction at an annual rate, or 1.25 percent of GDP, probably with a significant multiplier effect. Add this to the effects of sharp cuts in discretionary spending and the effects of economic uncertainty, however measured, and I don’t think it’s unreasonable to suggest that extortion tactics may have shaved as much as 4 percent off GDP and added 2 points to the unemployment rate.
In other words, we’d be looking at a vastly healthier economy if it weren’t for the GOP takeover of the House in 2010.
Che drenaggio
Come molte persone hanno messo in evidenza, i costi economici dei tentativi del Partito Repubblicano di governare con i ricatti non sono cominciati con la crisi del blocco di governo e del debito, né sono finiti con la temporanea risoluzione di quella crisi. Il rapporto, di questi tempi ampiamente citato, di Macroeconomic Advisers ha stimato il costo di una politica della finanza pubblica provocata dalla crisi [1] in un punto percentuale da togliere al tasso di crescita per tre anni, ovvero ad oggi all’incirca del 3 per cento. Più della metà di questo costo stimato deriva dal “drenaggio finanziario” [2] derivante dalla caduta della spesa pubblica discrezionale, con il resto che deriva da una (precaria) stima degli impatti dell’incertezza della finanza pubblica sui costi dell’indebitamento.
Ho dato un’occhiata più attenta a quel rapporto, e mentre in generale sono d’accordo con le sue conclusioni, penso che ad esso sfugga qualcosa. A conti fatti, direi che l’effetto negativo delle follie in corso ha avuto effetti persino più negativi di quelli che il rapporto di Macroeconomic Advisers sostiene.
Ebbene, il primo aspetto: non sono così contento che il rapporto si fondi, per misurare i costi, sull’indice dell’incertezza analizzato da Bloom ed altri. Come mise in evidenza tempo fa Mike Konczal, quell’indice è una creatura strana, in notevole misura determinato dal numero di volte in cui gli uomini politici ricorrono all’espressione ‘incertezza’. Davvero non è qualcosa su cui si possa fare affidamento, e se lo fate vostro, le stime di Macroeconomic Advisers sul drenaggio repubblicano crollano.
Ma non dovremmo fermarci qua, perché ci sono due importanti aspetti della storia che Macroeconomic Advisers lasciano fuori.
Il primo, parte dell’accordo sul ‘precipizio fiscale’ fu relativa al permettere che gli sgravi fiscali sugli stipendi di Obama – una forma di stimolo dell’economia significativa ed utile – si interrompessero (ai repubblicani piacciono soltanto gli sgravi fiscali che interessano la gente con alti redditi). Questo ha portato ad un ampio picco fiscale nel 2013, concentrato sui lavoratori:
In secondo luogo, l’opposizione del Partito Repubblicano alla assicurazione di disoccupazione è stato il fattore principale di un rapido declino dei sussidi di disoccupazione nonostante il perdurare di mercati del lavoro deboli:
Questo fatto è un gran danno per i disoccupati, ma danneggia anche l’economia, perché i disoccupati già vivono al limite, e di certo sono stati costretti a tagli nelle loro spese al momento in cui i sussidi sono terminati.
L’effetto congiunto dell’aumento della pressione fiscale sugli stipendi e dei tagli ai sussidi ammonta a 200 miliardi di dollari di contrazione della finanza pubblica su base annua, ovvero all’ 1,25 per cento del PIL, probabilmente con un effetto significativo di moltiplicatore [3]. Si aggiunga questo agli effetti dei bruschi tagli alla spesa discrezionale ed agli effetti dell’incertezza economica, comunque si misurino, ed io non penso sia irragionevole supporre che le tattiche ricattatorie possano aver raschiato l’equivalente di un 4 per cento di PIL ed aggiunto 2 punti al tasso di disoccupazione.
In altre parole, avremmo un’economia considerevolmente più ricca se non fosse per il grande successo elettorale del Partito Repubblicano nel 2010 [4].
[1] Cioè, dalla crisi politica di queste settimane.
[2] Vorrei insistere su una mia ‘fissazione’ linguistica, già spiegata nelle Note sulla Traduzione.
In termini generali “fiscal drag” è il termine economico che si riferisce ad “una situazione nella quale la posizione finanziaria netta di uno Stato (che equivale alla sua spesa al netto di ogni tassazione) non incontra gli obbiettivi di risparmio netto dell’economia privata. Questo può risultare da una pressione deflazionistica dovuta sia ad una mancanza di spesa pubblica che ad un eccesso di tassazione” (Investopedia). In altri termini: il drenaggio può riferirsi ad aspetti della condizione finanziaria pubblica generale e non necessariamente a meccanismi connessi con le tasse.
In effetti, in inglese il termine “fiscal” ha due possibili significati diversi: può riferirsi in generale alla “finanza pubblica” oppure può riferirsi specialmente alla parte di finanza pubblica connessa con le tasse. Ma nella maggioranza dei casi, mi sembra, ha soprattutto il primo significato, e il riferimento alle entrate da fisco si risolve più frequentemente con l’uso aggettivato del sostantivo “tax”. In lingua italiana, invece, il termine “fiscale” ha soltanto il secondo significato e si riferisce a quella parte della finanza pubblica che consiste nella imposizione, o esazione o evasione, della tasse. Si veda, a proposito, la definizione che viene data dal dizionario del Devoto-Olli. Per noi sarebbe improprio – se non come importazione di un neologismo, la qualcosa talora non è indenne da complicazioni – dire ‘fiscale’ per riferirsi in generale alle condizioni della finanza pubblica.
Ora, noi siamo abituati nel linguaggio economico alla espressione “drenaggio fiscale”, che era molto in uso nel recente passato, con riferimento a quella situazione nella quale l’espansione economica, in regimi di tassazione progressiva, può comportare che gli individui siano costretti ad entrare in fasce fiscali superiori, ovvero a pagare aliquote fiscali più elevate per effetto dell’incremento dei loro redditi. Si ha drenaggio fiscale allorché l’aumento del carico fiscale derivante dalle nuove aliquote è più che proporzionale all’aumento del reddito.
Se però, per tornare all’articolo che stiamo traducendo, si usasse il termine “drenaggio fiscale” nel senso di cui sopra, si sbaglierebbe, perché in questo caso il “drenaggio” è riferito alla condizione generale della finanza pubblica (impoverita da un calo troppo forte di spesa) e non a meccanismi fiscali.
Dunque, questo esempio dimostra – se non dico un sciocchezza – che in lingua italiana è abbastanza improprio dare al termine “fiscale” il significato più generale di qualcosa che attiene alla “finanza pubblica”. Questa è la ragione per la quale traduco sempre con “attinente alla finanza pubblica”, come già spiegato nelle Note sulla traduzione.
[3] Per “multiplier” vedi Note sulla Traduzione.
[4] Ovvero nelle passate elezioni di medio termine, che diedero ai repubblicani la maggioranza della Camera dei Rappresentanti, e dunque la forza numerica per politiche di tipo ricattatorio.
ottobre 16, 2013
October 16, 2013, 11:49 am
Brad DeLong reminds us of Eugene Fama’s remarkable (in the worst way) claim that stimulus can’t work as a matter of logic. It was actually that claim, and its endorsement by John Cochrane , that led me to the realization that we were living in a dark age of macroeconomics.
This is, I suppose, the kind of thing that leads some people to accuse me of being uncivil and engaging in ad hominem attacks. I guess we’re supposed to be respectful when economists resurrect fallacies that were corrected three generations ago, and present those fallacies as new and important insights. But I don’t have it in me to do that, especially when those resurrected fallacies are being used to confuse public discussion in a time of economic crisis, when it matters a great deal whether we have the right policy response.
In any case, Fama’s confusion is of a fairly common type (although we should expect better from famous economists.) Call it the fallacy of immaculate causation. I first encountered it in the field of international macro, where people used the identity S-I = X-M to argue that trade balances could adjust with no need for changes in relative prices; John Williamson dubbed this the fallacy of immaculate transfer. The Fama-Cochrane fallacy is just the domestic version.
Here’s what happens: you start with an accounting identity, in this case savings = investment, and treat it as a causal relationship – savings => investment – imagining that this excuses you from the need to lay out a mechanism for this alleged causation.
The immediate thing Fama should have asked himself, even if completely ignorant of the history of macroeconomics, is why the causation necessarily runs from savings to investment. Why not the other way around? In fact, in simple Keynesian models investment (determined by animal spirits) does in fact determine the level of savings. More broadly, however, you always want to ask about the motives of economic actors; only by thinking through who does what why can you actually learn anything about the actual implications of an accounting identity.
In this case, ask what happens if consumers decide to save more. What do they actually do? They cut their spending. Now, how does the equality S=I hold? In the very short run, it’s likely to hold through involuntary actions – that is, the accounting identity doesn’t say that *desired* saving and investment are always equal. If consumers try to save more, firms may engage in involuntary investment, as inventories pile up, and consumers may find that they’re not saving as much as they intended to, because their incomes fall. Naturally, these unintended results will lead to further changes in behavior, with firms cutting production and consumers further reducing spending, until we eventually reach a sort of equilibrium in which desired saving and desired investment match up; this new equilibrium need not be one in which investment rises, and could well be one in which investment falls.
To reach the conclusion that higher desired savings lead to higher investment, you have to explain how the desire of consumers to save more gives firms an incentive to spend more. Lower interest rates could do the trick – but not in an economy where rates are already zero.
The point, in any case, is that accounting identities can only tell you so much. Anyone who claims that the identities tell you everything you know, without an actual model of how things work, is just doing bad economics. And I’m sorry, but I’m not going to be respectful or pretend that we’re having a serious debate when economists who should know better engage in such obvious fallacies.
Gli sbagli della ‘causalità immacolata’
Brad DeLong ci ricorda la considerevole (nel senso peggiore) pretesa di Eugene Fama secondo la quale lo stimulus non può funzionare per una ragione di logica. Fu esattamente quella pretesa, e la adesione da parte di John Cochrane, che mi indusse a rendermi conto (come scrissi) che vivevamo in un’epoca buia della macroeconomia.
Suppongo che questo sia il genere di giudizi che portano alcune persone ad accusarmi di inciviltà e di una propensione agli attacchi personali. Immagino che si pensi che si dovrebbe avere rispetto quando gli economisti rimettono in vita sbagli che furono corretti tre generazioni orsono, e presentano tali sbagli come intuizioni nuove e importanti. Ma a me non riesce, specialmente quando quegli errori risuscitati vengono usati per portare confusione nel dibattito pubblico in un periodo di crisi economica, quando ha grande importanza avere la risposta politica corretta.
In ogni caso, la confusione di Fama è di un genere abbastanza frequente (per quanto ci si aspetterebbe di più da economisti famosi). Lo potete chiamare l’errore della ‘causalità immacolata’. Lo incontrai per la prima volta nel campo dell’economia internazionale, dove c’erano persone che utilizzavano l’identità S-I=X-M [1] per sostenere che gli equilibri commerciali potevano essere corretti senza bisogno di alcun cambiamento nei prezzi relativi; John Williamson lo soprannominò come l’errore dell’ “immacolato trasferimento”. L’errore di Fama-Cochrane è semplicemente la versione interna.
Ecco che cosa accade: si comincia con una identità contabile, in questo caso i risparmi sono eguali all’investimento, e la si tratta come una relazione causale (i risparmi sono eguali o superiori all’investimento), immaginando che ciò vi esenti dalla necessità di esibire un meccanismo per questa pretesa causalità.
La cosa immediata che Fama avrebbe dovuto chiedersi, anche se completamente ignorante della storia della macroeconomia, sarebbe stata perché il rapporto di causalità debba necessariamente correre dai risparmi agli investimenti. Perché non il contrario? Di fatto, nei semplici modelli keynesiani è proprio l’investimento (provocato dagli ‘istinti animali’ [2]) che determina di fatto il livello dei risparmi. Più in generale, tuttavia, sempre ci si deve porre domande sui motivi che muovono gli attori dell’economia; solo riflettendo bene sul “chi-fa-qualcosa-perché” si può effettivamente imparare qualcosa delle implicazioni di una identità contabile [3].
In questo caso, chiedetevi cosa accade quando i consumatori decidono di risparmiare di più. Cosa fanno effettivamente? Tagliano le loro spese. Ora, su cosa si regge l’eguaglianza tra risparmi ed investimenti? Nel brevissimo termine, è probabile che essa si regga su azioni involontarie – vale a dire, l’identità contabile non dice che i risparmi attesi e gli investimenti sono sempre uguali. Se i consumatori cercano di risparmiare maggiormente, le imprese possono, come le scorte si accumulano, impegnarsi in investimenti involontari, e i consumatori possono scoprire di non stare risparmiando quanto volevano, dato che i loro redditi calano. Naturalmente, questi risultati involontari porteranno ad ulteriori modifiche dei comportamenti, con le imprese che taglieranno la produzione ed i consumatori che taglieranno ulteriormente la spesa, finché non arriveremo ad una specie di equilibrio nel quale i risparmi attesi e gli investimenti si equivarranno; questo nuovo equilibrio non c’è bisogno che veda l’investimento crescere, potrebbe benissimo vederlo diminuire.
Per arrivare alla conclusione secondo la quale risparmi attesi più elevati portano ad investimenti più elevati, dovete spiegare come il desiderio dei consumatori di risparmiare dia alle imprese un incentivo a spendere maggiormente. I tassi di interessi più bassi possono servire a tale scopo – ma non in una economia nella quale i tassi sono già a zero.
Il punto, in ogni caso, è che le identità contabili possono dirvi soltanto sino a un certo punto. Tutti quelli che pretendono che le identità contabili vi dicano tutto, senza un effettivo modello di come le cose funzionino, non fanno niente di più che una pessima economia. E mi dispiace, ma io non ho intenzione di essere rispettoso o di fingere di avere una discussione seria, quando gli economisti che dovrebbero saperne di più si imbattono in errori di tal fatta.
[1] Mi scuso se sto sbagliando, ma la formula dovrebbe significare che in un paese i risparmi meno gli investimenti debbono equivalere alle esportazioni meno le importazioni. In realtà, sempre se non sbaglio, di solito si usano S ed I come indicative dei risparmi e degli investimenti del settore privato (e nella formula di equivalenza si aggiunge T, per entrate fiscali pubbliche, e G, per spesa pubblica). Invece X ed M indicano le esportazioni e le importazioni (“eXports and iMports”).
Come sia possibile, non saprei spiegarlo; ma probabilmente in questo proprio consiste l’ “Immacolato trasferimento” del quale si parla nella frase successiva. O più precisamente, tra i due concetti non c’è alcun nesso visibile ed è fondamentalmente una questione di fede.
[2] Ovvero, nella espressione di Keynes, dalla condotta istintiva dei capitalisti.
[3] Vale a dire, solo riflettendo ‘praticamente’ dei modi nei quali gli attori economici si comportano, si può comprendere se è giusto considerare gli investimenti come una quantità ‘causata’ dai risparmi, e non il contrario.
ottobre 14, 2013
October 14, 2013, 11:29 am
One of the odd things about the debates we’ve been having over economic policy since the financial crisis is how many people on one side of these debates — the side I’m not on, as it happens — believe that they can win arguments by pulling rank. Critics are dismissed as just bloggers, which supposedly disqualifies them from pointing out errors and untrue statements; ideas are dismissed (wrongly, as it happens) as not part of what anyone has taught graduate students , as if this removes any possibility that the ideas might nonetheless be right.
Do I pull rank the same way? I’m sure that if you go over my writings with a fine-toothed comb, you’ll find some examples. But I try not to; I try to make arguments on the merits, and if I dismiss someone’s contribution, I try to do it based on what he says, not who he is.
What a lot of people — academics, I’m sorry to say, in particular — don’t seem to understand are the limits to what credentials get you, in principle and in practice.
Basically, having a fancy named chair and maybe some prizes entitles you to a hearing — no more. It’s a great buzzing hive of commentary out there, so nobody can read everything that someone says; but if a famous intellectual makes a pronouncement, he both should and does get a listen much more easily than someone without the preexisting reputation.
But academic credentials are neither a necessary nor a sufficient condition for having your ideas taken seriously. If a famous professor repeatedly says stupid things, then tries to claim he never said them, there’s no rule against calling him a mendacious idiot — and no special qualifications required to make that pronouncement other than doing your own homework.
Conversely, if someone without formal credentials consistently makes trenchant, insightful observations, he or she has earned the right to be taken seriously, regardless of background.
One of the great things about the blogosphere is that it has made it possible for a number of people meeting that second condition to gain an audience. I don’t care whether they’re PhDs, professors, or just some guy with a blog — it’s the work that matters.
Meanwhile, we didn’t need blogs to know that many great and famous intellectuals are, in fact, fools. Some of them may always have been fools; some of them are hedgehogs, who know a lot about a narrow area but are ignorant elsewhere (and are, in many cases, so ignorant that they don’t know they’re ignorant — a variant on Dunning-Kruger.) And some of them have, for whatever reason, lost it — I can think offhand of several economists, not all of them all that old, of whom it is common to say, “I can’t believe that guy wrote those papers.”
And let me add that believing that you can pull rank in this wide-open modern age is itself a demonstration of incompetence. Who, exactly, do you think cares? Not the readers, that’s for sure.
True, it’s now a rough world for people who do sloppy work, and are counting on their credentials to shield them from criticism. Somehow, though, I can’t seem to muster any sympathy.
Sa chi sono io?
Una delle cose strane a proposito delle discussioni che abbiamo sulla politica economica sin dalla crisi finanziaria è che molte persone di uno schieramento di quei dibattiti – per combinazione, lo schieramento del quale non faccio parte – credono di poter averla vinta facendosi forti della propria autorità. I critici vengono liquidati come semplici bloggers, il che si suppone li renda inidonei ad indicare errori ed affermazioni non vere; le idee non vengono prese in considerazione (sbagliando, sempre per caso) in quanto non fanno parte di quello che tutti insegnano agli studenti universitari, come se questo escludesse ogni possibilità che quelle idee siano ciononostante giuste.
Mi faccio anch’io forte della mia autorità? Sono certo che se esaminate al microscopio i miei scritti [1], troverete qualche esempio. Ma non è quello che cerco di fare; io cerco di avanzare argomenti sul merito, e se respingo il contributo di qualcuno, cerco di farlo basandomi su quello che dice, non su quello che è.
Quello che molte persone – mi dispiace dirlo, in particolare docenti – sembrano non capire è che vi sono limiti a quello che viene dalle credenziali, sia in via di principio che in pratica.
Fondamentalmente, avere una cattedra titolata e magari qualche premio vi autorizza a far sentire la vostra voce – non altro. C’è in giro un frastuono di commenti come fosse un alveare, cosicché nessuno può leggere ogni cosa che dicono gli altri; ma come un famoso intellettuale si pronuncia, egli dovrebbe ottenere e di fatto ottiene, ascolto molto più facilmente di qualcuno privo di una reputazione precedente.
Ma le credenziali accademiche non sono una condizione né necessaria né sufficiente perché le vostre idee siano prese sul serio. Se un professore famoso dice ripetutamente cose stupide e poi cerca di sostenere di non averle dette, non c’è alcuna regola che faccia divieto di definirlo sciocco e menzognero – e non ci sono qualifiche speciali necessarie per sostenere quel parere, altro che aver fatto il vostro lavoro con scrupolo.
Di contro, se qualcuno senza credenziali formali regolarmente avanza osservazioni acute e profonde, lui o lei si sono guadagnati il diritto a essere presi sul serio, a prescindere dal loro retroterra.
Una delle grandi cose della blogosfera è che essa ha reso possibile per un certo numero di persone di soddisfare la seconda condizione per avere un ascolto. Non mi interessa se sono laureti, docenti o semplici individui con un blog – è il lavoro che conta.
Nel frattempo, non avevamo bisogno dei blog per sapere che molti intellettuali grandi e famosi siano, di fatto, degli sciocchi. Alcuni di loro sono sempre stati sciocchi; alcuni di loro sono come porcospini, che sanno molto nella loro ristretta area ma sono ignari di ogni altra cosa (e sono, in molti casi, talmente ignari da non sapere di essere ignoranti – un variante della sindrome di Dunning – Krueger [2]). Ed alcuni di loro, per una qualsiasivoglia ragione, ne hanno perso coscienza – così su due piedi posso pensarlo di vari economisti, non tutti così anziani, dei quali si usa dire: “Non posso credere che quel personaggio scrivesse cose del genere”.
E fatemi aggiungere che credere di potersi far forti della propria autorità in questa epoca moderna aperta in tutti i sensi, è di per sé una dimostrazione di incompetenza. Chi precisamente pensate se ne curi? Non i lettori, questo è certo.
E’ vero, questo di oggi è un mondo ruvido per coloro che lavorano in modo superficiale, e fanno conto delle loro credenziali per proteggersi dalle obiezioni. Ciononostante, in un certo senso non mi riesce di fingere alcuna simpatia.
[1] Veramente, sarebbe “con un pettine dai denti sottili”.
[2] Due psicologi che dimostrarono sulla base di vari test come una caratteristica frequente di persone ignoranti sia il supporre di essere particolarmente valenti.
ottobre 13, 2013
October 13, 2013, 7:17 am
I probably should have made clear in my post on sticky wages that I was arguing for stickiness as a central issue in the history of macroeconomic thought, not as a central issue in current policy. I’ve been arguing for years that when you’re in a liquidity trap wage flexibility actually hurts rather than helps; this is the paradox of flexibility, which arises, roughly speaking, because under current conditions the aggregate demand curve is upward-sloping thanks to debt and balance sheet effects.
But if we look at the way the civil war emerged in macro during the 1970s, both sides assumed downward-sloping aggregate demand (the liquidity trap was a distant memory), so the whole focus was on aggregate supply. The key issue then because whether it was acceptable to assume an upward-sloping short-run AS curve even though we had no “microfoundations” for that assumption, just observation of reality. Half the relevant profession decided that although it might be true in practice, it wasn’t true in theory, and therefore couldn’t happen.
At this point, of course, we have many cohorts of economists trained in freshwater schools who don’t know this history — they just know that Keynes was “proved wrong” in the 70s, but don’t know the context, and are shocked, shocked to discover that the other half of the profession continued to take the evidence on sticky wages seriously despite the lack of a maximizing model to explain it.
One small note: what about stagflation? It’s true that the outward shift of the apparent tradeoff between unemployment and inflation during the 70s had an important impact on macroeconomics; it mattered a lot that Friedman and Phelps had predicted exactly that kind of shift by working with models that attempted, in a rough way, to provide microfoundations for aggregate supply. This lent some credibility to the freshwater exercise — I remember a few classmates in grad school saying things like, “Well, they’ve been right so far, so maybe they’re right about the next step”, which was rational expectations and microfoundations all the way down.
But by the early 80s it was already clear that going all the way was wrong. Textbook Keynesian economics (literally: think Dornbusch-Fischer and Gordon) had comfortably incorporated inflation expectations, while the persistence of recessions and the evident ability of fully anticipated monetary policy to move the real economy had made Lucas-type models unsustainable.
So stagflation mattered, but Keynesians responded by adapting their models; anti-Keynesians, by contrast, responded to their own empirical debacle in the 1980s by withdrawing deeper into their bubble.
Flessibilità dei salari in dottrina e in politica (per esperti)
Probabilmente avrei dovuto chiarire nel mio post sui salari rigidi che stavo ragionando della rigidità [1] come tema centrale nella storia del pensiero macroeconomico, non come tema centrale nella politica attuale. Vengo sostenendo da anni che quando si è in una trappola di liquidità la flessibilità dei salari in effetti danneggia più che aiutare; è questo il paradosso della flessibilità [2], il quale si manifesta, parlando in termini approssimativi, perché nelle attuali condizioni la curva della domanda aggregata inclina verso l’alto a seguito degli effetti del debito e degli equilibri patrimoniali .
Ma se guardiamo al modo in cui si rappresentò quella sorta di guerra civile nella teoria economica durante gli anni ’70, entrambi gli schieramenti davano per implicita una domanda aggregata che inclina verso il basso (la trappola di liquidità era un lontano ricordo), cosicché l’intera attenzione era riposta sull’offerta aggregata. Il tema fondamentale, allora, era se fosse accettabile assumere una curva di breve periodo della offerta aggregata che inclinava verso il basso, anche se non si aveva alcun fondamento microeconomico per un assunto del genere, essendo solo una osservazione della realtà. Una metà della disciplina economica che aveva rilievo decise che, sebbene potesse essere vero in pratica, non era vero in teoria, e di conseguenza non poteva succedere.
Al giorno d’oggi, naturalmente, abbiamo truppe di economisti addestrati nelle scuole dell’orientamento dell’ “acqua dolce” [3] che non conoscono questa storia – essi sanno soltanto che negli anni ’70 si dimostrò che Keynes aveva torto, ma non conoscono il contesto e sono scioccati, letteralmente scioccati, nello scoprire che l’altra metà continuò seriamente a far propria l’evidenza dei salari rigidi nonostante la mancanza di un modello di massimizzazione che lo spiegasse.
Una piccola nota: che dire della stagflazione? E’ vero che lo spostamento verso l’esterno dello scambio apparente tra disoccupazione ed inflazione durante gli anni ’70 ebbe un impatto importante sulla teoria economica; fu molto rilevante il fatto che Friedman e Phelps avessero previsto esattamente quel tipo di spostamento sulla base di modelli che tentavano, in modo approssimativo, di fornire fondamenti microeconomici all’offerta aggregata. Questo concesse qualche credibilità agli esercizi della scuola dell’ “acqua dolce” – ricordo qualche compagno di corso che diceva cose come: “Bene, hanno avuto ragione sinora, dunque potrebbero aver ragione al prossimo passo”, il che comportò che la teoria delle aspettative razionali e dei fondamenti micro dilagasse.
Ma agli inizi degli anni ’80 era già chiaro che quel dilagare era infondato. Libri di testo di economia keynesiana (in particolare, si pensi a Dornbusch-Fischer e Gordon) avevano incorporato agevolmente le aspettative di inflazione, mentre la persistenza delle recessioni e l’evidente capacità di una politica monetaria pienamente giocata in anticipo nello smuovere l’economia reale resero i modelli del tipo di quello di Lucas insostenibili.
Dunque la stagflazione fu importante, ma i keynesiani risposero adattando i loro modelli; gli antikeynesiani, all’opposto, risposero alla loro pratica débâcle degli anni 80 ritirandosi sempre più nel profondo della loro bolla.
[1] O “vischiosità”, più precisamente.
[2] Il “paradosso della flessibilità” è un concetto – vedi Wikipedia, ma in lingua inglese – introdotto nel 2011 da Paul Krugman e Gauti Eggertsson nel saggio “Debito, riduzione dei rapporti di indebitamento e trappola di liquidità: un approccio ispirato a Fisher, Minsky e Koo”. Esso consiste nel fatto che in uno shock derivante da una deflazione da debito l’aumento dei prezzi e la flessibilità dei salari si risolvono in una ulteriore diminuzione della domanda totale.
[3] Vedi le note sulla traduzione.
ottobre 12, 2013
October 12, 2013, 4:22 pm
Simon Wren-Lewis, following up on Bryan Caplan, makes the case that downward nominal rigidity of wages is simply a fact, attested to by overwhelming evidence. Furthermore, it’s a fact that we understand fairly well in terms of behavioral economics. So he suggests that the unwillingness of many macroeconomists to incorporate this fact in their models — because it doesn’t have “microfoundations” — says something disturbing about the state of the field.
He’s right, but I have the sense that many of his readers — and just about all of Caplan’s commenters — don’t understand the significance of this observation for the history of macroeconomics over the past 40 years.
You see, the question of wage (and price) stickiness, and hence of real effects of changes in nominal demand, was what the great rejection of Keynesianism was all about. And I mean all about. Back in the 70s, there was hardly any discussion of the determinants of nominal demand; what Lucas and his followers were arguing was that Keynesianism must be rejected because it was unable to derive wage stickiness from maximizing behavior.
Lucas initially argued that unexpected nominal shocks still mattered, because people couldn’t initially distinguish them from real shocks, but that this offered no room for useful policy. Later, freshwater economics rejected even that proposition; the business cycle was all about real shocks, with demand playing no role at all.
At no point was this rejection of Keynesianism driven by superior empirical performance; it was all about the principle, about refusing to incorporate anything that wasn’t derived from maximization all the way.
So you can’t say, “Well, OK, maybe people aren’t hyperrational, and wages really are sticky” and then go back to hating on Keynesians. Grant that one point — as you should, because the evidence is overwhelming — and you’ve conceded, whether you know it or not, that much of macroeconomics spent three-plus decades following a blind alley.
I see that some of Caplan’s commenters are willing to accept that nominal demand matters, but draw the line at “nonsense” like the liquidity trap. Well, the zero lower bound is also a fact, and once you start admitting that demand matters, you’ll find yourself inexorably arriving at liquidity-trap analysis. But leave that for another day. The key point here is that to concede the obvious about nominal wages is, like it or not, to concede that Lucas, Prescott, and so on were just a great detour away from useful macroeconomics.
Salari rigidi e guerre economiche
Simon Wren-Lewis, sulle orme di Bryan Caplan, avanza la tesi che la rigidità dei salari nominali verso il basso sia semplicemente un fatto, attestato da prove schiaccianti. Inoltre, si tratta di un fatto che comprendiamo abbastanza bene in termini di comportamenti economici. Egli suggerisce, dunque, che l’indisponibilità di molti economisti ad incorporare i fatti entro i loro modelli – in quanto non hanno “fondamenti microeconomici” – ci dice qualcosa di preoccupante sulle condizioni della disciplina economica.
Egli ha ragione, ma ho la sensazione che molti dei suoi lettori – e proprio tutti i commentatori di Caplan – non comprendano il significato di questa osservazione in riferimento alla storia della teoria economica degli ultimi 40 anni.
Vedete, la questione della rigidità del salari (e dei prezzi), e di conseguenza degli effetti reali dei cambiamenti della domanda nominale, è ciò su cui verteva per intero il grande rigetto del Keynesismo. E intendo dire proprio per intero. Nei passati anni ’70 si faceva fatica a discutere gli aspetti determinanti della domanda nominale; quello che Lucas e i suoi seguaci sostenevano era che il Keynesismo doveva essere rigettato perché era stato incapace di derivare la rigidità dei salari dalla massimizzazione dei comportamenti [1].
Lucas all’inizio sostenne che inattesi shocks nominali [2] erano ancora importanti, perché all’inizio la gente poteva non distinguerli dagli shocks reali, ma questo non offriva alcuno spazio per una politica utile. Più tardi, l’economia dell’ “acqua dolce” [3] respinse anche quel concetto; il ciclo economico riguardava per intero gli shocks reali, e la domanda non aveva alcun ruolo.
Questo rigetto del keynesismo non era in nessun senso guidato da una migliore prestazione empirica; esso riguardava esclusivamente il principio del rifiutare di incorporare alcunché non fosse derivato sino in fondo da una massimizzazione [4].
Cosicché non si può dire: “Va bene, siamo d’accordo, le persone non sono iperrazionali, e i salari sono realmente rigidi” e poi tornare e detestare i keynesiani. Se siete d’accordo su quell’unico punto [5] – e dovreste, perché le prove sono schiaccianti – e lo avete ammesso, che ve ne rendiate conto o meno, gran parte della teoria economica si è spesa per tre decenni e più nel seguire una strada senza sbocco.
Vedo che alcuni commentatori di Caplan sono disposti ad accettare che la domanda nominale sia importante, ma tracciano una discriminante al “nonsenso” della trappola di liquidità. Ebbene, il limite inferiore di zero è anch’esso un fatto, ed una volta che cominciate ad ammettere che la domanda conta, finite inesorabilmente per giungere ad una analisi da trappola di liquidità. Ma rinviamo questo ad un altro giorno. Il punto chiave qua è che riconoscere ciò che è ovvio sui salari nominali è, piaccia o no, ammettere che Lucas, Prescott e così via sono stati soltanto un grande depistaggio da una teoria economica utile.
[1] Credo che si comprenda meglio il termine “massimizzazione”, in questo caso, se si considera che esso dovrebbe significare letteralmente una “estensione”, o un “ampliamento”, di fenomeni economici “micro” alle dimensioni generali della macroeconomia. Se la macroeconomia non si fondava completamente su questa leggibilità della microeconomia che la origina, se non aveva in tal senso “fondamenti microeconomici”, essa era sbagliata.
Dunque, Lucas e gli altri, rigettavano il keynesismo perché la sua pretesa sulla rigidità dei salari verso il basso non era spiegata in termini coerenti con le osservazioni micro. Ma, se tale rigidità è reale (vale a dire, se nelle recessioni i salari nominali non si abbassano affatto facilmente, o non si abbassano per niente), come spiegavano tale fenomeno quegli economisti anti keynesiani? Lo spiegavano al massimo come una illusione, in sostanza come non esistente in quanto non razionale. La sequenza regolare doveva essere: recessione (intesa come terapia salutare a distorsioni “reali” dell’economia) – disoccupazione – salari più bassi – maggiore competitività – ripresa.
Il tema della rigidità dei salari nominali verso il basso fu uno dei ‘punti di partenza’ del ragionamento di Keynes nella sua “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”.
[2] Ovvero relativi ai valori monetari correnti, al netto della inflazione.
[3] Per “freshwater economics” (e “saltwater economics”) vedi le note sulla traduzione.
[4] Vedi la nota inziale.
[5] Ovvero, se siete d’accordo che i salari sono rigidi.
ottobre 11, 2013
October 11, 2013, 10:18 am
Lots of people have been referencing this Democracy Corps report on focus-group meetings with Republicans, and with good reason: Greenberg has basically provided a unified theory of the craziness that has enveloped American politics in the last few years.
What the report makes clear is that the current Republican obsession with attacking programs that benefit Americans in need, ranging from food stamps to Obamacare, isn’t about some philosophical commitment to small government, still less worries about incentive effects and implicit marginal tax rates. It’s about anxiety over a changing America — the multiracial, multicultural society we’re becoming — and anger that Democrats are taking Their Money and giving it to Those People. In other words, it’s still race after all these years.
One irony here is that at this point it’s the liberals who believe in America, while the conservatives don’t. I believe in our ability to change while retaining our essential nature; I believe that today’s immigrants will be incorporated into the fabric of our society, just as Italian and Jewish immigrants — once regarded as fundamentally incompatible with American ways — became “white” by the middle of the 20th century.
Another irony is that the great right-wing fear — that social insurance programs will in effect buy minority votes for Democrats, leading to further change — is becoming a self-fulfilling prophecy. The GOP could have tried to reach out to immigrants, moderate its stances on Obamacare, and stake out a position as the restrained, sensible party. Instead, it’s alienating all the people it needs to win over, and quite possibly setting the stage for the very liberal dominance it fears.
Meanwhile, a key takeaway for us wonks is that none of the ostensible debates we’re having — say, the debate over rising disability rolls — can be taken at face value. Yes, we need to crunch the numbers, but in the end the other side doesn’t care about the evidence.
La Guerra ai poveri è una guerra a Chi Ben Sapete
Molte persone stanno citando questo resoconto di Democracy Corps [1]sugli incontri di un gruppo-campione con i repubblicani, ed a buona ragione: fondamentalmente Greenberg ha presentato una teoria unitaria della follia che ha racchiuso la politica americana negli ultimi anni.
Quello che il rapporto rende chiaro è che l’attuale ossessione repubblicana dell’attaccare i programmi che aiutano gli Americani in condizioni di bisogno non riguarda un qualche ossequio filosofico alle teorie del “piccolo Governo”, ancora meno preoccupazioni sugli effetti degli incentivi e delle aliquote fiscali marginali intrinseche [2]. Riguarda l’ansietà per una America che cambia – la società multirazziale e multiculturale che stiamo diventando – e la rabbia perché i Democratici stanno “prendendo i nostri soldi e dandoli a quella gentaccia” [3]. In altre parole, dopo tutti questi anni, si tratta ancora di razza.
In questo caso, l’ironia è che a questo punto sono i progressisti che credono nell’America, al contrario dei conservatori. Io credo nella nostra capacità di cambiare mantenendo la nostra essenziale natura; io credo che gli immigrati di oggi saranno incorporati nel nostro tessuto sociale, come gli immigrati italiani ed ebrei – una volta considerati come fondamentalmente incompatibili con i modi di vita americani – divennero “bianchi” verso la metà del ventesimo secolo.
Un’altra ironia è che la grande paura della destra – che i programmi della sicurezza sociale serviranno ad acquistare voti da parte dei Democratici, portando a cambiamenti ulteriori – sta diventando una sorta di profezia che si auto avvera. Il Partito Repubblicano poteva cercare di mettersi in comunicazione con gli immigrati, moderare le sue prese di posizione sulla riforma sanitaria di Obama, e definire una posizione come un partito misurato e ragionevole. Invece si sta alienando tutta quella gente che ha bisogno di persuadere, ed assai probabilmente sta mettendo le basi per quella effettiva egemonia liberal di cui ha timore.
Nel frattempo, un insegnamento chiave per noi esperti è che nessuno dei presunti dibattiti che abbiamo in corso – come quello, diciamo, sugli esempi [4] della crescente diseguaglianza – può essere preso per buono. Sì, abbiamo bisogno di elaborare le statistiche, ma alla fine l’altro schieramento non si cura delle prove.
[1] Blog di due famosi politologi progressisti, Stanley B. Greenberg e James Carville. Si tratta di resoconti su incontri con un “gruppo-campione” composto da evangelici, membri del Tea Party e repubblicani moderati. E questa è la significativa grafica (le espressioni sono: “atterrito, nervoso, scoraggiato, preoccupato, impensierito ….”) con la quale il blog presenta tale rapporto:
[2] Ovvero, l’espressione tecnica per definire la percentuale di reddito che viene pagata in tasse, che varia a seconda della dimensione del reddito.
[3] “Those People” (“Quelle Persone”) è in genere un riferimento sprezzante espresso da benestanti nei confronti di persone povere, in qualche modo assistite, preferibilmente di colore. Anche l’espressione utilizzata nel titolo (“…You-Know-Who”, “…Voi sapete chi”) è un riferimento implicito a “Those People”.
[4] Traduco “rolls” nel significato possibile di “lista di nomi”, ma può darsi che sbagli, anche se il senso non deve essere molto diverso.
ottobre 11, 2013
October 11, 2013, 8:16 am
We have a Griswold Center event tonight in which Bob Gordon and I will discuss — debate is too strong a word — his pessimism about future growth. I’ll post more about all that after the event; don’t want to give away my (weak) punchlines. But I thought I would make one casual observation about technology.
Here it is: Bob points, rightly, to the relatively limited impact so far of the much-heralded rise of ICT — information and communication technologies. For a long time these technologies seemed to be doing nothing for the economy; then, finally, they seemed to kick in circa 1995. But the new era of productivity growth, as Bob says, wasn’t a match for the long boom post World War II, and seemed to have petered out by the late 2000s.
What I’d note, however, is that there is almost surely a second wind coming. The 1995-2007 productivity rise was basically a “wired” phenomenon, a lot of it having to do with local area networks rather than the Internet. Wireless data is a whole different thing, and it’s a surprisingly recent thing — the iPhone was introduced in 2007, the iPad in 2010. And we know from repeated experience that it takes quite a while for new technologies to show up in economic growth, a point famously made by Paul David and confirmed by the 25-year lag between the introduction of the microprocessor and the 90s productivity takeoff.
So there’s more coming. How big is another question.
La rivoluzione non è finita
Abbiamo un incontro con Bob Gordon stanotte al Griswold Center ed io converserò – definirlo un dibattito è una parola troppo grossa – sul suo pessimismo sulla crescita futura. Tornerò sul tema dopo l’incontro; non voglio anticipare le mie (deboli) considerazioni finali. Ma ho pensato di avanzare una osservazione superficiale sulla tecnologia.
Si tratta di questo: Bob indica, giustamente, l’impatto sino a questo punto relativamente limitato del tanto propagandato avvento delle ICT – le tecnologie della informazione e della comunicazione. Per lungo tempo queste tecnologie sembravano non aver alcuna conseguenza per l’economia; poi, alla fine, esse sono sembrate ingranare verso il 1995. Ma la nuova era di produttività, come dice Bob, sembra non stare alla pari con la prolungata espansione che seguì alla seconda guerra mondiale, ed è sembrata esaurirsi con i passati anni 2000.
Quello che osserverei, tuttavia, è che c’è una seconda ondata in arrivo. La crescita della produttività tra il 1995 ed il 2007 fu sostanzialmente un fenomeno “cablato”, in gran parte aveva a che fare con reti di aree locali piuttosto che con Internet. I dati senza rete sono una cosa completamente diversa, e sono una cosa sorprendentemente recente – l’iPhone è stato introdotto nel 2007, l’iPad nel 2011. E sappiamo per molteplici esperienze che ci vuole un po’ di tempo per le nuove tecnologie per assumere la forma della crescita economica, un argomento che notoriamente venne avanzato da Paul David [1] e confermato dal ritardo di 25 anni tra l’introduzione del microprocessore ed il decollo di produttività degli anni ’90.
Dunque, c’è qualcosa di più in arrivo. Quanto sia grande è un’altra questione.
ottobre 10, 2013
October 10, 2013, 5:13 pm
I’ve been remiss in not writing anything about Janet Yellen’s nomination to head the Fed; partly that was because I wasn’t sure exactly what to say, and how to explain why I and so many other economists are really happy with her selection.
But Noam Scheiber hits the nail on the head: what’s so encouraging about Yellen is not just her track record but who she hangs out with. She is very definitely the economists’ candidate here.
Everyone else floated for the job has, one way or another, been close to Wall Street — even Larry Summers, who has a formidable record as a research economist but also a formidable record of making money consulting for financial firms. And while you can make the case in normal times that knowing finance, the markets, and all that is good, there are two fundamental truths here: Wall Street is largely responsible for the mess we’re in, and financial types have been consistently wrong — not just failing to see the risks before the crisis, but in diagnosing what would come next. Above all, they took the position that bailing out the banks would pave the way to recovery more broadly, and it hasn’t.
Meanwhile, sensible academic macroeconomics has, as I often point out, performed very well — and Janet Yellen is very much in that camp.
So Yellen is, if you like, a member of my tribe here — and I think that’s a very good thing in today’s economy. The fact that her appointment also makes history is just gravy.
Felice per Janet
Sono stato negligente nel non scrivere niente a proposito della nomina di Janet Yellen alla guida della Fed; in parte è dipeso dal fatto che non sapevo precisamente cosa dire e come spiegare perchè io e così tanti altri economisti siamo davvero felici per la sua scelta.
Ma Noam Scheiber colpisce nel segno: quello che è così incoraggiante nel caso della Yellen non è solo la sua storia professionale ma anche le persone con le quali si relaziona. In questo caso ella è con assoluta certezza la candidata degli economisti.
Tutti gli altri che sono rimasti a galla per il posto di lavoro sono, in un modo o nell’altro, stati vicini a Wall Street – persino Larry Summers, che ha un curriculum formidabile come economista ricercatore ma anche come consulente che ha fatto soldi con le società finanziarie. E se in tempi normali si può usare l’argomento che la conoscenza della finanza, dei mercati finanziari e di tutto il resto sia una buona cosa, in questo caso ci sono due verità incontrovertibili: Wall Street è in gran parte responsabile per il disastro nel quale ci troviamo, ed i soggetti del sistema finanziario hanno avuto costantemente torto – non solo nel non saper vedere i rischi prima della crisi, ma nel diagnosticare che cosa sarebbe venuto dopo. Soprattutto, hanno preso la posizione secondo la quale il salvataggio delle banche avrebbe spianato la strada più in generale alla ripresa, mentre non è successo.
Nel frattempo, la teoria economica di buon senso si è, come sottolineo spesso, comportata ottimamente – e Janet Yellen è molto radicata in quel campo.
In questo caso, la Yellen è, dunque, se si vuole dire così, una componente della mia tribù – ed io penso che sia un’ottima cosa nell’economia odierna. Il fatto che la sua nomina sia un fatto storico è proprio un regalo della provvidenza [1].
[1] “Gravy”, in slang, indica “soldi o vantaggi ottenuti con un piccolo sforzo, specialmente per cose necessarie per vivere”