Blog di Krugman

Trump e la minaccia socialista, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 7 febbraio 2020)

 

Feb 7, 2020

Trump Versus the Socialist Menace

By Paul Krugman

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In 1961, America faced what conservatives considered a mortal threat: calls for a national health insurance program covering senior citizens. In an attempt to avert this awful fate, the American Medical Association launched what it called Operation Coffee Cup, a pioneering attempt at viral marketing.

Here’s how it worked: Doctors’ wives (hey, it was 1961) were asked to invite their friends over and play them a recording in which Ronald Reagan explained that socialized medicine would destroy American freedom. The housewives, in turn, were supposed to write letters to Congress denouncing the menace of Medicare.

Obviously the strategy didn’t work; Medicare not only came into existence, but it became so popular that these days Republicans routinely (and falsely) accuse Democrats of planning to cut the program’s funding. But the strategy — claiming that any attempt to strengthen the social safety net or limit inequality will put us on a slippery slope to totalitarianism — endures.

And so it was that Donald Trump, in his State of the Union address, briefly turned from his usual warnings about scary brown people to warnings about the threat from socialism.

What do Trump’s people, or conservatives in general, mean by “socialism”? The answer is, it depends.

Sometimes it means any kind of economic liberalism. Thus after the SOTU, Steven Mnuchin, the Treasury secretary, lauded the Trump economy and declared that “we’re not going back to socialism” — i.e., apparently America itself was a socialist hellhole as recently as 2016. Who knew?

Other times, however, it means Soviet-style central planning, or Venezuela-style nationalization of industry, never mind the reality that there is essentially nobody in American political life who advocates such things.

The trick — and “trick” is the right word — involves shuttling between these utterly different meanings, and hoping that people don’t notice. You say you want free college tuition? Think of all the people who died in the Ukraine famine! And no, this isn’t a caricature: Read the strange, smarmy report on socialism that Trump’s economists released last fall; that’s pretty much how its argument goes.

So let’s talk about what’s really on the table.

Some progressive U.S. politicians now describe themselves as socialists, and a significant number of voters, including a majority of voters under 30, say they approve of socialism. But neither the politicians nor the voters are clamoring for government seizure of the means of production. Instead, they’ve taken on board conservative rhetoric that describes anything that tempers the excesses of a market economy as socialism, and in effect said, “Well, in that case I’m a socialist.”

What Americans who support “socialism” actually want is what the rest of the world calls social democracy: A market economy, but with extreme hardship limited by a strong social safety net and extreme inequality limited by progressive taxation. They want us to look like Denmark or Norway, not Venezuela.

And in case you haven’t been there, the Nordic countries are not, in fact, hellholes. They have somewhat lower G.D.P. per capita than we do, but that’s largely because they take more vacations. Compared with America, they have higher life expectancy, much less poverty and significantly higher overall life satisfaction. Oh, and they have high levels of entrepreneurship — because people are more willing to take the risk of starting a business when they know that they won’t lose their health care or plunge into abject poverty if they fail.

Trump’s economists clearly had a hard time fitting the reality of Nordic societies into their anti-socialist manifesto. In some places they say that the Nordics aren’t really socialist; in others they try desperately to show that despite appearances, Danes and Swedes are suffering — for example, it’s expensive for them to operate a pickup truck. I am not making this up.

What about the slippery slope from liberalism to totalitarianism? There’s absolutely no evidence that it exists. Medicare didn’t destroy freedom. Stalinist Russia and Maoist China didn’t evolve out of social democracies. Venezuela was a corrupt petrostate long before Hugo Chávez came along. If there’s a road to serfdom, I can’t think of any nation that took it.

So scaremongering over socialism is both silly and dishonest. But will it be politically effective?

Probably not. After all, voters overwhelmingly support most of the policies proposed by American “socialists,” including higher taxes on the wealthy and making Medicare available to everyone (although they don’t support plans that would force people to give up private insurance — a warning to Democrats not to make single-payer purity a litmus test).

On the other hand, we should never discount the power of dishonesty. Right-wing media will portray whomever the Democrats nominate for president as the second coming of Leon Trotsky, and millions of people will believe them. Let’s just hope that the rest of the media report the clean little secret of American socialism, which is that it isn’t radical at all.

 

Trump e la minaccia socialista,

di Paul Krugman

 

Nel 1961 l’America era di fronte a quella che i conservatori consideravano una minaccia mortale: le richieste per un programma nazionale di assicurazione sanitaria che proteggesse i cittadini più anziani. Nel tentativo di evitare questo orribile destino, la Associazione Medica Americana lanciò quella che chiamò l’Operazione tazza di caffè, un tentativo pionieristico di comunicazione virale.

Ecco come funzionava: alle mogli dei dottori (beh, eravamo nel 1961) veniva chiesto di invitare le loro amiche e di far sentire loro una registrazione nella quale Ronald Reagan spiegava che la medicina socializzata avrebbe distrutto la libertà americana. Si supponeva che le casalinghe, a loro volta, scrivessero lettere al Congresso per denunciare la minaccia di Medicare.

Naturalmente la strategia non ebbe effetto; non solo Medicare entrò in funzione, ma divenne così popolare che in questi giorni i repubblicani accusano ordinariamente (e falsamente) i democratici di avere in programma il taglio ai finanziamenti del programma. Ma la strategia – pretendere che ogni tentativo di rafforzare le reti della sicurezza sociale o di limitare l’ineguaglianza ci metterà su una china scivolosa verso il totalitarismo – persiste.

E così è accaduto che Donald Trump, nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione, si è brevemente allontanato dai suoi consueti ammonimenti sulla allarmante gente di colore per mettere in guardia sulla minaccia del socialismo.

Che cosa intendono i collaboratori di Trump, o i conservatori in generale, per “socialismo”? La risposta è: dipende.

Talvolta intendono ogni tipo di progressismo economico. Così, dopo il Discorso sullo Stato dell’Unione, Steven Mnuchin, il Segretario al Tesoro, ha elogiato l’economia di Trump ed ha dichiarato che “non stiamo tornando al socialismo” – come a dire che l’America stessa era un inferno socialista ancora nel 2016. Chi lo sapeva?

Altre volte, tuttavia, intendono la pianificazione centralizzata di stile sovietico, o la nazionalizzazione delle industrie di stile venezuelano, a prescindere dal fatto che non ci sia sostanzialmente nessuno nella vita politica americana che sostenga cose del genere.

Il trucco – e “trucco” è la parola giusta – consiste nel fare la spola tra questi due significati completamente diversi, sperando che la gente non se ne accorga. Dite di volere l’iscrizione gratuita alle università? Pensate a tutte le persone che morirono nella carestia in Ucraina! E questa non è affatto una caricatura: si legga lo strano, viscido rapporto sul socialismo che gli economisti di Trump hanno pubblicato lo scorso autunno; è sostanzialmente quello il modo in cui procede la loro tesi.

Dunque, parliamo di quello che è davvero sul tavolo.

Alcuni uomini politici statunitensi di orientamento progressista si descrivono come socialisti, e un significativo numero di elettori, inclusa una maggioranza di quelli che sono sotto i trent’anni, dicono di approvare il socialismo. Ma né gli uomini politici né gli elettori stanno reclamando la proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Stanno piuttosto facendo propria la retorica conservatrice che considera tutto quello che tempera gli eccessi della economia di mercato come socialismo, e dicono in sostanza: “Ebbene, in quel caso io sono un socialista”.

Quello che gli americani che sostengono il “socialismo” effettivamente vogliono è quello che il resto del mondo chiama socialdemocrazia: una economia di mercato, ma con le avversità estreme limitate da una forte rete di protezione sociale e con l’estrema ineguaglianza limitata da una tassazione progressiva. Vogliono che si assomigli alla Danimarca e alla Norvegia, non al Venezuela.

E, nel caso non ci siate stati, i paesi nordici non sono affatto un inferno. Hanno un PIL procapite un po’ più basso del nostro, ma in gran parte perché si prendono più vacanze. Al confronto con l’America, hanno una aspettativa di vita più elevata, molta meno povertà ed un significativamente più alto compiacimento generale per la loro esistenza. Inoltre, hanno livelli più elevati di imprenditorialità – perché le persone sono più disponibili a prendersi dei rischi nell’avviare imprese quando sanno che, se falliscono, non perderanno la loro assistenza sanitaria e non precipiteranno nella povertà più degradante.

Gli economisti di Trump hanno chiaramente un bel daffare nell’inquadrare le società nordiche nel loro manifesto antisocialista. In alcuni passaggi dicono che i nordici non sono realmente socialisti; in altri cercano disperatamente di dimostrare che, a dispetto delle apparenze, i danesi e gli svedesi stanno soffrendo – ad esempio, per loro è costoso mantenersi un pickup. Non me lo sto inventando.

Che dire della china scivolosa dal progressismo al totalitarismo? Non c’è assolutamente alcuna prova della sua esistenza. Medicare non distrusse la libertà. La Russia stalinista e la Cina Maoista non vennero fuori da socialdemocrazie. Il Venezuela era un corrotto stato petrolifero assai prima che arrivasse Hugo Chavez. Se esiste una strada per la servitù, non mi viene in mente alcuna nazione che l’abbia imboccata.

Dunque, seminare paure sul socialismo è nello stesso tempo sciocco e disonesto. Ma sarà efficace, politicamente?

Probabilmente no. Dopo tutto, gli elettori sostengono in modo schiacciante la maggioranza delle politiche proposte dai “socialisti” americani, incluse tasse più elevate sui ricchi e far diventare Medicare disponibile per tutti (sebbene non sostengano programmi che costringerebbero la gente a lasciare le assicurazioni private – la qual cosa è una messa in guardia per i democratici a non far diventare la purezza di un sistema centralizzato di pagamenti una cartina di tornasole).

D’altra parte, non dovremmo mai sottovalutare il potere della disonestà. I media della destra descriveranno chiunque i democratici nominino per la Presidenza come una reincarnazione di Leone Trotzkj, e milioni di persone ci crederanno. Possiamo solo sperare che il resto dei media riferiscano il piccolo segreto pulito del socialismo americano, che consiste nel fatto che non ha niente di estremistico.

 

 

 

 

É importante chi scelgono i democratici? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 31 gennaio 2020)

febbraio 3, 2020

 

Jan 31, 2020

Does It Matter Who the Democrats Choose?

By Paul Krugman

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At this point, the Democratic presidential nomination is very much up in the air. Not only is it unclear who will be the nominee; it’s unclear whether the nominee will be a centrist like Joe Biden or Amy Klobuchar, or a representative of the party’s left like Bernie Sanders or Elizabeth Warren. Whoever wins, there will be much wailing and gnashing of teeth from the other side.

So I’d like to offer an opinion that will probably anger everyone: In terms of actual policy, it probably doesn’t matter much who the Democrats nominate — as long as he or she wins, and Democrats take the Senate too.

If you’re a centrist worried about the gigantic spending increases Sanders has proposed, calm down, because they won’t happen. If you’re a progressive worried that Biden might govern like a Republican, you should also calm down, because he wouldn’t.

In practice, any Democrat would probably preside over a significant increase in taxes on the wealthy and a significant but not huge expansion of the social safety net. Given a Democratic victory, a much-enhanced version of Obamacare would almost certainly be enacted; Medicare for All, not so much. Given a Democratic victory, Social Security and Medicare would be protected and expanded; Paul Ryan-type cuts wouldn’t be on the table.

Why do I say this? Consider first the lessons from three years of Donald Trump.

In 2016 Trump ran as a different kind of Republican, promising that unlike other candidates, he wouldn’t cut slash social programs and cut taxes on the rich. But it was all a lie. Aside from his trade war, Trump’s economic policies have been straight right-wing orthodoxy: huge tax cuts for corporations and the wealthy, attempts to take health care away from tens of millions of Americans. And lately he has been talking about possible cuts to Social Security and Medicare.

The point is that even though Trump commands humiliating personal subservience from his party, he hasn’t caused any significant shift in its policy priorities.

Now, the Democratic Party is very different from the G.O.P. — it’s a loose coalition of interest groups, not a monolithic entity answering to a handful of billionaires allied with white nationalists. But this if anything makes it even harder for a Democratic president to lead his or her party very far from its political center of gravity, which is currently one of moderate progressivism.

It’s still far from clear who will come out on top in the primary, but it’s enough to think about what would happen if either of the two current front-runners, Bernie Sanders or Joe Biden, were to become president — and also have strong enough coattails to produce a Democratic Senate, because otherwise nothing will happen.

Sanders has a hugely ambitious agenda; Medicare for All is just part of it. Paying for that agenda would be difficult — no, Modern Monetary Theory wouldn’t actually do away with the fiscal constraint. So turning Sanders’s vision into reality would require large tax increases, not just on the wealthy, but on the middle class; without those tax increases it would be highly inflationary.

But not to worry: it won’t happen. Even if he made it to the White House, Sanders would have to deal with a Congress (and a public) considerably less radical than he is, and would be obliged to settle for a more modest progressive agenda.

It’s true that Sanders enthusiasts believe that they can rally a hidden majority of Americans around an aggressively populist agenda, and in so doing also push Congress into going along. But we had a test in the midterm elections: Progressives ran a number of candidates in Trump districts, and if even one of them had won they would have claimed vindication for their faith in transformative populism. But none did; the sweeping Democratic victory came entirely from moderates running conventional campaigns.

The usual take on this progressive setback is that it raises questions about Sanders’s electability. But it also has a very different implication: Moderates worried about a radical presidency should cool it. A President Sanders wouldn’t be especially radical in practice.

What about Joe Biden? The Sanders campaign has claimed that Biden endorsed Paul Ryan’s plans for sharp cuts in Social Security and Medicare; that claim is false. What is true is that in the past Biden has often been a Very Serious Person going along with the Beltway consensus that we need “adjustments” — a euphemism for at least modest cuts — in Social Security. (Actually, if you go back a ways, Sanders turns out to have said similar things.)

But the Democratic Party as a whole has moved left on these issues, and Biden has moved with it. Even if he has a lingering desire to strike a Grand Bargain with Republicans — which I doubt — he would face such a huge intraparty backlash that he would be forced to back off.

So in terms of policy, here’s what I think would happen if Sanders wins: we’ll get a significant but not gigantic expansion of the social safety net, paid for by significant new taxes on the rich.

On the other hand, if Biden wins, we’ll get a significant but not gigantic expansion of the social safety net, paid for by significant new taxes on the rich.

One implication, if I’m right, is that electability should play a very important role in your current preferences. It matters hugely whether a Democrat wins, it matters much less which Democrat wins.

But my main point is that Democrats should unify, enthusiastically, behind whoever gets the nomination. Any moderate tempted to become a Never Bernie type should realize that even if you find Sanders too radical, his actual policies would be far more tempered. Any Sanders enthusiast tempted to become a Bernie or Bust type should realize that these days even centrist Dems are pretty progressive, and that there’s a huge gap between them and Trump’s GOP.

Oh, and all the Democrats believe in democracy and rule of law, which is kind of important these days.

 

É importante chi scelgono i democratici?

Di Paul Krugman

 

A questo punto, ha un gran successo la scelta del candidato presidenziale dei democratici. Non solo non è chiaro chi sarà nominato; non è chiaro se ad essere scelto sarà un centrista come Joe Biden o Amy Klobuchar, o un rappresentante della sinistra del partito come Bernie Sanders o Elizabeth Warren. Chiunque vinca, ci saranno molti pianti disperati e digrignare dei denti [1] dalla parte avversa.

Dunque, sono tentato di offrire la mia opinione che probabilmente farà arrabbiare tutti: in termini di effettiva politica, probabilmente non è importante chi viene nominato dai democratici – che sia uomo o donna e nell’ipotesi che i democratici si aggiudichino anche il Senato.

Se siete un centrista preoccupato dei giganteschi aumenti della spesa proposti da Sanders, state pur calmi perché non accadrà. Se siete progressisti preoccupati che Biden possa governare come un repubblicano, anche voi dovreste star calmi, perché non lo farà.

In pratica, ogni democratico probabilmente sarebbe in carica come Presidente nel contesto di un significativo aumento delle tasse sui ricchi e di un significativo ma non enorme ampliamento delle reti della sicurezza sociale. Nel caso di una vittoria democratica, una versione assai potenziata della riforma sanitaria di Obama verrà quasi certamente deliberata; lo stesso non si può dire per Medicare-per-tutti. Nel caso di una vittoria dei democratici, la Previdenza Sociale e Medicare verranno protetti ed ampliati; un individuo come Paul Ryan non sarebbe al tavolo.

Perché lo dico? Si considerino anzitutto le lezioni dei tre anni di Donald Trump.

Nel 2016 Trump correva come un repubblicano di tipo diverso, promettendo che diversamente da altri candidati, egli non avrebbe tagliato e sfregiato i programmi sociali e non avrebbe tagliato le tasse sui ricchi. Ma era una bugia totale. A parte la sua guerra commerciale, le politiche economiche di Trump hanno rappresentato la convenzionale ortodossia della destra: ampi tagli fiscali per le società e i ricchi, tentativi di togliere l’assistenza sanitaria a decine di milioni di americani. E di recente sta parlando di possibili tagli alla Previdenza Sociale e a Medicare.

Il punto è che nonostante che Trump imponga un umiliante ossequio alla sua persona da parte del suo partito, egli non ha provocato uno spostamento significativo nelle sue priorità politiche.

Ora, il Partito Democratico è molto diverso da quello repubblicano – è una vaga coalizione di gruppi di interesse, non una entità monolitica che risponde ad una manciata di miliardari alleati dei nazionalisti bianchi. Ma questo semmai rende anche più arduo per un Presidente democratico, uomo o donna che sia, guidare il suo partito molto lontano dal suo centro di gravità politico, che attualmente è un progressismo moderato.

È ancora tutt’altro che chiaro chi finirà in testa nelle primarie, ma è sufficiente ragionare su cosa accadrà se uno dei due attuali favoriti, Bernie Sanders o Joe Biden, dovesse diventare Presidente – e se anche avesse sufficiente consenso da dar vita ad un Senato democratico, perché altrimenti non succederebbe niente.

Sanders ha una agenda estremamente ambiziosa: Medicare-per-tutti è solo una parte di essa. Finanziare quella agenda sarebbe difficile – in realtà, neppure la Teoria Monetarista Moderna eliminerebbe i vincoli alla finanza pubblica. Dunque, tradurre la visione di Sanders in realtà richiederebbe grandi aumenti delle tasse, non solo sui ricchi, ma sulla classe media; senza quegli aumenti delle tasse essa sarebbe altamente inflazionistica.

Ma non preoccupatevi: non accadrà. Anche se conquistasse la Casa Bianca, Sanders dovrebbe misurarsi con un Congresso (e con una opinione pubblica) considerevolmente meno radicale di lui, e sarebbe obbligato a convergere su una agenda progressista più moderata.

È vero che gli entusiasti di Sanders credono di poter raggruppare una maggioranza nascosta di americani attorno ad una agenda aggressivamente populista, e facendo così anche di spingere il Congresso a seguirli. Ma abbiamo avuto un test nelle elezioni di medio termine: i progressisti hanno sfidato nei distretti elettorali un certo numero di candidati di Trump, e se anche solo uno di essi avesse vinto avrebbero sostenuto di essere stati premiati dalla loro fiducia in un populismo trasformatore. Ma non ha vinto nessuno di loro: la vittoria schiacciante dei democratici è venuta interamente da moderati che concorrevano in campagne elettorali convenzionali.

L’opinione consueta su questo inconveniente progressista è che esso solleva dubbi sulla idoneità di Sanders ad essere eletto. Ma ha anche una implicazione molto diversa: i moderati preoccupati di una presidenza radicale dovrebbero darsi una calmata. In pratica, un Presidente Sanders non sarebbe particolarmente radicale.

Che dire di Joe Biden? L’organizzazione elettorale di Sanders ha sostenuto che Biden appoggiava i programmi di Paul Ryan per bruschi tagli alla Previdenza Sociale e a Medicare; quella pretesa è falsa. Quello che è vero è che nel passato Biden è stato spesso una Persona Molto Seria [2], che andava dietro all’unanimismo della Capitale secondo il quale avevamo bisogno di “correzioni” alla Previdenza Sociale – un eufemismo per tagli almeno modesti (in realtà, se si torna molto indietro, si scopre che Sanders aveva detto cose simili [3]).

Ma su questi temi il Partito Democratico nel suo complesso si è spostato a sinistra, e Biden si è spostato assieme ad esso. Anche se egli avesse un persistente desiderio di raggiungere una Grande Intesa con i repubblicani – della qual cosa dubito – riceverebbe un tale contraccolpo all’interno del partito che sarebbe costretto a tirarsi indietro.

Dunque, in termini di realizzazioni politiche, ecco quello che io penso accadrebbe se vince Sanders: avremo una significativa ma non gigantesca espansione delle reti della sicurezza sociale, pagata da significative nuove tasse sui ricchi.

D’altra parte, se vince Biden, avremo una significativa ma non gigantesca espansione delle reti della sicurezza sociale, pagata da significative nuove tasse sui ricchi.

Se ho ragione, una implicazione è che l’idoneità ad essere eletti dovrebbe giocare un ruolo molto importante nelle vostre attuali preferenze [4]. È molto importante che vinca un democratico, è molto meno importante quale democratico vince.

Ma il mio argomento principale è che i democratici dovrebbero stare uniti, appassionatamente, dietro chiunque ottenga la nomina. Ogni moderato tentato di diventare un “mai con Bernie” dovrebbe comprendere che anche se si considera Sanders troppo radicale, le sue effettive politiche sarebbero più temperate. Ogni entusiasta di Sanders tentato di diventare un “Bernie o il disastro” dovrebbe comprendere che di questi tempi persino i centristi democratici sono abbastanza progressisti, e che c’è un abisso tra loro e il Partito Repubblicano di Trump.

Infine, tutti i democratici credono nella democrazia e nello stato di diritto, la qual cosa di questi tempi è importante.

 

 

 

 

 

 

[1] Dal Vangelo di Matteo, laddove Gesù descrive cosa accadrà il Giorno del Giudizio, quando coloro che hanno offeso Dio saranno allontanati dal suo Regno, gettati in una fornace di fuoco e “ci saranno grida disperate e un gran digrignare dei denti”.

[2] Per questa espressione un tempo consueta di Krugman, vedi le note sulla Traduzione.

[3] La notizia è desunta da un commento del New York Times dello scorso gennaio, che si riferisce ad un articolo di Sanders nel lontano 1994, quando anch’egli aveva utilizzato il ragionamento sulla inevitabilità di “correzioni” alla Previdenza Sociale, diminuendo i sussidi o aumentando le tasse.

[4] Sembra una frase un po’ ambigua, se si presuppone che la “eleggibilità” sia un criterio che attualmente sfavorisce il candidato più radicale, ovvero Sanders. Ma probabilmente questa impressione che deriva da una lettura un po’ ‘italiana’ dei meccanismi politici americani. Negli Stati Uniti attuali la “eleggibilità”, almeno attualmente, è un criterio che può giocare a favore dei candidati più ‘centristi’, ma anche – sia pure in modi opposti – dei candidati più ‘populisti’ (ancora, nella accezione non necessariamente negativa che nel linguaggio politico americano ha quest’ultimo termine). In fondo Sanders sembra avere maggiori possibilità di recuperare voti di lavoratori bianchi che sono finiti a Trump, in particolare negli “Stati oscillanti”, rispetto a Biden.

 

 

 

La macroeconomia de “L’Ampiezza”, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 18 dicembre 2019)

dicembre 27, 2019

 

Dec. 18, 2019

The Macroeconomics of ‘The Expanse’

By Paul Krugman

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The fate of the republic hangs in the balance, but there’s nothing I can do about it today. So let’s have a bit of escapism, econogeek style.

I suspect that long-time readers won’t be surprised to learn that I’m a big fan of the TV series “The Expanse,” which was on Syfy for three seasons, canceled, but picked up by Amazon. Actually, the series seems to be a favorite of many social scientists, like international relations expert turned part time pundit Dan DreznerLinguists love the carefully designed creole spoken by the Belters, who live on various asteroids.

Warning: I’m most of the way through the fourth season, and what follows will include slight spoilers, although probably not enough to matter.

Anyway, Drezner is enjoying the show’s take on interplanetary diplomacy, with the three-cornered cold war among Earth (which seems somehow to have acquired a world government, with the Secretary-General of the United Nations the most powerful person on the planet), the Martian Congressional Republic, and the Belters.

If you ask me, the show also deserved a place in Aisha Harris’s article on the “new pop culture optimism.” The 23rd century is full of greed and violence, much of it perpetrated by evil corporations; but it appears to be colorblind, gender-neutral, and LGBTQ-tolerant. There’s an interracial romance at the show’s core, multiple strong women (Avasarala! Bobbie Draper! Drummer!) and a key positive role played by Pastor Anna, who’s married to another woman.

But enough about humanity. Let’s talk about macroeconomics!

Earth appears to be suffering from mass technological unemployment. Half the population is unemployed and living on Basic, which apparently consists of in-kind provision of housing, food, and other necessities. (Kind of like a global version of Trump’s idea of replacing food stamps with food boxes.

But are robots really the problem? For the first three seasons, Mars stands in stark contrast. It’s a mobilized, full-employment society where everyone is working either on supporting a military strong enough to stand up to Earth or on the long-term goal of terraforming the planet, making it suitable for humans.

Over the course of Season Three, however, the cold war was (mostly) resolved, while the protomolecule (don’t ask) seemed to have opened access to hundreds of habitable planets, making terraforming Mars seem pointless. And in Season Four, Martian society is in deep trouble. Unemployment is rife thanks to the winding down of both military spending and terraforming, with some ex-military Martians who can’t find jobs turning to crime.

So, my question: If Earth has mass unemployment because robots can do stuff, making human workers unnecessary, what were all those fully employed Martians doing?

In fact, the emergence of high unemployment on Mars after demobilization and the end of terraforming makes it seem as if the real problem wasn’t technology, it was secular stagnation — a situation in which private spending is consistently too weak to employ the economy’s resources, except during unsustainable asset or debt bubbles. Japan has been suffering from secular stagnation since the 1990s; a number of economists, myself included, believe that the whole advanced world now has much the same problem.

What’s the solution to secular stagnation? The answer, according to people like Larry Summers, is a big increase in public spending on infrastructure: roads, bridges, ports, and, if you happen to live on a planet without breathable air, terraforming.

The point is that when you’re in a secular stagnation economy, virtue is vice, prudence is folly, and good news can be bad. Even wasteful government spending can be a helpful stimulus. Before the outbreak of peace, Mars was a healthy society because it had a grand project; when that grand project became unnecessary, instead of freeing up resources to do other things, things got much worse.

So The Expanse is basically a show about the need for higher public investment. Well, and also monsters, alien technology, and space Mormons.

We now return you to your regularly scheduled 21st-century doom and gloom.

 

La macroeconomia de “L’Ampiezza” [1],

di Paul Krugman

 

Il destino della repubblica è in bilico, ma in questo momento non c’è niente che possa farci. Dunque consentitemi un po’ di evasione, del genere dei fanatici dell’economia.

Ho il sospetto che i lettori di lunga data non saranno sorpresi ad apprendere che io sono un grande seguace delle serie televisive “L’Ampiezza”, che sono state su Syfy per tre stagioni, cancellate ma riprese su Amazon. In realtà, pare che godano di favore da parte di sociologi, come l’esperto di relazioni internazionali diventato commentatore a tempo parziale Dan Drezner. I linguisti amano il creolo ideato con cura parlato dai Belters, che vivono su vari asteroidi [2].

Una avvertenza: io ho quasi terminato la quarta serie, e quello che segue conterrà alcune piccole anticipazioni, sebbene probabilmente poco significative.

In ogni modo, Drezner si sta godendo lo spettacolo della diplomazia interplanetaria, con una guerra fredda su tre poli tra la Terra (che in qualche modo sembra aver acquisito un governo mondiale, con il Segretario Generale delle Nazioni Unite che è la persona più potente del pianeta), la Repubblica Congressuale di Marte e i Belters.

Se volete il mio parere, lo spettacolo si è anche meritato un posto nell’articolo di Aisha Harris sul “nuovo ottimismo della cultura pop”. Il 23° secolo è pieno di avidità e di violenza, molta della quale è commessa da malefiche società; ma sembra privo di pregiudizi razziali, neutrale verso i generi e tollerante verso tutte le tendenze sessuali. C’è una storia d’amore interrazziale al centro dello spettacolo, ci sono varie donne forti (Avasaral! Bobbie Draper! Drummer!) e un ruolo positivo fondamentale recitato da Pastor Anna, che è sposata con un’altra donna.

Ma degli aspetti umani abbiamo detto abbastanza. Parliamo di macroeconomia!

La Terra sembra stia soffrendo di una massiccia disoccupazione tecnologica. La metà della popolazione è sottoccupata e campa con il programma Basic, che in apparenza consiste in una sorta di fornitura di alloggio, cibo e altre cose indispensabili (una specie di versione globale dell’idea di Trump di sostituire le tessere alimentari con pacchi alimentari [3]).

Ma sono realmente i robot, il problema? Durante le prime tre stagioni, Marte prende posizione in completa opposizione. La sua è una società mobilitata, in piena occupazione nella quale tutti lavorano o nel sostegno ad un esercito abbastanza forte da tenere testa alla Terra o nell’obbiettivo a lungo termine di rendere abitabile il pianeta, rendendolo fruibile per gli umani.

Nel corso della Terza Stagione, tuttavia, la Guerra Fredda era (per la maggior parte) risolta, mentre la protomolecola (non chiedetemi cosa sia) pareva aver aperto l’accesso a centinaia di pianeti abitabili, rendendo inutile il rendere abitabile Marte. E nella Stagione Quarta, la società marziana si trova in un grave guaio. La disoccupazione è dilagante grazie all’esaurirsi sia della spesa militare che dell’impegno a rendere il pianeta abitabile, con alcuni marziani un tempo militari che non possono trovare posti di lavoro se non ricorrendo al crimine.

Dunque, la mia domanda: se la Terra ha una disoccupazione di massa perché i robot possono produrre, rendendo i lavoratori umani non necessari, che cosa stavano facendo tutti i marziani che godevano del pieno impiego?

Di fatto, l’emergenza della elevata disoccupazione su Marte dopo la smobilitazione e la fine dell’impegno per rendere abitabile il pianeta fa apparire che il problema reale non fosse la tecnologia, bensì la stagnazione secolare – una situazione nella quale la spesa privata è costantemente troppo debole per occupare le risorse dell’economia, se non nel corso di insostenibili bolle degli asset o del debito. Il Giappone sta soffrendo della stagnazione secolare a partire dagli anni ’90; un certo numero di economisti, incluso il sottoscritto, credono che l’intero mondo avanzato abbia adesso lo stesso problema.

Quale è la soluzione alla stagnazione secolare? La risposta, secondo persone come Larry Summers, è un grande incremento della spesa pubblica in infrastrutture: strade, ponti, porti e, se vi capita di vivere in un pianeta con una atmosfera irrespirabile, renderlo abitabile.

Il punto è che quando si è in una economia della stagnazione secolare, la virtù diventa vizio, la prudenza è follia, e le buone notizie possono essere pessime. Persino una spesa pubblica sprecona può essere uno stimolo utile. Prima che scoppiasse la pace, Marte era una società sana perché aveva un grande progetto; quando quel grande progetto divenne inutile, invece di liberare risorse per altre cose, la situazione divenne molto peggiore.

Dunque, “L’Ampiezza” è fondamentalmente uno spettacolo sul bisogno di un maggiore investimento pubblico. Al quale si aggiungono anche mostri, tecnologie aliene e Mormoni spaziali.

Adesso vi restituiamo al vostro regolarmente previsto pronostico avverso del 21° secolo.

 

 

 

 

 

 

[1] The Expanse è una serie televisiva statunitense di fantascienza sviluppata da Mark Fergus e Hawk Ostby e basata sull’omonima serie letteraria, una space opera scritta da Daniel Abraham e Ty Franck sotto lo pseudonimo di James S. A. Corey. (Wikipedia)

[2] Letteralmente, dovrebbero essere dei “cantanti di canzoni”; cosa c’entri con gli asteroidi lo ignoro.

[3] Trump propose, due anni fa, un taglio spettacolare alle spese per le tessere alimentari ed una loro sostituzione con pacchi di alimenti contenenti latte, pasta, burro di arachidi, carne e frutta e verdura inscatolate. Probabilmente, l’idea deriva da una certa ossessione repubblicana – che venne resa esplicita da Reagan ai suoi tempi – contro la ‘finanziarizzazione’ degli aiuti alimentari, che, a suo dire, permetteva ai giovanotti neri di comprarsi bistecche, anziché generi di prima necessità. Non mi pare che però sia stata messa in pratica.

 

 

 

 

 

 

Chi diventa miliardario? (Newsletter di Paul Krugman del 12 novembre 2019)

novembre 13, 2019

 

 

November 12, 2019 

Who gets to be a billionaire?  

Newsletter by Paul Krugman

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My column today was devoted to debunking the idea that Democrats need a billionaire savior, so it was largely about the political delusions of the super-wealthy. I didn’t have much space to talk about the somewhat different question of how some people get that wealthy. So today’s newsletter tries to fill in some of the gaps.

In Economics 101, we teach the “marginal productivity” theory of income distribution: workers are paid what their activities add to the economy. That is, a worker whose work raises the total value of output $60,000 over the course of a year will get paid $60,000. Why? Competition. Employers would compete to hire such workers if they were paid less than $60K, replace them with other, comparable workers if they were paid more than $60K.

And some workers surely do have special talents that make them worth considerably more — in a pecuniary, not a moral sense — than the average. But how do we explain why some people make many times this amount, say $60 million? Are they really a thousand times as productive as the average worker? That’s extremely doubtful.

In fact, the most plausible stories about how individuals get very rich are also stories in which their compensation greatly exceeds the benefits they generate for the economy.

First of all, a large fraction of the world’s billionaires made their wealth through speculation in financial and real estate markets. Now, speculation serves a useful purpose: we want the market to anticipate likely future events, and someone has to be rewarded for the task of anticipating those events.

But as the great economist Paul Samuelson noted more than 60 years ago, speculation offers huge rewards to those who are just slightly quicker off the mark than others, even though society gains very little from the speed of their reactions: “Suppose my reactions are not better than those of other speculators but rather just one second quicker. (This may be because of the flying pigeons I own or quickness of my neurons.)” (Or, though he doesn’t mention it, because of insider trading.) In such a case, Samuelson pointed out, the speculator gets very rich even while adding little to G.D.P.

Another way to get very rich is to found a company that gets even slightly ahead of the curve and manages, thanks to the winner-takes-all nature of many markets, to establish a lucrative monopoly position. As billionaires go, Bill Gates and Jeff Bezos aren’t especially terrible people. But if Gates hadn’t existed, someone else would surely have come up with widely used computer operating systems about as good as Windows; if Bezos hadn’t existed, someone else would surely have created online retail platforms comparable to Amazon.

So big fortunes from founding companies, like big fortunes based on speculation, may bear little relationship to social contribution.

Finally, a lot of big incomes go to C.E.O.s of large companies. Who decides how much these executives are worth? Compensation committees appointed by the C.E.O.s themselves. Good leadership matters; but over the last half century C.E.O. compensation has risen from around 20 times average pay to a ratio of almost 300 to 1. Has the importance of leadership really increased that much?

Now, even if billionaires really did make extraordinary contributions to society, that wouldn’t make them morally entitled to keep all their money; it might still make sense to tax them heavily. But the fact is that they probably don’t contribute nearly as much as they make.

 

 

 

Chi diventa miliardario?

Newsletter di Paul Krugman

Il mio articolo di oggi era dedicato a smitizzare l’idea che i democratici abbiano bisogno di un salvatore miliardario, cosicché riguardava in gran parte le illusioni politiche sui super ricchi. Non avevo molto spazio per parlare di una questione un po’ diversa, di come certa gente ottiene quella ricchezza. Dunque le newsletter di oggi cerca di riempire alcuni vuoti.

Nei libri di testo di economia, insegniamo la teoria della “produttività marginale” della distribuzione del reddito: i lavoratori sono pagato per quello che il loro lavoro aggiunge all’economia. Ovvero, un lavoratore il cui lavoro aumenta il valore totale della distribuzione nel corso di un anno di 60.000 dollari verrà pagato 60.000 dollari. Perché? Per la competizione. I datori di lavoro farebbero a gara per assumere tali lavoratori se venissero pagati meno di 60.000 dollari, li sostituirebbero con altri lavoratori simili se essi fossero pagati più di 60.00 dollari.

E certamente alcuni lavoratori hanno particolari talenti che li rendono meritevoli di una paga sostanzialmente maggiore – in senso pecuniario, non morale – di quella media. Ma come spiegare che alcune persone realizzano molte volte questa somma, diciamo 60 milioni di dollari? Sono davvero un centinaio di volte più produttivi di un lavoratore medio? Questo è molto dubbio.

Di fatto, i racconti più verosimili su come gli individui diventano molto ricchi sono anche racconti nei quali il loro compenso eccede grandemente i benefici che essi generano per l’economia.

Prima di tutto, una larga parte dei miliardari del mondo realizza la propria ricchezza attraverso la speculazione nei mercati finanziari e immobiliari. Ora, la speculazione serve ad uno scopo utile: noi vogliamo che il mercato anticipi i probabili eventi futuri, e qualcuno deve essere premiato per il lavoro di anticipare quegli eventi.

Ma come più di 60 anni orsono osservò il grande economista Paul Samuelson, la speculazione offre enormi premi a coloro che sono appena leggermente più scattanti degli altri, persino se la società si avvantaggia molto poco dalla velocità delle loro reazioni: “Supponiamo che le mie reazioni non siano migliori di quelle di altri speculatori, ma appena più veloci di circa un secondo (il che può dipendere dai piccioni viaggiatori che io possiedo o dalla velocità dei miei neuroni)” (oppure, sebbene egli non lo menzionasse, dalla attività di insider trading). In un caso del genere, metteva in evidenza Samuelson, lo speculatore diventa molto ricco anche se aggiunge poco al PIL.

Un altro modo di diventare molto ricchi è fondare una società che diventa persino leggermente all’avanguardia e riesce, grazie alla natura di molti mercati nei quali “il vincitore prende tutto”, a stabilire una posizione di monopolio lucrativa. Nella media dei miliardari, Bill Gates e Jeff Bezos non sono persone particolarmente terribili. Ma se Gates non fosse esistito, qualcun altro sarebbe certamente venuto fuori con sistemi operativi di computer di uso generale più o meno buoni come Windows; se Bezos non fosse esistito, qualcun altro avrebbe certamente creato piattaforme di vendita al dettaglio paragonabili ad Amazon.

Così, le grandi fortune derivanti dal fondare società, come le grandi fortune derivanti dalla speculazione, possono avere una relazione modesta con il contributo alla società.

Infine, una gran quantità di redditi elevati va agli amministratori delegati delle grandi società. Chi decide quanto si meritano questi amministratori? Comitati sui compensi nominati dagli amministratori delegati stessi. Una buona capacità di direzione è importante; ma nello scorso mezzo secolo i compensi agli amministratori delegati sono cresciuti da circa 20 volte la paga media ad un rapporto di quasi 300 ad 1. L’importanza della capacità di direzione è davvero aumentata così tanto?

Ora, persino se i miliardari avessero davvero realizzato contributi straordinari alla società, questo non li renderebbe moralmente legittimati a tenersi tutto quel denaro; avrebbe ancora senso tassarli pesantemente. Ma il fatto è che essi probabilmente non pagano tasse neanche lontanamente paragonabili a quello che realizzano.

 

 

 

 

 

Perché la crisi non ha frenato Wall Street? (Newsletter di Paul Krugman, 5 novembre 2019)

novembre 6, 2019

 

November 5, 2019

Why didn’t the crisis chasten Wall Street?
Di Paul Krugman

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Back in the summer of 2007 The Times published an article titled “The richest of the rich, proud of a new Gilded Age.” The article opened with Sanford Weill, head of Citigroup, boasting of all that he and his billionaire counterparts had achieved.

By most accounts, the financial crisis that would soon engulf the whole world economy began a few weeks after that article was published. By late 2008 the financial sector, Citi very much included, was in meltdown; collapse was avoided only thanks to immense lending by the Federal Reserve and other official institutions. Citi, in particular, borrowed almost $100 billion from the Fed.

You might have thought that this experience would both have chastened Wall Street, making it a bit less arrogant, and also led to some reduction in the financial industry’s political influence. But as I wrote in today’s column, the tycoons of finance are not only unchastened, they’re out there railing hysterically against any hint of criticism.

The thing is, even before the financial crisis, Wall Street’s boasts about the great things it was accomplishing never made much sense.

During the great postwar boom — the generation after World War II, over whose course real wages and family incomes roughly doubled — finance was a relatively small part of the economy, around 2 to 3 percent of G.D.P. Nor was it especially lucrative: Average earnings in finance were only a bit higher than those in the rest of the economy. Money managers only began to emerge as Masters of the Universe, in Tom Wolfe’s satirical phrase, around 1980; the turn probably reflected a combination of deregulation and the proliferation of “shadow banking,” financial arrangements that did an end run around the prudential regulations that still existed. By 2007 both the financial industry and the amount of credit outstanding had more than doubled relative to the size of the economy.

But what did this “financialization” of the economy achieve? Economic growth didn’t accelerate; even before the 2008 crisis it was slower, not faster, than it had been during previous decades. Wages of ordinary workers and the incomes of typical families entered an era of slow growth or stagnation. Household debt did, however, soar, because that — not business investment — was where most of the credit growth went.

As I mentioned in my column, the disappointments of U.S. financialization weren’t unique. Growth in the banking system can be very valuable to poor countries, but once it gets beyond a certain point, research from places like the Bank for International Settlements — a very staid institution of bankers’ bankers — suggests that it becomes counterproductive.

The main — perhaps the only — beneficiaries of hyper-financialization seem to have been a small group of very wealthy individuals, who kept their wealth only thanks to huge public bailouts in the crisis. So it’s kind of amazing to see some of those people lecturing us about how much good they do, and the evils of big government.

 

Perchè la crisi non ha frenato Wall Street?

Newsletter di Paul Krugman

 

Nella passata estate del 2007 The Times pubblicò un articolo dal titolo “I più ricchi dei ricchi, orgogliosi di una nuova Età Dorata”. L’articolo si apriva con Sanford Weill, capo di Citigroup, che si vantava di tutto quello che lui e i suoi omologhi avevano realizzato.

Secondo la maggioranza dei resoconti, la crisi finanziaria che avrebbe presto travolto l’economia del mondo intero cominciò poche settimane dopo che quell’articolo venisse pubblicato. Con la fine del 2008 il settore finanziario, con Citigroup nelle prime posizioni, precipitò nel disastro: il collasso venne evitato solo grazie agli enormi prestiti da parte della Federal Reserve e di altri istituti ufficiali. In particolare, Citigroup si indebitò per quasi 100 miliardi di dollari dalla Fed.

Potevate pensare che questa esperienza avrebbe sia frenato Wall Street, rendendola un po’ meno arrogante, che anche portato a una qualche riduzione dell’influenza politica del settore finanziario. Ma come ho scritto nell’articolo di oggi, i magnati della finanza non solo non sono stati frenati, escono istericamente dai binari dinanzi ad ogni cenno di critica.

Il punto è che anche prima della crisi finanziaria, le vanterie di Wall Street sulle grandi cose che il settore stava realizzando non hanno mai avuto molto senso.

Durante la grande espansione postbellica – la generazione successiva alla Seconda Guerra Mondiale, durante la quale i salari reali e i redditi delle famiglie grosso modo raddoppiarono – la finanza ebbe una parte relativamente piccola nell’economia, circa dal 2 al 3 per cento del PIL. Non era neppure particolarmente lucrativa: i guadagni medi nella finanza erano solo un po’ più alti di quelli nel resto dell’economia. Gli operatori finanziari cominciarono ad emergere come Padroni dell’Universo, secondo la definizione satirica di Tom Wolfe, attorno al 1980; la svolta probabilmente riflettè una combinazione di deregolamentazione e di proliferazione del “settore bancario ombra”, soluzioni finanziarie che costituirono una scappatoia attorno ai regolamenti prudenziali che ancora erano in vigore. Con il 2007, sia il settore della finanza che la quantità di crediti in sospeso era più che raddoppiata rispetto alle dimensioni dell’economia.

Ma cosa produsse questa “finanziarizzazione” dell’economia? La crescita economica non accelerò; persino prima della crisi del 2008 era più lenta, non più veloce, di quanto era stata nei decenni precedenti. I salari dei lavoratori ordinari e i redditi delle famiglie comuni entrarono in un’epoca di lenta crescita o di stagnazione. Il debito delle famiglie, tuttavia, schizzò in alto, giacché quello – e non gli investimenti delle imprese – fu il luogo dove finì la maggior parte della crescita del credito.

Come ho ricordato nel mio articolo, le delusioni per la finanziarizzazione statunitense non furono isolate. La crescita nel sistema bancario può essere molto apprezzabile per i paesi poveri, ma una volta che va oltre un certo livello, le ricerche da postazioni come la Banca dei Regolamenti Internazionali – un istituto molto compassato di banchieri dei banchieri – indicano che essa diventa controproducente.

I principali – forse gli unici – beneficiari della iper-finanziarizzazione sembrano essere stati un gruppo di individui ricchissimi, che hanno realizzato la loro ricchezza solo grazie a enormi salvataggi pubblici durante la crisi. Dunque è abbastanza stupefacente constatare come quelle persone ci stiano facendo ramanzine su quanto bene essi facciano, e sui mali di forti amministrazioni pubbliche.

 

 

 

 

 

 

La Warren ha superato la prova di Medicare? Io penso di sì. Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 1 novembre 2019)

novembre 2, 2019

 

Nov. 1, 2019

Did Warren Pass the Medicare Test? I Think So

By Paul Krugman

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Last week I worried that Elizabeth Warren had painted herself into a corner by endorsing the Sanders Medicare-for-all plan. It was becoming obvious that she couldn’t stay vague about the details, especially how to pay for it; and some studies, even by center-left think tanks, suggested that any plan along these lines would require large tax hikes on the middle class. So what would she come up with?

Well, the Warren plan is now out. And I’d say that she passed the test. Experts will argue for months whether she’s being too optimistic — whether her cost estimates are too low and her revenue estimates too high, whether we can really do this without middle-class tax hikes. You might say that time will tell, but it probably won’t: Even if Warren becomes president, and Dems take the Senate too, it’s very unlikely that Medicare for all will happen any time soon.

Nonetheless, Warren needed to show that she was working the problem. And she did. She brought in real experts like Donald Berwick, who ran Medicare during the Obama years, and Betsey Stevenson, former chief economist at the Labor Department. And they have produced a serious plan. As I said, experts will argue with the numbers, but this is the real thing — not some left-leaning version of voodoo economics.

How does the Warren plan expand Medicare to cover everyone without raising taxes on the middle class? There are four main components.

First, the Warren team argues that a single-payer system would provide significant savings in overall medical costs — more than other studies are assuming. Some of these would come from bargaining down prices, especially on drugs. Others would come from a reduction in administrative costs.

Are these savings plausible? Well, America does pay incredibly high prices for drugs compared with other countries, and the complexity of our system imposes a huge administrative burden — not just the overhead of insurance companies, but the sheer number of people doctors and hospitals have to employ to deal with multiple insurers. I’ve been puzzled at the reluctance of other studies to credit Medicare for all with big savings on these fronts.

And we should note that even with these assumed cost savings, U.S. health spending per capita would remain far above that of other advanced countries. So there’s a case — not an open-and-shut case, but a reasonable one — for optimism here.

Second — and the cleverest item in the plan — the Warren team would basically require employers who are now offering health insurance to their employees to pay the cost of that insurance to the government instead. Bear in mind that large employers are already required by law (specifically, the Affordable Care Act) to provide insurance. So this would just redirect those funds.

Third, state and local governments currently spend a lot on health care, mainly but not only through their share of Medicaid spending. The Warren plan would require “maintenance of effort,” basically requiring that states continue to spend that money, but on supporting a national plan.

Finally, even with all this there’s a significant budget hole. Warren’s team argues that this can be closed in two ways: some further taxes on corporations and large fortunes, and — an important point — strengthening the I.R.S., which we know fails to collect large amounts of legally owed taxes, principally from people with high incomes, because Republicans have starved the agency of resources.

Am I enthusiastically endorsing this plan? No. I still think that a public-option-type plan, which lets people buy into Medicare, would have a better chance of actually becoming reality — and may well be where a President Warren actually ends up if she gets to the White House. And the plan’s optimism on costs and revenues could be wrong.

But this is a serious plan that reflects hard thinking. In particular, it’s nothing like the snake oil that passes for policy analysis on the right, whether it’s the continual insistence that tax cuts pay for themselves or Paul Ryan budgets that assumed that discretionary spending could be cut to Calvin Coolidge levels.

So what has Warren achieved here? Realistically, her health care plan is more aspirational than her other plans. Enhanced financial regulation and universal child care are things she might well be able to accomplish if she not only wins, but wins big, next year. Medicare for All, not so much. And may I say, it would serve the public well if these topics — plus climate change! — got more attention in future debates, and health care a bit less.

Warren’s task was, instead, to counter criticism that she was being evasive on a big issue. I think she has met that challenge.

 

La Warren ha superato la prova di Medicare? Io penso di sì.

Di Paul Krugman

 

La scorsa settimana mi preoccupavo che la Warren si fosse cacciata in un vicolo cieco appoggiando il progetto Medicare-per-tutti di Sanders. Stava diventando evidente che ella non potev a restare vaga sui dettagli, in particolare su come finanziarlo; e alcuni studi, persino di gruppi di ricerca di centro sinistra, indicavano che qualsiasi piano del genere avrebbe richiesto ampi aumenti delle tasse sulla classe media. Dunque, che cosa si sarebbe inventata?

Ebbene, il piano della Warren ora è pubblico. E io direi che ella ha superato la prova. Gli esperti discuteranno per mesi se ella sia stata troppo ottimista – se le stime dei costi siano troppo basse e le stime sulle entrate troppo alte, se si possa realmente fare questo senza aumenti delle tasse sulla classe media. Potreste dire che probabilmente lo dirà il tempo, ma è probabile che non avvenga: anche se la Warren diventa Presidente, e anche se i democratici conquistano il Senato, è molto improbabile che avremo Medicare-per-tutti in breve tempo.

Ciononostante, la Warren aveva bisogno di dimostrare che stava lavorando sul problema. E lo ha fatto. Si è avvalsa di veri esperti come Donald Berwick, che amministrò Medicare durante gli anni di Obama, e Betsey Stevenson, il passato capo economista al Dipartimento del lavoro. Ed essi hanno elaborato un progetto serio. Come ho detto, gli esperti discuteranno dei dati, ma questo è un piano vero – non una versione di sinistra dell’economia vudù.

Come il piano della Warren amplia Medicare sino a coprire tutti, senza alzare le tasse sulla classe media? Ci sono quattro aspetti.

Il primo: il gruppo di esperti della Warren sostiene che un sistema di pagamenti centralizzato fornirebbe significativi risparmi nei costi sanitari complessivi – più di quanto sostenuto da altri studi. Alcuni di questi verrebbero dal contrattare ribassi nei prezzi, particolarmente sui farmaci. Altri verrebbero da una riduzione dei costi amministrativi.

Questi risparmi sono plausibili? Ebbene, l’America paga effettivamente prezzi incredibilmente elevati, e la complessità del nostro sistema impone un enorme gravame amministrativo – non solo le spese generali delle società assicurative, ma il semplice numero delle persone, dei medici e degli ospedali che si devono occupare per misurarsi con molteplici assicuratori. Mi sono interrogato sulla riluttanza di altri studi ad accreditare Medicare-per-tutti di grandi risparmi su questi fronti.

E dovremmo notare che persino con questi risparmi dei costi ipotizzati, la spesa sanitaria pro capite statunitense resterebbe assai superiore a quella degli altri paesi avanzati. Dunque, qua c’è un argomento per essere ottimisti – non una faccenda semplicissima, ma affrontabile.

Il secondo aspetto – e il punto più intelligente del piano – il gruppo della Warren fondamentalmente richiederebbe ai datori di lavoro che adesso stanno offrendo l’assistenza sanitaria ai loro occupati, di pagare, al posto di ciò, il costo di quella assicurazione al Governo. Si tenga a mente che i grandi datori di lavoro sono già tenuti per legge (in particolare, la Legge sulla Assistenza Sostenibile) a fornire l’assicurazione. Dunque, questo semplicemente reindirizzerebbe quei finanziamenti.

Terzo aspetto, i Governi degli Stati e delle comunità locali attualmente spendono molto per l’assistenza sanitaria, principalmente ma non soltanto per le loro quote di spesa su Medicaid. Il piano della Warren comporterebbe “il mantenimento dello sforzo”, fondamentalmente con la richiesta che gli Stati continuino a spendere quel denaro, ma a sostegno di un piano nazionale.

Infine, anche con tutto questo ci sarebbe un significativo buco nel bilancio. Il gruppo della Warren sostiene che esso potrebbe esser chiuso in due modi: alcune tasse ulteriori sulle società e sui grandi patrimoni, e – un aspetto importante – rafforzando l’Agenzia delle Entrate, che sappiamo non riesce a raccogliere ampie quantità di tasse legalmente dovute, principalmente da parte di persone con redditi elevati, perché i repubblicani hanno ridotto al lumicino l’Agenzia delle risorse.

Il mio è un appoggio entusiastico a questo piano? No. Io penso ancora che un progetto del genere di una opzione pubblica, che consenta alla gente di aderire a Medicare, avrebbe una migliore possibilità di avverarsi – e potrebbe ben essere la soluzione alla quale una Presidente Warren in realtà finirebbe con l’aderire se conquistasse la Casa Bianca. E se l’ottimismo sui costi e sulle entrate si rivelasse sbagliato.

Ma questo è un piano serio, che riflette un pensiero profondo. In particolare, non è niente di simile alle pozioni miracolose contrabbandate a destra per analisi politiche, che si tratti della continua insistenza che i tagli delle tasse si ripagano da soli o dei bilanci di Paul Ryan che ipotizzavano che le spese discrezionali potevano essere tagliate ai livelli di Calvin Coolidge [1].

Dunque, cosa ha ottenuto la Warren in questo caso? Realisticamente, il suo piano di assistenza sanitaria è soprattutto una aspirazione, rispetto ad altri suoi piani. Una regolamentazione potenziata del sistema finanziario e l’assistenza universale ai bambini sono cose che ella ben potrebbe essere capace di realizzare il prossimo anno, se non solo vince, ma se vince alla grande. Medicare-per-tutti, non altrettanto. E forse posso aggiungere: sarebbe assai utile all’opinione pubblica che queste ultime tematiche – in aggiunta al cambiamento climatico! – ottenessero maggiore attenzione nei futuri dibattiti, e l’assistenza snaitaria un po’ meno.

L’obbiettivo della Warren era, piuttosto, contrastare le critiche secondo le quali sarebbe stata evasiva su un grande tema. Io penso che abbia soddisfatto quella sfida.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Presidente repubblicano degli Stati Uniti nel 1923, dopo essere stato eletto come VicePresidente di Harding e dopo la morte di quest’ultimo. Venne poi rieletto alle elezioni del 1924, con il 54% dei voti. La lotta contro gli sprechi fu un tratto distintivo della sua Presidenza: il debito pubblico calò di tre miliardi di dollari in due anni e per due volte pose il veto al progetto di legge per la assistenza alla agricoltura.

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Le persone non capiscono il debito (newsletter di Paul Krugman del 29 ottobre 2019)

ottobre 30, 2019

 

 

 

By Paul Krugman

People doesn’t understand debt

October 29, 2019

 

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Today’s column is about our trillion dollar deficit, which nobody seems to care about. The thing is, this lack of concern is justified: There’s no good reason to believe that the current budget deficit is doing significant harm.

What did do a lot of harm was the deficit hysteria that dominated establishment discourse the last time we had a deficit this big, which also happened to be a period during which the economy was deeply depressed, and the stimulus from deficit spending was actually a good thing. It should have been obvious that obsessing about deficits in 2012 was a huge mistake. What’s relatively new — and something I couldn’t get into at length in the column — is the realization that government debt isn’t much of a problem even at full employment.

One reason people find this hard to understand is that they make an analogy between the nation as a whole and an individual family. This leads to sober-sounding warnings that budget deficits amount to stealing from our children, in the same way that spendthrift parents are squandering their heirs’ inheritance.

This analogy, however, is all wrong. Debt is money we owe to ourselves — that is, for the most part it obliges one group of Americans, taxpayers, to make payments to another group of Americans, bondholders. It doesn’t directly make the nation poorer, at all. (O.K., there’s a small caveat: some debt is held by foreigners. But it’s not quantitatively important.)

Now, there might be indirect ways in which debt makes us poorer. To pay interest, the government might have to spend less or collect more taxes than it would have otherwise. And this could hurt growth — for example, high taxes could reduce incentives to produce and invest.

What economists have come to realize, however, is that even these indirect costs of debt may be negligible.

Why, after all, must a government raise taxes to deal with a higher level of debt? The usual answer is that if it doesn’t, the debt will snowball: the government will have to pay more in interest, which will cause the debt to rise further, leading to even more interest payments, and so on.

But nobody cares about the absolute value of debt; what matters is the ratio of debt to the tax base, which for the federal government is basically the whole economy, i.e., G.D.P. And a rise in the debt/G.D.P. ratio doesn’t snowball — it melts! Why? Because the interest rate on federal debt is normally lower than the economy’s growth rate.

Right now, in particular, U.S. 10-year bonds are paying less than 2 percent, while G.D.P. normally grows around 4 percent a year — half real, half rising prices. So even if the government only raised enough money to pay noninterest expenses, totally ignoring interest, debt would grow more slowly than the economy, and the ratio to G.D.P. would shrink over time. So the government does need, more or less, to pay for what it spends, but taking on more debt now won’t make that task any harder in the future.

I don’t want to say that debt never does any harm. And if you’re going to run up debt, it should be for a good purpose, like rebuilding infrastructure, not to give rich people even more money to spend on luxuries. But debt isn’t a huge evil, and bringing it down shouldn’t be anyone’s priority.

 

Quick Hits

The debt crisis in Europe motivated a lot of the hysteria here. But that crisis vanished for everyone but Greece when Mario Draghi, the outgoing president of the European Central Bank, said three words — “whatever it takes” — which markets saw as a pledge to provide cash if needed. And now even Greece has interest rates below 2 percent.

Olivier Blanchard, the immensely respected former chief economist of the International Monetary Fund, on why debt isn’t as scary as you think.

The very establishment Larry Summers and Jason Furman make a similar argument.

 

Le persone non capiscono il debito 

Paul Krugman [1]

 

L’articolo di oggi [2] riguarda il nostro deficit di mille miliardi di dollari, del quale nessuno pare preoccuparsi. Questa assenza di preoccupazione è giustificata. Non c’è alcuna buona ragione per credere che l’attuale deficit di bilancio stia provocando un danno significativo.

Quello che provocò un grande danno fu l’isteria del deficit che dominò il dibattito nelle classi dirigenti l’ultima volta che avemmo un deficit così grande, che si dà il caso fosse un periodo nel quale l’economia era profondamente depressa, e lo stimolo della spesa in deficit fu effettivamente una cosa positiva. Avrebbe dovuto essere evidente che l’ossessione dei deficit nel 2012 fu un enorme errore. Quello che è relativamente nuovo – e qualcosa da cui non ho potuto diffondermi in dettaglio nell’articolo – è la comprensione che il debito del Governo non è un grande problema neppure in una situazione di piena occupazione.

Una ragione per la quale le persone trovano questo difficile da capire e che esse stabiliscono una analogia tra la nazione nel suo complesso e una famiglia individuale. È questo che porta agli ammonimenti, che sembrano misurati, secondo i quali il deficit corrisponde a un furto verso i nostri figli, nello stesso modo in cui i genitori spendaccioni dilapidano l’eredità dei loro eredi.

L’analogia, tuttavia, è completamente sbagliata. Il debito è denaro che prestiamo a noi stessi – ovvero, per la maggior parte esso obbliga un gruppo di americani, i contribuenti, a fare pagamenti a un altro gruppo di americani, i possessori di obbligazioni. Esso non rende affatto la nazione più povera (è vero, c’è un piccolo avvertimento: una parte del debito è posseduta da stranieri. Ma essa non è quantitativamente importante).

Ora, ci potrebbero essere modi indiretti nei quali il debito ci rende più poveri. Col pagamento degli interessi, il Governo potrebbe dover spendere di meno o raccogliere maggiori tasse di quanto avrebbe dovuto altrimenti. E questo potrebbe ridurre la crescita – ad esempio, tasse elevate potrebbero ridurre gli incentivi a produrre ed a investire.

Quello che gli economisti sono arrivati a comprendere, tuttavia, è che anche questi costi indiretti del debito sono trascurabili.

Dopo tutto, perché il Governo deve alzare le tasse per misurarsi con un livello più elevato del debito? La risposta consueta è che, se non lo fa, il debito crescerà a dismisura: il Governo dovrà pagare di più in interessi, il che farà crescere il debito ulteriormente, portando a pagamenti per gli interessi persino maggiori, e così via.

Ma in questo modo non si considera il valore assoluto del debito; quello che conta è il rapporto tra il debito e la base fiscale, che per il Governo è fondamentalmente l’economia nel suo complesso, ovvero il PIL. E una crescita nel rapporto debito/PIL non sale a dismisura – piuttosto si dissolve! Perché? Perché il tasso di interesse sul debito federale è normalmente più basso del tasso di crescita dell’economia [3].

In questo momento in particolare, i bond decennali degli Stati Uniti stanno rendendo meno del 2 per cento, mentre il PIL normalmente cresce del 4 per cento all’anno – per metà reale, per metà a seguito dell’aumento dei prezzi. Dunque persino se il Governo soltanto raccogliesse denaro sufficiente per pagare le spese non dipendenti dagli interessi, ignorando totalmente gli interessi, il debito crescerebbe più lentamente dell’economia. E il rapporto col PIL si ridurrebbe nel tempo. Dunque, il Governo ha davvero bisogno di pagare per ciò che spende, ma assumere più debito oggi non renderà quell’obbiettivo in alcun modo più difficile in futuro.

Non voglio dire che il debito non produca mai danni. E se avete intenzione di innalzare il debito, dovrebbe essere per buoni propositi, come ricostruire le infrastrutture, non per dare ai ricchi persino più denaro da spendere in generi di lusso. Ma il debito non è un male assoluto, e ridurlo non dovrebbe essere la priorità di nessuno.

 

 

Riscontri    

La crisi del debito in Europa fu all’origine di una grande isteria qua da noi. Ma quella crisi svanì per tutti ad eccezione della Grecia quando Mario Draghi, il Presidente uscente della Banca Centrale Europea, disse tre parole – “whatever it takes” (“tutto quello che serve”) – che i mercati considerarono come un impegno a fornire denaro contante se necessario. E adesso persino la Grecia ha tassi di interesse inferiori al 2 per cento.

Olivier Blanchard, il precedente economista principale del Fondo Monetario Internazionale che gode di immenso rispetto, sulle ragioni per le quali il debito non è così terribile quanto si pensa.

Un simile argomento viene avanzato da Larry Summers e Jason Furman, economisti assai apprezzati anche dai gruppi dirigenti statunitensi.

 

 

 

 

 

 

[1] Questa è l’ultima newsletter di Krugman, una nuova serie di interventi che finalmente inizio a tradurre (le precedenti, circa una decina, non ero riuscito a impaginarle. Adesso mi pare di avere imparato a risolvere il problema).

La cadenza di questi interventi è settimanale e il loro interesse – che credo si noterà facilmente – consiste nel fatto di affrontare temi fondamentalmente, ma non soltanto, economici in modo breve ma talora con un approfondimento analitico superiore agli articoli settimanali sul New York Times.

Cercherò di rimediare in seguito alle newsletter che sono saltate. Chi volesse ricevere nella propria posta questi brevi articoli, ovviamente in lingua inglese, è sufficiente che invii una mail a: krugman-newsletter@nytimes.com

[2] Il riferimento è all’articolo del 28 ottobre su New York Times dal titolo: “Il debito, i profeti di sciagure e il doppio standard”, qua tradotto.

[3] Krugman rimanda ad un suo post del 9 gennaio 2019, qua tradotto con il titolo “Effetti valanga che si sciolgono e l’inverno del debito”, nel quale aveva commentato la fondamentale prolusione di Olivier Blanchard alla American Economic Association. Sullo stesso tema si può rintracciare anche un intervento qua tradotto di Simon Wren-Lewis.

 

 

 

 

 

 

Le radici della rabbia per i regolamenti, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 18 settembre 2019)

settembre 21, 2019

 

Sept. 18, 2019

The Roots of Regulation Rage

By Paul Krugman

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Modern conservatives hate regulation, and the Trump administration has channeled that hatred into policy. It has scrapped or emasculated rules designed to limit everything from predatory lending to exploitative for-profit education, and has moved on multiple fronts to undo environmental protection. Yesterday it took perhaps its most dramatic anti-regulation step so far, announcing that it would try to prevent California from setting strict ruleson auto emissions.

But what’s behind this hatred of regulation? You might think that it’s all about profits, that corporations want to be free to pollute and rip off their customers because it’s good for the bottom line. In fact, however, the striking thing about many of Donald Trump’s deregulatory moves is that major corporations actually oppose his actions.

Thus, most of the big auto companies, having already based their plans on the expectation that Obama-era emission standards would remain in place, don’t want to see them reversed, and several companies went as far as to agree to adhere to California’s rules even if they were stricter than federal regulations.

A similar story is unfolding with regard to the Trump administration’s rollback of regulations intended to ensure that light bulbs become more efficient. True, light bulb manufacturers welcomed the move. But the Alliance to Save Energy, which condemned Trump’s action, is hardly a bunch of hippie tree-huggers; its membership includes a who’s who of major corporations, from 3M to Microsoft to Dupont.

No, there’s something happening here that goes beyond big money trying to get even bigger. Trump, I’d argue, is tapping into a grass-roots phenomenon — let’s call it regulation rage — that is more about psychology than about self-interest. It’s a syndrome that only afflicts a minority of the population, but it’s real, it’s ugly, and it can do a remarkable amount of damage.

What do I mean by regulation rage? It’s the startling anger evoked by government rules intended to protect the public, even when those rules aren’t especially onerous and the public interest case for the rules is overwhelming.

I think I first became aware of regulation rage back in the 1980s, when a local Massachusetts talk-radio host led a temporarily successful jihad against the state’s seatbelt law. (The state reinstated the law after its repeal led to a surge in traffic fatalities.)

However, the phenomenon really came into focus for me a decade ago, when I read a rant by the right-wing commentator Erick Erickson suggesting that government officials should face violent retribution for their actions: “At what point do the people tell the politicians to go to hell? At what point do they get off the couch, march down to their state legislator’s house, pull him outside, and beat him to a bloody pulp for being an idiot?”

What was the policy that set Erickson off? Washington state’s ban on phosphates in detergents. Phosphates are a real environmental menace, which can help cause toxic algae blooms. But never mind; Erickson was enraged because, he claimed, his dishwasher wasn’t working as well as it used to. If threatening violence over your dishwasher sounds crazy, that’s because it is; but undoing dishwasher regulations has, it turns out, become an important conservative cause.

Regulation rage has a couple of distinctive features. One is its disproportionality, in which fairly mild restrictions set off volcanic anger. The other is the sheer pettiness of many of the ragers’ complaints. Trump, by his own account, dislikes modern light bulbs because they make him look orange — which isn’t even true. (He does indeed look orange, but it’s probably because of his addiction to artificial tanning and excessive use of bronzer.)

Oh, and do people remember Trump’s opposition to regulations that protect the ozone layer because, he claimed, his hair spray wasn’t working as well as it used to?

So what’s really driving regulation rage? I’d love to see some serious political science research into the phenomenon. I suspect, though I don’t know for sure, that there are strong correlations between regulation rage and other attitudes, like support for unregulated gun sales and racial hostility.

But as I said, regulation rage seems to be more about psychology than about self-interest. It’s coming from people who, for whatever reason, don’t feel respected, and who see even mild restrictions on their actions as insults perpetrated by elites who consider themselves smarter than other people.

Such people are a distinct minority among Americans in general. For example, polling tells us that an overwhelming majority of Americans, including a majority of self-identified Republicans, want to see pollution regulation strengthened, not weakened.

But regulation ragers have disproportionate influence over Republican politicians. And now we have a regulation rager sitting in the White House, determined to undo public-interest regulation even when big business wants it retained.

And pointing out that regulatory rollbacks are both bad for the economy and likely to sicken or kill many Americans won’t help. After all, anyone saying such things is, by definition, a know-it-all elitist.

 

Le radici della rabbia per i regolamenti,

di Paul Krugman

 

I conservatori odierni odiano i regolamenti, e l’Amministrazione Trump ha incanalato quell’odio in politica. Essa ha rottamato o reso impotenti regole rivolte a stabilire dei limiti su tutto, dai prestiti truffaldini allo sfruttamento dell’istruzione a scopo di lucro, e si è mossa su vari fronti per disfare la protezione ambientale. Ieri ha fatto il passo forse più spettacolare sino a questo punto contro i regolamenti, annunciando che avrebbe cercato di impedire alla California di fissare regole severe sulle emissioni delle automobili.

Ma cosa c’è dietro questo odio contro i regolamenti? Potreste pensare che è tutta una questione di profitti, che le imprese vogliono essere libere di inquinare e di fregare la loro clientela perché questo è positivo per i loro affari. Di fatto, tuttavia, la cosa sorprendente a riguardo di molte delle iniziative di deregolamentazione di Donald Trump è che in realtà importanti società si oppongono alle sue azioni.

È per questo che la maggioranza delle grandi società automobilistiche, avendo già basato i loro progetti sulla aspettativa che gli standard delle emissioni dell’epoca di Obama sarebbero rimaste in funzione, non vogliono vederle rovesciate, e varie società sono arrivate al punto di concordare la adesione alle regole della California anche se esse erano più severe delle regole federali.

Una storia simile si sta svolgendo a proposito della riduzione da parte della Amministrazione Trump delle regole rivolte ad assicurare che le lampadine diventino più efficienti. È vero, le industrie delle lampadine hanno salutato positivamente l’iniziativa. Ma l’Alleanza per il Risparmio di Energia, che ha condannato la decisione di Trump, non può certo essere definita come un gruppo di hippy e di ambientalisti sfegatati; ad essa aderisce il gotha di importanti società, dalla 3M alla Microsoft alla Dupont.

No, in questo caso sta succedendo qualcosa che va oltre il tentativo dei grandi capitalisti di diventare persino più grandi. Direi che Trump sta sfruttando un fenomeno che esiste tra la gente comune – chiamiamolo insofferenza per i regolamenti – che riguarda più la psicologia che la difesa dei propri interessi. È una sindrome che affligge soltanto una minoranza della popolazione, ma è reale, è preoccupante, e può provocare una notevole quantità di danni.

Che cosa intendo per insofferenza per i regolamenti? Si tratta della stupefacente rabbia evocata dalle regole governative rivolte a proteggere la comunità, anche quando quelle regole non sono particolarmente onerose e l’argomento dell’interesse pubblico per tali regole è evidente.

Penso di essere diventato per la prima volta consapevole della insofferenza per i regolamenti nei passati anni ’80, quando un conduttore di una radio locale del Massachusetts ottenne un temporaneo successo in una guerra santa contro una legge dello Stato sulle cinture di sicurezza (lo Stato ripristinò la legge dopo che la sua abrogazione aveva portato ad una impennata degli incidenti mortali provocati dal traffico).

Tuttavia, misi a fuoco effettivamente il fenomeno una decina di anni fa, quando lessi una invettiva da parte del commentatore di destra Erick Erickson che suggeriva che i dirigenti governativi avrebbero dovuto subire un castigo violento per le loro iniziative: “Quand’è che la gente dirà ai politici di andare al diavolo? Quand’è che si alzeranno dal divano, marceranno verso la casa del legislatore dello Stato, lo porteranno fuori e lo pesteranno fino a ridurlo ad una poltiglia sanguinosa a causa della sua idiozia?”

Quale era la politica che aveva scatenato Erickson? La messa al bando da parte dello Stato di Washington dei fosfati nei detergenti. I fosfati sono una reale minaccia ambientale, che può contribuire a provocare la fioritura di alghe tossiche. Ma non era importante; Erickson era infuriato perché, sosteneva, la sua lavastoviglie non funzionava più bene come in precedenza. Può darsi che minacciare la violenza per una lavastoviglie si sembri pazzesco, dato che in effetti lo è; ma stracciare i regolamenti sulle lavastoviglie, si scoprì, era diventata una importante causa conservatrice.

La rabbia per i regolamenti ha un paio di caratteristiche distintive. Una è il suo essere sproporzionata, laddove restrizioni abbastanza leggere scatenano una rabbia vulcanica. L’altra è la pura meschinità di molte delle lamentele degli infuriati. Trump, per suo conto, non gradisce le lampadine moderne perché lo fanno diventare arancione – il che non è neanche vero (in effetti egli sembra arancione, ma probabilmente questo dipende dal fatto che ci aggiunge una abbronzatura artificiale e un uso eccessivo di cosmetici).

Inoltre, c’è qualcuno che si ricorda l’opposizione di Trump ai regolamenti che proteggono lo strato dell’ozono perché, sosteneva, il suo spray per i capelli non funzionava più bene come un tempo?

Dunque, cos’è che davvero provoca la rabbia per i regolamenti? Mi piacerebbe leggere qualche seria ricerca di politologi sul fenomeno. Sospetto, per quanto non lo sappia con certezza, che ci siano forti correlazioni tra la rabbia per i regolamenti ed altre attitudini, come il sostegno alle vendite illimitate delle armi e l’ostilità razziale.

Ma come ho detto sembra che l’insofferenza per i regolamenti sia più attinente alla psicologia che agli interessi personali. Viene da persone che, per i motivi più vari, non si sentono rispettate e che percepiscono restrizioni anche leggere alle loro azioni come insulti perpetrati da elite che si ritengono più intelligenti delle altre persone.

Tra gli americani in generale, quelle persone sono una netta minoranza. Ad esempio, i sondaggi ci dicono che una schiacciante maggioranza di americani, inclusa una maggioranza di persone che si definiscono repubblicane, vogliono vedere rafforzati e non indeboliti i regolamenti contro l’inquinamento.

Ma gli insofferenti ai regolamenti hanno una influenza sproporzionata sui politici repubblicani. E adesso abbiamo un insofferente ai regolamenti insediato alla Casa Bianca, determinato a disfare i regolamenti nel pubblico interesse anche quando le grandi imprese li vogliono mantenere.

Né sarà di aiuto mettere in evidenza che la drastica riduzione dei regolamenti sarebbe sia negativa per l’economia, che tale da far ammalare o da uccidere molti americani. Dopo tutto, chiunque affermi cose del genere, per definizione, fa parte di una elite che pretende di saper tutto.

 

 

 

 

 

 

I capricci tariffari e i rischi di recessione, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 7 agosto 2019)

agosto 9, 2019

 

Aug. 7, 2019

Tariff Tantrums and Recession Risks

By Paul Krugman

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If the bond market is any indication, Donald Trump’s escalating belligerence on trade is creating seriously increased risks of recession. But I haven’t seen many clear explanations of why that might be so. The problem isn’t just, or even mainly, that he really does seem to be a Tariff Man. What’s more important is that he’s a capricious, unpredictable Tariff Man. And that capriciousness is really bad for business investment.

First things first: why do I emphasize the bond market, not the stock market? Not because bond investors are cooler and more rational than stock investors, although that may be true. No, the point is that expected economic growth has a much clearer effect on bonds than on stocks.

Suppose the market becomes pessimistic about growth over the next year, or even beyond. In that case, it will expect the Fed to respond by cutting short-term interest rates, and these expectations will be reflected in falling long-term rates. That’s why the inversion of the yield curve — the spread between long-term and short-term rates — is so troubling. In the past, this has always signaled an imminent recession:

 

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That scary yield curve. St. Louis Fed

And the market seems in effect to be predicting that it will happen again.

But what about stocks? Lower growth means lower profits, which is bad for stocks. But it also, as we’ve just seen, means lower interest rates, which are good for stocks. In fact, sometimes bad news is good news: a bad economic number causes stocks to rise, because investors think it will induce the Fed to cut. So stock prices aren’t a good indicator of growth expectations.

O.K., preliminaries out of the way. Now let’s talk about tariffs and recession.

You often see assertions that protectionism causes recessions — Smoot-Hawley caused the Great Depression, and all that. But this is far from clear, and often represents a category error.

Yes, Econ 101 says that protectionism hurts the economy. But it does its damage via the supply side, making the world economy less efficient. Recessions, however, are usually caused by inadequate demand, and it’s not at all clear that protectionism necessarily has a negative effect on demand.

Put it this way: a global trade war would induce everyone to switch spending away from imports toward domestically produced goods and services. This will reduce everyone’s exports, causing job losses in export sectors; but it will simultaneously increase spending on and employment in import-competing industries. It’s not at all obvious which way the net effect would go.

To give a concrete example, think about the world economy in the 1950s, before the creation of the Common Market and long before the creation of the World Trade Organization. There was a lot more protectionism and vastly less international trade then than there would be later (the containerization revolution was still decades in the future.) But Western Europe and North America generally had more or less full employment.

So why do Trump’s tariff tantrums seem to be having a pronounced negative effect on near-term economic prospects? The answer, I’d submit, is that he isn’t just raising tariffs, he’s doing so in an unpredictable fashion.

People are often sloppy when they talk about the adverse effects of economic uncertainty, frequently using “uncertainty” to mean “an increased probability of something bad happening.” That’s not really about uncertainty: it means that average expectations of what’s going to happen are worse, so it’s a fall in the mean, not a rise in the variance.

But uncertainty properly understood can have serious adverse effects, especially on investment.

Let me offer a hypothetical example. Suppose there are two companies, Cronycorp and Globalshmobal, that would be affected in opposite ways if Trump imposes a new set of tariffs. Cronycorp would like to sell stuff we’re currently importing, and would build a new factory to make that stuff if assured that it would be protected by high tariffs. Globalshmobal has already been considering whether to build a new factory, but it relies heavily on imported inputs, and wouldn’t build that factory if those imports will face high tariffs.

Suppose Trump went ahead and did the deed, imposing high tariffs and making them permanent. In that case Cronycorp would go ahead, while Globalshmobal would call off its investment. The overall effect on spending would be more or less a wash.

On the other hand, suppose that Trump were to announce that we’ve reached a trade deal: all tariffs on China are called off, permanently, in return for Beijing’s purchase of 100 million memberships at Mar-a-Lago. In that case Cronycorp will cancel its investment plans, but Globalshmobal will go ahead. Again, the overall effect on spending is a wash.

But now introduce a third possibility, in which nobody knows what Trump will do — probably not even Trump himself, since it will depend on what he sees on Fox News on any given night. In that case both Cronycorp and Globalshmobal will put their investments on hold: Cronycorp because it’s not sure that Trump will make good on his tariff threats, Globalshmobal because it’s not sure that he won’t.

Technically speaking, both companies will see an option value to delaying their investments until the situation is clearer. That option value is basically a cost to investment, and the more unpredictable Trump’s policy, the higher that cost. And that’s why trade tantrums are exerting a depressing effect on demand.

Furthermore, it’s hard to see what can reduce this uncertainty. U.S. trade law gives the president huge discretionary authority to impose tariffs; the law was never designed to deal with a chief executive who has poor impulse control. A couple of years ago many analysts expected Trump to be restrained by his advisers, but he’s driven many of the cooler heads out, many of those who remain are idiots, and in any case he’s reportedly paying ever less attention to other people’s advice.

None of this guarantees a recession. The U.S. economy is huge, there are a lot of other things going on besides trade policy, and other policy areas don’t offer as much scope for presidential capriciousness. But now you understand why Trump’s tariff tantrums are having such a negative effect.

 

I capricci tariffari e i rischi di recessione,

di Paul Krugman

 

Se il mercato dei bond offre qualche indicazione, la sempre maggiore belligeranza di Donald Trump sul commercio sta creando seri rischi crescenti di recessione. Ma non ho letto molte chiare spiegazioni del perché dovrebbe essere così. Il problema non è soltanto, o neppure principalmente, che egli sembra essere per davvero l’Uomo delle Tariffe. Quello che è più importante è che è un Uomo delle Tariffe capriccioso e imprevedibile. E quella volubilità è davvero negativa per gli investimenti delle imprese.

Andiamo con ordine: perché do tanto rilievo al mercato dei bond, e non al mercato azionario? Non perché gli investitori dei bond siano più cauti e più razionali degli investitori nelle azioni, sebbene questo possa esser vero. No, il punto è che la crescita economica attesa ha un effetto molto più chiaro sui bond che non sulle azioni.

Si supponga che il mercato divenga pessimista sulla crescita nel prossimo anno, o anche oltre. In quel caso mi aspetterò che la Fed tagli i tassi di interesse a breve termine, e queste aspettative si rifletteranno in una caduta dei tassi a lungo termine. Questa è la ragione per la quale l’inversione della curva dei rendimenti – lo spread tra i tassi a lungo e a breve termine – è così preoccupante. Nel passato, essa ha sempre segnalato una recessione imminente:

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La allarmante curva dei rendimenti. Fed di St. Louis.

 

E il mercato sembra che stia in effetti prevedendo che ciò accadrà nuovamente.

Ma cosa dire delle azioni? Una crescita più bassa significa profitti più bassi, il che per le azioni è negativo. Ma significa anche, come abbiamo appena visto, tassi di interesse più bassi, che per le azioni sono positivi. Di fatto, talora le cattive notizie sono buone notizie: un certo numero di fattori economici negativi provocano un rialzo delle azioni, perché gli investitori pensano che indurranno la Fed a un taglio. Dunque, i prezzi delle azioni non sono un buon indicatore delle aspettative di crescita.

Ora abbiamo sbarazzato il campo dei preliminari. Parliamo adesso di tariffe e di recessione.

Si sentono spesso giudizi secondo i quali il protezionismo provoca le recessioni – la legge Smoot-Hawley provocò la Grande Depressione, e tutto il resto. Ma questo è lungi dall’essere chiaro, e spesso rappresenta un errore di categoria.

È vero, un libro di testo di economia dice che il protezionismo danneggia l’economia. Ma provoca quel danno sul versante dell’offerta, rendendo l’economia mondiale meno efficiente. Le recessioni, tuttavia, sono normalmente provocate da una domanda inadeguata, e non è affatto chiaro che il protezionismo comporti necessariamente un effetto negativo sulla domanda.

Diciamo così: una guerra commerciale globale indurrebbe tutti a spostare la spesa dalle importazioni ai beni ed ai servizi prodotti all’interno. Questo ridurrà le esportazioni di ciascuno, provocando perdite di posti di lavoro nei settori esportatori; ma simultaneamente accrescerà l spesa e l’occupazione nei settori che competono con le importazioni. Non è affatto evidente quali sarebbero gli effetti netti.

Per fare un esempio concreto, si pensi all’economia mondiale degli anni ’50, prima della creazione el Mercato Comune e della Organizzazione Mondiale del Commercio. A quell’epoca c’era molto più protezionismo e molto meno commercio internazionale di quello che ci sarebbe stato successivamente (per la rivoluzione della containerizzazione ci sarebbero voluti ancora decenni). Ma l’Europa Occidentale e il Nord America avevano più o meno una piena occupazione.

Perché dunque gli scatti d’ira di Trump sembrano avere un effetto negativo vistoso sulle prospettive economiche a breve termine? Suggerirei che la risposta sia che non si tratta soltanto di alzare le tariffe, ma di farlo in un modo imprevedibile.

La gente è spesso approssimativa quando parla degli effetti negativi dell’incertezza economica, usando di solito il termine “incertezza” per significare “una maggiore probabilità che avvenga qualcosa di negativo”. Ma non è a quello che si riferisce il termine incertezza: esso significa che in media le attese per quello che sta per accadere sono peggiori, cosicché c’è una caduta nella media, non un aumento nella varianza statistica.

Ma l’incertezza intesa nel senso appropriato può avere seri effetti negativi, in particolare sugli investimenti.

Fatemi avanzare un esempio ipotetico. Supponiamo che ci siano due società, chiamiamole Cronycorp e Globalshmobal [1], che sarebbero influenzate in modi opposti se Trump imponesse un nuovo complesso di tariffe. A Cronycorp farebbe piacere vendere cose che attualmente stiamo importando, e per costruire quella roba costruirebbne un nuovo stabilimento, se fosse sicura di essere protetta da alte tariffe. Globalshmobal stava già considerando l’ipotesi di costruire un nuovo stabilimento, ma essa si basa pesantemente su prodotti importati, e non costruirebbe quello stabilimento se quelle importazioni avessero alte tariffe.

Supponiamo che Trump vada avanti e compia l’atto, imponendo tariffe elevate e rendendole permanenti. In quel caso Cronycorp andrebbe avanti, mentre Globalshmobal rinuncerebbe ai suoi investimenti. L’effetto complessivo sulla spesa sarebbe più o meno insignificante.

D’altra parte, supponiamo che Trump annunci che è stato raggiunto un accordo commerciale: tutte le tariffe sulla Cina sono revocate, in permanenza, in cambio di un acquisto da parte di Pechino di una partecipazione di 100 milioni sulla sua villa di Mar-a-Lago. In quel caso Cronycorp cancellerebbe i suoi progetti di investimento, ma Globalshmobal andrebbe avanti. L’effetto complessivo sulla spesa sarebbe ancora insignificante.

Ma adesso introduciamo una terza possibilità, secondo la quale nessuno conosce cosa farà Trump – probabilmente neanche lo stesso Trump, dato che esso dipende da quello che guarda su Fox News in una data serata. In quel caso sia Cronycorp che Globalshmobal lasceranno in sospeso i loro investimenti: Cronycorp perché non è sicura che Trump attuerà le sue minacce tariffarie, Globalshmobal perché non è sicura che non lo farà.

Tecnicamente parlando, entrambe le società vedranno un valore di opzione [2] nel rinviare i loro investimenti finché la situazione non sia più chiara. Quel ‘valore di opzione’ è fondamentalmente un costo per l’investimento, e più che la politica di Trump è imprevedibile, più elevato è quel costo. E questa è la ragione per la quale i capricci commerciali stanno esercitando un effetto deprimente sulla domanda.

Inoltre è difficile capire cosa possa ridurre questa incertezza. La legislazione commerciale degli Stati Uniti dà al Presidente una ampia autorità discrezionale di imporre tariffe; la legislazione non venne concepita per misurarsi con una capo dell’esecutivo che ha una modesta capacità di controllare gli impulsi. Un paio d’anni fa molti analisti si aspettavano che Trump fosse condizionato dai suoi consiglieri, ma lui ha licenziato molti dei suoi collaboratori con i nervi più saldi, molti di quelli che restano sono degli sciocchi, e in ogni caso si dice che egli si affidi meno che mai al consiglio di altre persone.

Niente di tutto questo assicura una recessione. L’economia degli Stati Uniti è vasta, ci sono molte altre cose oltre alla politica commerciale, ed altre aree della politica non offrono altrettanto margine per i capricci presidenziali. Ma adesso capite perché i capricci tariffari di Trump stiano avendo tali effetti negativi.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Ovvero, una società di tipo clientelare, basata su favori, ed una società di tipo globalistico, più aperta alla competizione mondiale.

[2] Nell’analisi costi-benefici e nell’economia del benessere sociale, il termine valore dell’opzione si riferisce al valore che è posto sulla volontà privata di pagare per mantenere o preservare un bene o servizio pubblico anche se c’è poca o nessuna probabilità che l’individuo lo usi effettivamente

 

 

 

 

Il trauma cinese di Trump, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 5 agosto 2019)

agosto 6, 2019

 

Aug. 5, 2019

Trump’s China Shock

By Paul Krugman

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I didn’t know that the Dow was going to drop 750 points, so my latest column is El Paso-related. Probably the right choice anyway, because US-China is moving so fast that anything in the print paper would be out of date.

But it does look as if I should try to explain (a) what I think is happening (b) why the markets are going so nuts. By the way, given Mnuchin’s declaration just a few minutes ago that China is a currency manipulator, tomorrow’s market action should be … interesting.

So here’s the thing: neither Trump’s tariff announcement last week nor, especially, the depreciation of China’s currency today should objectively be that big a deal. Trump slapped 10 percent tariffs on $200 billion of Chinese exports, which is a tax hike of 0.1 percent of US GDP and 0.15 percent of Chinese GDP.

In response, China let its currency drop by about 2 percent. For comparison, the British pound has dropped around 9 percent since May, when it became clear that a no-deal Brexit was likely.

So why are these smallish numbers such a big deal? Mostly because we’ve learned things about the protagonists in this trade conflict, things that make a bigger, longer trade war seem a lot more likely than it did even a few days ago.

First, Trump really is a Tariff Man. Some naïve souls may still have been hoping that he would learn something from the failure of his trade policy so far. More sensible people hoped that he might do what he did with NAFTA: reach a new deal basically the same as the old deal, proclaim that it was totally different, and claim a great victory.

But no: it’s pretty clear now that he refuses to give up on his belief that trade wars are good, and easy to win; his plan is to continue the beatings until morale improves. What may have looked like temporary tariffs designed to win concessions now look like permanent features of the world economy, with the level of tariffs and the range of countries facing them likely to expand over time.

Second, China is clearly signaling that it’s not Canada or Mexico: it’s too big and too proud to submit to what it considers bullying. That slide in the renminbi wasn’t a concrete policy measure as much as a way of saying to Trump, “talk to the hand” (no doubt there’s a good Chinese expression along these lines.)

Incidentally — or maybe it’s not so incidental — while there are many valid reasons to criticize Chinese policy, currency manipulation isn’t one of them. China was a major currency manipulator 7 or 8 years ago, but these days if anything it’s supporting its currency above the level it would be at if it were freely floating.

And think for a minute about what would happen to a country with an unmanipulated currency, if one of its major export markets suddenly slapped major tariffs on many of its goods. You’d surely expect to see that country’s currency depreciate, just as Britain’s has with the prospect of lost market access due to Brexit.

In other words, the Trump administration in its wisdom has managed to accuse the Chinese of the one economic crime of which they happen to be innocent. Oh, and what are we going to do to punish them for this crime? Put tariffs on their exports? Um, we’ve already done that.

So how does this all end? I have no idea. More important, neither does anyone else. It looks to me as if both Trump and Xi have now staked their reputations on hanging tough. And the thing is, it’s hard to see what would make either side give in (or even to know what giving in might mean.)

At this rate, we may have to wait for a new president to clean up this mess, if she can.

 

Il trauma cinese di Trump,

di Paul Krugman

 

Non sapevo che il Dow stava per scendere di 750 punti, dunque il mio ultimo articolo è sui fatti di El Paso. Probabilmente in ogni caso la scelta giusta, perché la situazione tra Stati Uniti e Cina si sta muovendo così velocemente che ogni cosa sulla carta stampata sarebbe superata.

Ma sembra che debba provare a spiegare: a) quello che penso stia accadendo, b) perché i mercati stiano andando così fuori di testa. Per inciso, considerata la dichiarazione di pochi istanti fa di Mnuchin secondo la quale la Cina sarebbe un manipolatore valutario, quello che succede domani sul mercato dovrebbe essere … interessante.

La questione dunque è questa: né l’annuncio delle tariffe di Trump della scorsa settimana, né, in particolare, la svalutazione della moneta cinese odierna dovrebbero essere obbiettivamente cose sensazionali. Trump ha schiaffato tariffe del 10 per cento su 200 miliardi di esportazioni cinesi, il che corrisponde ad un aumento delle tasse dello 0,1 per cento sul PIL statunitense e dello 0,15 per cento su quello cinese.

In risposta, la Cina lascia scendere la sua valuta di circa il 2 per cento. A confronto, la sterlina inglese è calata dal mese di maggio di circa il 9 per cento, quando divenne chiaro che una Brexit senza alcun accordo era probabile.

Dunque, perché numeri così piccini sono una faccenda talmente seria? Soprattutto perché abbiamo imparato cose sui protagonisti di questo conflitto commerciale, cose che fanno apparire una guerra commerciale più grave e più lunga molto più probabile di quanto non lo fosse anche pochi giorni orsono.

Anzitutto, Trump è davvero l’Uomo delle Tariffe. Alcune anime candide possono ancora sperare che egli impari qualcosa dal fallimento della sua politica commerciale sino a questo punto. Persone più sensate speravano che facesse quello che aveva fatto con il NAFTA: raggiungere un nuovo accordo sostanzialmente simile all’accordo precedente, e vantarlo come una grande vittoria.

Invece no: è abbastanza chiaro che egli rifiuta di rinunciare al suo convincimento che le guerre commerciali sono una buona cosa e sono facili da vincere; il suo piano è continuare a dar colpi finché il morale non migliora. Quelle che potevano essere apparse come tariffe provvisorie rivolte ad ottenere concessioni, appaiono oggi come caratteristiche permanenti dell’economia mondiale, ed è probabile che il livello delle tariffe e la serie dei paesi interessati crescano col tempo.

In secondo luogo, la Cina sta segnalando di non essere come il Canada o il Messico: è troppo grande e troppo fiera per sottomettersi a quella che considera una intimidazione. Quella scivolata del renminbi non è stata tanto una concreta misura politica, quanto un modo di dire a Trump “parli al vento [1]” (senza dubbio c’è una buona espressione cinese con questo significato).

Per inciso – o forse non tanto per inciso – mentre ci sono molte valide ragioni per criticare la politica cinese, la manipolazione valutaria non è una di queste. La Cina era un manipolatore valutario 7 o 8 anni fa, ma di questi tempi sta semmai sostenendo la sua valuta sopra il livello al quale si collocherebbe se fluttuasse liberamente.

E si pensi per un istante a quello che accadrebbe ad un paese con una valuta non manipolata, se uno dei suoi importanti mercati di esportazione d’un tratto imponesse tariffe su molti dei suoi prodotti. Sicuramente vi aspettereste di vedere che la valuta di quel paese verrebbe svalutata, proprio come ha fatto l’Inghilterra con la prospettiva di un accesso perduto al mercato a seguito della Brexit.

In altre parole, l’Amministrazione Trump nella sua saggezza ha cercato di accusare i cinesi dell’unico crimine economico per il quale accade che siano innocenti. E cosa siamo intenzionati a fare per punirli di questo crimine? Mettiamo tariffe sulle loro esportazioni? Mhh, quello l’abbiamo già fatto.

Dunque, come andrà a finire tutto questo? Non ne ho idea. Più importante ancora, nessun altro ce l’ha. A me sembra che sia Trump che Xi abbiano messo in gioco la loro reputazione tenendo duro. E il punto è che è difficile vedere cosa potrebbe costringere l’altra parte ad arrendersi (o anche sapere cosa potrebbe significare una resa).

Di questo passo, possiamo dover aspettare che un(a) nuov(a) Presidente sistemi questo casino, se le riesce.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Letteralmente sarebbe “Parla alla mano” – intendendo implicitamente “perché io non ti ascolto con la testa”. Vedi il forum su Wordreference del 13 dicembre 2005, che pure non offre soluzioni soddisfacenti in italiano.

 

 

 

 

Il pantano commerciale di Trump (per esperti). di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 3 agosto 2019)

agosto 4, 2019

 

Aug 3, 2019

Trump’s Trade Quagmire (Wonkish)

By Paul Krugman

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Remember the Vietnam quagmire? (Actually, I hope many of my readers are young enough that they don’t, but you’ve presumably heard about it.) In political discourse, “quagmire” has come to have a quite specific meaning. It’s what happens when a government has committed itself to a policy that isn’t working, but can’t bring itself to admit failure and cut its losses. So it just keeps escalating, and things keep getting worse.

Well, here’s my thought: Trump’s trade war is looking more and more like a classic policy quagmire. It’s not working — that is, it isn’t at all delivering the results Trump wants. But he’s even less willing than the average politician to admit to a mistake, so he keeps doing even more of what’s not working. And if you extrapolate based on that insight, the implications for the U.S. and world economies are starting to get pretty scary.

This article, by the way, while not very technical, is going to make use of a number of charts and even a few terms of art, hence the “wonkish” warning.

To preview, I’m going to make five points:

  1. The trade war is getting big. Tariffs on Chinese goods are back to levels we associate with pre-1930s protectionism. And the trade war is reaching the point where it becomes a significant drag on the U.S. economy.
  2. Nonetheless, the trade war is failing in its goals, at least as Trump sees them: the Chinese aren’t crying uncle, and the trade deficit is rising, not falling.
  3. The Fed probably can’t offset the harm the trade war is doing, and is probably getting less willing even to try.
  4. Trump is likely to respond to his disappointments by escalating, with tariffs on more stuff and more countries, and — despite denials — in the end, with currency intervention.
  5. Other countries will retaliate, and this will get very ugly, very fast.

I could, of course, be wrong. But that’s how it looks given what we know now.

OK., let’s start with the scale of the policy. The invaluable people at the Peterson Institute for International Economics have a nice chart showing the escalation of tariffs on Chinese goods under Trump:

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Trump’s tariff escalation. PIIE

So roughly speaking, we’ve seen a 20 percent tax imposed on the $500 billion worth of goods we import from China each year. Although Trump keeps insisting that the Chinese are paying that tax, they aren’t. When you compare what has happened to prices of imports subject to new tariffs with those of other imports, it’s overwhelmingly clear that the burden is falling on U.S. businesses and consumers.

So that’s a $100 billion a year tax hike. However, we aren’t collecting nearly that much in extra tariff revenue:

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Some revenue, but not much. Federal Reserve of St. Louis

Partly that’s because the revenue numbers don’t yet include the full range of Trump tariffs. But it’s also because one big effect of the Trump tariffs on China has been to shift the sourcing of U.S. imports — e.g., instead of importing from China, we buy stuff from higher-cost sources like Vietnam. When this “trade diversion” happens, it’s still a de facto tax increase on U.S. consumers, who are paying more, but it doesn’t even have the benefit of generating new revenue.

So this is a pretty big tax hike, which amounts to contractionary fiscal policy. And we should add in two other effects: foreign retaliation, which hurts U.S. exports, and uncertainty: Why build a new factory when for all you know Trump will suddenly decide to cut off your market, your supply chain, or both?

I don’t think it’s outlandish to suggest that the overall anti-stimulus from the Trump tariffs is comparable in scale to the stimulus from his tax cut, which largely went to corporations that just used the money to buy back their own stock. And that stimulus is behind us, while the drag from his trade war is just getting started.

But why is Trump doing this? A lot of center-right apologists for Trump used to claim that he wasn’t really fixated on bilateral trade balances, which every economist knows is stupid, that it was really about intellectual property or something. I’m not hearing that much anymore; it’s increasingly clear that he is, indeed, fixated on trade balances, and believes that America runs trade deficits because other countries don’t play fair.

Strange to say, however, despite all those new tariffs the U.S. trade deficit is getting bigger, not smaller, on his watch:

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The deficit that wouldn’t come down. Federal Reserve of St. Louis

And adjusted for inflation, imports are still growing strongly, while U.S. exports have been shriveling:

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Who’s winning this trade war, exactly? Federal Reserve of St. Louis

Why aren’t tariffs shrinking the trade deficit? Mainly the answer is that Trump’s theory of the case is all wrong. Trade balances are mainly about macroeconomics, not tariff policy. In particular, the persistent weakness of the Japanese and European economies, probably mainly the result of shrinking prime-age work forces, keeps the yen and the euro low and makes the U.S. less competitive.

When it comes to recent import and export trends, there may also be an asymmetric effect of the tariffs themselves. As I already mentioned, U.S. tariffs on Chinese goods don’t do much to reduce overall imports, because we just shift to products from other Asian economies. On the other hand, when the Chinese stop buying our soybeans, there aren’t any major alternative markets.

Whatever the explanation, Trump’s tariffs aren’t producing the results he wanted. Nor are they getting the other thing he wants: Splashy concessions from China that he can portray as victories (“tweetable deliveries”). As Gavyn Davies says, China seems “increasingly confident it can weather the trade wars,” and it’s not showing any urge to placate the U.S.

So this might seem to be a good time to hit the pause button and rethink strategy. Instead, however, Trump went ahead and slapped on a new round of tariffs. Why?

Well, stock traders reportedly think that Trump was emboldened by the Fed’s rate cut, which he imagines means that the Fed will insulate the U.S. economy from any adverse effects of his trade war. We have no way of knowing if that’s true. However, if Trump does think that, he’s almost surely wrong.

For one thing, the Fed probably doesn’t have much traction: interest rates are already very low. And the sector most influenced by interest rates, housing, hasn’t shown much response to what is already a sharp drop in mortgage rates.

Furthermore, the Fed itself must be wondering if its rate cut was seen by Trump as an implicit promise to underwrite his trade war, which will make it less willing to do more — a novel form of moral hazard.

There is, by the way, a strong contrast here with China, which for all its problems retains the ability to pursue coordinated monetary and fiscal stimulus to a degree unimaginable here. Trump probably can’t bully the Fed into offsetting the damage he’s inflicting (and just try to imagine him getting Nancy Pelosi to bail him out); Xi is in a position to do whatever it takes.

So what will Trump do next? My guess is that instead of rethinking, he’ll escalate, which he can do on several fronts. He can push those China tariffs even higher. He can try to deal with trade diversion by expanding the trade war to include more countries (good morning, Vietnam!).

And he can sell dollars on foreign exchange markets, in an attempt to depreciate our currency. The Fed would actually carry out the intervention, but currency policy is normally up to the Treasury Department, and in June Jerome Powell reiterated that this is still the Fed’s view. So we might well see a unilateral decision by Trump to attempt to weaken the dollar.

But a deliberate attempt to weaken the dollar, gaining competitive advantage at a time when other economies are struggling, would be widely — and correctly — seen as beggar-thy-neighbor “currency war.” It would lead to widespread retaliation, even though it would also probably be ineffective. And the U.S. would have forfeited whatever remaining claims it may still have to being a benevolent global hegemon.

 

Il pantano commerciale di Trump (per esperti).

di Paul Krugman

 

Vi ricordate il pantano del Vietnam? (In realtà spero che molti miei lettori siano giovani abbastanza da non ricordarsene, ma probabilmente ne avete sentito parlare.) Nel dibattito politico, ‘pantano’ ha finito con l’assumere un significato abbastanza particolare. È quello che accade quando un Governo si è legato ad una politica che non sta funzionando, ma non può indursi a riconoscere il fallimento e a ridurre le sue perdite. Cosicché continua semplicemente a inasprirsi, e le cose continuano a peggiorare.

Ebbene, ecco la mia opinione: la guerra commerciale di Trump assomiglia sempre di più ad un classico pantano politico. Non sta funzionando – ovvero, non sta affatto producendo i risultati voluti da Trump. Ma lui è persino meno disponibile della media dei politici ad ammettere un errore, quindi continua a realizzare sempre di più quello che non sta funzionando. E, se si tenta una deduzione basandosi su quello che si conosce, le implicazioni per gli Stati Uniti e per le economie del mondo cominciano ad essere allarmanti.

Questo articolo, per inciso, pur non essendo molto tecnico, si appresta a far uso di un certo numero di diagrammi ed anche di pochi termini in uso nella disciplina, dai quali la messa in guardia “per esperti”.

Devo premettere, anzitutto, cinque punti:

1 – La Guerra commerciale sta diventando una grossa cosa. Le tariffe sui beni cinesi sono tornate a livelli che associamo al protezionismo precedente agli anni ’30. E la guerra commerciale sta raggiungendo il punto nel quale diventa un significativo prelievo sull’economia statunitense.

2 – Ciononostante, la guerra commerciale sta fallendo i suoi obbiettivi, almeno per come Trump li concepisce: i cinesi non stanno ammettendo la sconfitta e il deficit commerciale sta crescendo, non calando.

3 – Probabilmente, la Fed non può compensare il danno che la guerra commerciale sta producendo, e sta probabilmente diventando anche poco disponibile a provarci.

4 – È probabile che Trump risponderà a queste delusioni inasprendo le misure, con le tariffe o con altri sistemi e con un maggior numero di paesi, e – nonostante i dinieghi – alla fine con interventi valutari.

5 – Gli altri paesi reagiranno, e molto presto questo diventerà assai sgradevole.

Potrei aver torto, ovviamente. Ma questo è quello che mi appare sulla base di quanto si sa ad oggi.

Cominciamo dunque con la dimensione della politica in atto. Gli inestimabili individui del Peterson Institute for International Economics hanno un grazioso grafico che mostra gli incrementi delle tariffe sui beni cinesi sotto Trump:

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Gli incrementi tariffari di Trump. PIIE [1]

 

Dunque, parlando approssimativamente, abbiamo assistito ad una tassazione del 20 percento imposta su un valore di 500 miliardi di dollari di beni che importiamo ogni anno dalla Cina. Sebbene Trump continui ad insistere che siano i cinesi a pagare quella tassa, non è così. Quando si confronta quello che è accaduto ai prezzi delle importazioni soggette alle nuove tariffe con quelli di altre importazioni, è completamente chiaro che l’onere sta gravando sulle imprese e sui consumatori statunitensi.

Dunque, questo corrisponde ad una impennata della tassazione annuale di 100 miliardi di dollari. Tuttavia, noi non stiamo raccogliendo nemmeno lontanamente così tanto in entrate extra tariffarie:

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Un po’ di maggiori entrate, ma non molto. Federal Reserve di St. Louis  [2]

 

In parte questo dipende dal fatto che I dati delle entrate non includono ancora l’intero ammontare delle tariffe di Trump. Ma anche dal fatto che un grande effetto delle tariffe di Trump sulla Cina è stato lo spostamento delle fonti delle importazioni statunitensi – ovvero, anziché importare dalla Cina, compriamo beni da fonti a costo più elevato come il Vietnam. Quando avviene questo “spostamento commerciale”, esso è tuttavia si risolve in un incremento fiscale sui consumatori statunitensi, che stanno pagando di più, ma non ha neppure il beneficio di generare nuove entrate.

Dunque si tratta di un aumento fiscale abbastanza cospicuo, che corrisponde ad una politica fiscale restrittiva. E dovremmo aggiungere altri due effetti: le ritorsioni straniere, che danneggiano le esportazioni statunitensi, e l’incertezza: perché costruire un nuovo stabilimento quando, da quanto si sa, Trump potrà decidere all’improvviso di ridurre il vostro mercato, le vostre catene dell’offerta, o entrambi?

Non penso che sia stravagante suggerire che l’effetto complessivo di anti stimolazione delle tariffe di Trump è paragonabile nelle sue dimensioni all’effetto di stimolo dei suoi tagli fiscali, che in gran parte sono andati alle società che li hanno semplicemente utilizzati per riacquistare le loro stesse azioni. E quello stimolo è alle nostre spalle, mentre il prelievo dalla sua guerra commerciale sta solo cominciando ad avere effetti.

Ma perché Trump lo sta facendo? Un buon numero di difensori di Trump del centro-destra erano soliti sostenere che egli non fosse effettivamente fissato sugli equilibri commerciali bilaterali, che ogni economista sa essere stupido, ma in realtà era interessato alla proprietà intellettuale o a cose del genere. Non lo sento più dire: è sempre più chiaro che egli è, in effetti, fissato sugli equilibri finanziari, e crede che l’America gestisca deficit commerciali perché gli altri paesi non si comportano correttamente.

Strano a dirsi, tuttavia, nonostante tutte quelle tariffe il deficit commerciale statunitense sta diventando più grande, non più piccolo, durante il suo mandato:

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Il deficit che non è sceso. Federal Reserve di St. Louis [3]

E, corrette per l’inflazione, le importazioni stanno ancora crescendo fortemente, mentre le esportazioni statunitensi stanno ancora rinsecchendosi:

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Precisamente, chi sta vincendo la guerra commerciale? Federal Reserve di St. Louis [4]

 

Perché le tariffe non stanno restringendo il deficit commerciale? Principalmente, la risposta è che la teoria di Trump sulla materia è tutta sbagliata. Gli squilibri commerciali riguardano principalmente la macroeconomia, non la politica commerciale. In particolare, la persistente debolezza delle economie del Giappone e dell’Europa, probabilmente principalmente in conseguenza della riduzione delle forze di lavoro nella principale età lavorativa, portano in basso lo yen e l’euro e rendono gli Stati Uniti meno competitivi.

Quando si passa alle recenti tendenze delle importazioni e delle esportazioni, può anche esserci un effetto asimmetrico delle tariffe stesse. Come ho già ricordato, le tariffe statunitensi sui prodotti cinesi non fanno granché per ridurre le importazioni complessive, giacché noi ci spostiamo soltanto verso prodotti di altre economie asiatiche. Di contro, quando i cinesi smettono di acquistare la nostra soia, non ci sono altri importanti mercati alternativi.

Qualsiasi sia la spiegazione, le tariffe di Trump non stanno producendo i risultati che voleva. Neppure stanno provocando le altre cose che lui voleva: sensazionali concessioni dalla Cina che lui possa presentare come vittorie (“consegne publicizzabili su Twitter”). Come afferma Gavyn Davies, la Cina sembra “sempre più fiduciosa di poter resistere alle guerre commerciali” e non sta mostrando alcuna premura di placare gli Stati Uniti.

Dunque, sembrerebbe il momento giusto per premere il bottone della pausa e di ripensare l strategia. Ciononostante, Trump è andato avanti ed ha schiantato una nuova serie di tariffe. Perché?

Ebbene, si dice che gli operatori sui mercati azionari pensino che Trump sia stato rincuorato dal taglio dei tassi della Fed, che lui immagina significhi la volontà della Fed di isolare l’economia statunitense da qualsiasi effetto negativo della sua guerra commerciale. Non abbiamo modo di sapere se questo sia vero. Tuttavia, se Trump lo pensasse veramente, avrebbe quasi sicuramente torto.

Da una parte, la Fed probabilmente non ha molta capacità di trazione: i tassi di interesse sono già molto bassi. E il settore maggiormente influenzato dai tassi di interesse, l’edilizia, non ha mostrato una grande risposta a quello che è già un brusco calo nei tassi dei mutui.

Inoltre, la Fed stessa si sta probabilmente chiedendo se il taglio dei tassi sia stato considerato da Trump come una implicita promessa di sottoscrivere la sua guerra commerciale, il che la renderà meno disponibile a fare di più – una nuova forma di ‘azzardo morale’.

Per inciso, c’è in questo caso un forte contrasto con la situazione della Cina, che con tutti i suoi problemi mantiene la capacità di perseguire uno stimolo della leva monetaria e di quella della finanza pubblica, coordinato in un grado qua inimmaginabile. Trump probabilmente non può costringere la Fed a compensare il danno che lui sta provocando (pensate solo ad immaginare che possa ottenere da Nancy Pelosi un salvataggio); Xi è nella condizione di fare tutto quello che gli serve.

Dunque, quale sarà la prossima mossa di Trump? La mia idea è che piuttosto di ripensarci, egli intensificherà la sua azione, la qual cosa può farla in varie direzioni. Egli può spingere quelle tariffe sulla Cina ancora più in alto. Può cercare di occuparsi della deviazione dei commerci espandendo la guerra commerciale sino a includere altri paesi (buon giorno, Vietnam!).

E può vendere dollari sui mercati di cambio esteri, nel tentativo di svalutare la moneta. In realtà sarebbe la Fed a mettere in pratica l’intervento, ma la politica valutaria è di norma di competenza del Dipartimento del Tesoro, e in giugno Jerome Powell ha ribadito che questo è ancora il punto di vista della Fed. Dunque non sarebbe affatto impossibile assistere di una decisione unilaterale di Trump per tentare di indebolire il dollaro.

Ma un tentativo deliberato di indebolire il dollaro, guadagnando un vantaggio competitivo in un periodo nel quale le altre economie hanno difficoltà, sarebbe generalmente – e correttamente – considerata come una “guerra valutaria” ai danni degli altri. Essa condurrebbe a ritorsioni generalizzate, pur essendo probabilmente inefficace. E gli Stati Uniti rinuncerebbero a qualsiasi residua pretesa possano ancora avere di esercitare un’egemonia globale longanime.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] In pratica, si è passati da un percentuale del 3,1 nel 2017, ad una deel 21,5 annunciata in questi giorni, che potrebbe salite al 27,8 nello scenario futuro.

[2] Provo a capire. Il diagramma, in realtà, mostra un picco nelle entrate fiscali del Governo Federale derivanti dalle tariffe sulle importazioni. Ma mentre esse dovrebbero corrispondere a circa 100 miliardi – il 20% su un valore delle importazioni di 500 miliardi – l’incremento reale si colloca nella differenza tra i 35-40 miliardi precedenti ed i circa 70 miliardi del 2019, ovvero 35 miliardi circa.

[3] Si noti che la scala dei valori assoluti, sulla destra, è discendente. Quindi, durante il mandato di Trump, il valore del deficit è passato da oltre 560 miliardi di dollari a 680/660 miliardi di dollari nel 2018/2019.

[4] Si noti anche qua che la scala di riferimento sulla destra – espressa in cambiamenti percentuali rispetto all’anno precedente – è in discesa; i valori negli anni di Trump passano da incrementi percentuali delle importazioni (linea rossa) del 4/5% nel 2017 – 2018, ad un incremento attorno al 3% nel 2019. Ma, nel frattempo, i cambiamenti percentuali nelle esportazioni (linea blu) sono passati da valori attorno al +3/+5% del 2017 – 2° trimestre 2018, ad un recente -2% nel 2019.  L’andamento del deficit commerciale, dunque, che è una risultante delle modifiche delle importazioni e delle esportazioni, è negativo, dato che le prime continuano a crescere, mentre le seconde calano.

 

 

 

 

I fanatici dell’oro sono con Trump, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 13 luglio 2019)

luglio 15, 2019

 

July 13, 2019

Goldbugs for Trump

By Paul Krugman

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Before going to the White House, Donald Trump demanded that the Fed raise interest rates despite high unemployment and low inflation. Now he’s demanding rate cuts, even though the unemployment rate is much lower and inflation at least a bit higher. To be fair, there is a real economic argument for rate cuts as insurance against a possible slowdown. But it’s clear that Trump’s motives are and always have been purely political: he wanted the Fed to hurt President Obama, and now he wants it to boost his own reelection chances.

It’s not surprising, then, that Trump is also trying to stuff the Federal Reserve Board with political allies. What may seem surprising is that many of his would-be appointees, like Stephen Moore and now Judy Shelton, have long records of supporting the gold standard or something like it. This should put them at odds with his efforts to politicize the Fed. After all, one of the supposed points of a gold standard is to remove any hint of politics from monetary policy. And with gold prices rising lately, gold standard advocates should be calling for the Fed to raise rates, not lower them.

But of course both Moore and Shelton have endorsed Trump’s demand for rate cuts. This creates a dual puzzle: Why does Trump want these people, and why are they so willing to cater to his wishes?

Well, I think there’s a simple answer to both sides of the puzzle, which involves the reason some economic commentators (not sure if they deserve to be called “economists”) become goldbugs in the first place. What I’d suggest is that it usually has less to do with conviction than with cynical careerism. And this in turn means that goldbugs are, in general, the kind of people who can be counted on to do Trump’s bidding, never mind what they may have said in the past.

Let me start with what might seem like a trivial question, but which is, I believe, crucial: What does it take to build a successful career as a mainstream economist?

The truth is that it’s not at all easy. Parroting orthodox views definitely won’t do it; you have to be technically proficient, and to have a really good career you must be seen as making important new contributions — innovative ways to think about economic issues and/or innovative ways to bring data to bear on those issues. And the truth is that not many people can pull this off: it requires a combination of deep knowledge of previous research and the ability to think differently. You have to both understand the box and be able to think outside it.

I don’t want to romanticize the mainstream economics profession, which suffers from multiple sins. Male economists like me are only beginning to comprehend the depths of the profession’s sexism. There’s far too much dominance by an old-boy network of economists with PhDs from a handful of elite institutions. (And yes, I’ve been a beneficiary of these sins.) Many good ideas have been effectively blocked by ideology — even now, for example, it’s hard to publish anything with a Keynesian flavor in top journals. And there’s still an overvaluation of mathematical razzle-dazzle relative to real insight.

But even for people who can check off all the right identity boxes, climbing the ladder of success in mainstream economics is tough. And here’s the thing: for those who can’t or won’t make that climb, there are other ladders. Heterodoxy can itself be a careerist move, as long as it’s an approved, orthodox sort of heterodoxy.

Everyone loves the idea of brave, independent thinkers whose brilliant insights are rejected by a hidebound establishment, only to be vindicated in the end. And such people do exist, in economics as in other fields. Someone like Hyman Minsky, with his theory of financial instability, was, in fact, ignored by almost everyone in the mainstream until the 2008 crisis sent everyone scurrying off to read his work.

But the sad truth is that the great majority of people who reject mainstream economics do so because they don’t understand it; and a fair number of these people don’t understand it because their salary depends on their not understanding it.

Which brings me to the gold standard.

There is overwhelming consensus among professional economists that a return to the gold standard would be a bad idea. That’s not supposition: Chicago’s Booth School, which surveys a broad bipartisan group of economists on various topics, found literally zero support for the gold standard.

The events of the past dozen years have only reinforced that consensus. After all, the price of gold soared from 2007 to 2011; if gold-standard ideology had any truth to it, that would have been a harbinger of runaway inflation, and the Fed should have been raising interest rates to keep the dollar’s gold value constant. In fact, inflation never materialized, and an interest rate hike in the face of surging unemployment would have been a disaster.

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Thank God we weren’t on the gold standard Federal Reserve of St. Louis

So why did gold soar? The main answer seems to be plunging returns on other assets, especially bonds, which were the product of a depressed world economy. What this means is that in practice pegging the dollar to gold would mean systematically raising interest rates when the economy slumps. Not exactly a recipe for stability.

Why, then, does goldbuggery persist? Well, some billionaires — such as Robert Mercer, also a big Trump supporter — have a thing about gold. I’m not entirely sure why, although I suspect that it’s just a plutocratic version of the Fox News syndrome — the angry old white guy ranting about big-government types inflating away his hard-earned wealth to give it away to Those People. And these billionaires give a lot of money to libertarianish think tanks that peddle gold standard derp.

Now imagine yourself as a conservative who writes about economics, but who doesn’t have the technical proficiency and originality needed to get a good job in academia, an economic policy institution like the Fed, or a serious think tank. Well, becoming a vocal gold-standard advocate opens a whole different set of doors. You’ll have a much fancier and more lucrative career, get invited to a lot more stuff, than you would if you stayed with the professional consensus.

What I’m suggesting, in other words, is that gold-standard advocacy is a lot like climate change denial: There are big personal and financial rewards for an “expert” willing to say what a few billionaires want to hear, precisely because no serious expert agrees. In the climate arena, we know that essentially all climate deniers are on the fossil-fuel take. There may be some true believers in the monetary magic of gold, but it’s hard to tell; what we do know is that prominent goldbugs do very well relative to where their careers would be if they didn’t buy into this particular area of derp.

And that, in turn, brings us back to Trump.

Why would Trump expect goldbugs to abandon their principles and back his demands to fire up the printing presses? Why is he, in fact, apparently finding it easy to get goldbugs willing to turn their backs on everything they claimed to believe?

The answer, I’d submit, is that it was never about principles in the first place. Many, perhaps most prominent goldbugs advocate a gold standard not out of conviction but out of ambition; they sold their principles a long time ago. So selling those pretend principles yet again in order to get a nice Trump-sponsored job is no big deal.

It’s cynicism and careerism all the way down.

 

I fanatici dell’oro sono con Trump,

di Paul Krugman

 

Prima di arrivare alla Casa Bianca, Donald Trump chiedeva che la Fed elevasse i tassi di interesse nonostante l’alta disoccupazione e la bassa inflazione. Oggi chiede tagli ai tassi, anche se la disoccupazione è molto più bassa e l’inflazione è almeno un po’ più elevata. Ad esser giusti, c’è un effettivo argomento economico per i tagli ai tassi come assicurazione contro un possibile rallentamento. Ma è chiaro che le motivazioni di Trump sono sempre state puramente politiche: voleva che la Fed colpisse il Presidente Barack Obama ed oggi vuole che essa rafforzi le sue possibilità di essere rieletto.

Non è sorprendente, dunque, che Trump stia anche cercando di riempire il Consiglio della Federal Reserve con i suoi alleati politici. Quello che può sembrare sorprendente è che molti degli aspiranti alla sua nomina, come Stephen Moore e adesso Judy Shelton, abbiano una lunga storia di sostenitori del gold standard o di qualcosa di simile. Questo dovrebbe collocarli in una posizione opposta ai suoi sforzi di politicizzare la Fed. E con i prezzi dell’oro recentemente in crescita, i sostenitori del gold standard dovrebbero chiedere che la Fed alzi i tassi, non che li abbassi.

Ma ovviamente sia Moore che la Shelton hanno appoggiato la richiesta di Trump di un taglio dei tassi. Questo solleva un duplice interrogativo: perché Trump vuole queste persone, e perché esse sono così disponibili ad assecondare i suoi desideri?

Ebbene, io credo che ci sia una semplice risposta per entrambi gli aspetti del rompicapo, che riguarda anzitutto la ragione per la quale alcuni commentatori economici (non sono sicuro che meritino di essere definiti “economisti”) diventino fanatici dell’oro. Suggerirei che ciò abbia più a che fare con un carrierismo cinico che con la convinzione. Il che a sua volta comporta che i fanatici dell’oro siano, in generale, il genere di persone adatte ad essere candidate da Trump, a prescindere da quanto possano aver detto nel passato.

Fatemi partire da quella che potrebbe sembrare una domanda banale, ma che ritengo sia cruciale: cosa serve per costruire una carriera di successo come economista convenzionale?

La verità è che non è una questione affatto semplice. Ripetere a pappagallo punti di vista ortodossi non risolve senz’altro la questione; si deve essere padroni della tecnica e si deve avere un’ottima carriera per essere considerati come importanti realizzatori di nuovi contributi – modi di ragionare innovativi sulle tematiche economiche e/o modi innovativi nell’addurre dati che influenzino tali tematiche. E la verità è che non molte persone possono riuscire ad avere queste caratteristiche: ciò richiede una combinazione di profonda conoscenza della precedente ricerca e di capacità di ragionare diversamente. Si deve assieme padroneggiare gli strumenti del mestiere e ragionare fuori da essi.

Non intendo romanzare la disciplina tradizionale dell’economia, che soffre di molti peccati. Economisti di sesso maschile come me stanno soltanto cominciando a comprendere la profondità del sessimo in quella disciplina. C’è stato anche troppo dominio da parte di una rete di economisti veterani provvisti di dottorati provenienti da una manciata di istituzioni di elite (ed è vero che anch’io ho tratto beneficio da questi peccati). Molte buone idee sono state essenzialmente bloccate dall’ideologia – anche adesso, ad esempio, è difficile pubblicare qualcosa che abbia un vago sentore di keynesismo nelle riviste più importanti. E c’è ancora una sopravvalutazione del frastuono matematico rispetto alle intuizioni vere.

Ma anche per le persone che possono marcare tutte le giuste caselle identitarie, salire sulla scala del successo nell’economia convenzionale è arduo. E il problema è quello: per coloro che non possono o non vogliono fare quella scalata, ci sono altri percorsi. L’eterodossia può essere anch’essa una mossa utile alla carriera, finché essa è una sorta di approvata, ortodossa eterodossia.

A tutti piace l’idea dei pensatori coraggiosi e indipendenti le cui brillanti intuizioni sono respinte da gruppi dirigenti retrogradi, per poi alla fine essere risarcite. E tali persone esistono effettivamente, nell’economia come in altri campi. Alcuni, come Hyman Minsky, con la sua teoria della instabilità finanziaria, furono di fatto ignorati da questi tutti dalla disciplina tradizionale, finché la crisi del 2008 ognuno a precipitarsi a leggere i suoi lavori.

Ma la triste verità è che la mggioranza delle persone che rigettano l’economia tradizionale lo fanno perché non la capiscono; e un buon numero di queste persone non la capisce perché i propri stipendi dipendono dal non capirla.

La qual cosa mi riporta al gold standard.

C’è uno schiacciante consenso tra gli economisti di professione sul fatto che un ritorno al gold standard sarebbe una cattiva idea. Non si tratta di una impressione: la Chicago Booth School, che tiene sotto osservazione un ampio gruppo bipartisan di economisti su varie tematiche, scopre che il sostegno al gold standard è precisamente pari a zero.

Gli eventi della passata dozzina di anni hanno solo rafforzato quel consenso. Dopo tutto, il prezzo dell’oro è schizzato dal 2007 al 2011; se l’ideologia del gold standard avesse un qualche fondamento, questo sarebbe stato un presagio di una inflazione fuori controllo, e la Fed avrebbe dovuto rialzare i tassi di interesse per mantenere costante il valore in oro del dollaro. Di fatto l’inflazione non si è mai materializzata, e una ascesa dei tassi di interesse a fronte di una disoccupazione crescente sarebbe stata un disastro.

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Grazie a Dio non avevamo il gold standard.

Federal Reserve di St. Louis

Perché, dunque, l’oro salì così in alto? La risposta principale sembra sia il calo dei rendimenti su altri asset, particolarmente i bond, che furono il risultato di una economia mondiale depressa. Ciò che questo significa è che in pratica l’ancoraggio del dollaro all’oro comporterebbe sistematicamente un rialzo dei tassi di interesse quando l’economia è in recessione. Non proprio una ricetta per la stabilità.

Perché, dunque, i fanatici dell’oro insistono? Ebbene, alcuni miliardari – come Robert Mercer, che è nche un grande sostenitore di Trump – hanno un debole per l’oro. Non sono del tutto sicuro della ragione, sebbene sospetti che sia solo una versione plutocratica della sindrome di Fox News – il vecchio Tizio bianco e iracondo che impreca contro i personaggi del governo invasivo che inflazionano la sua faticata ricchezza per consegnarla a Quella Gentaccia [1]. E questi miliardari danno un sacco di soldi ai gruppi di pensiero libertariani che spacciano la fesseria del gold standard.

Ora, immaginatevi nelle vesti di un conservatore che scrive di economia, ma non ha la competenza tecnica e l’originalità necessaria per ottenere un buon posto di lavoro negli ambienti accademici, o in istituzioni economiche come la Fed, o in un gruppo di ricerca serio. Ebbene, diventare un rumoroso sostenitore del gold standard apre un intero diverso complesso di porte. Avrete una carriera molto più raffinata e redditizia, sarete invitati a molte più occasioni, che se rimaneste all’interno della disciplina convenzionale.

Quello che sto suggerendo, in altre parole, è che il sostegno al gold standard assomiglia molto al negazionismo del cambiamento climatico: ci sono grandi premi personali e finanziari per un “esperto” disponibile a dire quello che pochi miliardari vogliono sentirsi dire, proprio perché nessun serio esperto concorda. Nell’arena sul clima, sappiamo che fondamentalmente tutti i negazionisti del cambiamento climatico sono nella busta paga del settore dei combustibili fossili. Ci possono essere alcuni effettivi credenti nella magia monetaria dell’oro, ma non sono facili da individuare; quello che sappiamo è che i principali fanatici dell’oro hanno un ottimo successo al confronto di dove si collocherebbero le loro carriere se non avessero investito in questa particolare area di stupidaggini.

E questo, a sua volta, ci riporta a Trump.

Perché Trump si aspetta che i fanatici dell’oro abbandonino i loro principi e appoggino le sue richieste di mettere in massima pressione le stampatrici di banconote? Perché, in sostanza, egli sembra aver scoperto che è facile avere fanatici dell’oro disponibili a voltare le spalle a tutto quello che pretendevano di credere?

La risposta, suggerirei, è che, anzitutto, non si è mai trattato di una questione di principi. Molti, forse l maggioranza dei fanatici più eminenti sostengono un gold standard non per convinzione ma per ambizione; i loro principi li hanno messi in vendita molto tempo fa. Dunque, rivendere una seconda volta coloro che fanno finta di avere principi allo scopo di avere un grazioso posto di lavoro con il sostegno di Trump è un gioco da ragazzi.

È completamente cinismo e carrierismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Ovvero i poveri e la gente di colore, nel linguaggio dei conservatori americani.

 

 

 

 

Note sugli squilibri eccessivi della ricchezza, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 22 giugno 2019)

giugno 26, 2019

 

June 22, 2019

Notes on Excessive Wealth Disorder

By Paul Krugman

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In a couple of days I’m going to be participating in an Economic Policy Institute conference on “excessive wealth disorder” — the problems and dangers created by extreme concentration of income and wealth at the top. I’ve been asked to give a short talk at the beginning of the conference, focusing on the political and policy distortions high inequality creates, and I’ve been trying to put my thoughts in order. So I thought I might as well write up those thoughts for broader dissemination.

While popular discourse has concentrated on the “1 percent,” what’s really at issue here is the role of the 0.1 percent, or maybe the 0.01 percent — the truly wealthy, not the “$400,000 a year working Wall Street stiff” memorably ridiculed in the movie Wall Street. This is a really tiny group of people, but one that exerts huge influence over policy.

Where does this influence come from? People often talk about campaign contributions, but those are only one channel. In fact, I’d identify at least four ways in which the financial resources of the 0.1 percent distort policy priorities:

  1. Raw corruption. We like to imagine that simple bribery of politicians isn’t an important factor in America, but it’s almost surely a much bigger deal than we like to think.
  2. Soft corruption. What I mean by this are the various ways short of direct bribery politicians, government officials, and people with policy influence of any kind stand to gain financially by promoting policies that serve the interests or prejudices of the wealthy. This includes the revolving door between public service and private-sector employment, think-tank fellowships, fees on the lecture circuit, and so on.
  3. Campaign contributions. Yes, these matter.
  4. Defining the agenda: Through a variety of channels — media ownership, think tanks, and the simple tendency to assume that being rich also means being wise — the 0.1 percent has an extraordinary ability to set the agenda for policy discussion, in ways that can be sharply at odds with both a reasonable assessment of priorities and public opinion more generally.

Of these, I want to focus on item (4), not because it’s necessarily the most important — as I said, I suspect that raw corruption is a bigger deal than most of us can imagine — but because it’s something I think I know about. In particular, I want to focus on a particular example that for me and others was a kind of radicalizing moment, a demonstration that extreme wealth really has degraded the ability of our political system to deal with real problems.

The example I have in mind was the extraordinary shift in conventional wisdom and policy priorities that took place in 2010-2011, away from placing priority on reducing the huge suffering still taking place in the aftermath of the 2008 financial crisis, and toward action to avert the supposed risk of a debt crisis. This episode is receding into the past, but it was extraordinary and shocking at the time, and could all too easily be a precursor to politics in the near future.

Let’s talk first about the underlying economic circumstances. At the beginning of 2011, the U.S. unemployment rate was still 9 percent, and long-term unemployment in particular was at extraordinary levels, with more than 6 million Americans having been out of work for 6 months or more. It was an ugly economic situation, but its causes were no mystery. The bursting of the housing bubble, and the subsequent attempts of households to reduce their debt, had let to a severe shortfall of aggregate demand. Despite very low interest rates by historical standards, businesses weren’t willing to invest enough to take up the slack created by this household pullback.

Textbook economics offered very clear advice about what to do under these circumstances. This was exactly the kind of situation in which deficit spending helps the economy, by supplying the demand the private sector wasn’t. Unfortunately, the support provided by the American Recovery and Reinvestment Act — the Obama stimulus, which was inadequate but had at least cushioned the effects of the slump — peaked in mid-2010 and was in the process of falling off sharply. So the obvious, Economics 101 move would have been to implement another significant round of stimulus. After all, the federal government was still able to borrow long-term at near-zero real interest rates.

Somehow, however, over the course of 2010 a consensus emerged in the political and media worlds that in the face of 9 percent unemployment the two most important issues were … deficit reduction and “entitlement reform,” i.e. cuts in Social Security and Medicare. And I do mean consensus. As Ezra Klein noted, “the rules of reportorial neutrality don’t apply when it comes to the deficit.” He cited, for example, Mike Allen asking Alan Simpson and Erskine Bowles “whether they believed Obama would do ‘the right thing’ on entitlements — with ‘the right thing’ clearly meaning ‘cut entitlements.’”

So where did this consensus come from? To be fair, the general public has never bought into Keynesian economics; as far as I know, most voters, if asked, will always say that the budget deficit should be reduced. In November 1936, just after FDR’s reelection, Gallup asked voters whether the new administration should balance the budget; 65 percent said yes, only 28 percent no.

But voters tend to place a relatively low priority on deficits as compared with jobs and the economy. And they overwhelmingly favor spending more on health care and Social Security.

The rich, however, are different from you and me. In 2011 the political scientists Benjamin Page, Larry Bartels, and Jason Seawright managed to survey a group of wealthy individuals in the Chicago area. They found striking differences between this group’s policy priorities and those of the public at large. Budget deficits topped the list of problems they considered “very important,” with a third considering them the “most important” problem. While the respondents also expressed concern about unemployment and education, “they ranked a distant second and third among the concerns of wealthy Americans.”

And when it came to entitlements, the policy preferences of the wealthy were clearly at odds with those of the general public. By large margins, voters at large wanted to expand spending on health care and Social Security. By almost equally large margins, the wealthy wanted to reduce spending on those same programs.

So what was the origin of the conventional-wisdom consensus that emerged in 2010-2011 — a consensus so overwhelming that leading journalists abandoned the conventions of reportorial neutrality, and described austerity policies as the self-evident “right thing” for politicians to be doing? What happened, essentially, was that the political and media establishment internalized the preferences of the extremely wealthy.

Now, 2011 was an especially dramatic example of how this happens, but it wasn’t unique. In their recent book “Billionaires and Stealth Politics,” Page, Seawright, and Matthew Lacombe point out the enduring effects of plutocratic political influence on the Social Security debate: “Despite the strong support among most Americans for protecting and expanding Social Security benefits, for example, the intense, decades-long campaign to cut or privatize Social Security that was led by billionaire Pete Peterson and his wealthy allies appears to have played a part in thwarting any possibility of expanding Social Security benefits. Instead, the United States has repeatedly come close (even under Democratic Presidents Clinton and Obama) to actually cutting benefits as part of a bipartisan ‘grand bargain’ concerning the federal budget.”

And here’s the thing: While we don’t want to romanticize the wisdom of the common man, there’s absolutely no reason to believe that the policy preferences of the wealthy are based on any superior understanding of how the world works. On the contrary, the wealthy were obsessed with debt and uninterested in mass unemployment at a time when deficits weren’t a problem — were, indeed, part of the solution — while unemployment was.

And the widespread belief among the wealthy that we should raise the retirement age is based, literally, on failure to understand how the other half lives (or, actually, doesn’t). Yes, life expectancy at age 65 has gone up, but overwhelmingly for the upper part of the income distribution. Less affluent Americans, who are precisely the people who depend most on Social Security, have seen little rise in life expectancy, so there is no justification for forcing them to work longer.

Where do the preferences of the wealthy come from? You don’t have to be a vulgar Marxist to recognize a strong element of class interest. The push for austerity was clearly linked to a desire to shrink the tax-and-transfer state, which in all advanced countries, even America, is a significant force for redistribution away from the wealthy toward citizens with lower incomes.

You can see the true goals of austerity a couple of ways. First, by comparison with other advanced countries the U.S. has low taxes and low social spending, yet almost all the energy of self-proclaimed deficit hawks was expended on demands for reduced spending rather than increased taxes. Second, it’s striking how much less deficit hysteria we’re hearing now than we did seven years ago. The full-employment budget deficit now is about as large, as a share of GDP, as it was in early 2012, when unemployment was still above 8 percent. But this deficit, although far less justified by macroeconomic considerations, was created by tax cuts — and somehow the deficit hawks are fairly quiet.

No doubt many wealthy backers of tax cuts for themselves and benefit cuts for others manage to convince themselves that this is in everyone’s interest. People are in general good at that sort of self-delusion. The fact remains that the wealthy, on average, push for policies that benefit themselves even when they often hurt the economy as a whole. And the sheer wealth of the wealthy is what empowers them to get a lot of what they want.

So what does this imply going forward? First, in the near term, both during the 2020 election and after, it’s going to be really important to ride herd on both centrist politicians and the media, and not let them pull another 2011, treating the policy preferences of the 0.1 percent as the Right Thing as opposed to, well, what a certain small class of people want. There’s a fairly long list of things progressives have recently advocated that the usual suspects will try to convince everyone are crazy ideas nobody serious would support, e.g.

  • A 70 percent top tax rate
  • A wealth tax on very large fortunes
  • Universal child care
  • Deficit-financed spending on infrastructure

You don’t have to support any or all of these policy ideas to recognize that they are anything but crazy. They are, in fact, backed by research from some of the world’s leading economic experts. Any journalist or centrist politician who treats them as self-evidently irresponsible is doing a 2011, internalizing the prejudices of the wealthy and treating them as if they were facts.

But while vigilance can mitigate the extent to which the wealthy get to define the policy agenda, in the end big money will find a way — unless there’s less big money to begin with. So reducing the extreme concentration of income and wealth isn’t just a desirable thing on social and economic grounds. It’s also a necessary step toward a healthier political system.

 

 Note sugli squilibri eccessivi della ricchezza,

di Paul Krugman

 Tra un paio di giorni parteciperò ad una conferenza dell’Istituto di Politica Economica sugli “squilibri eccessivi della ricchezza” – i problemi e i pericoli derivanti dalla estrema concentrazione del reddito e della ricchezza ai livelli più elevati della scala sociale. Mi è stato chiesto di tenere un breve discorso agli inizi della conferenza, concentrandomi sulle distorsioni economiche e politiche provocate dalla elevata ineguaglianza, e sto cercando di riordinare i miei pensieri. Dunque sono arrivato alla conclusione che avrei anche potuto scrivere qualcosa su quei pensieri per una diffusione più ampia.

Mentre il dibattito popolare si è concentrato su “l’1 per cento”, quello che è realmente in questione in questo caso è il ruolo dello 0,1 per cento, o forse dello 0,01 per cento – la vera ricchezza, non il “poveraccio da 400 mila dollari all’anno che lavora a Wall Street” deriso in modo memorabile nel film Wall Street. Si tratta di un gruppo davvero minuscolo di persone, ma un gruppo che esercita una influenza vasta nella politica.

Da dove deriva questa influenza? La gente parla spesso dei contributi elettorali, ma sono soltanto un canale. Nella sostanza, identificherei almeno quattro modi nei quali le risorse finanziarie dello 0,1 per cento distorcono le priorità della politica:

1 – La aperta corruzione. Ci piace immaginare che la semplice corruzione degli uomini politici non sia un fenomeno importante in America, ma quasi sicuramente è una faccenda molto più rilevante di quello che ci piace pensare.

2 – La corruzione leggera. Quello che intendo con questo sono i vari modi, pure in assenza di una diretta corruttela, nei quali gli uomini politici, i funzionari governativi e le persone con una influenza politica di vario genere prendono posizione per trarre vantaggi finanziari dal promuovere politiche al servizio degli interessi o dei pregiudizi dei ricchi. Questi includono il sistema delle ‘porte girevoli’ tra il servizio pubblico e l’occupazione nel settore privato, le associazioni ai gruppi di ricerca, le parcelle sui circuiti delle conferenze, e via dicendo.

3 – I contributi elettorali, che in effetti sono importanti.

4 – Il potere di definire le cose da fare: attraverso una molteplicità di canali – il possesso dei media, i gruppi di ricerca e la semplice tendenza a considerare che essere ricchi significa anche essere saggi –  lo 0,1 per cento ha una straordinaria capacità di stabilire l’agenda del dibattito politico, in modi che possono essere fortemente contrastanti sia con una definizione ragionevole delle priorità che con l’opinione pubblica più in generale.

Tra tutti questi, intendo concentrarmi sul quarto punto, non perché sia necessariamente il più importante – come ho detto, sospetto che l’aperta corruzione sia una faccenda più rilevante di quanto possa immaginare la maggioranza di noi – ma perché è qualcosa che penso di conoscere. In particolare intendo concentrarmi con un particolare esempio che per me ed altri è stato una specie di momento di radicalizzazione, una dimostrazione che l’estrema ricchezza ha effettivamente degradato la capacità del nostro sistema politico di misurarsi con i problemi reali.

L’esempio che ho in mente è stata la straordinaria svolta nel senso comune e nelle priorità della politica che ebbe luogo nel 2010-2011, quando, lungi dal collocare la priorità nella riduzione delle sofferenze che ancora dominavano la scena tra le conseguenze della crisi finanziaria del 2008, ci si avviò verso l’iniziativa di evitare una presunta crisi del debito. Questo episodio sta arretrando come una cosa passata, ma a quel tempo fu straordinario e scioccante, e anche troppo facilmente potrebbe essere un presagio per la politica in un prossimo futuro.

Parliamo anzitutto delle sottostanti circostanze economiche. Agli inizi del 2011, il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti era ancora al 9 per cento, e la disoccupazione di lunga durata in particolare era a livelli straordinari, con più di 6 milioni di americani fuori dal lavoro da sei mesi o più. Era una situazione economica orribile, ma le sue cause non erano misteriose. Lo scoppio della bolla immobiliare e i successivi tentativi delle famiglie di ridurre il loro debito, avevano determinato un grave declino della domanda aggregata. Nonostante tassi di interesse molto bassi secondo le serie storiche, le imprese non erano disponibili ad investire a sufficienza per assorbire la fiacchezza determinata da questa ritirata delle famiglie.

I libri di testo di economia offrivano consigli molto chiari su cosa fare in queste circostanze. Era esattamente il genere di situazione nella quale la spesa in deficit aiuta l’economia, in supplenza della domanda del settore privato che non c’era. Sfortunatamente, il sostegno fornito dalla Legge per la Ripresa e il Reinvestimento Americano – lo stimolo di Obama, che era inadeguato ma almeno aveva attenuato gli effetti della recessione – era arrivato al punto più alto nella metà del 2010 e si stava riducendo bruscamente. Dunque, l’iniziativa ovvia di un libro di testo di economia sarebbe stata un’altra significativa fase di stimolo. Dopo tutto, il Governo federale era ancora nelle condizioni di indebitarsi nel lungo termine a tassi di interesse reali vicini allo zero.

In qualche modo, tuttavia, nel corso del 2010 emerse un vasto consenso nei mondi della politica e dei media secondo il quale, di fronte ad una disoccupazione del 9 per cento, i due temi più importanti erano … la riduzione del deficit e la “riforma dei diritti sociali”, ovvero i tagli alla Previdenza Sociale e a Medicare. E intendo davvero un vasto consenso. Come notò Ezra Klein “le regole della neutralità giornalistica non si applicano quando si passa al deficit”. Egli citava, ad esempio, Mike Allen che chiedeva ad Alan Simpson e a Erskine Bowles “se credessero che Obama avrebbe fatto ‘la cosa giusta’ sui diritti sociali – con la ‘cosa giusta’ intendendo chiaramente il taglio dei diritti sociali”.

Dove nasceva, dunque, questo consenso? Ad essere onesti, l’opinione pubblica in generale non ha mai creduto all’economia keynesiana; per quanto ne so, la maggioranza degli elettori, se vengono interpellati, diranno sempre che il deficit del bilancio dovrebbe essere ridotto. Nel novembre del 1936, appena dopo la rielezione di Roosevelt, l’Istituto Gallup chiese agli elettori se la nuova Amministrazione avrebbe dovuto riequilibrare il bilancio; il 65 per cento rispose affermativamente, soltanto il 28 per cento disse di no.

Ma gli elettori tendono a collocare il deficit in una priorità relativamente bassa al confronto dei posti di lavoro e dell’economia. E sono in modo schiacciante a favore di una spesa superiore sulla assistenza sanitaria e sulla Previdenza Sociale.

I ricchi, tuttavia, sono diversi da voi e da me. Nel 2011 i politologi Benjamin Page, Larry Bertels e Jason Seawright provarono a intervistare un gruppo di individui ricchi nell’area di Chicago. Trovarono sorprendenti differenze tra le priorità politiche di questo gruppo e quelle della più ampia opinione pubblica. I deficit di bilancio erano in cima alla lista dei problemi che essi consideravano “molto importanti”, con un terzo che li considerava i più importanti in assoluto. Mentre coloro che parteciparono al sondaggio esprimevano anche preoccupazione sulla disoccupazione e l’istruzione, tali temi “si collocavano ad un distante secondo e terzo posto tra le preoccupazioni degli americani ricchi”.

E quando si passava ai diritti sociali, le preferenze politiche dei ricchi erano chiaramente opposte a quelle dell’opinione pubblica generale. Con ampio margine, gli elettori nel loro complesso volevano ampliare la spesa sulla assistenza sanitaria e sulla Previdenza Sociale. Quasi con lo stesso ampio margine, i ricchi volevano ridurre la spesa su quegli stessi programmi.

Quale era l’origine, dunque, del vasto consenso, con i caratteri del senso comune, che emerse nel 2010-2011 – un consenso così schiacciante da portare i giornalisti ad abbandonare le convenzioni della neutralità dei resoconti e a descrivere le politiche dell’austerità come ‘la evidente cosa giusta’ che i politici avrebbero dovuto fare? Fondamentalmente, quello che accadde fu che i gruppi dirigenti della politica e dei media avevano fatto proprie le preferenze di coloro che erano estremamente ricchi.

Ora, il 2011 fu un esempio particolarmente spettacolare di come questo accada, ma non fu l’unico. Nel loro libro recente “I miliardari e la politica nascosta”, Page, Seawright e Matthew Lacombe mettono in evidenza gli effetti durevoli dell’influenza politica plutocratica sul dibattito sulla Previdenza Sociale: “Nonostante il forte sostegno tra la maggioranza degli americani per proteggere ed ampliare i sussidi della Previdenza Sociale, ad esempio, l’intensa campagna, durata decenni, per privatizzare la Previdenza Sociale che fu guidata dal miliardario Pete Peterson e dai suoi alleati ricchi sembra aver giocato un ruolo nel minimizzare ogni possibilità di espansione dei sussidi previdenziali. Piuttosto, gli Stati Uniti sono ripetutamente andati vicini (persino sotto i Presidenti democratici Clinton e Obama) ad un effettivo taglio dei sussidi come parte di un “grande accordo” bipartisan concernente il bilancio federale”.

E qua è il punto: se non vogliamo romanzare la saggezza dell’uomo comune, non c’è assolutamente nessuna ragione di credere che le preferenze politiche dei ricchi siano basate su una qualche superiore comprensione di come il mondo funzioni. Al contrario, i ricchi erano ossessionati dal debito e non interessati alla disoccupazione in un’epoca nella quale i deficit non erano un preoblema – erano, semmai, parte della sua soluzione – mentre la disoccupazione lo era.

E il convincimento generalizzato tra i ricchi che dovremmo elevare l’età del pensionamento è basato, letteralmente, sulla incapacità di comprendere come vive l’altra metà (o come non vive, in realtà). È vero, l’aspettativa di vita a 65 anni è salita, ma in modo schiacciante per la parte superiore della distribuzione del reddito. Gli americani meno benestanti, che sono esattamente le persone che dipendono in maggioranza dalla Previdenza Sociale, hanno visto poca crescita nella aspettativa di vita, dunque non c’è alcuna giustificazione per costringerli a lavorare più a lungo.

Da dove vengono le preferenze dei ricchi? Non c’è bisogno di essere marxisti volgari per riconoscere un forte elemento di interesse di classe. La spinta per l’austerità era chiaramente connessa ad un desiderio di restringere lo Stato delle tasse e dei trasferimenti che in tutti i paesi avanzati, persino in America, è un fattore significativo per la redistribuzione dai ricchi ai cittadini con redditi più bassi.

Potete valutare in un paio di modi gli obbiettivi effettivi dell’austerità. Il primo, a confronto con altri paesi avanzati gli Stati Uniti hanno basse tasse e bassa spesa sociale, tuttavia quasi tutta l’energia dei sedicenti falchi del deficit fu spesa su richieste di una spesa minore, anziché di tasse maggiori. Il secondo: è sconcertante a quanta minore isteria sui deficit stiamo assistendo adesso rispetto a sette anni orsono. Il deficit di bilancio in condizioni di piena occupazione è quasi altrettanto ampio, come quota del PIL, di quanto era agli inizi del 2012, quando la disoccupazione era ancora al di sopra dell’8 per cento. Ma questo deficit, sebbene molto meno giustificato da considerazioni macroeconomiche, è stato creato da tagli alle tasse – e in qualche modo i falchi del deficit sono rimasti abbastanza calmi.

Non c’è dubbio che i ricchi sostenitori dei tagli alle tasse per sé stessi e dei tagli ai sussidi per gli altri cerchino di convincersi che questo è nell’interesse di tutti. In generale le persone sono capaci di quel genere di auto illusione. Resta il fatto che i ricchi, in media, spingono per politiche che vanno a loro vantaggio persino quando frequentemente danneggiano l’economia nel suo complesso. Ed è la pura e semplice ricchezza dei ricchi che li mette nelle condizioni di ottenere molto di quello che vogliono.

Cosa implica tutto questo per il futuro? In primo luogo, nel breve termine, sia durante le elezioni del 2020 che dopo, è destinato ad essere davvero importante tenere sotto controllo sia i politci centristi che i media, e non consentigli di provocare un altro 2011, trattando le preferenze politiche dello 0,1 per cento come la Cosa Giusta anziché come, diciamolo, quello che una certa minuscola classe di persone vuole. C’è una lista abbastanza lunga di cose che i progressisti hanno di recente sostenuto, che i soliti noti cercheranno di convincere tutti che sono idee pazzesche che nessuna persona seria sosterrebbe, ad esempio:

 

Una aliquota fiscale sui redditi più elevati del 70 per cento;

una tassa sulla ricchezza sui patrimoni molto grandi;

una assistenza universalistica sui bambini;

la spesa finanziata in deficit sulle infrastrutture.

 

Non è necessario sostenere qualcuna o tutte queste idee politiche per riconoscere che esse sono tutto meno che pazzesche. Di fatto, esse sono sostenute dalla ricerca di alcuni dei principali esperti economici del mondo. Ogni giornalista o uomo politico centrista che le tratta come implicitamente irresponsabili, sta comportandosi come nel 2011, internalizzando i pregiudizi dei ricchi e trattandoli come se fossero fatti.

Ma se la vigilanza può mitigare la misura nella quale i ricchi ottengono di definire l’agenda della politica, alla fine chi ha tanti soldi troverà un modo – a meno che, tanto per cominciare, non ci siano meno ultra ricchi. Dunque, ridurre la estrema concentrazione del reddito e della ricchezza non è solo una cosa desiderabile su un terreno economico e sociale. È anche un passo necessario per un sistema politico più sano.

 

 

 

 

 

 

 

Alla fine Trump ha perso la credibilità? Di Paul Krugman (dalla sua newsletter sul NYT, 4 giugno 2019)

giugno 9, 2019

 

 

June 4 2019

Has Trump finally jumped the shark?

Paul Krugman

Life isn’t fair, and politics is even less fair than the rest of life. Donald Trump has done and is doing many terrible things — inviting foreign influence into U.S. elections, ripping children from their parents and putting them in cages, poisoning the environment, praising murderous dictators and more. In terms of sheer awfulness, his protectionist trade policies are way down the list — and I say that despite being someone whose career was based largely on the study of international trade, and has every incentive to inflate the issue’s importance.
Yet Trump’s tariff obsession seems to be causing him more political trouble than anything else he’s doing. It might even be enough to provoke a break with his otherwise slavish followers in Congress. Trump’s famous boast that he could shoot someone on Fifth Avenue and his supporters wouldn’t care may or may not be true of Republican voters, but it’s clearly true of G.O.P. members of Congress. Yet there seems to be a real possibility of legislative action to block the new tariffs he threatened to impose on Mexico last week.
So why is this particular vileness the point at which his party’s invertebrates show signs of developing rudimentary spines? There are two key points.
First, Trump’s confrontational trade policy — unlike his racism, his determination to weaken workers’ rights, his efforts to degrade the environment, and so on — doesn’t have any important constituency behind it. Neither big-money donors nor guys with Tiki torches chanting “Jews will not replace us” are clamoring for tariffs. The tariff thing is basically Trump’s personal obsession.
Second, there are important constituencies — important parts of the Trump coalition — that really, really don’t like the prospect of trade war. Farmers have already been hurt badly by the confrontation with China, which has sent prices for crops like soybeans plunging. U.S. industry, which has invested huge sums in a supply chain that sprawls across both our northern and southern borders, is horrified at the thought of a confrontation that disrupts trade with Mexico.
Until recently, business and investors were, in effect, betting that with so much money at stake, even Trump would rein in his impulses, that on trade he would talk loudly but carry a small stick. That’s pretty much what seemed to have happened on Nafta, the North American Free Trade Agreement: after denouncing Nafta as the worst trade deal ever made, Trump negotiated a new deal so similar to the existing one that you need a magnifying glass to see the differences.
But now he’s effectively reneging on his own deal, threatening tariffs unless Mexico does something, he knows not what, to prevent asylum-seekers from seeking asylum.
Will he really do it? The various newsletters I receive can’t seem to believe it. Citibank, for example, writes that “the consequences of this policy could be so extreme we see it as unlikely to happen.”
But Trump has a thing about tariffs, and he really hates looking like a loser. So yes, this may really be about to happen. And even the G.O.P. may finally reach a breaking point.

 

Alla fine Trump ha perso la credibilità?

Di Paul Krugman [1]

 

La vita non è giusta, e la politica è anche meno giusta del resto della vita. Trump ha fatto e sta facendo molte cose terribili – sollecitando influenze straniere nelle elezioni statunitensi, strappando i figli ai loro genitori e mettendoli in gabbie, avvelenando l’ambiente, elogiando dittatori assassini e altro ancora. In termini di mera sgradevolezza, le sue politiche commerciali protezionistiche sono in fondo alla lista – e lo dico nonostante che la mia carriera sia basata in gran parte sullo studio del commercio internazionale, ed abbia tutte le ragioni per enfatizzare l’importanza di quel tema.

Tuttavia l’ossessione per le tariffe di Trump sembra gli provochi guai politici superiori a tutto il resto che sta facendo. Potrebbe essere sufficiente a provocare una rottura con i suoi seguaci nel Congresso, solitamente servili. La famosa vanteria di Trump secondo la quale egli potrebbe sparare a qualcuno sulla Quinta Strada e i suoi sostenitori non se ne curerebbero, che sia o meno vera nel caso degli elettori repubblicani, è chiaramente vera nel caso dei membri repubblicani del Congresso. Sembra tuttavia esserci la reale possibilità di una iniziativa legislativa per bloccare le nuove tariffe che ha minacciato di imporre al Messico la scorsa settimana.

Perché, dunque, è questa particolare meschinità l’occasione nella quale gli invertebrati del suo partito mostrano di sviluppare una apparente spina dorsale? Ci sono due aspetti fondamentali.

Il primo, la politica commerciale di scontro di Trump – diversamente dal suo razzismo, dalla sua determinazione a indebolire i diritti dei lavoratori, dai suoi sforzi per degradare l’ambiente, e via dicendo – non ha alcun particolare sostegno elettorale alle spalle. Neppure coloro che sottoscrivono molti soldi in donazioni o gli individui con le fiaccole che lanciano slogan come “Gli ebrei non prenderanno il nostro posto” stanno strepitando per le tariffe. La faccenda delle tariffe è fondamentalmente una ossessione personale di Trump.

Il secondo, ci sono importanti gruppi di sostenitori – componenti importanti della coalizione di Trump – che proprio non gradiscono la prospettiva di una guerra commerciale. Gli agricoltori sono già pesantemente colpiti dallo scontro con la Cina, che ha fatto crollare i prezzi dei raccolti come la soia. Le industrie statunitensi, che hanno investito vaste somme in una catena dell’offerta che si estende oltre i nostri confini sia a nord che a sud, sono terrorizzate al pensiero di uno scontro che metta nel caos il commercio con il Messico.

Sino al periodo più recente, in effetti, le imprese e gli investitori scommettevano che con tanti soldi in ballo, persino Trump avrebbe controllato i suoi impulsi, che sul commercio egli avrebbe parlato con durezza ma agitando un piccolo bastone. Era grosso modo quello che sembrava fosse successo con il NAFTA, l’Accordo sul Libero Commercio dell’America del Nord: dopo aver denunciato il NAFTA come il peggior accordo commerciale mai fatto, Trump aveva negoziato un nuovo accordo talmente simile al precedente che si dovevano usare occhiali ingrandenti per vedere qualche differenza.

Ma adesso egli sta in sostanza rinnegando il suo stesso accordo, minacciando tariffe senza che il Messico abbia fatto alcunché, neanche lui sa che cosa, per impedire ai richiedenti asilo di chiedere asilo.

Lo farà davvero? Le varie newsletter che ricevo sembrano crederci. Ad esempio, Citibank scrive che “le conseguenze di questa politica potrebbero essere così radicali che ci appare improbabile che accada”.

Ma Trump ha un problema con le tariffe, e odia per davvero di apparire un perdente. Dunque, in effetti questo potrebbe sul serio accadere. E persino il Partito Repubblicano potrebbe alla fine arrivare ad un punto di rottura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Questo articolo compare su una nuova “newsletter” di Krugman che è a disposizione dei lettori del New York Times da alcune settimane.

Dunque adesso i suoi scritti – a parte i saggi, le recensioni o la sua attività varia come docente universitario – si dividono in tre categorie: a) gli articoli sul NYT, due volte alla settimana, con l’eccezione dei periodi di ferie; b) i post sul suo blog (che nel frattempo si è trasferito sul blog del NYT); c) la newsletter, in genere con interventi più brevi e meno specialistici. Come i lettori più affezionati hanno compreso, le opinioni che appaiono due volte alla settimana sul NYT sono in generale interventi che hanno per oggetto la politica e la società americana; i post sono di solito riflessioni con maggiore spessore tecnico e di ricerca (ad esempio, contengono statistiche che non possono apparire per ragioni editoriali sugli articoli che appaiono effettivamente sul giornale); la newsletter, che adesso talora traduciamo, nella speranza di aver quasi superato iniziali problemi banalmente tecnici di ‘editing’. Gli interventi più lunghi, in genere connessi con la sua attività universitaria, continuiamo a tradurli, anche se sono diventati un po’ più rari. In pratica, la sua produzione è diventata maggiormente ‘politica’ – più caratteristica di quella che gli americani definiscono come attività di un “pubblic intellectual”, che non di un economista “professional”.

Le novità nella attività di Krugman sono avvenute grosso modo nel corso dell’ultimo anno, quando ha peraltro avuto inizio la sua produzione di sintetici messaggi su Twitter, con indici di ascolto elevatissimi. Anche questi ultimi sono interessanti – ad esempio talora contengono vari riferimenti statistici e diagrammi, oppure rimandano ad analisi di altri politologi ed economisti. Ma essendo molto brevi (Krugman ‘aggira’ il problema della obbligata stringatezza dei messaggi su Twitter, ricorrendo alla tecnica della ‘ripetizione’ di vari messaggi su un unico argomento) si prestano male ad essere tradotti.

Aggiungo, per chi se lo fosse chiesto, che Krugman non scrive mai su una rivista come Project Syndicate, dalla quale noi traiamo il materiale di altri economisti (come Stiglitz, Brad DeLong, Turner, Spence, Eichengreen, Frenkel e vari altri). La sua produzione si concentra sugli strumenti di comunicazione del NYT, oppure – anche attraverso video – su quelli della sua Università pubblica (CUNY).

 

 

 

 

 

 

Dopo Draghi (per esperti) di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 24 maggio 2019)

maggio 25, 2019

 

May 24, 2019

After Draghi (Wonkish)

By Paul Krugman

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Mario Draghi’s term as president of the European Central Bank ends in October. It has been a tumultuous tenure; among other things, he very clearly saved the euro from collapse in 2012-13, which arguably makes him the greatest central banker of modern times.

But I come not to celebrate Draghi but to ask about the state of the euro as the age of Draghi draws to an end. This isn’t a rant. I’ve long been a euroskeptic, and there has been immense suffering in Greece, and to a lesser extent in Spain and Portugal. But Europe’s overall performance since the 2008 crisis has been better than I believe most U.S. observers realize.

The big problem now, I’d say, is the extreme fragility of Europe with respect to any future shocks. In the years since Draghi came in, the euro area has done surprisingly well in restoring growth and regaining employment losses. But this success rests on extremely low interest rates and an undervalued euro.

What this means is that Europe has essentially no “monetary space” – there is nothing more it can do if something goes wrong. If there’s a Chinese recession, or Trump slaps tariffs on German cars, or whatever, what can Europe do? The ECB can’t significantly ease monetary policy. Fiscal expansion could help, but it would have to be led by Germany, which seems implausible.

Still, it seems worth talking about how things have gone so far, which is better than many imagine.

Start with growth in the euro area. Here I show real GDP growth since 2007, compared with growth in the US:

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Saving the euro. Federal Reserve of St. Louis

Three things seem obvious. First, Europe took a major wrong turn in 2011, partly because of the debt crisis, partly because Jean-Claude Trichet’s ECB made the incredibly bad decision to respond to rising commodity prices by raising interest rates despite high unemployment. Second, things stabilized once Draghi said his famous three words – “whatever it takes” – and implemented a sustained policy of monetary expansion. Third, overall European growth has nonetheless fallen far behind the U.S.

This last point, however, is largely an illusion. Europe has much slower growth in its working-age population than the U.S. does, and once you adjust for the difference in demographics the performance of the two economies doesn’t look that much different:

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Demography! Federal Reserve of St. Louis

Finally, while European unemployment is consistently higher than that in the U.S., there’s a growing sense that measured unemployment is a problematic measure, that it’s better to look at prime-age employment. And by that measure Europe has done almost exactly as well as the U.S.:

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Jobs, jobs, jobs Federal Reserve of St. Louis

So Europe has done better than most Americans imagine. But it has done so only thanks to two things: incredibly low interest rates – literally negative for some assets; and a large trade surplus due to that undervalued euro.

Again, what if something goes wrong? America’s situation isn’t great, but in the face of a recession the Fed has some room to cut, and Congress might enact some fiscal stimulus. The ECB has no such room; the trade surplus probably can’t get bigger; Europe has no government to provide fiscal stimulus. There is some fiscal space for expansion in Germany, but it might as well be on the far side of the moon.

So what future for Europe after Draghi? The continent is doing OK right now, to an important extent thanks to Draghi’s actions. But there are no reserves of strength, no ammunition to fire, to deal with anything bad. And bad things happen.

 

 

Dopo Draghi (per esperti).

Di Paul Krugman

 

Il periodo di Mario Draghi come Presidente della Banca Centrale Europea scade ad ottobre. È stato un mandato tumultuoso: tra le altre cose fu molto chiaramente lui a salvare l’euro dal collasso nel 2012-2013, il che probabilmente lo rende il più grande bnchiere centrale dei tempi moderni.

Ma non mi accingo ad una celebrazione di Draghi, piuttosto a chiedermi la condizione dell’euro mentre il periodo di Draghi volge a termine. Questo non è una predica. Sono stato a lungo euroscettico, e c’è stata una immensa sofferenza in Grecia, e in minore misura in Spagna e Portogallo. Ma l’andamento complessivo dell’Europa dalla crisi del 2008 è stato migliore di quello che credo comprenda la maggioranza degli sosservatori statunitensi.

Direi che il grande problema, adesso, è l’estrema fragilità dell’Europa rispetto ad un qualche trauma del futuro. Negli anni dall’entrata in carica di Draghi, l’area euro ha fatto sorprendentemente bene nel ripristinare la crescita e riguadagnare l’occupazione perduta. Ma questo successo si basa su tassi di interesse estremamente bassi e su un euro sottovalutato.

Questo significa che l’Europa non ha sostanzialmente alcuno “spazio monetario” – non c’è nient’altro che essa possa fare se qualcosa va storto. Se c’è una recessione cinese, o se Trump applica all’improvviso le tariffe sulle auto tedesche, o qualcosa del genere, cosa può fare l’Europa? La BCE non può facilitare in modo significativo la politica monetaria. L’espansione della spesa pubblica potrebbe essere d’aiuto, ma dovrebbe essere guidata dalla Germania, il che non sembra plausibile.

Eppure, ha un qualche valore ragionare di come le cose siano andate sinora, ovvero meglio di quanto molti si immaginano.

Cominciamo con la crescita nell’area euro. Qua sotto mostro la crescita del PIL a partire dal 2007, a confronto con la crescita negli Stati Uniti:

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Salvare l’euro. Federal Reserve di St. Louis

[1]

Sembrano evidenti tre cose. La prima, l’Europa fece una importante scelta sbagliata nel 2011, in parte per la crisi del debito, in parte perché la BCE di Jean-Claude Trichet prese l’incredibile decisione negativa di rispondere ai prezzi crescenti delle materie prime elevando i tassi di interesse nonostante la alta disoccupazione. La seconda, la situazione si stabilizzò allorché Draghi disse le famose parole magiche – “tutto quello che serve” – e mise in atto una politica duratura di espansione monetaria. La terza, ciononostante la crescita complessiva si collocò assai indietro rispetto agli Stati Uniti.

L’ultimo punto, tuttavia, è in gran parte una illusione. L’Europa ha una crescita molto più lenta di quella degli Stati Uniti nella popolazione in età lavorativa, e una volta che si corregge la diversità nella demografia, gli andamenti delle due economie non appaiono così differenti:

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Demografia! Federal Reserve di St. Louis

Infine, mentre la disoccupazione europea è stabilmente più elevate di quella negli Stati Uniti, c’è la sensazione crescente che le statistiche della disoccupazione siano un metro di misura problematico, che sia meglio guardare alla occupazione nella principale età lavorativa [2]. E con quel metro di misura l’Europa si è comportata quasi altrettanto bene degli Stati Uniti:

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Posti di lavoro, posti di lavoro, posti di lavoro, Federal Reserve di St. Louis

[3]

Dunque l’Europa è andata meglio di quello che la maggioranza degli americani si immaginano. Ma ciò è accaduto solo grazie a due fattori: i tassi di interesse incredibilmente bassi – letteralmente negativi per alcuni asset, e un ampio surplus commerciale a seguito di quell’euro sottovalutato.

È ancora il caso di chiederci cosa accadrebbe se qualcosa andasse storto. La situazione dell’America non è confortevole, ma a fronte di una recessione l’America avrebbe qualche spazio per tagliare e il Congresso potrebbe varare qualche stimolazione sul lato della finanza pubblica. La BCE non avrebbe tale spazio: il surplus commerciale probabilmente non può crescere e l’Europa non ha alcun governo per fornire uno stimolo della finanza pubblica. C’è qualche spazio per l’espansione della finanza pubblica in Germania, ma sarebbe lo stesso che se fosse sull’altro versante della Luna.

Quale futuro, dunque, per l’Europa dopo Draghi? Il continente, in questo momento, sta facendo bene, in misura importante grazie alle iniziative di Draghi. Ma quanto a misurarsi con qualche evento negativo, non ci sono riserve di forza, o munizioni da sparare. E le cose negative succedono.

 

 

 

 

 

 

 

[1] La linea blu mostra l’andamento del PIL reale degli Stati Uniti, quella rossa l’andamento dei 19 paesi dell’area euro. Con riferimento alla linea rossa sono indicati due momenti: l’improvvida decisione di Trichet (Presidente della BCE prima di Draghi) sui tassi di interesse – che in sostanza impedì la ripresa europea – e la famosa espressione usata da Draghi (“faremo tutto quello che serve”) che riallineò l’andamento europeo a quello americano.

[2] Ovvero, dai 25 ai 54 anni.

[3] Anche qua, linea blu per gli Stati Uniti e linea rossa per l’Europa. È anche il caso di notare che la reazione alla crisi negli Stati Uniti fu assai peggiore di quella europea.

 

 

 

 

 

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