September 10, 2013, 5:09 pm
A further thought on this ongoing discussion with Konczal, Baker, and Rowe over whether economies tend to self-correct. I think it’s useful to ask why, as a practical matter, conventional policy-oriented macroeconomists (myself included) used to think we could normally count on a fairly quick return to full employment after a shock — and why we shouldn’t think so anymore.
So, think about macro as David Romer presented it back in 2000 (pdf). Romer described his approach as a way to teach macro — real men were supposed to use fully specified intertemporal optimizing models with a cherry on top — but I think it’s actually the way most practical macro people actually thought and to some extent still think. You basically represent the demand side of the economy with an IS curve; you imagine that monetary policy follows some kind of Taylor rule, in which the central bank sets interest rates based on the inflation rate and possibly some measure of economic slack; and you represent the supply side of the economy with a post-Friedmanite Phillips curve in which inflation rises ever higher if the economy is operating above potential, falls ever lower if the economy is operating below potential.
This is an equilibrating system — I’m not sure if it’s exactly self-equilibrating, because part of the mechanism runs through the mind of the central bank. But anyway, suppose the economy is depressed; this will lead to steadily falling inflation, which will lead the central bank to keep cutting interest rates (and because the inflation coefficient in Taylor rules is always bigger than one, this means cutting real rates); and eventually the interest rate will fall enough to restore full employment.
So what’s wrong with this pretty picture? Two ugly zeroes.
First is the zero lower bound on the interest rate: after a sufficiently large shock, the Taylor rule may say that you should keep cutting rates, but you can’t. Second is downward nominal rigidity, which isn’t quite as binding a constraint, but does lead the Phillips curve to be non-vertical in the face of very low inflation; as an IMF study of persistent large output gaps found, even years of a deeply depressed economy tend to produce at most slow, grinding deflation, and more usually slight positive inflation, not the ever-accelerating deflation the standard model would have predicted.
So here’s what happens after a large negative shock to the economy: the central bank finds itself up against the zero lower bound, so that all it can do is resort to controversial unorthodox measures. It might do that, or fiscal policy might be forced into action, if the economy really were suffering from accelerating deflation; but instead all you see is low inflation, which might even lead some central bankers to declare that they were doing their job just fine.
In the Bond movies, two zeroes meant a license to kill. In monetary policy, two zeroes — the hard zero on interest rates and the soft zero on wage changes — can, all too easily, give central bankers a de facto license to let the economy stagnate, remaining far below potential for an indefinite length of time.
Licenza di ristagnare [1]
Un ulteriore pensiero sulla discussione che continua con Konczal, Baker e Rowe sul fatto se le economie tendano ad auto correggersi. Penso che sia utile chiedersi perché, da un punto di vista pratico, gli economisti tradizionali orientati verso la politica (incluso il sottoscritto) erano abituati a pensare che si sarebbe normalmente potuto far conto su un abbastanza rapido ritorno alla piena occupazione dopo una crisi – e perché non dovremmo più ragionare in tal modo.
Dunque, pensiamo all’economia macro nello stesso modo in cui David Romer la presentava nel 2000 (disponibile in pdf). Romer descriveva il suo approccio come un modo per insegnare la macroeconomia – si supponeva che uomini in carne ed ossa utilizzassero modelli di ottimizzazione intertemporale [2] completamente specificata con una ciliegina in cima – ma io penso che si trattasse del modo più pratico nel quale effettivamente i teorici dell’economia ragionavano e in qualche misura ragionano ancora. Fondamentalmente ci si rappresenta il lato della domanda dell’economia con una curva IS [3] ; ci si immagina che la politica monetaria segua un qualche tipo di regola di Taylor, nella quale la banca centrale definisce i tassi di interesse basandosi sul tasso di inflazione e magari su qualche misura di allentamento dell’economia; e si rappresenta il lato dell’offerta con una curva di Phillips post friedmaniana, nella quale l’inflazione sale persino più in alto se l’economia sta operando sopra il suo potenziale, e cade persino più in basso se sta operando sotto il suo potenziale.
Questo è un sistema in equilibrio – non sono sicuro che sia esattamente in auto equilibrio, perché una parte del meccanismo passa attraverso la mente della banca centrale. Ma, in ogni caso, supponiamo che l’economia sia depressa; questo porterà ad una costante caduta dell’inflazione, che porterà la banca centrale a tagliare i tassi di interesse (e poiché il coefficiente di inflazione nelle regole di Taylor è sempre maggiore di uno, questo significa tagliare i tassi di interesse reali); ed alla fine il tasso di interesse cadrà a sufficienza da ripristinare la piena occupazione.
Cosa c’è dunque di sbagliato in questo grazioso disegno? Due sgradevoli ‘zero’.
Il primo è il limite inferiore di zero sul tasso di interesse: dopo uno shock sufficientemente grave, la regola di Taylor può dire che si dovrebbe tagliare i tassi di interesse, ma non si può. Il secondo è la rigidità verso il basso (dei salari e dei prezzi), che non è così vincolante come un obbligo, ma conduce la curva di Phillips ad essere non verticale a fronte di una inflazione molto bassa; come ha scoperto uno studio del FMI su persistenti ampi differenziali di produzione, persino anni di economia profondamente depressa tendono a produrre tutt’al più una lenta, opprimente deflazione, e più frequentemente una leggermente positiva inflazione, non la deflazione in continua accelerazione che il modello standard avrebbe previsto.
Ecco dunque quello che accade dopo uno shock ampiamente negativo nell’economia: la banca centrale si trova dinanzi al limite inferiore dello zero, cosicché tutto quello che può fare è ricorrere a controverse misure non ortodosse. Può farlo, o in alternativa si potrebbe essere costretti a mettere in atto politiche della spesa pubblica, se l’economia stesse davvero soffrendo per una deflazione incalzante; ma quello a cui si assiste è invece una inflazione lenta, che potrebbe persino indurre qualche banchiere centrale a dichiarare di star svolgendo il proprio compito proprio nel migliore dei modi.
Quanto ai movimenti dei bonds, i due zeri significano una licenza di uccidere. Nella politica monetaria, i due zeri – lo zero più grave sui tassi di interesse e quello più leggero sui cambiamenti salariali – possono, anche troppo facilmente, dare di fatto ai banchieri centrali la licenza di lasciare l’economia nella stagnazione, restando molto al di sotto delle potenzialità per un tempo indefinito.
[1] Questa volta Krugman non lo premette, ma il post è sicuramente di quelli più complessi.
[2] Ovvero, soluzioni capaci di dar conto di uno dei problemi tradizionalmente più complessi della teoria economica: la rappresentazione dell’evoluzione dei comportamenti e degli eventi all’interno di un modello matematico, tendenzialmente statico. Fu, ad esempio, la ragione principale per la quale John Richard Hicks criticò il suo stesso modello (il citatissimo, in queste pagine, IS-LM) e prese le distanze dalla sua ricerca in un periodo successivo.
[3] Nel modello suddetto, IS sta per Investimenti/Risparmi.
settembre 10, 2013
September 10, 2013, 3:12 pm
So, are we going to have a crisis over the debt ceiling again? Everyone seems to assume that we won’t, that Republicans have learned their lesson, and that they’ll huff and puff before slinking away into the shadows. But there’s a problem: the GOP leadership has been telling the base to chill on the idea of shutting down the government to defund Obamacare, that they’ll use the debt limit instead. And so far nobody seems to have been willing to admit that this won’t work either.
And part of the problem may be, once again, the complete lack of actual policy analysis on the right. Apparently Eric Cantor is floating the idea of demanding a one-year delay in Obamacare in return for not forcing America into bankruptcy; Greg Sargent emails a Republican aide for clarification, and get this reponse:
It’s absolutely one of the possible outcomes of a debt limit negotiation, and likely given the President’s proclivity for delaying sections of this law. Whether it’s a mandate delay, or delaying the law entirely, it depends on a great deal of other factors.
OK, this represents a complete failure to understand how the health reform works. As I’ve tried to explain, three things are essential: nondiscrimination, the individual mandate, and subsidies. Other things, like the employer mandate, can be delayed without undermining the basic working of the plan. But Republicans don’t know any of that; they haven’t tried to understand Obamacare, they’ve just denounced it. And so they mistake Obama’s flexibility on side issues for a willingness to retreat on the essentials, which he won’t do.
In other words, the wonk gap might cause the GOP to stumble into disaster.
Il ‘gap di intelligenza’ [1] e il tetto del debito
Dunque, avremo ancora una crisi sul tetto del debito? Tutti sembrano pensare che non l’avremo, che i Repubblicani abbiano imparato la loro lezione, che faranno un po’ di scena [2] prima di ritirarsi furtivamente nell’ombra. Ma c’è un problema: il gruppo dirigente del Partito Repubblicano ha detto alla base di darsi una calmata con l’idea di bloccare l’attività del Governo per togliere i finanziamenti alla riforma della assistenza di Obama, che essi piuttosto useranno il tetto del debito. E sino a questo punto nessuno sembra aver voglia di ammettere che neanche questo funzionerà.
E in parte il problema sembra consistere, ancora una volta, nella completa assenza a destra di una effettiva analisi politica. In apparenza Eric Cantor ventila l’idea di richiedere un rinvio di un anno nella (entrata in funzione della) legge sulla assistenza sanitaria in cambio del non costringere l’America alla bancarotta; Greg Sargent ha chiesto un chiarimento ad un funzionario repubblicano, ed ha ottenuto questa risposta:
“E’ certamente uno dei possibili risultati del negoziato sul tetto del debito, e considerata la propensione di Obama a rinviare settori di questa legge è probabile. Se si tratterà di un rinvio sul tema del ‘mandato’ [3], o di un rinvio della intera legge, dipenderà da un gran numero di altri fattori.”
Ebbene, questo dimostra una completa incapacità di comprendere il funzionamento della legge. Come ho cercato di spiegare, tre cose sono essenziali: la non discriminazione [4], il mandato individuale ed i sussidi [5]. Altre cose, come il mandato per i datori di lavoro [6], possono essere rinviate senza mettere a repentaglio il funzionamento fondamentale del programma. Ma i Repubblicani non ne sanno niente; essi non si sono sforzati di comprendere la legge sulla assistenza sanitaria di Obama, l’hanno solo denunciata. E così confondono la flessibilità di Obama su tematiche secondarie con la sua volontà di sconfessare le cose essenziali, che è quello che non vorrà fare.
In altre parole, il gap di intelligenza potrebbe portare il Partito Repubblicano a sbattere casualmente in un disastro.
[1] Vedi l’articolo sul New York Times dell’8 settembre 2013.
[2] “Huff and Puff”, respirare rumorosamente, affannarsi, sbuffare per lamentarsi.
[3] Ovvero sulla parte della legge che stabilisce una ‘delega’ – in sostanza un obbligo, per tutti i cittadini ad acquistare la assicurazione sanitaria.
[4] Ovvero, la non discriminazione sui costi delle polizze assicurative, a danno di coloro che hanno maggiori patologie sanitarie.
[5] Ovvero, i contributi ai cittadini meno abbienti per poter far fronte ai costi delle assicurazioni obbligatorie.
[6] Ovvero, la delega per le imprese – per le più grandi – ad acquistare assicurazioni sanitarie per i dipendenti.
settembre 10, 2013
September 10, 2013, 2:44 pm
One of the things you have to get used to if you want to debate real economic policies (or real policies in any area, I suppose) is that people will make arguments that leave you floored with their sheer dumbness. The first time you pay attention, you find it hard to believe.
So, for example, imagine that you’re a novice in this business, and you’re confronted with politicians who say, “You say that austerity hurts growth, but after three years of dismal performance under austerity, we’ve just had one quarter of pretty good growth. You’ve been proved completely wrong!” Your first reaction is to think “They can’t be that stupid, can they?” Or, alternatively, “They can’t think the rest of us are that stupid, can they?”
Oh yes they can.
As Simon Wren-Lewis says, if some positive growth, eventually, means that your policies have been successful, then a policy of simply shutting down half the economy for a year or two, then letting it start up again, is a smashing success.
Nobody has ever said that austerity policies mean that the economy will never grow again. In fact, the standard view among Keynesians is that, unless there are strong hysteresis effects, the economy will eventually recover to its old growth trend even if austerity is never reversed — which means that somewhere along the way there will be some quarters not just of growth but of above-average growth. Actually, that dead-cat-bounce effect is an important factor in the new Jorda-Taylor analysis of austerity: they find that austerity tends to be imposed in depressed economies, and depressed economies have historically tended to recover, so the dead-cat bounce factor obscures the amount of damage the austerity policies really do.
So the claims of success coming from both the European Commission and now from Cameron/Osborne are deeply stupid — but that doesn’t mean that they won’t gain traction. And as a political matter, bouncing dead cats can work very well. Combine Wren-Lewis’s thought experiment about shutting down the economy with the substantial political science evidence that elections depend not on the level of income but on its rate of growth in the runup to the election, and you conclude that from a sheer political point of view gratuitously depressing the economy for the first half of your term in office can be a very smart move.
Oh sì, possono
Una delle cose alle quali ci si deve abituare se si vuole dibattere le politiche economiche reali (o le politiche reali in ogni area, suppongo) è che la gente avanzerà argomenti che vi lasceranno attoniti per la loro pura e semplice stupidità. La prima volta che ci prestate attenzione, lo trovate difficile da credere.
Così, ad esempio, immaginatevi di essere alle prime armi in questa attività, e di essere messo a confronto con uomini politici che dicono: “Tu dici che l’austerità danneggia la crescita, ma dopo tre anni di squallide prestazioni in regime di austerità, abbiamo proprio avuto un trimestre di crescita abbastanza buona. Hai avuto torto marcio!” La vostra prima reazione sarà pensare: “Possono essere così stupidi?”. Oppure, in alternativa: “Possono pensare che siamo tutti così stupidi?”
Oh sì, possono.
Come dice Simon Wren-Lewis, se una qualche crescita positiva, alla fine, significa che le vostre politiche hanno avuto successo, allora una politica consistente semplicemente nel chiudere bottega a mezza economia per un anno o due, per poi lasciarla ripartire, sarebbe un successo favoloso.
Nessuno ha mai detto che le politiche di austerità significano che l’economia non tornerà mai a crescere. Di fatto, il punto di vista dei keynesiani è che, se non ci sono forti effetti di isteresi [1], l’economia alla fine riprenderà il suo vecchio trend di crescita anche se non si è mai fatto retromarcia sull’austerità – il che significa che lungo il percorso ci sarà qualche trimestre non solo di crescita, ma di crescita sopra la media. In effetti, quel cosiddetto “rimbalzo del gatto morto” è un fattore importante nella nuova analisi dell’austerità di Jorda-Taylor: essi scoprono che l’austerità tende ad essere imposta nelle economie depresse, e le economie depresse hanno teso storicamente a riprendersi, cosicché il fattore del “rimbalzo del gatto morto” oscura la dimensione del danno che le politiche di austerità provocano nella realtà.
Dunque, le pretese di successo che giungono sia dalla Commissione Europea che, adesso, da Cameron-Osborne sono profondamente stupide – ma questo non significa che non riusciranno ad aver presa. E, per una ragione politica, il ‘rimbalzare dei gatti morti’ può funzionare benissimo. Si metta assieme l’esperimento suggerito da Wren-Lewis sul chiudere bottega all’economia con le significative testimonianze della scienza politica secondo le quali le elezioni non dipendono dal livello del reddito ma dal suo tasso di crescita nel periodo antecedente alle elezioni, e si arriverà alla conclusione che da un punto di vista meramente politico deprimere ingiustificatamente l’economia nella prima metà del vostro mandato può essere una mossa assai intelligente.
[1] L’isteresi è la caratteristica di un sistema di reagire in ritardo alle sollecitazioni applicate e in dipendenza dello stato precedente.
settembre 9, 2013
September 9, 2013, 9:11 am
Dean Baker weighs in on the self-correcting economy discussion — it’s not really a debate — and expresses some skepticism about whether we can expect a recovery even in the Keynesian long run. Fair enough. But a quibble: Dean seems to think that I’m saying that 2008 was unique and completely unlike previous recessions. Actually that was never my view — and my actual view ties in with some of the arguments David Warsh makes in his attack on Larry Summers.
Start with Warsh: he asserts, among other things, that the unfortunate “Romer-Bernstein” forecast of a V-shaped recovery was actually the Summers forecast; he also asserts, however, that nobody knew that we should expect a protracted era of economic weakness until Reinhart and Rogoff came along with their analysis of the aftermath of financial crises.
Well, I agree that the R&R work here was excellent and hugely informative — why oh why did they have to follow up with that debt paper? — but we didn’t need that work to know that a V-shaped recovery was unlikely. It was already clear, if you were paying attention, that the nature of the business cycle had changed.
A lot of what we think we know about recession and recovery comes from the experience of the 70s and 80s. But the recessions of that era were very different from the recessions since. Each of the slumps — 1969-70, 1973-75, and the double-dip slump from 1979 to 1982 — were caused, basically, by high interest rates imposed by the Fed to control inflation. In each case housing tanked, then bounced back when interest rates were allowed to fall again.
Since the mid 1980s, however, we’ve had the “Great Moderation,” with inflation quiescent. Post-moderation recessions haven’t been deliberately engineered by the Fed, they just happen when credit bubbles or other things get out of hand.
And while they haven’t been as deep as the older type of recession, they’ve proved hard to end (not officially, but in terms of employment), precisely because housing — which is the main thing that responds to monetary policy — has to rise above normal levels rather than recover from an interest-imposed slump.
That’s from early 2008, before we had any idea just how bad it was going to be, but it was already obvious to me then that V-shaped recovery was not in the cards, precisely because prolonged jobless recoveries had already, pre-2008, become the new normal. I was still too optimistic about the length of the slump, but remember, this was seven months before Lehman fell.
So I didn’t mean to imply that 2008 was completely sui generis; on the contrary, it simply represented a stronger form of a pattern that was already apparent from 2001 and before that in 1990-91.
Why, then, did the White House predict V-shaped recovery? I don’t know. I will say, however, that a lot of business economists were still thinking that a deep recession means a fast recovery, essentially because they weren’t thinking about the changing nature of slumps. And maybe that view infiltrated Treasury, in particular.
Non c’è più la ripresa a forma di “V” [1]
Dean Baker interviene nella discussione sulla auto correzione – non è un vero e proprio dibattito – ed esprime qualche scetticismo sul fatto che ci si possa aspettare una ripresa anche nei termini di una lungo periodo keynesiano. Abbastanza giusto. Ma una piccola obiezione: sembra che Dean pensi che io stia dicendo che il 2008 sia stato unico e completamente dissimile dalle recessioni precedenti. In effetti, non è mai stata la mia opinione – ed il mio effettivo punto di vista consiste in alcuni degli argomenti che David Warsh avanza nel suo attacco a Larry Summers.
Cominciamo con Warsh: egli sostiene, tra le altre cose, che la sfortunata previsione “Romer-Bernstein” di una ripresa a forma di “V” fu effettivamente la stessa di Summers; sostiene anche, tuttavia, che nessuno sapeva che dovevamo aspettarci un’epoca di prolungata debolezza economica finché non comparvero Reinhart e Rogoff con la loro analisi delle conseguenze delle crisi finanziarie.
Ebbene, in questo caso io ritengo che il lavoro di Reinhart e Rogoff fu eccellente e grandemente istruttivo – c’è proprio da chiedersi perché abbiano poi proseguito con quel saggio sul debito! [2] – ma non avevamo bisogno di quel lavoro per sapere che una ripresa a forma di “V” era improbabile. Era già chiaro, se si prestava attenzione, che la natura del ciclo economico era cambiata [3].
“Molto di quello che sappiamo sulla recessione e sulla ripresa proviene dall’esperienza degli anni ’70 ed ’80. Ma le recessioni di quell’epoca furono molto diverse dalle recessioni da allora in poi. Ognuna delle crisi – 1969-70, 1973-75 e la crisi della doppia recessione dal 1979 al 1982 – furono provocate, fondamentalmente, dagli alti tassi di interesse imposti dalla Fed per controllare l’inflazione. In ciascuno di quei casi il settore immobiliare calò bruscamente, poi riprese quando fu consentito ai tassi di interesse di tornare a scendere.
Sino alla metà degli anni ’80, tuttavia, avemmo la “Grande Moderazione”, con una inflazione quiescente. Le recessioni successive alla Moderazione non furono deliberatamente predisposte dalla Fed, esse semplicemente intervennero al momento in cui le bolle del credito o altre cose andarono fuori controllo.
E mentre esse non furono così profonde come le recessioni di vecchio tipo, si mostrarono difficili da interrompere (non in termini ufficiali [4], ma in termini di occupazione), principalmente perché il settore dell’edilizia – che è la cosa che principalmente reagisce alla politica monetaria – deve crescere sopra i normali livelli più che riprendersi da un crisi imposta dai tassi di interesse”.
Tutto questo scrivevo agli inizi del 2008, prima che avessimo un’idea di quanto negativo fosse quello che stava per accadere, ma per me era già evidente che una ripresa a forma di “V” non era in questione, precisamente perché prolungate riprese senza lavoro erano già, prima del 2008, diventate la nuova regola. Ero ancora troppo ottimista sulla durata della crisi, ma si tenga a mente che questo avveniva sette mesi prima del crollo della Lehman.
Dunque, io non ho inteso suggerire che il 2008 fu completamente sui generis; al contrario, esso ha semplicemente rappresentato una manifestazione più forte di uno schema che era già visibile dal 2001 e, prima di allora, nel 1990-91.
Perché, dunque, la Casa Bianca fece la previsione di una ripresa a forma di “V”? Non lo so. Direi tuttavia che un buon numero di economisti erano ancora dell’idea che una profonda recessione comportasse una rapida ripresa, fondamentalmente perché non stavano ragionando sul mutamente della natura delle recessioni. E forse quel punto di vista si era in modo particolare infiltrato al Tesoro.
[1] Ovvero una crisi seguita da una ripresa che ritorna rapidamente al picco precedente.
[2] Ovvero, perché siano andati a ficcarsi nelle discutibili affermazioni sui rischi di un debito superiore al 90 per cento del PIL, con l’aggiunta di tutto il clamore per gli errori compiuti.
[3] Krugman si riferisce ad un suo post del febbraio del 2008, che parzialmente riporta di seguito.
settembre 9, 2013
September 9, 2013, 8:46 am
So far, Abenomics has been going really, really well. By signaling that the Bank of Japan has changed, that it won’t snatch away the sake bottle just as the party gets going, that it’s going to target sustained positive inflation — and also by signaling that some fiscal stimulus is forthcoming despite high levels of debt — Japanese authorities have achieved a remarkable turnaround in short-term economic performance.
But will this short-run success end up being self-defeating? This really worries me:
Japan’s economy expanded at a significantly faster rate in the second quarter than initially reported, increasing the chances that Shinzo Abe, prime minister, will press ahead with a contentious sales tax increase – albeit one that would be offset by more government spending.
Look, maybe Japan can sustain growth in the face of this tax increase. But maybe not. Why not wait until growth is firmly established, and in particular until expected deflation has been solidly replaced with expected inflation?
Delaying the sales tax increase is, I would argue, the prudent thing to do even in purely fiscal terms. One of the serious consequences of Japanese deflation combined with the zero lower bound has been that Japanese real interest rates have until recently been significantly higher than those in other advanced countries — a matter of considerable concern when you have a very large inherited debt. Getting those real rates down (and, to a lesser extent, eroding the real value of existing debt) matters a lot to the long-run fiscal picture; it’s just foolish to endanger progress on that front in the name of fiscal responsibility.
Yes, Japan is going to need more revenue, eventually. But reflation should come first. It’s a really bad sign that this is even being discussed right now.
Fai che il Giappone sia casto e continente, ma non ancora [1]
Sino a questo punto, la politica economica di Abe è andata davvero, ma davvero bene. Segnalando che la Banca del Giappone ha mutato indirizzo, che non intende più allontanare la bottiglia del sakè mentre la festa sta andando avanti [2], che è orientata ad un obbiettivo di inflazione positiva sostenuta – ed anche segnalando che un qualche stimolo di finanza pubblica è in arrivo nonostante gli alti livelli del debito – le autorità giapponesi hanno ottenuto una considerevole inversione di rotta [3] nelle prestazioni economiche a breve termine.
Ma questo successo a breve termine finirà con l’essere controproducente? Quello che realmente mi preoccupa è la cosa seguente:
“L’economia giapponese è cresciuta nel secondo trimestre ad un tasso significativamente più rapido di quanto inizialmente previsto, aumentando le possibilità che Shinzo Abe, il Primo Ministro, proceda con un discusso incremento delle tasse sul valore aggiunto – per quanto non di dimensioni tali da bilanciare la maggiore spesa pubblica.”
Si badi, forse il Giappone può sostenere la crescita a fronte di questo aumento delle tasse. Ma forse no. Perché non attendere che la crescita sia stabilmente consolidata, e in particolare che la deflazione attesa sia solidamente rimpiazzata da una inflazione attesa?
Rinviare l’incremento delle tasse sul valore aggiunto riterrei che sia, persino puramente nei termini di finanza pubblica, la cosa prudente da fare. Una delle serie conseguenze della deflazione giapponese, in combinazione con il limite inferiore dello zero, è stata che i tassi di interesse del Giappone sono stati fino al periodo recente significativamente più alti di quelli degli altri paesi avanzati – aspetto considerevolmente preoccupante quando si ha un grande debito ereditato dal passato. Abbassare quei tassi reali (e, in minore misura, erodere il valore reale del debito esistente) ha molta importanza sul quadro delle finanze pubbliche nel lungo termine; è solo sciocco mettere a rischio il progresso su quel fronte in nome della responsabilità della finanza pubblica.
Si, alla fine il Giappone avrà bisogno di maggiori entrate. Ma la reflazione [4] dovrebbe aver luogo in precedenza. E’ davvero un cattivo segnale persino discutere di questo in questo momento.
[1] E’ un espressione di Sant’Agostino, riferita scherzosamente a se stesso (la scrisse parlando dell’animo umano che non vuole abbandonare le passioni e i piaceri), che Krugman frequentemente applica alle austerità ‘intempestive’.
[2] Versione ‘giapponese’ della espressione che definisce il passaggio alle politiche restrittive da parte delle banche centrali (che tolgono la scodella del ‘punch’ quando la festa comincia a scaldarsi …)
[3] La notizia è stata pubblicata il 9 settembre dal New York Times, da fonte Reuters. Secondo i dati del Governo giapponese, il PIL sarebbe aumentato nel periodo aprile-giugno, passando su base annua dalla previsione precedente di un più 2,6 per cento, ad una previsione di un più 3,8 per cento.
[4] Nel linguaggio economico, la reflazione è una moderata nuova inflazione successiva alla deflazione ed innescata dalla iniezione di una maggior quantità di moneta, e si accompagna solitamente a una ripresa economica.
settembre 8, 2013
September 8, 2013, 10:03 am
Mike Konczal argues that the big divide between New Keynesians and Old Keynesians lies in the NK belief that, contra Keynes, the economy can be counted on to “auto-correct” back to full employment. I guess I’d quibble a bit both with the intellectual history and with Mike’s emphasis on rational expectations as the key divide, and I want to say a bit about that. On the main point, however, Mike and I are in complete agreement: any self-corrective forces in the economy of 2013 are very weak and slow, and we can stay depressed for a very long time.
OK, so about that history of thought issue: The standard view of a self-correcting economy is that it comes from long-run wage flexibility. The textbook picture — literally: this is taken straight from the World’s Best Principles Book — looks like this:
According to this picture, short-run declines of output below potential are all about short-run nominal wage rigidity. So where does this come from? Actually, its intellectual lineage runs straight back to Modigliani 1944 (pdf) — not exactly a New Keynesian! — who basically added an aggregate supply curve to Hicks’s IS-LM analysis and correctly concluded that this implied that everything depended on M/W, the ratio of the money supply to the wage rate, except in a liquidity trap. As the memory of the 30s receded, that last qualifying clause came to seem like trivial small print.
By the way, at various points in Keynes the master seems to agree, arguing that historically it had been possible to restore full employment by raising the quantity of money relative to wages; his view, however, was that something like a liquidity trap had become the norm by the 1930s. Obviously his prediction proved wrong, but I don’t think his logic was very different from Modigliani’s.
So what does this have to do with our current predicament? Until the late 1990s, I think most Keynesians, old or new, would have said that the process described by the figure may be right, but you don’t want to go through it, because wages adjust so slowly; in the long run the economy self-corrects, but in the long run we are all dead. Far better to get M/W in line by raising M instead of cutting W.
But then came Japan’s rediscovery of the liquidity trap — and a decade later, the Japanification of the whole advanced world. Suddenly Modigliani’s small print becomes big news: even if wages are flexible downward, that doesn’t help, because increasing the real money supply doesn’t reduce interest rates. In terms of the figure above, the aggregate demand curve becomes vertical.
Or maybe worse than that: once we take balance sheet effects into account, the aggregate demand curve may well slope the “wrong” way, so that flexible wages and hence prices make things worse (pdf):
The paradox of flexibility
That figure, by the way, is taken from a paper that is very much New Keynesian in its setup, although the basic insight can be expressed in IS-LM too.
Now, since World War II the US economy always has tended to return to full employment after slumps. Why? Well, the answer is that (a) it wasn’t in a liquidity trap and (b) we had an active monetary policy response (in fact, before 1990 monetary policy generally caused the slumps, so all the Fed had to do was stop the punishment). The trouble is that none of this experience is relevant to our current situation.
So is there no route back to full employment absent the kind of massive stimulus that only seems to happen via war? OK, even Keynes wasn’t that pessimistic: he argued that investment would eventually recover once “use, decay, and obsolescence” created a sufficient scarcity of capital. Once we take the problem of debt into account, I think you’d want to add deleveraging and default — which reduce the debt overhang — to his list. So even on a very Old Keynesian view, depressions aren’t forever. And I think you can see some of those Keynesian mechanisms of long-run recovery at work in the US economy now, with a depleted housing stock and a somewhat reduced debt burden driving a gradual upswing despite Washington’s best efforts.
But it could be a very long time before we have anything like full employment — and there will, as Mike says, be legions of people denying that there even is a gap that needs closing.
L’autocorrezione non funziona (per esperti) [1]
Mike Konczal sostiene che la grande divisione tra Neo Keynesiani e Vecchi Keynesiani consiste nella convinzione dei neokeynesiani che, diversamente da quanto pensava Keynes, l’economia può far conto su un ritorno alla piena occupazione tramite una “autocorrezione”. Penso che avrei un po’ da discutere sia dal punto di vista della storia intellettuale che per l’enfasi di Mike sulle aspettative razionali come ragione fondamentale di divisione, e voglio dire qualcosa a proposito. Sull’aspetto principale, tuttavia, io e Mike siamo completamente d’accordo: tutte le forze autocorrettive sono, nell’economia del 2013, molto deboli e lente, e possiamo restare depressi per un lungo periodo.
Andiamo avanti, dunque a proposito del tema della storia del pensiero. Il punto di vista consueto su una autocorrezione dell’economia è che essa deriva dalla flessibilità nel lungo periodo dei salari. Il diagramma di un libro di testo (letteralmente: questo che segue è preso direttamente da “Il miglior libro al mondo di principi”) appare così [2]:
Secondo questo diagramma, i cali nel breve periodo della produzione al di sotto del suo potenziale dipendono tutti dalla rigidità nominale dei salari nel breve periodo. Effettivamente, la discendenza intellettuale deriva direttamente da Modigliani (1944, disponibile in pdf) – il quale fondamentalmente aggiunse una curva dell’offerta aggregata alla analisi IS-LM di Hicks [3] e concluse correttamente che questo comportava che tutto dipendeva dal rapporto tra Moneta e Salari, il rapporto tra l’offerta monetaria e la quantità di salario in una unità di tempo [4], ad eccezione di una situazione di trappola di liquidità. Quando la memoria degli anni Trenta venne meno, l’ultima clausola fondamentale finì col sembrare una banale appendice scritta con caratteri minimi.
Per inciso, in vari passaggi di Keynes il ‘maestro’ [5] sembra convenire , sostenendo che storicamente è stato possibile ripristinare la piena occupazione accrescendo la quantità di moneta in rapporto ai salari; il suo punto di vista, tuttavia, era che la trappola di liquidità era diventata la norma negli anni Trenta. Ovviamente, la sua previsione si rivelò sbagliata [6], ma non penso che la sua logica fosse molto diversa da quella di Modigliani.
Cosa ha dunque a che fare tutto questo con il nostro attuale dilemma? Sino alla fine degli anni ’90, io penso che la gran parte dei Keynesiani, vecchi e nuovi, avrebbero detto che il processo descritto nel diagramma poteva essere giusto, ma che quella non poteva essere la strada perché i salari si correggono in modo molto lento; nel lungo periodo l’economia si corregge, ma nel lungo periodo saremo tutti morti. Molto meglio rimettere a posto il rapporto tra Moneta e Salari aumentando la Moneta, invece che tagliando i Salari.
Ma poi intervenne la riscoperta giapponese della trappola di liquidità – e, un decennio dopo, la nipponizzazione di tutto il mondo avanzato. Improvvisamente l’aggiunta in caratteri minimi di Modigliani [7] divenne una grande notizia: persino se i salari fossero flessibili verso il basso, ciò non sarebbe di aiuto, perché incrementando l’offerta reale di moneta non si riducono i tassi di interesse [8]. Nei termini del diagramma precedente, la curva della domanda aggregata diviene verticale.
O forse è peggio ancora: una volta che si mettono nel conto gli effetti sugli equilibri contabili, la curva della domanda aggregata può ben inclinarsi nel modo ‘sbagliato’, cosicché i salari flessibili e di conseguenza i prezzi flessibili rendono le cose peggiori (il riferimento è disponibile in pdf) [9]:
Il paradosso della flessibilità.
Questa figura, per inciso, è presa da uno studio che è molto neokeynesiano nella sua impostazione, sebbene l’intuizione di base possa essere espressa anche in termini di modello IS-LM.
Ora, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale l’economia statunitense ha sempre teso a ritornare alla piena occupazione dopo le crisi. Perché? Ebbene, la risposta è: a) non c’era una trappola di liquidità; b) ci fu una risposta di una politica monetaria attiva (di fatto, prima del 1990 era la politica monetaria che provocava in generale le cadute, cosicché tutto quello che la Fed doveva fare era fermare le restrizioni). Il guaio è che nella nostra situazione attuale niente di quelle esperienze è rilevante.
Dunque, non c’è alcuna strada per tornare alla piena occupazione in mancanza di quel genere di stimolazione massiccia che può soltanto aver luogo attraverso una guerra? Ebbene, neppure Keynes era così pessimista: egli sostenne che ci sarebbe stata alla fine una ripresa degli investimenti, una volta che “l’uso, il decadimento e l’obsolescenza” avessero determinato una sufficiente scarsità di capitale. Una volta che si metta nel conto il problema del debito, penso che si voglia aggiungere alla sua lista (alla lista dei fattori che Keynes considerava utili alla ripresa degli investimenti, ndt) la riduzione dei rapporti di indebitamento e il default, che entrambi riducono l’eccesso di debito. Dunque, persino in un punto di vista tardo keynesiano, le depressioni non sono infinite. Ed io penso che si possano vedere alcuni di questi meccanismi keynesiani di ripresa nel lungo periodo all’opera nell’economia americana attuale, con un riserva di alloggi esaurita e un peso del debito in qualche modo ridotto che spingono ad una oscillazione verso l’alto, a dispetto dei massimi sforzi di Washington.
Ma ci vorrà molto tempo prima che si abbia qualcosa di simile alla piena occupazione – e ci saranno, come dice Mike, legioni di individui che negheranno persino che ci sia un buco al quale si deve porre rimedio.
[1] Il titolo credo è pieno di errori per significare, appunto, che non funziona il correttore automatico ….
[2] Una spiegazione sommaria della Tabella..
Il titolo del diagramma è: “Effetti di uno shock negativo della domanda; il lungo periodo a confronto del breve periodo”. Sull’asse verticale il livello complessivo dei prezzi, su quello orizzontale il PIL reale. Le due linee AD1 e AD2 indicano, con una differenza che spiegheremo subito, il verso della Domanda Aggregata; l’ipotesi appunto è che accada uno shock iniziale della domanda aggregata e che, dunque, esso provochi una riduzione del livello complessivo dei prezzi e della produzione, scendendo verso il basso e riducendo così anche l’incremento del PIL reale. Questo processo iniziale provoca naturalmente anche una più elevata disoccupazione, nel breve periodo. Ma questo accade sinché una eventuale caduta nei salari nominali nel lungo periodo porta ad una crescita dell’offerta aggregata; a partire da lì l’economia torna verso i livelli della sua produzione potenziale. Questo ultimo processo è espresso dalla traslazione, appunto, dalla linea 1 della domanda aggregata a quella della linea 2, e analogamente dal passaggio dalla linea dell’offerta aggregata 1 a quella dell’offerta aggregata 2 (le sigle SRAS 1 e 2 significano: offerta aggregata di breve periodo, 1 e 2).
[3] Vedi note sulla traduzione a “Modello IS-LM”.
[4] Appunto, il tasso salariale. L’unità di tempo può essere di un’ora o di un giorno.
[5] Mi pare chiaro che “master” sia da leggere in rapporto a Keynes e non a Modigliani. Per questo traduco ‘Maestro’ e non, magari, con il termine più comune di ‘professore’.
[6] Nel senso che la trappola di liquidità non rimase nel tempo una condizione obbligata.
[7] Ovvero, l’eccezione per la situazione di trappola di liquidità alla quale egli aveva fatto riferimento.
[8] Giacché in una trappola di liquidità essi sono prossimi allo zero nominale, e non possono ridursi ulteriormente (perché il quel caso converrebbe tenersi i soldi in tasca).
[9] Quello che accade di diverso in questo diagramma, rispetto a quello precedente, è che per effetto dei tassi di interesse che non possono essere ridotti, le curve della domanda aggregata vanno verso l’alto dell’asse del livello complessivo dei prezzi (ed anche verso la sinistra dell’asse del PIL reale, cioè in area di depressione, di caduta della produzione). In quel caso avere salari flessibili – come nella linea “AS flexible” – anziché rigidi – come nella linea “AS sticky” – peggiora le cose. Ovvero rende ancora peggiora il risultato in termini di PIL minore e di disoccupazione maggiore.
settembre 5, 2013
September 5, 2013, 9:08 pm
Lots of reporting on the new Kaiser Family Foundation analysis of what we know so far (pdf) about premiums under Obamacare. It definitely looks as if there will be a mild “rate shock” — in the right direction. KFF:
While premiums will vary significantly across the country, they are generally lower than expected.
What’s going on here? Partly it’s a vindication of the idea that you can make health insurance broadly affordable if you ban discrimination based on preexiting conditions while inducing healthy individuals to enter the risk pool through a combination of penalties and subsidies. But there’s an additional factor, that even supporters of the Affordable Care Act mostly missed: the extent to which, for the first time, the Act is creating a truly functioning market in nongroup insurance.
Until now there has been sort of a market — but one that, as Kenneth Arrow pointed out half a century ago, is riddled with problems. It was very hard for individuals to figure out what they were buying — what would be covered, and would the policies let them down? Price and quality comparisons were near-impossible. Under these conditions the magic of the marketplace couldn’t work — there really wasn’t a proper market. And insurers competed with each other mainly by trying to avoid covering people who really needed insurance, and finding excuses to drop coverage when people got sick.
With the ACA, however, insurers operate under clear ground rules, with clearly defined grades of plan and discrimination banned. The result, suddenly, is that we have real market competition.
In an alternative universe, conservatives would be celebrating this good news as a vindication of their views. See, the Heritage Foundation — which actually developed the original version of this plan! — was right! You don’t need single-payer, just a properly set up market system. (For the record, I believe that single-payer would be better and cheaper, and it’s still a goal we should seek).
But in this universe, conservatives claim that creating a real market for health insurance, and making sure that everyone can afford it, is the moral equivalent of slavery.
Ci vuole un governo (per fare un mercato)
Molti resoconti sulla nuova analisi della Kaiser Family Foundation [1] a proposito di quello che sinora conosciamo sui premi assicurativi a seguito della riforma della assistenza di Obama (disponibile in pdf). Appare definitivamente che ci sarà una leggera “quota di shock” – nella direzione giusta. Scrive KFF:
“ Mentre i premi assicurativi varieranno in modo significativo tra i vari Stati, generalmente essi saranno più bassi di quello che ci si aspettava.”
Cosa sta accadendo in questo caso? In parte si tratta di una conferma dell’idea che si può avere una assicurazione sanitaria complessivamente sostenibile se si mettono al bando le discriminazioni basate sulle precedenti patologie sanitarie, nel mentre si inducono gli individui in salute ad entrare a far parte della valutazione collettiva del rischio attraverso una combinazione di penalizzazioni e di sussidi. Ma c’è un fattore aggiuntivo, del quale persino i sostenitori della Legge per l’Assistenza Sostenibile in gran parte non si erano accorti: la misura nella quale, per la prima volta, la Legge sta creando un mercato effettivamente funzionante nella assicurazione non destinata a gruppi specifici di utenti.
Sinora c’era stata una specie di mercato – ma del tipo, come mise in evidenza mezzo secolo fa Kenneth Arrow, di quelli zeppi di problemi. Era molto difficile per gli individui immaginarsi cosa stessero acquistando – che cosa sarebbe stato assistito, sarebbero alla fine rimasti fregati dalle scelte politiche? I prezzi e i confronti di qualità erano quasi impossibili. In queste condizioni la magia del mercato non poteva funzionare – propriamente non c’era un vero mercato. E gli assicuratori erano in competizione l’uno con l’altro principalmente cercando di evitare di assistere le persone che avevano davvero bisogno della assicurazione, ed accampando scuse per far cadere l’assistenza quando le persone si ammalavano.
Con la nuova legge, tuttavia, gli assicuratori operano con chiare regole di base, con requisiti di piano chiaramente definiti e con la discriminazione proibita. Il risultato è che improvvisamente abbiamo un reale mercato competitivo.
In un altro mondo, i conservatori starebbero celebrando questa buona notizia come una conferma delle loro opinioni. Vedete, la Heritage Foundation – che in effetti sviluppò la versione originaria di questo programma – aveva ragione! Non c’è bisogno di una amministrazione centralizzata, basta metter su un appropriato sistema di mercato (per la cronaca, io credo che un sistema centralizzato sarebbe migliore e più conveniente, e che sia ancora un obbiettivo che dovremmo cercare di conseguire).
Ma in questo mondo, i conservatori sostengono che creare un effettivo mercato di assicurazione sanitaria, e garantire a tutti di poterselo permettere, sia l’equivalente morale della schiavitù [2].
[1] Si tratta di una Fondazione privata ed indipendente, con sede a Menlo Park in California, che si occupa di politica sanitaria, negli Stati Uniti e nel mondo. La Fondazione fu istituita nel 1948 dall’industriale Henry J. Kaiser, ma attraverso vari passaggi si svincolò successivamente da ogni rapporto economico e proprietario con le industrie Kaiser, pur mantenendone la denominazione.
[2] E’ un’affermazione che nei mesi passati è stata fatta di vari esponenti repubblicani, secondo la quale il sistema costruito con la riforma della assistenza di Obama – da quanto capisco perché fondato sull’obbligo della adesione ad una assicurazione – sarebbe equivalente alla schiavitù.
settembre 3, 2013
September 3, 2013, 7:39 pm
Simon Wren-Lewis looks at France, and finds that it is engaging in a lot of fiscal austerity — far more than makes sense given the macroeconomic situation. He notes, however, that France has eliminated its structural primary deficit mainly by raising taxes rather than by cutting spending.
And Olli Rehn — who should be praising the French for their fiscal responsibility, their willingness to defy textbook macroeconomics in favor of the austerity gospel — is furious, declaring that fiscal restraint must come through spending cuts.
As Wren-Lewis notes, Rehn is very clearly overstepping his bounds here: France is a sovereign nation, with a duly elected government — and is not, by the way, seeking any kind of special aid from the Commission. So he has no business whatsoever telling the French how big their government should be.
But the larger point here, surely, is that Rehn has let the mask slip. It’s not about fiscal responsibility; it never was. It was always about using hyperbole about the dangers of debt to dismantle the welfare state. How dare the French take the alleged worries about the deficit literally, while declining to remake their society along neoliberal lines?
(…)
Scivola via la maschera dei patiti dell’austerità
Simon Wren-Lewis guarda alla Francia e scopre che essa è impegnata assai nell’austerità della finanza pubblica – molto di più di quanto sarebbe sensato sulla base della situazione macroeconomica. Egli nota, tuttavia, che la Francia ha eliminato il suo deficit strutturale primario [1] principalmente aumentando le tasse, piuttosto che tagliando le spese.
Ed Olli Rehn [2] – che dovrebbe elogiare i francesi per la loro responsabilità fiscale, per la loro volontà di sfidare la macroeconomia dei libri di testo – è infuriato, e dichiara che la restrizione della finanza pubblica dovrebbe avvenire attraverso i tagli alle spese.
Come nota Wren-Lewis, in questo caso Rehn sta superando smaccatamente i suoi confini: la Francia è una nazione sovrana, con un Governo regolarmente eletto – e non è, per inciso, alla ricerca di alcun genere di aiuto dalla Commissione Europea. Dunque non è assolutamente affar suo dire ai francesi quanto dovrebbe essere grande la loro spesa pubblica.
Ma l’aspetto più ampio è che sicuramente, in questo caso, Rehn ha fatto scivolare la maschera. Non si tratta della responsabilità nella finanza pubblica; non si è mai trattato di questo. Egli si è sempre impegnato nell’uso dell’iperbole sui pericoli del debito per smantellare lo stato assistenziale. Come letteralmente osano i francesi di far proprie le cosiddette preoccupazioni sul deficit, nel mentre rinunciano a ricostruire la loro società su indirizzi neoliberali?
( … )
[1] Ovvero, il deficit annuale del suo bilancio, al netto degli interessi.
[2] Olli Ilmari Rehn (Mikkeli, 31 marzo 1962) è un politico ed ex calciatore finlandese. Dal febbraio 2010 è commissario europeo per gli Affari economici e monetari. Dall’ottobre 2011 è anche vicepresidente della Commissione europea.
La carriera politica di Rehn è iniziata nel 1988, come consigliere comunale a Helsinki. Dal 1988 al 1994 è stato vicepresidente del Partito di Centro; dopo l’elezione al Parlamento finlandese, nel 1991, Rehn ha guidato la delegazione finlandese presso il Consiglio d’Europa, coltivando stretti legami con il primo ministro finlandese Esko Aho fra il 1992 e il 1993. Nel 1995 Rehn ha abbandonato il parlamento finlandese per passare al Parlamento Europeo, come membro del Partito Europeo dei Liberali, Democratici e Riformatori.
Fra il 1998 e il 2002, Rehn ha collaborato con Erkki Liikanen, allora membro della Commissione Prodi; gli è succeduto, in un secondo momento, nel ruolo di commissario europeo per le Imprese e la Società dell’Informazione.
Nel 2002 Rehn ha abbandonato provvisoriamente la politica europea per fare ritorno all’Università di Helsinki, dove ha guidato il Centro di Studi Europei; successivamente, dal 2003 al 2004, è tornato sulla scena politica nazionale come consigliere economico dell’esecutivo finlandese.
settembre 3, 2013
September 3, 2013, 12:03 pm
A few months ago Christy Romer gave an excellent talk on the prospects for monetary policy in a liquidity trap, titled It Takes A Regime Shift (pdf). As many of us have noted, the central bank has very little direct traction when safe short-term rates are at the zero lower bound; maybe it can achieve something by buying lots of unconventional assets (“quantitative easing”), but its main hope of achieving anything is through “expectations management” — convincing both financial markets and players in the real economy that it will hold off much longer on tightening once the economy improves than they currently expect, which will lead to higher expected inflation and demand, and hence higher spending now.
However, engineering such a change in expectations — what I long ago dubbed a credible promise to be irresponsible — is hard. How do you convince people that the central bank won’t just revert to type, always eager to snatch away the punchbowl, at the first signs of economic improvement?
Romer’s answer is that it takes a “regime shift” — a set of actions that reflect a clear break with the past. FDR achieved such a regime shift in the 1930s by going off the gold standard, and in general by bringing in a, well, New Deal. Shinzo Abe may (the returns aren’t in yet) be achieving something similar simply by talking and acting in such a seemingly un-Japanese way; I suspect that Abenomics is working better than one might have expected precisely because Abe seemed to be such an ordinary Japanese machine politician, until he started moving on economic policy.
This, I think, is the way to read today’s report by Binyamin Applebaum on how the rising odds of a Summers appointment to the Fed is already having a chilling effect on the economy. A Yellen appointment would clearly have represented something new at the Fed — not just because she is, as Garrison Keillor used to say, a person of gender, but also because she has been a strong and consistent monetary dove, and took that position before it was fashionable.
Summers, on the other hand, while he often expresses unconventional views when not in office, has a strong tendency to revert to conventionality when in office. And leaving Summers the person on one side, just think of the historical connections: can you imagine a stronger signal that the same old regime is staying in place than choosing a Robert Rubin protege at this late date?
So the apparent decision to appoint Summers is a strong anti-regime-shift signal on Obama’s part.
Now, we can hope that if Summers actually does get the job, he’ll realize the problem — and realize that he needs to pull his own version of what Abe has pulled off in Japan, saying and doing things that shock people into realizing that he isn’t going to be the conventional-wisdom guy they expected. And this is, in fact, my advice to Summers if he is the guy: don’t spend your first few months being mild-mannered and winning friends. What this economy needs is a monetary shock — and if you don’t do it right away, you probably won’t get a second chance.
Summers, inidoneo al cambiamento
Pochi mesi orsono Christy Romer tenne un eccellente discorso sulle prospettive della politica monetaria in una trappola di liquidità, dal titolo “Ci vuole un mutamento di regime” (disponibile in pdf). Come molti di noi hanno notato, la banca centrale ha una trazione diretta molto modesta quando i tassi sicuri a breve termine sono al limite inferiore dello zero; forse essa può ottenere qualcosa acquistando quantità di assets non convenzionali (“facilitazione quantitativa”), ma la sua principale speranza di avere qualche risultato è attraverso la “gestione delle aspettative” – convincere sia i mercati finanziari che i protagonisti dell’economia reale che essa si asterrà molto più a lungo di quanto attualmente ci si aspetta da scelte restrittive, una volta che l’economia migliorerà; il che porterà ad una inflazione attesa e ad una domanda più elevate, e di conseguenza ad una spesa [1] da subito più alta.
Tuttavia, operare un tale mutamento nelle aspettative – cosa che io molto tempo fa soprannominai una ‘promessa credibile di essere irresponsabili’ – è difficile. Come convincere la gente che la banca centrale semplicemente non vorrà cambiare registro, sempre ansiosa (com’è) di ritirare la scodella del punch [2], ai primi segni di un miglioramento economico?
La risposta della Romer è che serve un “mutamento di regime” – un complesso di azioni che rifletta una chiara rottura col passato. Franklin Delano Roosevelt ottenne tale cambiamento di regime negli anni Trenta uscendo dal gold standard e più in generale portandoci, è noto, nel New Deal. Shinzo Abe può (i risultati non arrivano ancora) stare conseguendo qualcosa di simile parlando ed agendo in un modo in apparenza così non-giapponese (sospetto che la politica economica di Abe stia funzionando meglio di quello che ci si potrebbe aspettare perché Abe è apparso come un congegno politico del tutto ordinariamente giapponese, finché non ha cominciato a cambiar pagina alla politica economica).
Questo, penso, sia il modo di intendere il resoconto di oggi di Binyamin Applebaum su come le crescenti probabilità di una nomina di Summers alla Fed stiano avendo un effetto frenante sull’economia. Una nomina della Yellen avrebbe rappresentato chiaramente qualcosa di nuovo alla Fed – non solo perché è, come Garrison Keillor [3] era solito dire, un ‘personaggio di genere’, ma anche perché ella è stata una forte e coerente ‘colomba’ della politica monetaria, e prese tali posizioni prima che fossero di moda.
Summers, d’altro canto, se ha spesso espresso punti di vista non convenzionali quando non aveva incarichi, ha una forte tendenza a tornare convenzionale quando ha un incarico. E lasciando da parte Summers come individuo, io penso solamente alle connessioni storiche: ci si può immaginare un segnale più forte che lo stesso vecchio regime resta in funzione se non scegliendo un pupillo di Robert Rubin [4] in questa ultima circostanza?
Dunque, la verosimile decisione di nominare Summers è da parte di Obama un forte segnale contrario ad un cambiamento di regime.
Ora, possiamo sperare che se Summers effettivamente otterrà l’incarico, egli comprenda il problema – e comprenda di avere il bisogno di tirar fuori la propria personale versione di quello che Abe ha tirato fuori in Giappone, dicendo e facendo cose che facciano impressione alle persone, con il comprendere che egli non è destinato a rappresentare l’individuo del convenzionale senso comune che si aspettavano. E questo, in sostanza, è il mio consiglio a Summers se egli sarà l’individuo (prescelto): non si affanni nei primi mesi ad apparire di buone maniere ed a guadagnarsi amicizie. Quello di cui l’economia ha bisogno è uno shock monetario – e se non lo si fa da subito, probabilmente non si avrà una seconda occasione.
[1] In questo caso, mi pare, ci si riferisce alla spesa privata più che a quella pubblica, che non dipende dalle aspettative ma da condizionamenti politici.
[2] E’ un famosa espressione con la quale si definisce il normale comportamento di una banca centrale quando l’economia comincia a riprendersi, inaugurando scelte più restrittive. Si dice che essa si comporta come chi toglie di mezzo la ‘scodella del punch” appena la festa comincia un po’ a scaldarsi.
[3] Gary Edward “Garrison” Keillor ( 1942) è un autore, romanziere, umorista e personaggio radiofonico americano.
[4] Robert Rubin (New York, 29 agosto 1938) è un politico statunitense. È stato il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti tra il 1995 e il 1999 durante il primo e il secondo mandato dell’amministrazione Clinton.
Prima del suo mandato governativo ha trascorso ventisei anni alla Goldman Sachs, dove è stato membro del consiglio di amministrazione e dove ha ricoperto il ruolo di Co-Presidente dal 1990 al 1992.
Negli anni che sono seguiti al suo impegno di governo, Robert Rubin è stato Direttore di Citigroup dove ha anche ricoperto temporaneamente il ruolo di Presidente da novembre a dicembre 2007. Il 9 gennaio 2009 Citigroup ha annunciato il suo esonero dall’incarico per le deludenti performance durante la sua direzione.
settembre 2, 2013
September 2, 2013, 10:29 am
I couldn’t make space for it in today’s column, but any affluent reader who wants a sense of what America is like for many hard-working people should read about the website McDonald’s has established to help its workers manage their family budget. The sample monthly budget they offer includes $900 from a second job; monthly rent of just $600 (which is very low even for a single-bedroom apartment in inexpensive cities, and of course ludicrous in metro New York), and zero heating expenses.
This disparity between the way many of our fellow citizens live and the lives of the 1 percent ought to inspire a lot of empathy — and to be fair, in many cases it does. On average, however, widening inequality seems to be reducing, not increasing, empathy, as the life experiences of the affluent diverge from those of ordinary workers, to such an extent that the upper class no longer sees members of the working class as people like themselves.
Of course, Rick Santorum says that this is all “Marxism talk” — even the term “middle class” — because there are no classes in America.
Come vive l’altro 47 per cento
Non ho potuto fare spazio a questo nell’articolo di oggi, ma ogni lettore benestante che voglia una immagine di quello che è l’America per molte persone che lavorano duramente dovrebbe leggere quello che il sito Internet di McDonald ha stabilito per aiutare i suoi lavoratori a gestire il loro bilancio familiare [1]. L’esempio di bilancio mensile che essi offrono include 900 dollari di un secondo lavoro; un affitto mensile di soli 600 dollari (che è molto basso persino per appartamenti con un sola stanza da letto in città economiche, e naturalmente risibile nell’area metropolitana di New York), e nessuna spesa per il riscaldamento.
La disparità tra il modo in cui molti nostri concittadini vivono e la vita dell’1 per cento (dei più ricchi) dovrebbe ispirare molta comprensione – e ad essere onesti, in molti casi accade. In media, tuttavia, l’ampliarsi dell’ineguaglianza sembra ridurre e non accrescere tale comprensione, dato che le esperienze di vita dei benestanti divergono da quelle dei normali lavoratori, in misura tale che la classe agiata non considera più i componenti della classe lavoratrice come persone simili a se stessa.
Naturalmente, Rick Santorum [2] dice che sono tutte “chiacchiere del marxismo” – persino il termine di ‘classe media’ – perché non ci sono classi in America.
[1] Mi pare di capire che nello scontro sociale che si è aperto con la lotta per salari più adeguati da parte dei lavoratori di McDonald, quest’ultima ha aperto sul suo sito una sorta di aiuto/consulenza per aiutare a fare scelte di bilancio più avvedute. Il punto di partenza è una descrizione del proprio reddito, che viene esemplificata con un “esempio”. Secondo questo esempio, appunto, sarebbe ‘normale’ avere un secondo lavoro, pagare pochissimo per l’alloggio e non pagare nulla per il riscaldamento. A conferma di quanto ‘il padronato’ comprenda la situazione reale dei suoi lavoratori!
[2] Richard John Santorum, meglio noto come Rick Santorum (Winchester, 10 maggio 1958), è un politico statunitense, di orientamento conservatore. Membro del Partito Repubblicano, è stato senatore per lo Stato della Pennsylvania dal 1995 al 2007, Presidente della Conferenza dei Senatori Repubblicani (la terza carica più importante del partito al Senato), e candidato alle primarie del Partito Repubblicano per le Elezioni presidenziali statunitensi del 2012 si è poi ritirato.
agosto 31, 2013
August 31, 2013, 4:10 pm
Sometimes — usually, though not always, in a belligerent tone — people ask me, well, how big do you think the stimulus should have been? How much debt should we have run up? Regardless of the tone, that is actually a question worth answering. With the benefit of hindsight, we do know roughly how depressed the economy has been; we have reasonably good estimates of the effects of government spending; so we can put together an estimate of what would have happened if we had, in fact, pursued a policy of government spending sufficient to keep output at potential.
Start with the CBO estimates of potential GDP, which can be subtracted from actual GDP to estimate the output gap. Start the clock at the beginning of 2009, and the output gap — measured quarterly, but at an annual rate — looks like this:
The output gap.
If you add it up, the cumulative output gap since start-2009 comes to $2.29 trillion — that is, $2.29 trillion worth of goods and services we could and should have produced, but didn’t.
How much government spending would have been required to close that gap? The evidence is now overwhelming that when you’re at the zero lower bound the multiplier is greater than one; see,e.g., Blanchard and Leigh. Suppose we take a multiplier of 1.3, which is fairly conservative. Then it would have taken $1.76 trillion in spending over the past 4 1/2 years to close the output gap. Yes, I know, it would have been politically impossible — but we’re just doing the economics here.
So is that an extra $1.76 trillion in debt? No — the economy would have been stronger, leading both to higher revenue and to lower spending on means-tested programs. A fairly conservative estimate is that each dollar of extra GDP would have saved 1/3 of a dollar in the form of higher revenue and lower spending, which means 2.29/3 = $0.76 trillion.
So the net extra debt we would have run up with my fantasy stimulus turns out to be a round $1 trillion. OMG: ONE TRILLION DOLLARS!
But how bad is that? It’s about 6 percent of GDP. And remember, also, that GDP would have been higher — it would have been at potential, not well below. So at this point, instead of where we are — with federal debt at 72 percent of GDP — we would have had federal debt at 76 percent of GDP. Does anyone seriously claim that this difference would have caused a fiscal crisis?
And in return for those 4 points on the debt ratio, millions of American families would have been spared the hardship and humiliation of mass unemployment, lost houses and savings, and more. We can further argue that by avoiding the corrosive effects of long-term unemployment, we would surely have avoided substantial damage to America’s longer-run economic prospects, which in turn means that future revenue would be higher — and my fantasy fiscal program would probably have improved, not worsened, our fundamental fiscal position.
Again, I understand that none of this was going to happen. But you should understand that this reflects bad judgment by bad politicians and bad economists, not the logic of the case.
L’aritmetica di una politica fantasiosa della finanza pubblica
Talvolta – normalmente, sebbene non sempre, in tono bellicoso – le persone mi chiedono: bene, quanto pensi che avrebbero dovuto essere grandi le misure di sostegno? Quanto avrebbe dovuto crescere il debito? A parte il tono, questa è effettivamente una domanda alla quale merita di rispondere. Con il senno di poi, grosso modo sappiamo quanto è stata depressa l’economia; abbiamo stime ragionevolmente buone degli effetti della spesa pubblica; possiamo dunque mettere assieme una stima di quello che sarebbe accaduto se avessimo, sul serio, perseguito una politica della spesa pubblica sufficiente a mantenere la produzione al suo potenziale.
Cominciamo con le stime del Congressional Budget Office [1] sul PIL potenziale, che possono essere ottenute per differenza dal PIL effettivo per stimare il differenziale del prodotto [2]. Mettiamo l’orologio agli inizi del 2009, ed il differenziale del prodotto – misurato trimestralmente, ma con un tasso annuale – appare nel modo seguente:
Il differenziale del prodotto
Se si fa la somma (complessiva), il differenziale cumulativo del prodotto a partire dal 2009 arriva a 2.290 miliardi di dollari – vale a dire, un valore di 2.290 miliardi di dollari di beni e servizi che potevano e dovevano essere prodotti e non lo sono stati.
Quanta spesa pubblica sarebbe stata richiesta per chiudere questo differenziale? Le prove ora schiaccianti sono che quando si è al livello inferiore di zero il moltiplicatore è più grande di uno; si vedano, ad esempio, Blanchard e Leigh [3]. Supponiamo di assumere un moltiplicatore di 1,3, che è una misura abbastanza conservativa. In quel caso, per chiudere il differenziale, ci sarebbero voluti 1.760 miliardi di dollari di spesa pubblica nel corso di quattro anni e mezzo. Sì, so che sarebbe stato politicamente impossibile – ma qua stiamo solo facendo un calcolo economico.
Dunque, quella avrebbe costituito una aggiunta di 1.760 miliardi di dollari di debito? No – l’economia sarebbe stata più forte, portando sia ad entrate più elevate che a una minore spesa sui programmi che si basano su sussidi dipendenti dall’accertamento del reddito. Una stima abbastanza conservativa è che per ogni dollaro di PIL aggiuntivo si sarebbe risparmiato 1/3 di dollaro nella forma di entrate superiori e di minori spese (per gli automatismi delle suddette spese sociali, ndt), il che significa 2.290/3= 760 miliardi di dollari [4].
Dunque, il debito netto aggiuntivo che avremmo dovuto accrescere con le mie fantasiose misure di spesa pubblica si scopre che sarebbe stato di circa mille miliardi di dollari. Per la miseria [5]! MILLE MILIARDI DI DOLLARI!
Ma quanto è negativo questo? E’ circa il 6 per cento del PIL. E si tenga a mente, anche, che il PIL sarebbe stato più alto – sarebbe stato al suo potenziale, non ben al di sotto. Dunque, a questo punto, invece di essere dove siamo – con un debito federale al 72 per cento del PIL – avremmo avuto un debito federale al 76 per cento del PIL. C’è qualcuno che può seriamente sostenere che questa differenza avrebbe provocato una crisi delle finanze pubbliche?
E in cambio di questi quattro punti sulla percentuale di debito, milioni di famiglie di americani si sarebbero risparmiate le difficoltà e l’umiliazione della disoccupazione di massa, delle case e dei risparmi perduti, ed altro ancora. Possiamo ulteriormente sostenere che evitando gli effetti corrosivi della disoccupazione di lungo periodo, sicuramente avremmo evitato un danno sostanziale alle prospettive economiche di lungo periodo dell’America, il che a sua volta significa che le entrate future sarebbero state più alte – ed il mio fantastico programma di finanza pubblica probabilmente avrebbe migliorato, non peggiorato, la nostra posizione finanziaria di base.
Lo ripeto: capisco che niente di questo era destinato ad accadere. Ma si dovrebbe comprendere che questa è una conseguenza di cattivi giudizi da parte di cattivi uomini politici ed economisti, non la logica del caso in esame.
[1] Vedi note sulla traduzione.
[2] Ovvero, se si fa la sottrazione tra il PIL effettivo e le stime del PIL potenziale, viene espresso (naturalmente in termini negativi, cioè di quantità diminuita) il differenziale.
[3] Krugman si riferisce alla recente clamorosa ammissione, da parte del Fondo Monetario Internazionale (e dunque di Blanchard – massimo dirigente, e di Leigh – ricercatore) per la quale nella situazione di recessione di questi anni il ‘moltiplicatore’ (vedi per la definizione di ‘multiplier’ le note sulla traduzione) avrebbe dovuto essere stimato come superiore ad una unità, mentre era inizialmente stato stimato circa un po’ più di metà unità. Ovviamente, un moltiplicatore incrementa l’effetto di un intervento di spesa pubblica in termini di prodotto e di occupazione, ma allo stesso modo lo riduce quando la spesa pubblica viene diminuita. Questo, ad esempio, è stato l’errore che il FMI ha ammesso nel caso della Grecia, dove si era stimato un effetto negativo inferiore delle misure di austerità.
[4] Come si può comprendere, la sottrazione di un terzo della spesa viene fatta sul differenziale di produzione che era stato calcolato in precedenza, giacché il beneficio delle maggiori entrate e delle minori spese sociali deve correttamente essere calcolato sul complessivo maggior valore di produzione che si sarebbe ottenuto con 1.760 miliardi di spesa pubblica. E siccome quel beneficio sarebbe stato di 760 miliardi, la spesa pubblica che effettivamente sarebbe diventata debito aggiuntivo, per coprire il buco, sarebbe stata di circa 1.000 miliardi di dollari.
[5] “OMG” nel linguaggio “chat” sta per “”Oh, my God”, ovvero è una esclamazione.
agosto 31, 2013
August 31, 2013, 11:50 am
Brad DeLong has an excellent piece distinguishing between two views of central banking. There’s the “banking camp,” which sees the central bank’s job as being to secure the stability of the financial system – full stop. OK, maybe also price stability. And then there’s the “macroeconomics camp,” which sees the central bank’s job as being to achieve full employment; banking stability and even price stability are basically means towards that end.
Brad complains that the Fed has ended up being much more in the banking camp than many macroeconomists would have wanted. See, for example, the harsh criticisms leveled at the Bank of Japan by one Ben Bernanke in 2000, criticisms that apply almost perfectly to the Bernanke Fed of today.
But I think Brad casts his net too narrowly: it’s not just central bankers who fall into these two camps. And one important consequence of this division is an utterly different read on recent history.
Ask yourself: How well did we respond to the crisis of 2008?
If you’re in the banking camp, here’s what you see:
The financial system was in great danger – but catastrophe was averted. We’re heroes!
On the other hand, if you’re in the macroeconomics camp, here’s what you see:
A catastrophic collapse in employment, with only a modest recovery even after all these years. (It looks a bit better if you adjust for an aging population, but not much). We blew it!
Which brings us to what looks more and more like Obama’s decision to choose Larry Summers as Fed chair, passing over Janet Yellen.
As of right now, Summers is clearly not in the banking camp; the stuff he has been writing about fiscal policy makes it clear that he very much believes that the job of economic recovery is not done. On that basis, you would expect him to prod the Fed into doing much more than it is. On the other hand, given Bernanke’s pre-Fed record you would have expected the same thing — maybe even more so, because Bernanke had strongly emphasized the central bank’s responsibility for economic growth. Once at the Fed, however, Bernanke appears to have been assimilated by the Borg, moving much closer to the banking camp.
Would the same thing happen to Summers? I worry. And one of the strong (though probably futile at this point) arguments for Yellen is that she spent years at the Fed without being assimilated, never losing sight of the crucial importance of employment.
While Summers isn’t in the banking camp, however, Obama is. As Ezra Klein explains, his choice of Summers clearly reflects his view that policy in 2009-2010 was a great success, not a big disappointment, and he wants to keep the winning team together.
Of course, it’s a lot easier for Obama to consider his policies a success given that he was reelected.
Obviously I’m in the macroeconomics camp, not the banking camp, so this is all depressing, in several senses. It means, among other things, that even if Summers is the right choice — which we’ll never really know — it’s a choice that Obama is making for all the wrong reasons.
I banchieri, I lavoratori, Obama e Summers
Brad DeLong scrive un pezzo eccellente distinguendo tra due punti di vista sulle banca centrale. C’è il ‘campo bancario’, che considera il lavoro della banca centrale come qualcosa che deve assicurare la stabilità del sistema finanziario – punto. Va bene, magari anche la stabilità dei prezzi. È poi c’è il “campo della macroeconomia” che considera il compito della banca centrale come qualcosa che deve servire ad ottenere la piena occupazione; la stabilità del sistema bancario ed anche la stabilità dei prezzi sono fondamentalmente mezzi per quel fine.
Brad si lamenta che la Fed abbia finito con l’essere molto di più nel campo bancario di quello che molti macroeconomisti avrebbero voluto. Si vedano, ad esempio, le aspre critiche indirizzate sulla Banca del Giappone da Ben Bernanke nel 2000, critiche che sono valide quasi alla perfezione per il Ben Bernanke dei nostri giorni.
Ma io penso che Brad lanci la sua rete troppo dappresso: non sono solo i banchieri centrali che rientrano in questi due campi. Ed una importante conseguenza di questa divisione è una lettura completamente diversa della storia recente.
Domandatevi: quale è stata la qualità della nostra risposta alla crisi del 2008?
Se siete nel campo bancario, ecco cosa vedete (la tabella indica il cosiddetto indice dello stress finanziario. Ndt) :
Il sistema finanziario era in grande pericolo – ma la catastrofe fu evitata. Siamo degli eroi!
D’altra parte, se siete nel campo della macroeconomia, ecco cosa vedete:
Un collasso catastrofico nell’occupazione, con una ripresa soltanto modesta persino dopo tutti questi anni (appare un po’ migliore se lo correggete per l’invecchiamento della popolazione, ma non molto). Abbiamo rovinato tutto!
Il che mi porta a quella che appare sempre di più come la decisione di Obama di scegliere Larry Summers come Presidente della Fed, scartando Janet Yellen.
Se si valuta al presente, Summers chiaramente non è nel campo bancario; le cose che è venuto scrivendo sulla politica della finanza pubblica chiariscono che egli è convinto che il lavoro della ripresa economica non è stato portato a termine. Su questa base, vi aspettereste che egli sproni la Fed a fare molto di più di quello che sta facendo. D’altra parte, date le prestazioni precedenti al periodo Fed di Bernanke, vi sareste aspettati la stessa cosa – forse persino di più, giacché Bernanke aveva fortemente posto l’accento sulla responsabilità della banca centrale per la crescita dell’economia. Una volta alla Fed, tuttavia, Bernanke sembra essere stato assimilato dai Borg [1], spostandosi molto più vicino al campo bancario.
Accadrebbe la stessa cosa a Summers? Io lo temo. Ed uno degli argomenti forti (sebbene a questo punto probabilmente futile) per la Yellen è che ella ha speso anni alla Fed senza essere assimilata, mai perdendo di vista l’importanza cruciale della occupazione.
Se Summers non è nel campo bancario, tuttavia, Obama lo è. Come spiega Ezra Klein, la sua scelta di Summers chiaramente riflette il suo punto di vista che la politica negli anni 2009-2010 fu un grande successo, non una grande delusione, ed egli vuol tenere la squadra vincente assieme.
Naturalmente, è molto più semplice per Obama considerare le sue politiche un successo, dal momento che egli è stato rieletto.
Come è ovvio io sono nel campo macroeconomico, non nel campo bancario, dunque questo è del tutto deprimente, in molti sensi. Ciò significa, tra le altre cose, che se Summers è la scelta giusta – cosa che davvero non sapremo mai – è una scelta che Obama sta facendo per ragioni che sono tutte sbagliate.
agosto 30, 2013
August 30, 2013, 11:29 am
One of the things you always heard, back when we were actually talking about stimulus rather than fighting a rearguard action against destructive austerity, was the claim that stimulus spending would inevitably end up becoming a permanent fixture of the economy. This was always said with an air of worldly wisdom — of course that’s how these things work! — even though history said very much the opposite.
But anyway, the invaluable FRED now has a series on exactly that subject, and here’s what it looks like:
By the way, it’s helpful to have a sense of the scale of this thing compared with the economy. So here’s the stimulus calculated as a percentage of the CBO estimate of potential GDP:
Stimulus as percent of potential GDP
So next time someone goes on about how we had this huge stimulus that failed, you can tell him that the “huge” stimulus — in response to the worst financial crisis in three generations — peaked at a whopping 1.6 percent of GDP, and was effectively gone in a bit over two years.
Troppo piccolo e scomparso troppo presto
Una delle cose che si sentivano sempre dire nel passato, quando effettivamente si ragionava di misure di sostegno all’economia invece di combattere azioni di retroguardia contro una austerità distruttiva, era che la spesa pubblica dello “stimulus” sarebbe inevitabilmente finita col diventare una istituzione permanente dell’economia. Si diceva sempre con un’aria di saggezza mondana – è noto come queste cose funzionano! – anche se la storia ci diceva in gran parte l’opposto.
Ma in ogni modo, l’inestimabile FRED [1] ha ora esattamente su questa tematica una serie di dati, ed ecco cosa appare [2]:
Naturalmente, è utile avere una percezione della dimensione di questa cosa a confronto con l’economia. Ecco dunque lo ‘stimulus’ calcolato come percentuale della stima del Congressional Budget Office [3] del PIL potenziale:
Lo stimolo come percentuale del PIL potenziale
Dunque, la prossima volta che qualcuno viene fuori sul tema di come abbiamo avuto queste vaste misure di sostegno che sono fallite, potete dirgli che l’ampio ‘stimulus’ – in risposta alla peggiore crisi finanziaria in tre generazioni – ha toccato la vetta di un enorme 1,6 per cento del PIL, ed effettivamente è scomparso in un po’ più di due anni.
[1] Acronimo per Federal Reserve Economic Data (a cura della Fed di St Louis).
[2] La Tabella illustra l’effetto delle legge dello ‘stimulus’ sul totale delle spese del governo Federale. Come si può notare tali spese totali crebbero notevolmente nell’anno 2009, quando in gran parte erano rivolte ai salvataggi degli istituti finanziari. Continuarono a crescere anche superata la linea grigia delle recessione sino alla punta dell’inizio del 2010, dopodiché già con il 2012 erano tornate ai livelli precrisi.
[3] Vedi note sulla traduzione.
agosto 30, 2013
August 30, 2013, 9:21 am
Kevin O’Rourke has been saying for a while that it’s useful to think of Ireland as “Thailand without the baht“. In this context, the history of the Asian crisis sheds some light on one of the ways defenders of European austerity policies move the goalposts: by claiming that the pre-crisis peak isn’t relevant for comparison purposes, because it was inflated by a bubble.
This excuse plays a central role in claims that Latvia is a big success story, and to a lesser extent in defenses of Ireland’s record. Often, although not always, it reflects a confusion between demand and supply — saying that there was excess spending on, say, housing doesn’t mean that the economy couldn’t have been producing something else instead. (In fairness to the Latvian authorities, they aren’t falling into this fallacy; their claim is that the economy was seriously overheated and suffering inflation).
In any case, Asia from 1997 on provides a useful comparison. Southeast Asia in the mid-90s was a bubble — oh, boy, was it a bubble, with huge current account deficits and wild speculation in real estate. Nonetheless, by contrast with Europe’s crisis economies, the Asians fairly quickly returned to and then passed the pre-crisis peak:
IMF
I will say, 15 years ago it would never have occurred to me that we would be looking back at Asia’s crisis as a success story.
Il Bahat e la scusa della bolla
Kevin O’Rourke per un po’ è venuto dicendo che era utile pensare all’Irlanda come alla “Tailandia senza il baht [1]“. In questo contesto, la storia della crisi asiatica diffonde una luce su uno dei modi nei quali di difensori delle politiche di austerità europee cambiano in continuazione le regole del gioco [2]: sostenendo che il punto più alto precedente alla crisi non è rilevante allo scopo di fare dei paragoni, perché era inflazionato da una bolla.
Questa scusa gioca un ruolo centrale nelle pretese secondo le quali la Lettonia sarebbe una storia di successo, e in misura minore nelle difese della prestazione dell’Irlanda. Spesso, sebbene non sempre, riflette una confusione tra domanda ed offerta – dire che c’era un eccesso di spesa nel settore, diciamo, degli alloggi non significa che l’economia non avrebbe potuto produrre invece qualcos’altro (per correttezza verso le autorità della Lettonia, essa non stanno cadendo in questo errore; la loro pretesa è che l’economia fosse effettivamente surriscaldata e soffrisse di inflazione).
In ogni caso, l’Asia dal 1997 in avanti fornisce un utile paragone. Il Sud est asiatico era in una bolla nella metà degli anni ’90 – badate signori che era proprio una bolla, con grandi deficit di conto corrente [3] e una speculazione selvaggia nel settore immobiliare. Ciononostante, in contrasto con le economie della crisi europea, gli asiatici sono tornati abbastanza rapidamente ai livelli più alti precedenti la crisi e li hanno sorpassati:
FMI
Confesso che 15 anni fa non mi sarebbe mai venuto in mente che avremmo guardato indietro alla crisi dell’Asia come ad una storia di successo.
[1] La moneta ufficiale della Tailandia.
[2] Letteralmente “spostano i pali della porta”.
[3] Per “current account” vedi le note sulla traduzione.
agosto 29, 2013
August 29, 2013, 3:48 pm
A very belated reaction to Steven Erlanger’s piece on French decline, on fears that the proud nation is slipping into second-tier status. One point one should always note here is Roger Cohen’s: the French have been morose for decades now, yet the country remains a pretty good place to live. Maybe some discounting is called for?
But there’s another point I almost never see mentioned: there’s one thing the French are still managing to do that other rich European nations, Germany in particular, aren’t as good at — namely, having children. Here are the Eurostat population projections out to 2060:
If we assume that major European nations will have similar levels of GDP per capita, which seems reasonable, then by mid-century France, not Germany, will be the biggest European economy, through sheer force of numbers. If the EU is still holding together, this could mean that France is in turn the leader of one of the world’s great economic powers. Welcome to the new French empire!
OK, maybe that’s going too far. But I am surprised that France’s relative demographic advantage within Europe doesn’t get more attention.
La Gloria futura
Una reazione assai tardiva al pezzo di Steven Erlanger sul declino francese, sui timori che l’orgogliosa nazione stia scivolando verso uno status di secondo livello. Un punto che si dovrebbe sempre tener presente al proposito è quello di Roger Cohen: la Francia è stata tetra da molti decenni a questa parte, tuttavia il paese resta un posto piuttosto piacevole per viverci. Forse si deve fare qualche eccezione?
Ma c’è un altro punto che non ho quasi mai visto ricordare: c’è un cosa che la Francia sta ancora cercando di fare e nella quale le altre nazioni europee, la Germania in particolare, non sono altrettanto capaci – precisamente, avere figli. Qua di seguito ci sono le previsioni di Eurostat sulla popolazione sino al 2060:
Se assumiamo che le principali nazioni europee avranno livelli simili di PIL procapite, la qualcosa sembra ragionevole, allora per la metà del secolo la Francia, non la Germania, sarà la più grande economia europea, per la pura e semplice forza dei numeri. Se l’Unione europea riesce a stare insieme, questo potrebbe significare che la Francia sarà a quel momento la guida di uno dei grandi poteri economici del mondo. Benvenuti nel nuovo Impero Francese!
Va bene, forse in questo modo si va troppo lontani. Ma sono sorpreso che il relativo vantaggio demografico della Francia all’interno dell’Europa non riceva maggiore attenzione.