Blog di Krugman

Il tetto del debito e lo scoppio della bolla immobiliare (10 ottobre 2013)

 

October 10, 2013, 2:07 pm

The Debt Ceiling and the Housing Bust

Suppose that we hit the debt ceiling, and that the Treasury manages to engage in “prioritization” — paying interest on bonds, so that all the burden falls on other kinds of spending. How should we think about the economic impact?

Well, here’s one thought. Right now, the cash-flow deficit is a bit more than 4 percent of GDP:

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Federal deficit as percent of GDP

This deficit would have to be closed immediately, cold turkey, in the event of a debt-ceiling breach. Probably the default — because it would be a default, even if interest payments are being made — would take the form of a “delayed payment regime“, with the government falling ever further behind on its bills.

So, when did we last see a spending shock this big? As it happens, we’re looking at something just about the size of the post-bubble housing bust, which was also about 4 percent of GDP:

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Residential investment as percent of GDP

You can argue that these spending cuts wouldn’t have as much impact as the housing bust, because payment would be delayed, not cancelled, and at least some players would continue to expect eventual payment. On the other hand, as I pointed out in my last post, this time around we would have disconnected the automatic stabilizers — as GDP fell, revenues would fall, forcing another round of spending cuts, and so on.

Again, my point is that we could well be looking at a Great Recession-sized event even if we avoid a purely financial crisis.

 

Il tetto del debito e lo scoppio della bolla immobiliare

 

Supponiamo di raggiungere il tetto del debito, e che il Tesoro provi a gestire la situazione con delle priorità – pagando gli interessi sui bonds, cosicché tutto il peso ricada sugli altri generi di spesa pubblica. Cosa dovremmo pensare dell’impatto economico?

Ebbene, ecco un pensiero. In questo momento il deficit dei flussi di cassa è un po’ superiore al 4 per cento del PIL:

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Deficit federale come percentuale del PIL

 

Questo deficit dovrebbe essere tamponato immediatamente, seduta stante [1], nel caso di uno sfondamento del tetto del debito. Probabilmente il default – perché sarebbe un default, anche si si facessero i pagamenti sugli interessi – prenderebbe la forma di un “regime di pagamenti dilazionati”, con il governo sempre più inadempiente rispetto ai suoi conti.

Dunque, quando abbiamo assistito l’ultima volta ad uno shock della spesa di queste proporzioni? A quanto sembra, noi stiamo assistendo a qualcosa che ha proprio le stesse dimensioni dello scoppio successivo alla bolla immobiliare, il quale anche era di circa il 4 per cento del PIL:

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Investimento nelle residenze come percentuale del PIL

 

Si può sostenere che questi tagli alle spese non avrebbero tanto impatto come lo scoppio della bolla immobiliare, perché i pagamenti verrebbero rinviati, non cancellati, ed almeno alcuni continuerebbero ad aspettare alla fine di essere pagati. D’altra parte, come ho sottolineato nel mio post precedente, in questa occasione noi avremmo disconnesso gli stabilizzatori automatici – appena il PIL scendesse, le entrate calerebbero, costringendo ad un altro giro di tagli alla spesa, e così via dicendo.

Di nuovo la mia tesi è che potremmo davvero assistere ad un evento delle dimensioni della Grande recessione anche se evitassimo una crisi finanziaria vera e propria.



[1] “To go cold turkey” è una espressione idiomatica che significa la interruzione immediata di una dipendenza o di cattive abitudini.

Destabilizzatori automatici (10 ottobre 2013)

ottobre 10, 2013

 

October 10, 2013, 10:56 am

Automatic Destabilizers

The debt ceiling situation remains extremely foggy. Republican leaders seem, slowly, to be coming to the realization that Obama is serious about this business of not engaging in hostage negotiations — but they’re still trying to bargain (kill your main achievement? No? OK, how about killing Social Security instead?). Will they realize that this just isn’t going to work before the money runs out? Nobody knows.

And nobody knows what comes next. The immediate question is whether Treasury can, in fact, “prioritize” — pay interest on the debt while stiffing everyone else, from vendors to Social Security recipients. If they can, they might choose to do this to avoid financial meltdown.

But as I and many others have emphasized, even if this is possible, it would be a catastrophe, because the Federal government would be forced into huge spending cuts (Social Security checks and Medicare payments would surely take a hit, because there isn’t that much else). We’re looking at something like 4 percent of GDP, which given fairly standard multipliers would imply an eventual contraction by 6 percent.

Except that standard multipliers are wrong — it would be much, much worse. I haven’t seen anyone making this point, but it’s very important.

Standard estimates of the effects of cuts in government spending take into account the role of the federal government as an automatic stabilizer: the deficit rises as the economy shrinks, mainly because tax receipts go down but also because safety-net spending goes up. Typical estimates are that the federal deficit rises around 40 cents for every dollar decline in GDP:

But if the federal government is up against the debt ceiling, it will have to offset these revenue declines and automatic spending increases with further cuts. So the initial 6 percent decline in GDP would force a further 2.4 percent of GDP in cuts, leading to another round of GDP decline, and so on.

Take these effects into account, and the multiplier effect of an initial decline in government spending should be around 2.5, not 1.5. So we could be looking at a 10 percent decline in GDP, and a 5 point rise in unemployment, even if interest is paid in full.

This wouldn’t happen all at once; it won’t happen if the debt ceiling crisis lasts only a few weeks, in part because many of the people being stiffed would still expect payment eventually. But a sustained debt crisis could have immense negative effects even if default on securities (as opposed to default on contracts, which would still happen en masse) is avoided.

10 ottobre 2013

 

Destabilizzatori automatici

 

La situazione del tetto del debito resta assolutamente confusa. I leaders repubblicani sembra che stiano arrivando, lentamente, a comprendere che Obama è serio nel non volersi impegnare in una negoziazione su un ostaggio – ma stanno ancora cercando di trattare (Vuoi far fuori il tuo principale risultato? No? Va bene, che ne diresti allora di far fuori la Previdenza Sociale?). Capiranno che questo non è destinato a funzionare prima di una crisi del dollaro? Nessuno lo sa.

E nessuno sa cosa verrà dopo. La domanda immediata è se il Tesoro potrà, in effetti, stabilire delle priorità – pagare gli interessi sul debito nel mentre si resta inadempienti [1] con tutti gli altri, dai venditori ai beneficiari della Previdenza Sociale. Se possono, potrebbero scegliere di farlo per evitare un collasso finanziario.

Ma come molti altri oltre a me hanno sottolineato, persino se questo fosse possibile, sarebbe una catastrofe, perché il Governo Federale sarebbe costretto a grandi tagli alla spesa (gli assegni della Previdenza Sociale ed i pagamenti di Medicare prenderebbero sicuramente un colpo, dato che non c’è poi molto altro). Stiamo parlando di qualcosa come un 4 per cento del PIL, il che, dati moltiplicatori abbastanza consueti, implicherebbe una contrazione finale del 6 per cento.

A meno che quei moltiplicatori consueti non siano sbagliati – nel qual caso sarebbe molto, molto peggio. Non ho ancora visto nessuno avanzare questo argomento, ma esso è molto importante.

Stime standard degli effetti dei tagli della spesa pubblica mettono nel conto il ruolo del Governo federale come stabilizzatore automatico: il deficit cresce quando l’economia si restringe principalmente perché le entrate fiscali scendono ma anche perché la spesa pubblica per le reti della sicurezza salgono. Secondo stime consuete il deficit federale cresce di circa 40 centesimi per ogni dollaro di declino del PIL  [2].

Ma se il Governo federale incappa contro il tetto del debito, io dovrò bilanciare questo calo delle entrate e questi incrementi automatici delle spese con ulteriori tagli. Dunque, il declino iniziale del 6 per cento del PIL costringerà a tagli ulteriori del PIL per il 2,4 per cento, portando ad un altro giro del declino del PIL, e così via.

Mettete questi effetti nel conto, e l’effetto di moltiplicatore di un iniziale declino della spesa pubblica dovrebbe essere attorno al 2,5 per cento, e non all’1,5 per cento. Così assisteremmo ad un declino del 10 per cento del PIL, ed a cinque punti di crescita della disoccupazione, anche se gli interessi fossero pagati pienamente.

Questo non accadrebbe tutto in una volta; non accadrebbe se la crisi del tetto del debito durasse solo poche settimane, in parte perché molte persone che restano all’asciutto si aspetterebbero ancora alla fine di essere pagate. Ma una crisi di debito prolungata avrebbe immensi effetti negativi anche se il default sui titoli fosse evitato (all’opposto di quello sui contratti, che avverrebbe in grandi dimensioni).


 

 


[1] To stiff” nel senso di “fregare” è slang americano.

[2] Se ben capisco, la tabella sotto – che estraiamo dal testo per renderla meglio leggibile – indica la risposta del bilancio agli andamenti del ciclo economico. I dati sono espressi in percentuali del PIL che si modificano a fronte di un cambiamento di un 1 per cento del PIL, ovvero per ogni punto percentuale di PIL in meno.

La prima colonna indica i cambiamenti sul lato delle entrate complessive del Governo (prima riga) e, nelle due righe sotto,  di quelle distinte del Governo Federale e degli Stati e delle Comunità locali. Per ogni punto in meno di PIL c’è un calo di 0,37 centesimi di punto nelle entrate governative, attribuibile per  0,31  centesimi al Governo federale e per 0,06 centesimi agli Stati ed alle Comunità Locali.

La seconda colonna dovrebbe indicare l’andamento delle spese al netto delle borse di studio. Quindi, per ogni punto in meno di PIL le spese crescono di 0,09 punto di PIL; che dovrebbe essere l’effetto degli stabilizzatori automatici.

La terza colonna mi pare indichi il minore indebitamento netto, ed è la somma delle minori entrate e delle maggiori spese.

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I Buoni del Tesoro fanno paura? (9 ottobre 2013)

ottobre 9, 2013

 

October 9, 2013, 10:51 am

Are Treasuries Terrifying?

Neil Irwin says yes. Felix Salmon says no. I say, yes and no.

Here’s what we’re actually looking at so far:

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U.S. Treasury Treasury yield curve

The yield curve has been upward-sloping — that is, interest rates on longer-term bonds have been higher than on shorter-term — ever since we hit the zero lower bound, for two reasons. First, markets expect interest rates to go up eventually when the economy recovers. Second, option value: short-term rates can go up but they can’t do down, so you need a premium on anything longer-term.

Right now, however, rates on very short-term debt — one-month T-bills — have gone up even as longer rates are down a bit. This clearly reflects fears of a default, so that short-term claims won’t be paid on time; the markets are still unworried about the longer term.

 

This has only happened in the last few days, and it is scary — it means that people with money on the line are no longer sure that default will be avoided.

On the other hand, Salmon is right to say that we’re talking about movements that are just a fraction of a percentage point. If you’re thinking that people holding 1-month T-bills have taken a loss, you need to bear in mind that a 100 basis point rise in the interest rate (which would be far bigger than what we’ve seen so far) would reduce the price by only about 8 basis points, that is, 0.08 percent. This is not big stuff, yet.

On the third hand, my view all along has been that markets aren’t taking the threat of default seriously enough, that they just haven’t taken on board just how bad things have gotten. So even the modest interest rate rise so far is an ominous omen.

So, are Treasuries terrifying? As I said, yes and no.

 

I Buoni del Tesoro fanno paura?

 

Neil Irwin dice di no. Felix Salmon dice di sì. Io dico: sì e no.

Ecco quello a cui stiamo assistendo sino a questo punto:

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Curva di rendimento dei Buoni del Tesoro degli Stati Uniti

La curva dei rendimenti sta avendo una inclinazione verso l’alto – vale a dire, i tassi di interesse a più lungo termine diventano più alti di quelli a più breve termine  [1]– da quando abbiamo raggiunto il livello inferiore dello zero, ma per due ragioni. La prima, i mercati si aspettano che alla fine i tassi di interesse risalgano quando l’economia ha una ripresa. La seconda, la cosiddetta option value [2]: i tassi a breve termine possono salire ma non possono scendere, cosicché c’è bisogno di un premio per qualsiasi cosa a più lungo termine.

In questo momento, tuttavia, persino i tassi sul debito a brevissimo termine – i Buoni del Tesoro ad un mese – sono saliti, mentre i tassi a più lungo termine sono un po’ calati. Questo chiaramente riflette i timori del default, ovvero che le richieste a breve termine non verranno pagate nei tempi stabiliti: i mercati ancora non esprimono preoccupazione sui tempi più lunghi.

Tutto questo è accaduto soltanto negli ultimi giorni, ed è spaventoso – significa che le persone che operano con i soldi on-line non sono più sicure che il default sarà evitato.

D’altra parte, Salmon ha ragione nel dire che stiamo parlando di movimenti che sono solo una frazione di un punto percentuale. Se state pensando che le persone che detengono Buoni del Tesoro ad un mese avranno una perdita, dovete tenere a mente che una crescita di 100 punti base nel tasso di interesse (che sarebbe assai più grande di quella che abbiamo visto sinora) ridurrebbe il prezzo di solo 8 punti base, vale a dire dello 0,08 per cento. Non è ancora una gran cosa.

Come terza considerazione, la mia opinione su tutta la faccenda è stata che i mercati non stavano prendendo sul serio a sufficienza la minaccia di un default, che non l’avevano proprio considerata come se gli scenari negativi fossero acquisiti. Dunque, anche un modesto incremento dei tassi di interesse a questo punto è un presagio di cattivo augurio.

Dunque, i Buoni del Tesoro fanno paura? Come ho detto, sì e no.



[1] Si consideri che sull’asse orizzontale  sono indicati i termini di maturazione delle obbligazioni. Il primo (1MO) significa “Un mese” e l’ultimo (30Y) significa 30 anni. La linea blu, inoltre, riflette la proiezione che era leggibile nella situazione al 3 settembre di quest’anno, mentre la linea verde scuro riflette la proiezione leggibile al 10 ottobre di quest’anno.

[2] Nella analisi dei costi benefici ed anche nella economia dello stato assistenziale, si definisce ‘option value’ il valore che viene attribuito alla volontà di un soggetto di pagare un prezzo per mantenere o preservare un bene pubblico anche se di esso non si ha intenzione di fare alcun uso. Un esempio classico è quello delle spese per il mantenimento di un parco nazionale, che prescindono in una certa misura l’uso che effettivamente se ne fa.

Un po’ diversamente, nelle finanze il concetto si riferisce al valore che si attribuisce ad uno strumento finanziario, in relazione alla sua futura utilità nell’acquisto di assets. Ma in ogni caso si tratta di un valore che può essere interpretato in relazione al fattore di rischio che sarebbe implicito nel non assegnare alcun valore.

 

Tendenze nel commercio interregionale ed internazionale (7 ottobre 2013)

ottobre 7, 2013

 

October 7, 2013, 3:57 pm

Trends in Interregional and International Trade

Well, I’ve just paid my first personal price for the shutdown; I’m trying to finish a paper for the Walter Isard memorial volume, and discovered that the International Trade Commission’s invaluable Dataweb is shut down. I know, people are missing essential medical care and more, and I’m complaining about a slight academic inconvenience. But it’s a symptom.

For some reason, however, the Department of Transportation’s Freight Analysis Framework is still up and running (I was led there by a new project on metropolitan trade at Brookings, of which I’ll have much more to say in the months ahead.) So I was able to do at least one calculation on my theme, the changing fortunes of international and interregional trade.

You see, FAF lets us calculate total export and domestic shipments from, and import shipments to, each state for selected years; the values are given in 2007 dollars. In particular, we can measure the growth of each flow from 1997 to 2011, which covers much though not all of the era of “hyperglobalization.” And here’s what I get for percentage changes from 1997-2011:

Exports: 46.5
Imports: 108.7
Total trade (exports plus imports): 81.2
Domestic shipments: 25.6
Real GDP: 36.6

I think this makes sense: the forces behind hyperglobalization — reduced transportation and communication costs leading to vertical disintegration of production — are encouraging mainly long-range trade to save a few percent on labor costs, not shipping stuff between U.S. cities. Interregional trade seems even to be lagging GDP, possibly because our cities are becoming less specialized than they used to be.(What does Atlanta do for a living, exactly?)

Anyway, I’m finding this interesting. It says that what’s going on is a lot more differentiated than the simple notion that distance is being abolished.

 

Tendenze nel commercio interregionale ed internazionale

 

Bene, ho appena pagato il mio primo prezzo personale allo “shutdown”:  sto cercando di finire un saggio sul volume per il memorial di Walter Isard [1] ed ho scoperto che l’inestimabile Dataweb della Commissione del Commercio Internazionale è bloccato.  So che la gente sta perdendo essenziale assistenza medica ed altro ancora, e che io mi sto lamentando per un leggero inconveniente accademico. Ma è un sintomo.

Per qualche ragione, tuttavia, la Struttura di analisi del trasporto merci (FAF) del Dipartimento dei Trasporti è ancora in funzione e sta operando (ci sono arrivato a seguito di un nuovo progetto sul commercio metropolitano presso la Fondazione Brookings, sul quale avrò molto di più da dire nei prossimi mesi). Dunque sono stato capace di fare almeno un calcolo sul mio tema, le fortune mutevoli del commercio internazionale e interregionale.

Considerate che la FAF ci consente di calcolare le esportazioni totali, le spedizioni nazionali da e le spedizioni di importazione per ciascuno stato  per anni prescelti; i valori sono espressi in dollari. In particolare possiamo misurare la crescita di ciascun flusso dal 1997 al 2011, che copre gran parte se non tutta l’epoca della “iperglobalizzazione”. Ed ecco cosa ho attenuto per i cambiamenti percentuali dal 1997 al 2011:

Esportazioni: 46,5

Importazioni: 108,7

Commercio totale (esportazioni più importazioni: 81,2

Spedizioni interne: 25,6

PIL reale: 36,6

Penso che questo sia comprensibile: le forze che stanno dietro la “iperglobalizzazione” – riduzione dei costi di trasporto e di comunicazione che portano ad una disintegrazione verticale della produzione – stanno incoraggiando principalmente i commerci di lunga gittata per risparmiare una piccola percentuale dei costi di lavoro, non le spedizioni di cose tra le città degli Stati Uniti. Il commercio interregionale sembra essere in ritardo anche rispetto al PIL, probabilmente perché le nostre città stanno diventando meno specializzate di quello che erano (cosa fa esattamente Atlanta per vivere?)

In ogni caso, tutto questo mi pare interessante. Ci dice che quello che sta accadendo è un bel po’ diverso dal semplice concetto secondo il quale le distanze sarebbero abolite.


 

 


[1] Walter Isard (19 aprile 1919, Philadelphia –  6 novembre 2010, Drexel Hill, Pennsylvania), è stato un importante economista americano, il principale fondatore della “Scienza Regionale”, così come uno dei principali fondatori della “Scienza della Pace”. La sua biografia è molto interessante: studiò e collaborò con economisti come Oskar Lange, Frank Knight e Jacob Viner; successivamente collaborò con Wassily Leontief ad Harvard. Fondò e fu primo Presidente della Associazione della Scienza Regionale. Durante il Secondo conflitto mondiale ottenne il riconoscimento di obiettore di coscienza e lavorò all’interno di un ospedale psichiatrico, a Quaker. Fu durante questo periodo che tradusse vari studi di autori tedeschi sulla ‘teoria della localizzazione’. Negli anni ’50 pubblicò tre importanti libri: Location and Space Economy (1956); Industrial Complex Analysis and Regional Development (1959); and Methods of Regional Analysis (1960). Nel 1963 mise assieme un gruppo di allievi a Malmö, in Svezia, con il proposito di fondare la Società di ricerca sulla Pace. Come per le scienze ‘regionali’ concepì la scienza della pace come una attività di ricerca di livello internazionale e di natura interdisciplinare, allo scopo di sviluppare una serie di concetti, tecniche e apparati statistici.

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Del conoscere quello che non si sa (7 ottobre 2013)

ottobre 7, 2013

 

October 7, 2013, 10:14 am

On Knowing What You Don’t Know

Brad DeLong catches Niall Ferguson making another whoopsie. And while chasing NF isn’t worth the effort for its own sake, I think there is a broader lesson here: namely, the importance of knowing what you don’t know.

My own unpleasantness with Ferguson began when he tried to weigh in on monetary versus fiscal policy without understanding basic macroeconomics. Later, he tried to critique official inflation numbers without knowing enough about that subject to tell the difference between the experts and the cranks. Now he’s demonstrating, rather embarrassingly, that he doesn’t know how to read CBO reports.

What I find amazing is the failure to learn the meta-lesson here, which is not to wade into such matters without being quite sure you know what you’re doing. In particular, if you think you’ve found a massively important fact that somehow all the economists have missed — like a drastic deterioration in CBO’s estimate of the long-run US budget outlook, somehow missed by everyone else reading the agency’s reports — you really, really want to be sure that you’re not just misreading the numbers.

Knowing what you don’t know is very important.

 

Del conoscere quello che non si sa

 

Brad DeLong sorprende Niall Ferguson in un altro momento di imbarazzo [1]. E mentre non è il caso di andar dietro a Niall Ferguson per l’interesse della cosa in sé, penso ci sia in questo una lezione più generale: precisamente, l’importanza di conoscere quello che non sapete.

La mia esperienza spiacevole con Ferguson cominciò quando egli cercò di intervenire sul tema della politica monetaria in alternativa a quella della finanza pubblica senza comprendere le cose fondamentali della teoria economica. Più tardi, egli provò a criticare i dati ufficiali sull’inflazione senza conoscere a sufficienza quella tematica in modo da spiegare la differenza tra gli esperti e gli improvvisatori. Ora dimostra, in modo abbastanza imbarazzante, di non saper come leggere i rapporti del Congressional Budget Office.

Quello che trovo sorprendente in questo caso è il non essere capaci di apprendere la lezione implicita, che è quella di non restare invischiati in cose del genere senza essere abbastanza certi di conoscere quello che si sta facendo. In particolare, se pensate di aver scoperto un fatto assolutamente importante che in qualche modo è sfuggito a tutti gli economisti – come un drastico deterioramento nella stima del CBO della prospettiva di lungo periodo del bilancio degli Stati Uniti, peraltro non compresa da tutti gli altri che stanno leggendo i resoconti dell’agenzia – dovete con assoluta certezza essere sicuri che non state soltanto fraintendendo i dati.

Conoscere quello che non si sa è una cosa assolutamente importante.


 

 

 


[1] Interessante riportare il piccolo pezzo di Brad DeLong assieme all’infortunio del grande “tuttologo” Niall Ferguson. In neretto il titolo del suo articolo e le sue affermazioni; a seguire il commento di Brad DeLong:

 

“… Niall Ferguson: lo “shutdown” (il blocco di questi giorni ndt) è un fenomeno secondario. Il debito è la minaccia

‘Un anno fa le serie di riferimento di lungo periodo del CBO per il debito federale nelle mani pubbliche mostravano un dato pari al 52% del PIL nel 2038. Questo dato è davvero proprio raddoppiato sino al 100% …’”

“Un anno fa, al CBO veniva richiesto per legge di calcolare il riferimento di lungo periodo assumendo che tutti gli sgravi fiscali decisi all’origine nel 2001 e 2003 si sarebbero esauriti con la fine del 2012 e non sarebbero stati riassunti. Un anno fa il CBO mise in guardia a questo proposito chiunque leggesse il suo rapporto, e dicendo loro di non guardare al riferimento di lungo periodo ma allo scenario alternativo – che quest’anno mostra, al 2038, un rapporto debito/PIL non peggiore di 48 punti percentuali, ma piuttosto migliore di 30 punti percentuali rispetto all’anno passato.

No. Io non so se Niall Ferguson capisca per davvero oppure non capisca i rapporti del CBO. In realtà non so cosa egli pensi di star facendo. Ma quello che egli sta facendo in questo caso – con il pretendere che nell’anno passato ci sia stato uno straordinario deterioramento delle previsioni di bilancio a lungo termine del CBO quando chiunque conosca il bilancio e il CBO sa che c’è stato un miglioramento – è una ennesima disinformazione a danno dei lettori della pagina degli editoriali del Wall Street Journal ed una ulteriore distruzione della sua credibilità presso i suoi colleghi.

Davvero è necessario che la faccia finita.”

Credibilità fino in fondo (7 ottobre 2013)

ottobre 7, 2013

 

October 7, 2013, 10:01 am

Credibility All The Way Down

Ken Rogoff has responded to Simon Wren-Lewis and yours truly, and I’m glad to see that he’s taking the analytical questions we raised seriously. I guess it won’t surprise readers, however, to learn that I don’t find the response adequate.

Let me make four points.

1. Since Rogoff seems to have decided to mention my excessive pessimism about euro survival as often as possible, I think it’s important to be clear about what I got wrong. As far as I can tell, I was right about the straight economics: internal devaluation has proved every bit as difficult and costly as I (and many others) warned it would. What has come as a surprise is the politics — the incredible willingness of southern European countries to suffer mass unemployment, year after year, rather than break ranks. The economic framework I was using looks fine, but clearly I misjudged the political landscape.

2. On the economic question at hand, Rogoff seems to be playing bait and switch. Wren-Lewis and I both asked why, exactly, a country like Britain should fear a Greek-style loss of confidence. Rogoff, however, spends most of his piece arguing that Britain would, in fact, be hurt by a euro collapse. Of course it would. So? This doesn’t even seem relevant to Rogoff’s own argument for austerity policies: British austerity might be “insurance” against loss of confidence, but it makes no difference either way to the probability of disaster in Europe. What’s going on here?

3. It also seems to me that Rogoff has shifted his own argument. In the original piece, it was very straightforward: foreign investors would lose confidence, sending interest rates soaring, which would cause economic contraction. I think, though it’s hard to tell, that he has now dropped that story, replacing it with a fairly amorphous assertion that simple models miss the true nature of risk. OK, I guess, but I do think it’s important to note that Rogoff’s original assertion was that it was all very simple.

4. Finally, on Wren-Lewis’s point more than mine: Wren-Lewis pointed out that a country like Britain could easily respond to a run on its bonds via quantitative easing. Rogoff says no, because this would undermine its credibility. I’m being a bit flip here, but as I read this we start with a credibility argument; when there turns out to be an easy way to deal with that problem, it’s rejected because that would undermine credibility. I keep looking for something fundamental, but right now it looks like turtles all the way down.

Just to come back to my original point: I find it quite remarkable that nobody has managed to produce a coherent model to justify the seemingly simple story that anyone, even a country that borrows in its own currency, can suddenly turn into Greece. Again, show me the model!

 

Credibilità fino in fondo

 

Ken Rogoff ha risposto a Simon Wren-Lewis ed al sottoscritto, ed io sono contento che stia prendendo sul serio i quesiti analitici che avevamo sollevato. Tuttavia suppongo che i lettori non saranno sorpresi dall’apprendere che non trovo la risposta adeguata.

Fatemi porre quattro punti.

1 . Dal momento che Rogoff sembra aver deciso di far menzione ad ogni piè sospinto del mio eccessivo pessimismo sulla sopravvivenza dell’euro, penso sia importante essere chiari su cosa ho avuto torto. Per quanto posso dire, avevo ragione sugli aspetti diretti dell’economia: la svalutazione interna si è dimostrata altrettanto difficile e costosa di quanto il sottoscritto (e molti altri) avevano messo in guardia. La sorpresa è venuta dalla politica – l’incredibile volontà dei paesi dell’Europa meridionale di soffrire, anno dopo anno, una disoccupazione di massa, anziché rompere i ranghi. Lo schema economico che ho utilizzato era buono, ma chiaramente ho frainteso il paesaggio della politica.

2 . Sulla questione economica che stiamo discutendo, Rogoff sembra giocare come con un prodotto da richiamo, lo avanza e lo toglie. Wren-Lewis ed io abbiamo entrambi chiesto perché, con esattezza, una paese come l’Inghilterra dovrebbe aver paura di una perdita di fiducia sul tipo di quella della Grecia. Rogoff, tuttavia, spende gran parte del suo pezzo sostenendo che l’Inghilterra, di fatto, sarebbe colpita da un tracollo dell’euro. E’ chiaro che lo sarebbe. E dunque? Questo non sembra rilevante neppure per la stessa tesi di Rogoff  a favore di politiche di austerità: l’austerità inglese potrebbe essere una “assicurazione” contro la perdita di fiducia, ma in ogni caso non fa alcuna differenza quanto alla probabilità di un disastro in Europa. Che storia è questa?

3 . Mi pare inoltre che Rogoff abbia spostato il suo stesso argomento. Nell’articolo originario, egli era assolutamente inequivocabile: gli investitori stranieri perderebbero fiducia spedendo i tassi di interesse alle stelle, il che provocherebbe una contrazione nell’economia. Penso, sebbene sia difficile da dire, che ora egli abbia lasciato cadere quella storia, sostituendola con il concetto abbastanza amorfo secondo il quale ai semplici modelli sfugge la vera natura del rischio. Va bene, me lo immagino, ma penso proprio che sia importante notare che la asserzione originaria di Rogoff era che tutto fosse assai semplice.

4 . Infine, su un punto avanzato più da Wren-Lewis che da me: Wren-Lewis ha sottolineato che un paese come l’Inghilterra avrebbe facilmente risposto ad una risalita dei suoi bonds attraverso la “facilitazione quantitativa” [1]. Rogoff dice di no, perché questo metterebbe a repentaglio la sua credibilità. A questo punto sono un po’ incavolato, ma per come leggo noi partiamo con un argomento di credibilità; quando si scopre esserci un modo semplice per fare i conti con quel problema, la soluzione è respinta perché metterebbe a repentaglio la credibilità. Io continuo a cercare idee fondamentali, ma in questo momento mi sembrano come tartarughe che girano dappertutto [2].

Soltanto per ritornare al mio tema originale: trovo abbastanza considerevole che nessuno abbia cercato di produrre un modello coerente per giustificare la storia apparentemente semplice secondo la quale ognuno, persino un paese che prende prestiti nella propria valuta, possa all’improvviso ritrovarsi come la Grecia. Ancora, mostratemi un modello!



[1] Vedi note sulla traduzione.

[2] Sul tema di cosa significhi “turtles all the way down” si può cercare presso “English Language&Usage”, trovando aneddoti divertenti. Dovrebbe significare di una situazione/ragionamento/persona che tende a proseguire qualcosa in continuazione, con reiterazione e circolarità, come a non saper concludere o spiegarsi. A me è venuta in mente l’immagine di tartarughine che si sperdono in tutte le direzioni … Nel titolo ovviamente la traduzione è più letterale perchè è solo un avverbio e mancano le tartarughe.

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Il corto circuito sul collegamento (5 ottobre 2013)

ottobre 5, 2013

 

October 5, 2013, 3:51 pm

Shorting Out The Wiring

For the moment, at least, the shutdown and the general scene of insanity in Congress is clearly hurting the Republican brand. And there’s a whole small industry of crunching numbers on the 1995-6 shutdown, etc., to estimate the likely impact on next year’s elections. For now the conventional wisdom is that the impact will be small, not nearly enough to restore Democratic control.

I have no idea whether that’s right. But as I was reading the various news reports, it occurred to me that there’s a subtler but possibly profound form of damage the GOP is doing to itself, one that will cast its shadow for a long time.

It goes back to something Josh Marshall of Talking Points Memo used to say — that Washington is, in effect, wired for Republicans. Ever since Reagan, the Beltway has treated Republicans as the natural party of government. Sunday talk shows would feature a preponderance of Republicans even if Democrats held the White House and one or both houses of Congress. John McCain was featured on those shows so often you would think he won in 2008.

And there was a general presumption of Republican competence. It’s hard to believe now, but Bush was treated as a highly effective leader who knew what he was doing right up to Katrina, while Clinton — now viewed with such respect — was treated as a bungling interloper for much of his presidency. Even in the last few years there was a rush to canonize Paul Ryan as a superwonk, when it was quite obvious if you looked that politics aside, he was just incompetent at number-crunching.

But I think the last two years have finally killed that presumption. It wasn’t just that Romney lost — his shock, the obvious degree to which his campaign was deluded, was an eye-opener. And now the antics of the Boehner bumblers.

Suddenly the old Will Rogers line — I’m not a member of any organized political party,I’m a Democrat — has lost its sting; the upper hand is on the other foot. And that’s going to color narratives and shape campaigns for a long time.

 

Il corto circuito sul collegamento

 

Almeno per il momento, il blocco e la rappresentazione di generale follia del Congresso sta chiaramente dando un colpo al marchio dei repubblicani. E c’è un intero piccolo apparato di dati da masticare sul blocco del 1996-6 etc., per stimare il probabile impatto sulle elezioni del prossimo anno. Per adesso il senso comune dice che l’impatto sarà modesto, neppure lontanamente sufficiente a ripristinare il controllo dei Democratici [1].

Non ho idea se questo sia giusto. Ma mentre stavo leggendo i vari resoconti, mi è venuto in mente che c’è un più sottile ma probabilmente più profondo tipo di danno che il Partito Repubblicano sta facendo a se stesso, qualcosa che getterà un’ombra nel lungo periodo.

Ciò rinvia a qualcosa che Josh Marshall  del Talking Memo Points [2]  era solito dire – che Washington è, in effetti, collegata con i repubblicani. A partire da Reagan, la Capitale ha trattato i repubblicani come il naturale partito di governo. I talk shows della domenica continuavano a mostrare una preponderanza dei repubblicani anche se i democratici detenevano la Casa Bianca e la maggioranza di uno o di entrambi i rami del Congresso. In quegli spettacoli John McCain veniva mostrato così spesso che si poteva pensare che nel 2008 vincesse.

E c’era una generale presunzione di competenza a favore dei repubblicani. Oggi è difficile crederlo, ma Bush era trattato come un leader di rara efficacia che seppe quello che stava facendo sino alla faccenda di Katrina, mentre Clinton – che oggi è considerato con il rispetto che si conosce – fu considerato come un intruso che faceva confusione per gran parte della sua presidenza. Persino nel corso degli ultimi anni c’è stata una corsa a canonizzare Paul Ryan come un superesperto, mentre era abbastanza evidente, se osservavate a prescindere dalla politica, che era soltanto un incompetente nella elaborazione dei dati.

Ma io penso che questi due ultimi anni abbiano finalmente fatto giustizia di questa presunzione. Non solo il fatto che Romney abbia perso – la sua sorpresa, la misura evidente nella quale la sua propaganda era ingannevole, sono cose che hanno aperto gli occhi. Ed ora le pagliacciate dei pasticcioni di Boehner.

All’improvviso la vecchia battuta di Will Rogers [3] – io non sono un membro di un partito politico organizzato, io sono un democratico – ha perso il suo mordente; il vantaggio è passato dall’altra parte. E questo è destinato a dare espressività a racconti ed a dar forma alle campagne elettorali per un lungo periodo.


 

 

 


[1] Sulla Camera dei Rappresentanti, alle elezioni di medio termine del 2014.

[2] Un giornalista liberal ed il titolo del suo famoso blog.

[3] Will Rogers, nato William Penn Adair Rogers (Oklahoma, 4 novembre 1879Barrow, 15 agosto 1935), è stato un attore, comico e giornalista statunitense di origini cherokee.

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Crisi fantasma (per esperti) (3 ottobre 2013)

ottobre 3, 2013

 

October 3, 2013, 7:23 pm

Phantom Crises (Wonkish)

Simon Wren-Lewis is puzzled by a Ken Rogoff column that sorta-kinda defends Cameron’s austerity policies. His puzzlement, which I share, comes at several levels. But I want to focus on just one thing: Rogoff’s assertion that Britain could have faced a southern Europe-style crisis, with a loss of investor confidence driving up interest rates and plunging the economy into a deep slump.

As I’ve written before, I just don’t see how this is supposed to happen in a country with its own currency that doesn’t have a lot of foreign currency debt – especially if the country is currently in a liquidity trap, with monetary policy constrained by the zero lower bound on interest rates. You would think, given how many warnings have been issued about this possibility, that someone would have written down a simple model of the mechanics, but I have yet to see anything of the sort.

Let’s start with something like a canonical model – a model in which there’s an IS curve representing the effects of interest rates on demand, and monetary policy is described by some kind of Taylor rule. David Romer calls this the IS-MP model, and it looks something like this at a given point of time:

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Here the MP curve represents the central bank’s response function for a given rate of inflation, with rates rising if output goes up a la Taylor. The flat section represents the zero lower bound.

As Romer points out in his notes, this can be reinterpreted as an open-economy model if we let capital flows be influenced by the exchange rate (most international econ types tend to think in terms of stocks rather than flows, but it doesn’t really matter here), so that a lower interest rate leads to currency depreciation. In this case the IS curve includes the effect of a weaker currency in promoting net exports.

Now suppose that investors turn on your country for some reason. This can be represented as a decline in capital inflows at any given interest rate, so that the currency depreciates. If you have a lot of foreign-currency-denominated debt, this could actually shift IS left through balance-sheet effects, as we learned in the Asian crisis. But that’s not the case for Britain; clearly, IS shifts right. If LM doesn’t shift, the interest rate will rise, but only because the loss of investor confidence is actually, through depreciation, having an expansionary effect.

We could modify this conclusion if the central bank is worried about the inflationary effect of depreciation, so that MP shifts left. In this case we could, possibly, have a contractionary effect of lost investor confidence – but the channel runs through the inflation fears of the central bank, which doesn’t seem to be at all what Rogoff or others are talking about:

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Furthermore, suppose that we start in a liquidity trap. In that case monetary policy is initially tighter than the central bank would like, so that even if MP shifts left it won’t matter unless the shift is very large:

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My point is that what sounds like a straightforward claim – that loss of foreign confidence causes a contractionary rise in interest rates – just doesn’t come out of anything like a standard model. If you want to claim that it will happen nonetheless, show me the model!

Now, you might argue that IS-MP is a model of the short-term interest rate, and we’re talking about long-term rates here. But long rates are largely determined by expected future short rates, so this argument doesn’t make sense unless you have some story about why short rates should rise somewhere along the way.

Furthermore, as Wren-Lewis says, even if there is somehow a squeeze on long-term bonds, why can’t the central bank just buy them up? Yes, this is “printing money” – but when you’re in a liquidity trap, that doesn’t matter. (Alternatively, you can take a consolidated view of the government and central bank balance sheets, in which case what we’re effectively doing is refinancing at the zero short-term rate.)

 

 

I know that many people find this line of argument, in which a loss of investor confidence is if anything expansionary, deeply counterintuitive. But macro, and especially liquidity trap macro, tends to be like that. So don’t give me your gut feelings; give me a coherent story about who does what, i.e. a model. I eagerly await a response.

 

Crisi fantasma (per esperti)

 

Simon Wren-Lewis è sconcertato da un articolo di Ken Rogoff che in qualche modo difende le politiche di austerità di Cameron. Il suo sconcerto, che condivido, riguarda vari aspetti. Ma intendo concentrarmi su uno di essi: il giudizio di Rogoff secondo il quale l’Inghilterra avrebbe potuto fronteggiare una crisi del tipo di quella dell’Europa del Sud, con una perdita di fiducia degli investitori che avrebbe spinto in alto i tassi di interesse e fatto cadere l’economia in una depressione profonda.

Come ho scritto in precedenza, proprio non vedo come questo si suppone che potesse accadere in un paese con la propria valuta che non ha una grande quantità di debito in valuta straniera – specialmente se quel paese è attualmente in una trappola di liquidità, con una politica monetaria limitata dal limite inferiore di zero [1] nei tassi di interesse. Pensereste, considerato quante avvertenze sono state avanzate a proposito di questa eventualità, che qualcuno avesse improvvisato una semplice modello sul relativo meccanismo, ma io non ho ancora visto niente del genere.

Cominciamo da qualcosa che assomiglia ad un modello canonico – un modello nel quale c’è una curva IS [2] che rappresenta gli effetti dei tassi di interesse sulla domanda, e la politica monetaria è descritta in qualche modo sulla base della curva di Taylor [3]. David Romer lo chiama il modello IS-MP, ed esso appare nel modo seguente, in una determinata congiuntura di tempo:

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In questo caso la curva MP rappresenta la funzione di risposta della banca centrale ad un dato tasso di inflazione, con i tassi in crescita se il prodotto sale alla maniera di Taylor. Il segmento piatto rappresenta il limite inferiore dello zero.

Come Romer osserva nelle sue note,  questo schema può essere reinterpretato in un modello di economia aperta se lasciamo che i flussi dei capitali siano influenzati dai tassi di cambio (una gran parte degli economisti internazionali tendono a ragionare in termini di capitali azionari piuttosto che di flussi, ma in questo caso non ha realmente molta importanza), cosicché un più basso tasso di interesse porta ad una deprezzamento della valuta. In questo caso la curva IS include l’effetto di una moneta più debole nel promuovere le esportazioni nette.

Ora supponiamo che gli investitori per qualche ragione divengano ostili al vostro paese. Questo può essere rappresentato come un declino dei flussi di capitali ad un qualsiasi tasso di interesse dato, in modo tale che la valuta si deprezza. Se avete una quantità di debito espressa in valuta estera, questo effettivamente potrebbe spostare la curva IS verso sinistra per gli effetti sugli equilibri patrimoniali, come imparammo nelle crisi asiatiche. Ma, chiaramente, non è quello il caso dell’Inghilterra. Se la linea LM [4] non si sposta, il tasso di interesse salirà, ma soltanto perché la perdita di fiducia degli investitori, attraverso la svalutazione, ha realmente un effetto espansivo.

Potremmo modificare questa conclusione se la banca centrale fosse preoccupata dell’effetto inflazionistico della svalutazione, in modo tale da spostare la curva MP verso sinistra. In questo caso avremmo, probabilmente, un effetto restrittivo per la fiducia perduta degli investitori – ma un corso di questo genere procederebbe attraverso i timori della banca centrale, che non sembra affatto quello a cui Rogoff e gli altri stanno pensando:

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Inoltre, supponiamo che si metta in moto una trappola di liquidità. In questo caso la politica monetaria è inizialmente più rigida di quanto la banca centrale gradirebbe, cosicché anche se la curva MP si sposta a sinistra, ciò non sarà importante a meno che lo spostamento non sia molto ampio:

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La mia tesi è che quello che sembra essere un argomento indiscutibile – che la perdita di fiducia da parte di investitori stranieri provochi un effetto restrittivo nei tassi di interesse – proprio non emerge da un qualsiasi modello ordinario. Se volete sostenere che questo accadrà in ogni caso, mostratemi il modello!

Ora, si può argomentare che il modello IS-MP è un modello del tasso di interesse a breve termine, e qua stiamo parlando di tassi di interesse a lungo termine. Ma i tassi di interesse a lungo termine sono ampiamente determinati dalle aspettative sui futuri tassi di interesse a breve, cosicché questo argomento non ha senso a meno che non si abbia qualche spiegazione sul perché i tassi di interesse a breve dovrebbero salire in qualche punto del percorso.

Inoltre, come dice Wren-Lewis, persino se in qualche modo ci fosse una stretta sui bonds a lungo termine, perché la banca centrale non potrebbe farne incetta? E’ vero, sarebbe come “stampare moneta” – ma quando si è in una trappola di liquidità questo non è rilevante.

(In alternativa, si può assumere un punto di vista consolidato degli equilibri patrimoniali del governo e della banca centrale, nel qual caso quello che effettivamente si farebbe sarebbe un rifinanziamento ad un tasso di interesse a breve termine di zero).

Capisco che molte persone trovino questo filone di argomentazione, secondo il quale una perdita di fiducia degli investitori non è altro che espansiva, profondamente contro-intuitivo. Ma la macroeconomia, e in particolar modo la macroeconomia della trappola di liquidità, tende ad essere tale. Dunque, non parlatemi delle vostre sensazioni intuitive; fornitemi un racconto coerente su chi fa che cosa, vale a dire un modello. Resto in ansiosa attesa di una risposta.



[1] Per “zero lower bound” vedi le note sulla traduzione.

[2] Investimenti-Risparmi.

[3] La Regola di Taylor è una regola della moderna politica monetaria enunciata dall’economista statunitense John B. Taylor nel 1993. La regola ha particolare importanza perché consiste in una relazione matematica che lega alcune variabili economiche (inflazione e prodotto interno lordo) a uno strumento di politica monetaria, questo consente di rappresentare il comportamento di molte banche centrali (come FED e BCE). Nello specifico la regola indica a quale livello dovrebbe essere il tasso di interesse nominale di breve periodo formulato dall’autorità monetaria, affinché sia pari al tasso di interesse reale di equilibrio, ossia il tasso di interesse reale a cui corrisponde un livello di domanda aggregata pari all’offerta aggregata di piena occupazione (PIL potenziale). (Wikipedia)

 

[4] Ovvero, della Liquidità-Moneta, nel modello classico di Hicks. Suppongo che in questo caso sia considerata equivalente a quella che è stata definita “curva MP”, ovvero della politica monetaria.

Pasticcioni aggressivi (3 ottobre 2013)

ottobre 3, 2013

 

October 3, 2013, 10:06 am

Aggressive Blunderers

Jonathan Chait argues that blame for what looks more and more like a shutdown merging with a debt ceiling crisis rests not with Tea Party radicasl but with the Republican leadership: “The House leadership has evinced every tic of classic aggressive blunderers.”

Unfortunately, I think this is right. Just last week we had Paul Ryan blithely assuring National Review that “nobody believes” that Obama will refuse to make concessions over the debt ceiling, and citing examples from the past that anyone who has actually been following the issue knows have no relevance to what’s happening now.

In other words, GOP leaders fundamentally misjudged the situation (and Obama’s incentives). And now they have backed themselves into a position where they don’t know how to back down — they have to extract concessions or they’ll have been “disrespected,” in a situation where Obama simply can’t make any concessions without destroying his own credibility and betraying the fundamental norms of governance.

So what does the endgame look like?

As the date approaches, market will start to freak out. You can already see a faint hint of freakout coming, as interest rates on 4-week Treasury bills — which may not be repaid on their due date — have moved up above 6-month:

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By the way, this may look like a huge spike, but bear in mind the scale: both rates are still very near zero, it’s just that the one-months have moved from a slight premium (on price) to a significant but still small discount.

The assumption has been that Republicans will finally be moved to act by the market freakout. But given their behavior so far, why would you believe this? I can easily see Ted Cruz making a speech declaring that the freakout is all Obama’s fault, and that what the markets really fear is socialism or something — and the base believing it.

My bet now is that we actually do go over the line for a day or two. And what ends the immediate crisis is not Republican action but a decision by Obama to declare himself not bound by the debt ceiling. He can’t even hint at this possibility until the thing actually happens, because he has to keep the focus on the Republicans, and he has to make them demonstrate their utter irresponsibility before he can take any extraordinary action.

But maybe I’m wrong; maybe Obama’s lawyers have concluded that there’s really nothing he can do. If so, God help us all.

 

Pasticcioni aggressivi

 

Jonathan Chait sostiene che la colpa per quello che appare sempre di più come un blocco delle attività di governo che si congiunge con una crisi sul tetto del debito [1] non risieda nei radicali del Tea Party, ma nel gruppo dirigente dei repubblicani: “La dirigenza della Camera ha messo in mostra ogni tic dei classici pasticcioni aggressivi”.

Sfortunatamente, io penso che questo sia giusto. Soltanto la scorsa settimana abbiamo avuto Paul Ryan che spensieratamente ha assicurato la National Review che “nessuno crede” che Obama rifiuterà di fare concessioni sul tetto del debito, citando esempi del passato che tutti quelli che stanno effettivamente seguendo la questione sanno non avere alcuna rilevanza con quello che sta accadendo oggi.

In altre parole, fondamentalmente i dirigenti del Partito Repubblicano fraintendono la situazione (e le motivazioni di Obama). Ed ora si sono cacciati in una posizione dalla quale non sanno come tornare indietro – devono avere concessioni senza le quali sarebbe come “mancare (loro) di rispetto”, in una situazione nella quale semplicemente Obama non può fare alcuna concessione senza distruggere la sua propria credibilità e tradire i principi fondamentali del governo.

Quale può essere dunque una conclusione?

Avvicinandosi la scadenza, il mercato comincerà ad uscire di testa. Si può già osservare un tiepido cenno di perdita di controllo in arrivo, da come i tassi di interesse sui buoni del Tesoro a quattro settimane – che possono non essere ripagati alla loro scadenza dovuta – si sono alzati sopra quelli a sei mesi [2]:

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Tra parentesi, questo potrebbe apparire un grande rialzo, ma si tenga a mente la scala: entrambi i tassi sono ancora assai vicini allo zero, soltanto che quelli a 4 settimane si sono spostati da un leggero premio (sul prezzo) ad un significativo ma ancora modesto sconto.

L’assunto è stato che i repubblicani sarebbero alla fine stati indotti ad agire dal nervosismo del mercato. Ma data la loro condotta sino a questo punto, perché si dovrebbe crederci? Posso tranquillamente immaginarmi Ted Cruz fare un discorso con il quale dichiara che la crisi di nervi del mercato è colpa di Obama, e che quello che i mercati temono davvero è il socialismo o qualcosa del genere – e la base crederci.

A questo punto la mia scommessa è che effettivamente finiremo oltre la linea per un giorno o due. E che quello che porrà termine ad una crisi immediata non sarà una iniziativa repubblicana ma la dichiarazione da parte di Obama di non essere legato dal tetto del debito [3]. Egli non può neppure far cenno a questa possibilità finché essa effettivamente non si materializza, perché deve mantenere l’attenzione sui repubblicani, e deve metterli nelle condizioni di mostrare la loro totale irresponsabilità prima di assumere ogni iniziativa straordinaria.

Ma forse mi sbaglio; può darsi che i legali di Obama abbiano concluso che non c’è davvero niente che egli possa fare. Che Dio ci aiuti tutti.



[1] Il blocco dei finanziamenti al Governo è arrivato a seguito dello scontro sulla legge di bilancio. Come è noto a seguito delle elezioni recenti, la Camera dei Rappresentanti ha una maggioranza repubblicana, mentre il Senato ha una maggioranza democratica. La Costituzione americana prevede che quando le soluzioni legislative dei due rami del Parlamento divergono, una commissione congiunta di Camera e Senato trovi una composizione. Nel caso recente tale composizione non è stata concordata, in particolare per la pretesa repubblicana di eliminare i finanziamenti di bilancio alla riforma della assistenza sanitaria (“Obamacare”), cosicché il Governo federale si è trovato dinanzi ad un blocco di finanziamenti ed ha dovuto sospendere vari servizi importanti, ma considerati non primari.

L’eventuale non innalzamento del tetto del debito, invece, dovrebbe consistere in un provvedimento specifico, con il quale ogni anno il Congresso decide – in pratica una seconda volta – di ammettere tutte le leggi di spesa già approvate, spostando conseguentemente il tetto del debito. Questa procedura è curiosa – perché non attuarla impedirebbe il finanziamento di decisioni già regolarmente assunte nelle leggi di settore e nei provvedimenti specifici –  e molto raramente, soprattutto in questi anni, è stata utilizzata come arma di ricatto verso il Governo. Mentre lo “shutdown” blocca la attività del Governo federale in attesa di una approvazione di un bilancio concordato, con le conseguenze della interruzione di vari servizi alle quali si assiste in questi giorni, il non aumento del tetto del debito metterebbe l’intera situazione finanziaria in una situazione di impossibilità a procedere, impedendo anche il pagamento del debito e quindi provocando un default.

[2] I Buoni del Tesoro a 4 settimane sono rappresentati dalla linea blu, quelli a 6 mesi dalla linea rossa. I Buoni del Tesoro sono obbligazioni sul debito a breve e brevissimo termine, e dunque il problema per quelli a 4 settimane è che, se la situazione non cambia, essi potrebbero non essere rimborsati alla loro scadenza. Per quelli a 6 mesi, invece, il panico sarebbe prematuro.

[3] Se ben capisco, la carta estrema che Krugman suppone Obama potrebbe giocare è quella di dichiarare che il non voto sull’innalzamento del tetto del debito non può essere legalmente più forte del fatto che le spese sono già state decise dal Congresso con leggi apposite. E’ un argomento che già emerse nella precedente crisi sul tetto del debito del 2012. In sostanza, l’argomento sarebbe il seguente: il Governo Federale – senza l’atto di sostanziale ratifica dell’innalzamento del tetto – sarebbe  costretto a violare impegni di spesa che già sono stati legalmente decisi dal Congresso. Quindi il Governo Federale ed Obama stesso dovrebbero tagliare il nodo con una decisione di legalità. Ma la cosa forse non è così sicura dal punto di vista giuridico, per quanto appaia plausibile.

Dirigenti di impresa, tutti al mare (2 0ttobre 2013)

ottobre 2, 2013

 

October 2, 2013, 2:11 pm

CEOs All At Sea

Lydia DePillis continues her informative series of blog posts on the political haplessness of big business, which with all its money and connections finds itself not only unable to stop the slide into chaos but unable even to exert any appreciable influence. But I still don’t think the businesspeople understand their problem.

DePillis gets at some of this in her post, but still, I think, doesn’t get to the root of the problem.

I tried to explain all of this last year, writing about the confusion of Howard Schultz of Starbucks, a genuinely good guy trying to make the political situation better — and helping not at all. Schultz, and I think many other business types was (and presumably still is) suffering from a triple misconception about our situation.

First, CEOs still talk as if debt and deficits were the central issue of economic policy. They never deserved that place; they certainly don’t deserve it now that the deficit has clearly been falling too fast and the debt outlook is stable for the next decade. Yet they can’t let go of the notion that a grand bargain on the budget — as opposed to an end to destructive austerity — is what we need.

Second, many CEOs are, I believe, genuinely naive about the people they deal with. They believe, for example, that Paul Ryan actually cares about deficits. They haven’t grasped, or refuse to grasp, the reality that the whole thing about deficits was really about using economic crisis as an excuse to tear down the social safety net.

Finally, they’re still trying to position themselves as the middle ground between extremists on both sides, when the reality is that we have a basically moderate Democratic party confronting a radical Republican party that doesn’t play by any of the normal rules. If you insist on thinking of Ted Cruz and Elizabeth Warren as somehow symmetrical figures, you’re already so out of touch with political reality that there’s no way you’re going to have useful influence.

I do sometimes wonder how these guys can be that naive, and some of them probably aren’t — they’re playing class warfare on the sly. But some of them really do seem clueless, probably because thinking about the reality of American politics today would make them uncomfortable — and who’s going to tell the guy in the big office things that make him uncomfortable?

It’s not just Fox News watchers who live in a bubble; sometimes, wealth and power can have the same effect.

 

Dirigenti di impresa, tutti al mare

 

Lydia DePillis prosegue la sua utile serie di posts sul blog a proposito della ‘sfiga’ [1] politica del mondo delle grandi imprese, che con tutti i suoi soldi e le sue amicizie si ritrova  non solo incapace di fermare lo scivolone nel caos ma incapace persino di esercitare  una influenza apprezzabile. Ma io non credo ancora che gli uomini d’affari capiscano il loro problema.

DePillis arriva nel suo post a qualcosa di simile, ma ancora, mi pare, non afferra la radice del problema.

Lo scorso anno provai a spiegare tale questione, scrivendo a proposito della confusione di Howard Schultz, un individuo fondamentalmente perbene che cerca di migliorare la situazione politica – e non aiuta per niente. Schultz, e penso molti altri soggetti del mondo degli affari stava (presumibilmente sta ancora) soffrendo per una triplice incomprensione sulla nostra situazione.

In primo luogo, gli amministratori delegati ancora parlano come se il debito ed i deficit fossero il tema centrale della nostra politica economica. Quei temi non hanno mai occupato un posto centrale; certamente non lo meritano oggi, quando chiaramente il deficit sta cadendo troppo rapidamente e la prospettiva del debito è stabile per il prossimo decennio. Tuttavia gli uomini del mondo degli affari non possono mollare l’idea che un grande accordo sul bilancio – piuttosto che una fine di una austerità distruttiva – sia quello di cui abbiamo bisogno.

In secondo luogo, molti dirigenti di impresa sono, io credo, genuinamente ingenui sulla gente con cui trattano. Essi credono, ad esempio, che Paul Ryan effettivamente si curi dei deficit. Non hanno afferrato, o si rifiutano di afferrare, la realtà per la quale tutta la faccenda dei deficit in realtà riguardava l’utilizzo della crisi economica come una scusa per demolire il sistema della sicurezza sociale.

Infine, stanno ancora cercando di posizionarsi su un terreno intermedio tra le ali estreme dei due schieramenti, quando la realtà è che abbiamo un partito democratico fondamentalmente moderato a fronte di un partito repubblicano radicale che non gioca secondo alcuna delle normali regole. Se voi insistite a pensare a Ted Cruz ed a Elizabeth Warren [2] come personaggi in qualche modo simmetrici, siete già talmente sconnessi con la realtà politica che non c’è modo che siate destinati ad avere nessuna utile influenza.

Qualche volta mi chiedo davvero come questi individui possano essere talmente ingenui, ed alcuni di loro probabilmente non lo sono – stanno solo giocando nascostamente la loro lotta di classe. Ma alcuni di loro davvero non sembrano avere idea, probabilmente perché pensare alla realtà della politica americana odierna sarebbe sconfortante – e chi va a dire al personaggio che occupa il grande ufficio cose che lo metterebbero nello sconforto?

Non sono soltanto gli spettatori di Fox News che vivono in una bolla; talvolta, la ricchezza ed il potere possono avere lo stesso effetto.

 

 

 

 


[1] “Haplessness” non è un errore (come farebbe pensare il fatto che non si trova facilmente sui dizionari e si confonde con “helplessness” o “hopelessness” , ovvero “inettitudine” e “disperazione”). E’ il sostantivo di “hapless” che sta per “sfortunato nero, sfigato”.

[2] Rafael Edward “Ted” Cruz (Calgary, 22 dicembre 1970) è un politico e avvocato statunitense, attualmente senatore per lo stato del Texas. Nato in Canada, Cruz è figlio di un immigrato cubano e di un’americana di origini italiane. Ha lavorato in passato come consulente legale con politici come John Boehner e George Bush jr. ed ha posizioni reazionarie.

Elizabeth Ann Warren, nata Herring (Oklahoma City, 22 giugno 1949), è un’economista, accademica e politica statunitense, attuale senatrice per lo stato del Massachusetts. Dal novembre 2008 al luglio 2011, nel corso della crisi finanziaria degli Stati Uniti, ha presieduto la commissione di supervisione economica istituita dal Congresso degli Stati Uniti d’America per disporre i programmi di stabilizzazione economica. Dal febbraio al luglio del 2011 ha lavorato come Consigliere Speciale presso il Dipartimento del Tesoro sotto la prima amministrazione Obama

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Quello che dicono e quello che intendono dire (1 ottobre 2013)

ottobre 1, 2013

 

October 1, 2013, 7:36 pm

What They Say Versus What They Mean

Over at Wonkblog, Lydia DePillis asks, “Remember when Republicans were worried about ‘economic uncertainty’?”

Actually, no, I don’t. I remember when they claimed to be worried about economic uncertainty — but it was completely obvious even at the time that this was nothing but an attempt to put a new, quasi-academic gloss on the same old same old. What they really meant was that the economy will boom only once we get rid of the Islamic atheist Kenyan socialist, and install someone who will be nice to rich people. They grabbed hold of some research that seemed, if you didn’t read it carefully, to support their complaints, but there was never any question that they would drop the uncertainty thing the moment it became inconvenient for their real goals. And so they did.

It’s a lot like the austerity debate, where it was obvious all along that all the carping on debt was really a way to go after the welfare state — a point demonstrated forcefully by the hostile reaction of people like Olli Rehn when the French began reducing their deficit by raising taxes rather than slashing benefits.

The point is that there are a lot fewer good-faith economic arguments out there than a naive observer might think — and that’s precisely because powerful forces are doing their best to hoodwink said naive observers.

So, goodbye “economic uncertainty”. The truth is that nobody ever took it seriously.

 

Quello che dicono e quello che intendono dire

 

Su Wonkblog Lydia DePillis chiede: “Ricordate quando i repubblicani  erano preoccupati dell’ ‘incertezza economica’ [1]?”

Veramente no, non lo ricordo. Io ricordo quando pretendevano di essere preoccupati dell’incertezza economica – ma era assolutamente evidente persino all’epoca che questo non era nient’altro che un tentativo di mettere una nuova, quasi professorale patina di vernice sul solito vecchio sfondo di sempre. Quello che davvero intendevano era che l’economia avrebbe avuto un boom solo una volta che ci fossimo sbarazzati dell’islamico, ateo, keniano, socialista [2] e messo a quel posto qualcuno che fosse stato gentile con la gente ricca. Essi afferravano qualche ricerca che sembrava, se non la leggevate con attenzione, dare sostegno alle loro lamentele, ma non c’era alcun dubbio che essi avrebbero fatto cadere il tema dell’incertezza al momento che fosse diventato incongruo per i loro reali obbiettivi. E così hanno fatto.

E’ molto simile al dibattito sull’austerità, dove era evidente dall’inizio che tutte le lamentele sul debito in realtà erano un modo per attaccare lo stato assistenziale – un punto dimostrato sfrontatamente dalla reazione ostile di persone come Olli Rehn quando i francesi hanno cominciato a ridurre il loro deficit aumentando le tasse piuttosto che tagliando i sussidi sociali.

Il punto è che ci sono molti meno argomenti economici in buona fede di quanto un osservatore ingenuo potrebbe pensare – e ciò precisamente perché forze potenti stanno facendo del loro meglio per raggirare i suddetti osservatori ingenui.

Dunque, arrivederci “incertezza economica”. La verità è che nessuno l’ha mai presa sul serio.



[1] Per ‘incertezza economica’ ci si riferisce ad una molto arbitraria misura delle aspettative delle imprese, che ha provocato sino a poche settimane orsono una qualche discussione. Poi si è chiarito, secondo ricognizioni più recenti, che il dato sull’incertezza, che si pretendeva provocato da qualche espressione ostile di Obama verso i plutocrati, era del tutto svanito.

[2] Come è chiaro, tutti riferimenti ad Obama.

Disguidi positivi (1 ottobre 2013)

ottobre 1, 2013

 

October 1, 2013, 12:59 pm

Good Glitches

So, very early reports are that Obamacare exchanges are, as expected, having some technical glitches on the first day — maybe even a bit worse than expected, because it appears that volume has been much bigger than predicted.

Here’s what you need to know: this is good, not bad, news for the program. The glitches will get fixed; remember the calamitous rollout of Medicare Part D? What matters is whether enough people — especially, of course, young, healthy people — actually do sign up for insurance. If they do, health reform will be a success, and will become irreversible.

The big fear has been that a combination of ignorance and misinformation would keep people away, that they wouldn’t sign up either because they didn’t know that insurance was now available, or because Republicans had convinced them that the program was the spawn of the devil, or something. Lots of people logging on and signing up on the very first day — a day when the Kamikaze Kongress is dominating the headlines — is an early indication that it’s going to be fine, that plenty of people will sign up for the first year of health reform.

Yes, there may be some negative news stories about the glitches. But Obamacare is not up for a revote. As Jonathan Bernstein says, the only thing that matters is whether it works. And today’s heavy volume is yet another sign — along with abating health costs and below-expected premiums — that it will.

 

Disguidi positivi

 

Dunque, come ci si aspettava i primissimi resoconti dicono che le ‘borse assicurative’ locali [1]previste dalla riforma dell’assistenza di Obama  stanno avendo al primo giorno qualche disguido tecnico – forse anche un po’ peggio di quello che ci si aspettava, perché si scopre che il volume [2] è stato molto maggiore del previsto.

Ecco quello che dovete sapere: questa è una buona notizia per il programma, non è cattiva. I disguidi verranno messi a posto; vi ricordate il disastroso avvio di Medicare Part D? Quello che conta è se un numero adeguato di individui – specialmente, come è ovvio, giovani ed in buona salute – effettivamente si iscrivono per l’assicurazione. Se lo fanno, la riforma sanitaria sarà un successo e diventerà irreversibile.

La grande paura è stata che una combinazione di ignoranza e di disinformazione avrebbe tenuto la gente fuori, che non si iscrivessero vuoi perché non conoscono che la assicurazione oggi è disponibile, vuoi perché i repubblicani li avessero convinti che il programma era una diabolica genia, o qualcosa del genere. Il fatto che molte persone si siano collegate ed iscritte al primissimo giorno – il giorno nel quale i titoli dei giornali erano dominati dal “Congresso Kamikaze” [3] – è una prima indicazione che sta andando bene, che un gran numero di persone si iscriveranno nel primo anno della riforma sanitaria.

Si, ci possono essere alcuni resoconti negativi sui disguidi. Ma la riforma sanitaria di Obama non è destinata ad essere votata una seconda volta. Come dice Jonathan Bernstein, l’unica cosa che conta è se funziona. E la mole pesante (di procedure) è un altro segno ancora – assieme all’abbattimento dei costi sanitari ed alle polizze al di sotto delle attese – che sarà così.



[1] Si tratta di ‘punti di incontro’ che sono stati previsti dalla legge di riforma sanitaria e che sono stati organizzati ai livelli dei vari Stati per facilitare le decisioni di acquisto delle assicurazioni da parte dei cittadini. Si chiamano “Health Insurance Exchange” e, da quanto capisco, sono istituzioni relativamente informali che dovrebbero facilitare la conoscenza delle condizioni delle assicurazioni, la loro trasparenza, ed anche le procedure per l’ottenimento dei sussidi da parte dei cittadini che ne avranno diritto. Ma definirle ‘borse assicurative’ è una invenzione mia.

[2] Suppongo, delle procedure.

[3] Ovvero, dal Congresso che ha deciso il blocco dei finanziamenti al Governo.

I guadagni dalla iperglobalizzazione (per esperti) (1 ottobre 2013)

ottobre 1, 2013

 

October 1, 2013, 10:53 am

The Gains From Hyperglobalization (Wonkish)

Still taking kind of an emotional vacation from current political madness. Following up on my skeptical post on worries about slowing trade growth, I wondered what a state-of-the-art model would say.

The natural model to use, at least for me, is Eaton-Kortum (pdf), which is a very ingenious approach to thinking about multilateral trade flows. The basic model is Ricardian — wine and cloth and labor productivity and all that — except that there are many goods and many countries, transportation costs, and countries are assumed to gain productivity in any particular industry through a random process. They make some funny assumptions about distributions — hey, that’s kind of the price of entry for this kind of work — and in return get a tractable model that yields gravity-type equations for international trade flows. This is a good thing, because gravity models of trade — purely empirical exercises, with no real theory behind them — are known to work pretty well.

Their model also yields a simple expression for the welfare gains from trade (p. 15):

Real income = A*(1-import share)^(-1/theta)

where A is national productivity and theta is a parameter of their assumed random process (don’t ask); they suggest that theta=4 provides the best match to available data.

Now, what I wanted to do was apply this to the rapid growth of trade that has taken place since around 1990, what Subramanian calls “hyperglobalization”. According to Subramanian’s estimates, overall trade in goods and services has risen from about 19 percent of world GDP in the early 1990s to 33 percent now, bringing us to a level of integration that really is historically unprecedented.

There are some conceptual difficulties with using this rise directly in the Eaton-Kortum framework, because much of it has taken the form of trade in intermediate goods, and the framework isn’t designed to handle that. Still, let me ignore that, and plug Subramanian’s numbers into the equation above; I get a 4.9 percent rise in real incomes due to increased globalization.

That’s by no means small change, but it’s only a fairly small fraction of global growth. The Maddison database gives us a 45 percent rise in global GDP per capita over the same period, so this calculation suggests that rising trade was responsible for around 10 percent of overall global growth. My guess is that most people who imagine themselves well-informed would give a bigger number.

By the way, for those critical of globalization, let me hasten to concede that by its nature the Eaton-Kortum model doesn’t let us talk about income distribution, and it also makes no room for the possible role of globalization in causing secular stagnation.

Still, I thought this was an interesting calculation to make — which may show more about my warped sense of what’s interesting than it does about anything else.

 

I guadagni dalla iperglobalizzazione (per esperti [1])

 

Continuo a prendermi una pausa emotiva dalla follia politica che oggi ci circonda.  Proseguendo con lo scetticismo del mio  post sulle preoccupazioni per la crescita del commercio che rallenta, mi sono chiesto che cosa direbbe un modello sulla situazione in atto.

Il modello naturale da usare, almeno per me, è quello di Eaton-Kortum (disponibile in pdf), che è un approccio molto ingegnoso al pensiero sui flussi di commercio multilaterali. Il modello di base è ricardiano – vino, tessuti [2], produttività del lavoro e tutto il resto – sennonché ci sono molti beni e molti paesi, i costi di trasporto, e si suppone che i paesi accrescano la produttività in una qualche particolare industria attraverso un processo interamente casuale. Essi (Eaton-Kortum) avanzano qualche strano assunto a proposito delle distribuzioni – che volete, questo è il prezzo da pagare per entrare in questo genere di esercizi – ed in cambio ottengono un modello malleabile che consente di produrre equazioni di tipo gravitazionale [3] per i flussi del commercio internazionale. Questa è una buona cosa perché i modelli gravitazionali del commercio – esercizi puramente empirici, senza nessuna reale teoria alle spalle – sono noti per funzionare abbastanza bene.

Il loro modello produce anche una semplice espressione per i vantaggi che vengono al benessere dal commercio (p.15):

Reddito reale = A*(1-quota delle importazioni)^(-1/theta)

dove A è la produttività nazionale e theta è un parametro del loro processo assunto come interamente casuale (non fate domande); essi indicano che theta=4 è la soluzione che fornisce il migliore abbinamento ai dati disponibili.

Ora, quello che intendevo fare era applicare tutto questo alla rapida crescita del commercio che prese piede a partire circa dal 1990, che Subramanian [4] chiama “iperglobalizzazione”. Secondo le stime di Subramanian, il commercio complessivo in beni e servizi è cresciuto da circa il 19 per cento del PIL globale agli inizi degli anni ’90 al 33 per cento di oggi, portandoci ad un livello di integrazione che è effettivamente senza precedenti.

Ci sono alcune difficoltà concettuali nell’utilizzare questa crescita direttamente nello schema di Eaton-Kortum, perché gran parte di essa ha preso la forma di un commercio di beni intermedi, ed il modello non è destinato a gestire tali caratteristiche. Eppure, consentitemi di ignorarlo, ed inseriamo i dati di Subramanian dentro la precedente equazione: ottengo una crescita del 4,9 per cento nei redditi reali, dovuta alla accresciuta globalizzazione.

Non è in alcun modo un piccolo cambiamento, ma è soltanto una piccola frazione della crescita globale. Nello stesso periodo, il ‘database Maddison’  [5] ci dà una crescita del 45 per cento del PIL globale procapite, cosicché questo calcolo indica che la crescita del commercio è stata responsabile di circa il 10 per cento della crescita complessiva globale. La mia sensazione è che gran parte delle persone che si ritengono bene informate ci avrebbero dato un numero ben maggiore.

Per inciso, per coloro che sono critici della globalizzazione, mi devo affrettare ad ammettere che per la sua natura il modello Eaton-Kortum non ci parla della distribuzione del reddito, e non lascia neppure nessuno spazio all’idea di un ruolo possibile della globalizzazione nel provocare la stagnazione secolare.

Eppure, pensavo che fosse un calcolo interessante da fare – calcolo che può fornire maggiori indicazioni sulla mia contorta intuizione di ciò che è interessante piuttosto che su qualcosa d’altro.



[1] “Per esperti” significa che quando si arriva qua sotto alla sommaria descrizione del modello Eaton-Kortum, i non esperti (come me) è meglio non si accaniscano, perché non è detto che anche con quel difetto non si riesca a capire qualcosa dallo scritto nel suo complesso.

[2] Nella presentazione della teoria del commercio internazionale, è noto che Ricardo partì da un esempio su quello che sarebbe stato conveniente fare nel commercio tra Gran Bretagna e Portogallo su due beni quali il vino ed i tessuti.

[3] Nell’economia internazionale si definisce ‘modello gravitazionale’ un modello che prevede i flussi di commercio tra due paesi, basandosi sulle dimensioni delle economia dei due paesi (in genere i rispettivi PIL) e sulla loro distanza.

[4] Economista, docente ed uomo politico indiano, con vari incarichi governativi dagli anni ’70 agli anni ’90.

[5] Il “Maddison Project” è una iniziativa che ha avuto inizio nel 2010, destinata a proseguire ed a implementare gli studi dello statistico Angus Maddison sulle comparazioni tra gli andamenti economici delle varie regioni del mondo.

Dovrebbe preoccuparci un rallentamento della crescita commerciale? (30 settembre 2013)

settembre 30, 2013

 

September 30, 2013, 4:11 pm

Should Slowing Trade Growth Worry Us?

I’ve spent most of today both under pressure to get an assignment out the door and under the weather; still sniffling, but the piece has been emailed off, so a bit of time for the blog. Except I feel like taking a vacation from both the shutdown and Obamacare. So let’s talk about trade — specifically, a recent post by Gavyn Davies, “Why world trade growth has lost its mojo,” which expresses deep concern over the fact that in recent years trade hasn’t grown much faster than global GDP. He suggests that hidden protectionism may be partly to blame, and that this may have large economic costs.

So, I’m going to disagree with both propositions.

First, on the general point of the welfare gains from trade: I’m basically with Dani Rodrik here. Standard economic models do not imply huge gains from trade liberalization. You can make arguments that suggest bigger gains, but they’re highly speculative, and the credulity with which people accept dubious nonstandard arguments for big trade gains contrasts oddly with the gimlet eye cast on arguments for, say, industrial policy. You should definitely not accept estimates that every dollar of additional trade raises world GDP by 46 cents — an extremely high number — as being definitive.

But my main thought, reading Davies’s piece, was that the belief that trade must always expand much faster than output, and that there’s something wrong if it doesn’t, doesn’t stand up to careful scrutiny.

In part, this notion comes from the fact that trade has grown faster than output since 1950. However, up through about 1970 that only represented a return to levels of trade relative to output that prevailed before World War I:

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On the other hand, one does see that business cycle fluctuations produce large fluctuations in trade, much bigger in percentage terms than the moves in GDP, which you might take — which Davies does take — as an indication that the “income elasticity” of trade, the percentage rise for every percent rise in GDP, is much bigger than one.

This is, I’d say, a confusion between short-term and long-term issues. Consider, instead of trade, industrial production. We know that this fluctuates much more than GDP over the business cycle, because purchases of manufactured goods slump much more in recessions than purchases of services. Over the long run, however, industrial production and GDP grow at roughly equal rates. There’s no reason trade couldn’t be the same way. In fact, one reason trade fluctuates so much in the short run is precisely because it’s dominated by manufactured goods.

To explain a rising long-term ratio of trade to GDP, we have to turn instead to structural changes in the world economy, of which the most obvious involve declining costs of trade. My view is that rapid trade growth since World War II was driven by two great waves of trade liberalization and one major technological innovation. The first wave of trade liberalization involved industrial countries, and was largely over by 1980:

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The second wave involved the great opening of developing countries:

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World Bank

This is still going on, but the major opening of Latin America, China, and India is already well behind us.

Finally, there’s The Box — containerization, which made the vertical disintegration of production, with separate stages carried out in far-distant nations, possible. But this too has been going on for a while.

The point is that it’s entirely reasonable to believe that the big factors driving globalization were one-time changes that are receding in the rear-view mirror, so that we should expect the share of trade in GDP to plateau — and that this doesn’t represent any kind of problem. In fact, it’s conceivable that things like rising fuel costs and automation (which makes labor costs less central) will lead to some “reshoring” of manufacturing to advanced countries, and a corresponding decline in the trade share.

Ever-growing trade relative to GDP isn’t a natural law, it’s just something that happened to result from the policies and technologies of the past few generations. We should be neither amazed nor disturbed if it stops happening.

 

Dovrebbe preoccuparci un rallentamento della crescita commerciale?

 

Ho speso gran parte della giornata sia sotto l’ansia per un impegno esterno che sotto il maltempo; ancora raffreddato, ma il pezzo è stato spedito, ho dunque un po’ di tempo per il blog. Sennonché mi fa piacere prendermi una pausa sia dalla storia del ‘blocco’ del Governo che dalla riforma sanitaria di Obama.  Vorrei dunque parlare di commercio – in particolare, un post recente di Gavyn Davies [1], “Perché la crescita del commercio mondiale ha perso la sua magia”, che esprime preoccupazione per il fatto che negli anni recenti il commercio non è cresciuto molto più velocemente del PIL globale. Egli suggerisce che si potrebbe in parte dar la colpa ad un protezionismo nascosto, e che questo potrebbe avere grandi costi economici.

Dunque, intendo esprimere il mio dissenso da entrambi quei concetti.

In primo luogo, sul punto di vista generale secondo il quale il benessere guadagna dal commercio: su questo punto fondamentalmente concordo con Dani Rodrik.  I modelli economici consueti non implicano grandi vantaggi dalla liberalizzazione del commercio. Potete avanzare argomenti che suggeriscono i guadagni maggiori, ma sono altamente teorici, e la credulità con la quale la gente accetta dubbi argomenti non conformi (con tali modelli) a favore dei grandi vantaggi del commercio contrasta singolarmente con l’atteggiamento di acuta perplessità, ad esempio, sugli argomenti a favore della politica industriale. Di sicuro, dovreste non accettare come definitive le stime secondo le quali ogni dollaro di commercio aggiuntivo accresce il PIL mondiale di 46 centesimi – un numero estremamente elevato.

Ma il mio pensiero principale, leggendo il pezzo di Davies, è stato che il convincimento che il commercio deve sempre espandersi molto più velocemente della produzione, e che ci sia qualcosa di sbagliato se non succede, non regge ad una disamina scrupolosa.

In parte questo concetto deriva dal fatto che il commercio è cresciuto più rapidamente della produzione a partire dal 1950. Tuttavia, sino a circa il 1970 quel fenomeno ha semplicemente rappresentato un ritorno ai livelli di commercio in rapporto alla produzione che prevalevano precedentemente la Prima Guerra Mondiale:

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D’altra parte, si vede per davvero che le fluttuazioni nel ciclo economico producono ampie variazioni nel commercio, molto più ampie in termini percentuali degli spostamenti del PIL, la qualcosa potete considerarla – come Davies la considera – come la indicazione che la “elasticità di reddito” del commercio, la crescita percentuale per ogni unità percentuale di crescita del PIL, è molto superiore ad uno.

Questa è, direi, una confusione tra tematiche di breve termine e di lungo termine. Si consideri, invece del commercio, la produzione industriale. Noi sappiamo che questa fluttua molto più del PIL nel corso del ciclo economico, giacché durante le recessioni gli acquisti di beni manifatturieri cadono molto di più degli acquisti dei servizi. Nel lungo termine, tuttavia, la produzione industriale ed il PIL crescono grosso modo a tassi eguali. Non c’è ragione per la quale il commercio non possa procedere in modo identico. Di fatto, una ragione per la quale il commercio fluttua così tanto nel breve termine è esattamente perché è dominato dai beni manifatturieri.

Per spiegare una percentuale crescente nel lungo periodo tra commercio e PIL, dobbiamo invece volgerci ai cambiamenti strutturali nell’economia mondiale, il più evidente dei quali riguarda i costi calanti del commercio. La mia opinione è che la rapida crescita del commercio a partire dalla Seconda Guerra Mondiale è stata spinta da due grandi ondate di liberalizzazione commerciale e da una importante innovazione tecnologica. La prima ondata della liberalizzazione dei commerci riguardò i paesi industriali, ed era ampiamente terminata attorno al 1980 [2]:

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La seconda ondata riguardò la grande apertura dei paesi in via di sviluppo:

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Banca Mondiale

 

Questa sta ancora proseguendo, ma l’importante apertura dell’America Latina, della Cina e dell’India è già molto alle nostre spalle.

Infine, c’è “l’inscatolamento” – la containerizzazione che ha reso possibile la disintegrazione verticale della produzione, con stadi separati trasportati a lunga distanza tra le nazioni. Ma anche questo è un bel po’ che è in corso.

Il punto è che è del tutto ragionevole supporre che i grandi fattori che guidano la globalizzazione siano stati cambiamenti unici che stanno svanendo come in uno specchietto retrovisore, cosicché dovremmo aspettarci una stabilizzazione della quota dei commerci sul PIL – e che questo non rappresenta in alcun modo un problema. Di fatto, si può ammettere che cose come i costi crescenti dei carburanti e l’automazione (che rende meno centrali i costi del lavoro) porteranno a un qualche “riavvicinamento” del settore manifatturiero ai paesi avanzati, e ad un corrispondente declino della quota dei commerci.

Un commercio in perenne crescita in rapporto al PIL non è una legge naturale, è solo qualcosa che è accaduto a seguito di politiche e di tecnologie delle passate generazioni. Non dovremmo essere né stupiti né sconvolti se cessa di aver luogo.



[1] Un economista che scrive sul l Financial Times.

[2] La tabella riguarda l’andamento medio delle tariffe dei beni di importazione soggetti a dogana (“dutiable”) negli Stati Uniti, dal 1930 al 2008. Il primo periodo, dal 1030 al 1940, viene definito di “riapertura dei commerci” e mostra un inizio di una forte caduta nelle tariffe medie che prosegue nel dopoguerra. Ovviamente, la caduta delle tariffe doganali indica l’effetto di un processo di liberalizzazione degli scambi commerciali.

La Germania come manipolatrice della valuta (27 settembre 2013)

settembre 27, 2013

 

September 27, 2013, 9:44 am

Germany As Currency Manipulator

Update: And it was, in fact, Ian Fletcher. I’m not endorsing his overall views, but this was a good point.

A correspondent — whose email and name I have lost! — makes a good point. In talking about trade and secular stagnation, I described Germany, with its huge surpluses, as not a currency manipulator. As the correspondent said, however, the euro can be seen as a de facto foreign exchange intervention to keep the de facto Deutsche mark weak. Before 2008, the euro encouraged private capital outflows from Germany to the periphery. Since then, both official rescue packages and also lending among national central banks in the euro area can be seen as taking the place of these private flows. The interbank portion is shown in this chart from Pimco:

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The general point is that if we imagine a euro breakup, I think everyone would agree that the new mark would soar in value, making German manufacturing much less competitive. The German public imagines that it is being cruelly exploited for the benefit of lazy southerners; arguably, what’s really happening is more like China’s purchases of dollars, which are intended not to subsidize America but to boost industry.

 

La Germania come manipolatrice di valuta

 

Aggiunta [1]: e si trattava, di fatto, di Ian Fletcher. Non appoggio complessivamente le sue opinioni, ma questo era un buon argomento.

Un corrispondente – del quale ho perso l’indirizzo email ed il nome! – avanza un buon argomento. Sto parlando a proposito di commercio e di stagnazione secolare. Io ho descritto la Germania, con i suoi ampi surplus, come un paese che non pratica la manipolazione della valuta. Come ha detto il corrispondente, tuttavia, l’euro può essere considerato come un intervento sul cambio estero per mantenere de facto il marco tedesco debole. Prima del 2008, l’euro incoraggiò flussi di capitali privati dalla Germania alla periferia. Da allora, sia i pacchetti ufficiali dei salvataggi che i prestiti presso le banche centrali nell’area euro possono essere considerati come se avessero preso il posti d questi flussi privati. La porzione interbancaria è mostrata in questa tabella, da PIMCO [2]:

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Il punto in termini generali è che se ci immaginiamo una rottura dell’euro, penso che tutti concorderebbero che il nuovo marco salirebbe assai come valore, rendendo il settore manifatturiero tedesco molto meno competitivo. L’opinione pubblica tedesca si immagina di essere stata crudelmente sfruttata per i sussidi agli scioperati del Sud Europa; probabilmente, quello che davvero sta accadendo è più simile agli acquisti di dollari da parte della Cina, che non sono considerati come un modo per sussidiare l’America ma per sostenere l’industria.



[1] Si badi che nel giornalismo americano è frequente mettere le correzioni e le aggiunte in apertura di un articolo, e non in calce.

[2] Pacific Investment Company Management, LLC (comunemente chiamata PIMCO), è un’azienda di gestione globale degli investimenti fondata nel 1971 con sede a Newport Beach, California.

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